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venerdì 28 dicembre 2007

Santa famiglia di Gesù Maria e Giuseppe

La liturgia della Parola di questa prima domenica dopo Natale ci invita a riflettere sulla famiglia. Su quella di Gesù, Maria e Giuseppe, (come ben dice il nome della festa che si celebra, e come è pure titolato il nostro articolo), ma anche sulle nostre (in particolare con i testi del Siracide e della Lettera di san Paolo ai Colossesi).
Partiamo proprio da qui. È interessante che sia il Siracide che san Paolo parlino dei rapporti familiari all’interno di discorsi più ampi, stigmatizzando appunto la vita di coppia o il rapporto coi figli come situazioni emblematiche per la vita. Ne parlano infatti insieme all’altra condizione fondamentale dell’uomo, quella della sua attività (cfr Sir 3,17: «Figlio, nella tua attività sii modesto»), del rapporto servo-padrone (cfr Col 3,22: «Voi, servi, siate docili in tutto con i vostri padroni terreni»).
In modo esplicito il libro del Siracide introduce il brano dov’è contenuta la lettura di questa domenica con questa frase: «Figli, ascoltatemi, sono vostro padre; agite in modo da essere salvati» (Sir 3,1). L’orizzonte ampio in cui si collocano le parole sui rapporti genitori – figli è allora quello della salvezza. Per essere salvati, sembra dire il Siracide, è necessario che curiate le relazioni di generazione, quelle che toccano l’origine della vostra vita.
In questa prospettiva, senza addentrarci troppo in un’analisi dalle sfumature psicologiche, ricordiamo come il professor Ubbiali, docente in FTIS, analizzi la vicenda di Caino e Abele, come quella di chi ha smarrito la relazione genitoriale (in Gn 4,3-16 i grandi assenti sono proprio Adamo ed Eva) e proprio per questo non sa rispondere alla domanda “chi sono io?” e dunque si dis-umanizza.
Eppure, nonostante l’evocazione di questa pista di riflessione di notevole spessore, leggendo quanto dice il Siracide l’impressione è di una certa delusione... Non tanto per quanto dice... ma per quanto non dice:
- si parla di onore al padre e alla madre, indicazione certo inconfutabile, se non fosse che a noi riecheggia subito nelle orecchie quanto cantava De Andrè nel suo Testamento di Tito: “Onora il padre, onora la madre e onora anche il loro bastone, bacia la mano che ruppe il tuo naso perché le chiedevi un boccone: quando a mio padre si fermò il cuore non ho provato dolore”;
- si parla poi, per chi onora il padre, di esaudimento della preghiera, di gioia dai propri figli, di vita lunga... ma semplicemente noi sappiamo che non è così... basta attraversare un po’ l’umanità e le tragedie che investono la sua storia per rendersene conto;
- si parla di un padre che perde il senno, ma non sono considerate tutte le altre drammatiche situazioni che le nostre famiglie, o ex-famiglie attraversano. È come se non fossero contemplate quelle che Aldo Schiavone nel suo articolo di lunedì 24 dicembre sulla Repubblica, chiamava le “nuove famiglie che la Chiesa non vede”.
E dunque? E dunque non c’è troppo da stupirsi... mi pare infatti che l’intento del Siracide in questi versetti sia semplicemente quello di delineare una buona condotta familiare, contenuta in un testo di “consigli per il vivere” che attraversa molti campi esistenziali, senza la pretesa di indagarli nello specifico. E come insegna la buona esegesi, non si può far dire a un testo quello che non ha intenzione di dire.
Da quanto detto però mi pare emerga un dato di fatto: se oggi la Chiesa ci chiede di concentrarci sul tema della famiglia, non possiamo più proporre banali regole di buon comportamento, abituali pacche sulle spalle che non consolano né incoraggiano più nessuno, aridi discorsi moralistici che non fanno altro che buttare sulle spalle della gente pesi che non tocchiamo neanche con un dito (Lc 11,46).
In questo senso è interessante proseguire la nostra riflessione notando che come il Siracide, che elencava una norma comportamentale per i figli al fine di salvarsi, anche la vicenda del Vangelo parli della necessità di un mettersi in salvo: «I Magi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo”» (Mt 2,13).
È ancora più paradossale il fatto che chi deve essere messo in salvo (lui è ancora troppo piccolo per poterlo fare da sé) è proprio il Salvatore del mondo...
Qui però in merito alla salvezza, non si parla astrattamente di ‘come ci si deve comportare in famiglia’, qui ci è raccontato un pezzetto della storia di una famiglia.
Noi sappiamo che è una storia teologica, tant’è che i racconti dell’infanzia di Gesù sono scritti quando lui è già morto e risorto e non sono certo la cronaca dei suoi primi anni di vita: piuttosto il tentativo delle prime comunità cristiane di delinearne il volto.
Ma, seppur teologica, questa è sempre una storia, la narrazione di una vicenda concreta, di un ‘immischiamento’ nel fango e nelle fatiche di questo mondo... la famiglia di cui parla questa storia infatti sta tutta dalla parte dei derelitti, di quelli a cui certo non si addicono le buone norme comportamentali: questa, di Gesù, Maria e Giuseppe è una famiglia profuga (tra l’altro in Egitto...), povera, strana (fa sorridere che per tutto il brano, anche se le parole sono dette da Giuseppe o a Giuseppe, si usi sempre la locuzione «il bambino e sua madre»)... è una famiglia che conforta tutto il popolo delle famiglie ferite...
Perché seppure le povertà siano diverse, tra miseri, poveri, emarginati, si crea una sorta di solidarietà di base... di sentirsi collocati dalla stessa parte (quella sbagliata naturalmente)... e allora è davvero consolante leggere che la santa famiglia sta anch’essa da ‘questa parte di qua’: dalla parte delle famiglie profughe, povere, strane... dalla parte delle famiglie che non possono più dirsi famiglie... dalla parte di famiglie in cui manca il padre, la madre, un figlio... dalla parte delle famiglie che preferirebbero non avere quel padre, quella madre, quel figlio... dalla parte di quelle “nuove famiglie che la Chiesa non vede”...
Schiavone nel suo articolo scrive “Tutto, in essa [la famiglia] è solo storia”...
Il mio augurio per questa festa è allora che noi, popolo di famiglie con storie a vario titolo ‘maledette’, composte da orfani, figli di separati, di omosessuali, di extracomunitari, di prostitute, di pedofili, di violenti, di carcerati, di malati, di psicolabili... scopriamo, guardandoci, che tra noi c’è anche un bambino tutto speciale: è Dio che ha scelto di stare da questa parte di qua... e con Paolo dice anche a noi (che così poco ce lo sentiamo dire...) «Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza. [...] Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità».
E badate, questa non è proprio una buona morale... questa è la scardinazione dal centro del cuore di un annuncio di morte, per un annuncio di Vita, che – proprio solo per questo – cambia la vita (anche quelle ‘maledette’... anche quelle ecclesialmente ‘maledette’).
«E la pace di Cristo regni nei vostri cuori. [...] E rendete grazie!»

giovedì 27 dicembre 2007

Santa Famiglia '07

  • una strana famiglia “santa”!
    …bisogna forse fermarsi un momento a riflettere per capire come questa ‘unica’ irrepetibile famiglia possa essere significativa per le nostre… se dev’essere in qualche modo il modello della famiglia cristiana, proprio perché è la famiglia di Gesù il Cristo. È una ben strana famiglia, questa, che vive un’avventura umana così eccezionale ed irrepetibile… Una continua sorpresa a se stessa! A leggere il racconto di Matteo, Giuseppe desiderava invece una normalissima famiglia, ma ad ogni momento importante ha un sussulto per un cambio di rotta sconvolgente… Non avrebbe mai “sognato” di vivere un’avventura così. Altri sogni invece lo istradano verso progetti impensabili. In questa narrazione Maria sta sempre zitta… In quella di Luca, in tutt’altro contesto culturale, è lei che parla e Giuseppe sta zitto… Una cosa è certa per tutti e due i vangeli: in questa unione “unica” tra un uomo e una donna, il bambino che vi si pone in mezzo è il “Figlio di Dio”. E ogni schema consueto e prevedibile ne è scompaginato! Matteo altro non dice, per farci cogliere questo mistero, che aiutarci a ripercorrere, in una specie di parallelismo profetico, qualche avventura antica del dramma del popolo di Israele. Il quale così si configura come il prototipo, e quindi la chiave di lettura, di questa tanto attesa ma sempre più misteriosa e sorprendente presenza di Dio “in mezzo a noi”.
  • le diverse letture di un unico mistero
    E così sappiamo che Gesù è inserito nella genealogia di Davide, ma non è figlio di Giuseppe, ma della sua fidanzata, incinta per opera dello Spirito santo…È riconosciuto da saggi stranieri ma respinto dai suoi; è salvato come Mosè dalla strage degli innocenti da parte di un faraone che vuole ucciderlo; trova rifugio in Egitto, come tanti perseguitati nei secoli della storia di Israele. E poi torna nella sua terra, anche se non in Giudea, ma a Nazareth, per paura di un nuovo Erode…
    Gesù, dunque, è presentato come l’arrivo del lungo cammino di attesa e preparazione del Messia, e la sua famiglia, se pure in modo asimmetrico, ne è la culla biologica e culturale, che raccoglie il peregrinare del popolo, dai Patriarchi (e tutta la loro infaticabile ricerca religiosa), a partire da Abramo… fino a Giuseppe, “lo sposo di Maria dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo”.
    Sotto questo aspetto Luca capovolge la chiave di lettura, rimodellata in un un’esperienza di chiesa che ha sperimentato l’allargamento all’umanità… Presenta dunque la genealogia di Gesù all’inizio del suo ingresso nella vita pubblica, prima delle tentazioni, quando il lettore sa già tutta l’infanzia e l’avventura di Maria e dell’altra famigliola sacerdotale di suoi parenti, i genitori di Giovanni il Battista. La famiglia di Nazareth non è soltanto la sintesi e il compimento della storia sacra arrivata fino a Gesù. È soprattutto la profezia della storia nuova che da Gesù parte verso un futuro di salvezza e rigenerazione, che assume, non rifiuta, ma trasfigura e riconverte profondamente il passato, la sua cultura e le sue istituzioni e si avvia (con lo Spirito!) a fermentare tutta l’umanità. Non per niente la “genealogia” di Luca, risale fino ad Adamo – all’uomo, come uomo! E il racconto della sua famiglia, con i suoi cantici, coinvolge tutti i poveri, gli oppressi, le donne (e perfino gli infanti nel seno materno, che “sussultano” e profetizzano l’umanità nuova).
  • … tra le due radici
    L’istituzione umana primordiale, la famiglia, è riletta e illuminata evangelicamente tra queste due radici: la prima di queste è profondamente innervata nel passato, come la piattaforma biologica di carne della quale è l’espressione umanizzata…: per cui “l’umanizzazione storica” del Verbo, in Gesù di Nazareth non poteva non sprofondarsi in questa comune matrice dell’uomo. E viverne e assorbirne l’impregnazione ancestrale di sangue e di latte, di carezze e di gemiti, di affetti e di paure, di linguaggio e di cultura… perché non si diviene uomo o donna diversamente! L’altra radice invece è appesa al futuro (per parte di “Padre”, verrebbe da dire!). Perchè adesso, in questo “bambino”, il futuro non è più soltanto utopia (sarebbe ancora un’appassionata speranza che non abita in nessun luogo) ma profezia incarnata, che abita proprio nel luogo umano dove l’uomo diventa tale. È dentro questo luogo (la famiglia “santa”) che la “speranza” diventa finalmente storica, non è solo una propaggine ferita e inquinata del passato, ma aggrappa le sue radici feconde ad un fondamento che è sempre questo “bambino” - ma nella fede già vissuta, che ha percorso il suo ciclo umano, appassionante e rifiutato, glorificato nella risurrezione… e ri/chiamato finalmente alla destra del Padre, con tutto il suo corpo di carne – seme e fermento del destino di ogni uomo che a lui affida.
  • … per accudire dal di dentro ogni anelito d’umanità
    … Questa “santa” famiglia è così tanto culturalmente disomogenea ad ogni modello e tanto fuori da ogni misura, proprio per questa divina inabitazione, da contenere ogni famiglia, perché ha dentro di sé la novità assoluta che nessun profeta poteva immaginare, che è questa : il suo destino e la sua riuscita è il destino e la riuscita del “bambino” che ci si è immerso, venuto a farsi carne per imparare ad esser uomo… Un bimbo che man mano che cresce sconcerta ogni programma di Giuseppe, secondo Matteo, e, secondo Luca (2,50), azzera ogni comprensione di Maria, pur così attenta e totalmente dedita. Allora, adesso, ogni luogo d’amore umano che anela ad esser “famigliare”, (ove cioè l’uomo tenta di addestrarsi comunque ad esser uomo), si tratti di famiglia “normale” o incompiuta, legalizzata o emarginata, affranta sotto il peso della condanna ecclesiale o sociale, o da paure e divisioni, peccato o fragilità, sessualità normotipiche o incoative ‑ dentro o al di fuori di ogni frontiera culturale ‑ tutte sono abitate “carnalmente, e per questo ancor più “profeticamente” da Dio stesso … Magari pàgano un amaro tributo alla prima radice carnale, ma possono sempre essere redimibili e salvifiche perché aggrappate alla seconda. Nessuno può più a priori condannarle, ma anzi deve accudirle e custodirle e illuminarle, perché dentro le ferite della tormentata storia biologica, culturale o personale che le ha prodotte, il cristiano sa che c’è sempre, almeno un brandello della “buona notizia di carne” – che è questo “bambino”.
  • Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo di perfezione…
    Paolo è un esempio luminoso di questa contemplazione cristiana nella storia complessa e ferita dell’uomo. Anche lui paga il suo tributo alla cultura del tempo, maschilista e repressiva, perché non esiste concezione teorica dell’uomo o della donna o della famiglia… che non sia mediata e filtrata dalla cultura del momento storico (che è la prima radice o matrice…). Ma coglie pure lucidamente l’irruzione che è avvenuta nella carne e nella cultura dell’esplosività dello Spirito: per cui tutto “ora” deve essere compiuto nel nome del Signore nostro Gesù Cristo. Sarà proprio Paolo infatti a vedere nel rapporto nuovo di famiglia addirittura il “mistero grande” del rapporto di Cristo con la chiesa (Ef 5,32), la totale equiparazione di dignità e primato tra donna e uomo… Il fermento impiegherà secoli a trasformare la cultura, anche ecclesiale, e non è mai finito. Ma è avvenuto e sta avvenendo, che il “bimbo” rieducherà i suoi genitori, pur santi,… rendendoli capaci di imitare sempre più l’infinita misericordia del Padre suo… che ha tanto amato il mondo da mandare il figlio suo… non a giudicarci, ma a salvarci. A cominciare dalla famiglia!

martedì 25 dicembre 2007

…è Natale!

Un po’ tutti, oggi, piccoli e grandi, siamo pervasi (o vorremmo) da sentimenti di pace e di benevolenza e lo esprimiamo con i tradizionali segni degli auguri e dei doni, i quali, pur svuotati e commercializzati… vorrebbero contenere un po’ di fede e speranza. Perché, in qualunque modo lo intendiamo, Dio, oggi, è più vicino. Un Dio, indicato con i più diversi nomi e immagini, dicibili o misteriosi: un’energia originaria, un immenso “oltre” ogni cosa?... oppure è soprattutto una parola di altri linguaggi, una voce, un interlocutore, un volto “di spalle”?…o, come dicono le religioni storiche, è insieme l’Onnipotente e il Condiscendente, la potenza degli eserciti e la difesa degli sconfitti, il Misericordioso e il Vendicatore… Comunque le esperienze di fede si esprimono meglio con il simbolo (cioè un’immagine “lanciata” verso il mistero con una carico di senso, come suggerisce l’etimo greco): quindi con l’allegoria, la parabola o i racconti, la poesia, tutte modalità di espressione che mirano a provocare nell’ascoltatore una reazione esistenziale: ad andare più in là, “esporsi” in qualche modo, e “coinvolgersi” di fronte al segreto misterioso che è in noi e viene verso di noi… Comunque sia “dio”!

…è “un bambino”!… i racconti di Luca e di Matteo, se l’abitudine non ci facesse velo, ci scandalizzerebbero. Non hanno dubbi. I racconti, le immagini, le profezie reinterpretate e illuminate… tutto in loro converge non verso un simbolo religioso o il disvelamento di una verità, ma verso un “bambino” vero, di carne. Questo bimbo è il segno, è l’atteso, è colui che era indicato dalle Scritture e dagli angeli, dai sogni e dalle stelle. È indicato sia ai i pastori ignoranti: Andarono dunque senz'indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro (Lc 2,16s), come ai magi sapienti: Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni…”(Mt 2,11)… Con questi racconti ci ha preparato il tempo di‘avvento’!
Ma la
liturgia di oggi, nella terza messa natalizia, quella così detta “del giorno”, tralascia ogni racconto. E ci propone il prologo di Giovanni. È l’ultimo evangelista, conosce tutta la ricerca di fede su Gesù nella chiesa nei dei decenni precedenti, che, indagando sull’origine di Gesù, risale fino a questo bambino. E mentre siamo qui davanti a lui, in ogni presepe, ci pone la domanda più difficile: “chi è questo bambino?”…

...in principio era la Parola… L’origine di tutto (cioè la risposta alla nostra domanda di senso) è l’inimmaginabile voglia di Dio di… parlare, di esprimere e comunicare l’immenso “bene” che è dentro di lui, con tale passione d’amore quale si può (con termini umani!) solo dire di un “figlio”… Ogni bene viene da questa Parola interna a Dio. Ma la Parola suppone due che si parlano, si ascoltano, si amano. Non c’è necessità, fatalità, destino. C’è amore e libertà infiniti e c’è razionalità (cioè una dinamica riconoscibile della verità). Questa irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza… è il principio di ogni divenire: dal figlio, interno a Dio, proviene misteriosamente ogni cosa che esiste, per cui tutto ciò che esiste, “originariamente” è amore!

...e la Parola divenne carne e si attendò fra di noi: al centro di Dio adesso c’è misteriosamente il Natale. Non è più possibile un “Credo” in Dio che non debba dirlo: “Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo". Questo è lo scandalo in cui tutti inciampiamo. Perchè adesso per conoscere “dio”, amare “dio”, farsi salvare da “dio”… bisogna passare dall’uomo! cioè conoscere, amare, farsi salvare dall’uomo. Ogni distinguo è una fuga… e ne abbiamo fatte tante, troppe nella storia, cercando di ricollocare e rinconsacrare la “verità divina” fatta uomo, nei riti, nei libri sacri, nelle leggi o verità… tutte cose utili! Ma il Natale insegna che la verità è un evento, non una cosa, un incontro inserito nel tessuto delle relazioni tra gli uomini, come i tanti incontri di cui raccontano i vangeli… cioè nella povertà, nella fragilità, nel peccato, nella voglia di perdono, di pace, di guarigione…

Non è il “dio” che pensavamo! La verità di fondo del Natale, infatti, è lo spostamento del centro di gravità, attorno a cui gira ogni religione che necessariamente mette questo baricentro in Dio. Il vangelo invece lo mette in un bambino, che prima ancora di crescere è già perseguitato, a profezia del rifiuto definitivo che finirà nella ignominiosa morte di Croce. A ragione i teologi del suo tempo lo accuseranno: “tu, che sei uomo, ti sei fatto Dio”! Vedevano ovviamente l’inverso, ma vedevano giusto!… È lo scacco impensato di cui dice il prologo: Venne nel mondo e il mondo fu fatto per mezzo di lui e il mondo non lo riconobbe…Era troppo ‘divina’ la loro idea di Dio, e troppo umana la realtà che avevano sotto gli occhi! Eppure su questo discrimine si gioca ancor oggi la nostra fede, che gira ancora sui questi due cardini: un cardine è fatto di alcune fragilissime cose umane, dotate di “forza” divina: un pezzo di pane, un goccio di vino, un poco d’acqua o di olio, un Libro pieno di racconti antichi, e soprattutto la compagnia di fratelli e sorelle deboli e inaffidabili come noi, che imparano a perdonarsi sempre… e l’altro cardine è questo: le leggi e le istituzioni furono date per mezzo di tanti “Mosè” della storia… Ma la grazia e la verità è per mezzo di Gesù Cristo. Per la vita del mondo che Lui è venuto a salvare!

Buon Natale!

Buon Natale a tutti!

Omelia di mezzanotte: la Luce nella Notte

Auguri di Buon Natale a tutti!...

Ma gli auguri che ci scambiamo e ci scambieremo in questi giorni di festa, non ci devono far dimenticare che spesso nella nostra vita… "è notte"… e una "fredda notte"…

Anche oggi è notte per molti di noi: rendiamoci conto allora della notte… solo così capiremo il vero senso degli auguri di questa Notte!

Abbiamo udito Isaia nella prima lettura cosa ci dice. Il "popolo che camminava nelle tenebre"…, abbiamo ascoltato l'introduzione del lettore che ci dava il contesto storico di questo brano di Isaia… Ebbene, il binomio luce-tenebra è costante nella Bibbia, dove diventa sinonimo del binomio amore-odio e quindi vita-morte…

La notte, il buio della notte, si ha tutte le volte che viviamo un'esperienza di odio, di morte, di non senso della vita… Tutte le volte che viviamo un'ingiustizia, la paura, la disperazione… lo stress che è fatica esistenziale…

È la notte della morte di un nostro caro, che è sempre morte ingiusta, perché lacera gli affetti perché è un insulto al Dio-della-vita: non dite mai davanti al male, a qualunque male, "sia fatta la volontà di Dio". La morte di un uomo non è mai, mai, volontà di Dio, Dio lo permette suo malgrado perché se dovesse impedirlo dovrebbe eliminare tutti gli uomini dalla faccia della Terra: e noi saremmo i primi a dover sparire!

Ma è notte anche una malattia incurabile, che gli uomini occupati a costruire armi e a far soldi non permettono di debellare investendo in questo uomini e denaro…

È notte la notte di un amore che sembra finito, in famiglia, tra amici…

È la notte di tuo figlio o tua figlia che si sta comportando tutto il contrario di come lo stai educando…

È la notte di un marito o di una moglie che non si sente più amato/a, compreso/a, accolto/a come aveva sognato…

È la notte del tradimento di un'amicizia di lunga data…

È la notte del tunnel di una crisi politica ed economica e sociale che, anche se cambiano i governi, non sembra finire mai…

È la notte della fede, o meglio di quello che credevo che fosse fede, e che ora sembra non esserlo più perché non è più in grado di essere nutrimento e guida nelle difficoltà della mia vita in un mondo che si fa sempre più complicato…

È notte della morale, degli altri e mia, (come quando, ad esempio, non capisco come mai mi comporto, in certi momenti, in un modo che non vorrei)…

Davanti a queste immense ingiustizie che stai vivendo sulla tua pelle o su quella dei tuoi cari, non c'è ragione che tenga, non c'è spiegazione che possa fare chiarezza, luce… la ragione stessa è immersa nel buio più totale, perché non si può capire l'assurdo del male che è in noi e che è intorno a noi… e quello che credevo fede, abbiamo detto, è impotente!

Certo cerchiamo di alleviare questa "notte", distribuendoci regali, facendoci gli auguri, quasi in modo scaramantico, ma senza crederci veramente, infatti a festa finita, si torna alla vita di tutti i giorni dove il cuore è attanagliato dal freddo delle tenebre senza uscita…

Non c'è consolazione umana che tenga, non c'è spiegazione neanche religiosa, che renda la notte meno notte! Troppo dolore, troppa sofferenza, troppe ingiustizie, troppa miseria…

Noi siamo qui stasera perché rifiutiamo la "pacca sulle spalle", le consolazioni consolatorie

Vogliamo ascoltare da Dio se c'è una via d'uscita in queste tenebre, in questa notte, e ricominciare a vivere nella Luce

Come i pastori, che sono immersi nella notte, dobbiamo incamminarci verso il solo punto luminoso della storia dell'umanità… un Bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia. E vivere l'esperienza annunciata da Isaia e vissuta dai pastori: "su coloro che abitavano in terra tenebrosa, una luce rifulse"…

La terra tenebrosa siamo noi, basta guardarci intorno, basta guardarci dentro, per scoprirlo; la luce che rifulge è il Signore ma per capire questo occorre incamminarci con i pastori sui quali, dice il Vangelo, "la gloria del Signore li avvolse di luce"…

Il Signore? Ma di quale Signore si parla? Non certo quello della tradizione! Per tre volte il Vangelo di questa notte descrive il "Salvatore, che è Cristo Signore" (per usare le parole dell'angelo) come un bambino, adagiato in una mangiatoia. Ci aspettavamo un supereroe, un superdio, un megastregone, un grandeguaritore, un Dio-guerriero! Ci bastava anche un Dio… come diciamo noi però! Ed eccoci qua davanti a un piccolo, normalissimo, indifeso, bambino! Un uomo, come noi! Più povero di noi… Immerso già dalla nascita e prima di nascere, nell'ingiustizia dell'inospitalità, della miseria, del freddo, e dell'incomprensione (neanche suo padre Giuseppe capiva da dove venisse!), intrappolato nelle maglie di censimenti ed editti di un potere che si prende gioco di noi… E questa sarà una costante della vita di questo bambino…

Ma questo bambino è un bambino che da sempre si nutre della volontà d'amore del Padre… Ed è un bambino che di questa volontà di salvezza vuole nutrire la nostra vita…

Ecco il segno, ecco la luce in mezzo alle tenebre: non un bambino, non una mangiatoia, ma un "bambino nella mangiatoia"!

Il Verbo eterno di Dio è una bambino nella mangiatoia perché è un bambino da "mangiare" per l'umanità intera… Per questo si fa eucaristia, per questo si fa pane, per questo si fa Parola e mensa della Parola, per essere nutrimento, sostegno, luce, guida… nostro bambino, come lo è di Maria e di Giuseppe che serbavano tutte queste cose meditandole nel proprio cuore…

E noi? Siamo capaci di osare tanto e di tornare così bambini, da lasciarci anche noi guidare da questo bambino? Coraggio, mettiamoci a tavola e festeggiamo facendoci nutrire e illuminare dalla sua vita. E allora la notte, non farà più problema, anzi più essa sarà oscura e più la sua luce che è in noi, perché ce ne siamo nutriti, ci guiderà e guiderà anche il "nostro mondo"… perché sarà visibile fino ai confini del mondo…

Ecco allora gli auguri di questa Notte sono diventati una certezza: finalmente, in questo bambino deposto in una mangiatoia, di cui ci nutriamo, faremo l'esperienza vera che Dio è Padre perché è con me, è con te e con tutti, perché l'abbiamo accolto in noi, nella nostra vita.

È senza casa, perché cerca la tua,

è al freddo perché cerca il tuo calore,

tu sei al buio, lui è la luce,

tu hai fame di qualcosa di nuovo, lui ti nutrirà della novità del Padre.

Prendilo con te e la tua notte si trasformerà in giorno, la tua fame sarà saziata e la tua sete sarà appagata.

Se zoppichi, camminerai e se sei cieco ci vedrai!

E allora quando ci scambieremo i doni sappiamo cosa veramente ci scambiamo: la Luce di cui ci siamo nutriti e che ora abita in noi…

E la festa, sarà veramente festa, non più festa-di-un-momento, ma festa-per-sempre…

Così sia!

giovedì 20 dicembre 2007

La forma dell'attesa: senza paura d'amare, ma con fedeltà e coinvolgimento

Ed eccoci giunti all’ultima domenica prima di Natale… Ormai ci siamo… il mistero tanto atteso inizia ad essere intravisto, tant’è che il brano del Vangelo di Matteo che la Chiesa ci propone incomincia con la dichiarazione esplicita di che cos’è ciò che stavamo aspettando: «la nascita di Gesù Cristo». Ma ci vien detto di più… infatti non solo è detto il fatto, ma il desiderio di volercelo narrare: «Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo».
È un incipit davvero promettente… anche liturgicamente parlando: dopo queste settimane di attesa (di Avvento – appunto –), finalmente siamo arrivati a leggere e celebrare la Parola che delinea chiaramente cosa c’era da aspettare…
E dunque? Ormai è chiaro che quanto dovevamo aspettare era una nascita…
Ma… leggendo fino in fondo il testo proposto dalla liturgia di questa IV domenica di Avvento ci rendiamo conto con un sorriso che non è raccontata proprio nessuna nascita… Essa infatti nel Vangelo di Matteo è sì al cap. 1, ma al versetto 25… mentre il testo proclamato in chiesa si ferma al v. 24… Curioso, no?
No… il fatto è che siamo vicini… ma non ci siamo ancora… è ancora tempo di attesa (di Avvento – appunto –)… un’attesa che però si fa sempre più carica di aspettativa perché ormai le fila principali del discorso iniziano a snodarsi… ed oggi ci è dato di fare non un passettino qualunque verso il mistero che celebreremo martedì, ma quello decisivo… l’ultimo: ben sapendo che “quando si fanno 10 passi verso qualcuno, 9 sono solo la metà”…
Ma allora di cosa è fatto quest’ultimo avvicinamento a Natale? Se non c’è la nascita di Gesù, come ci avevano detto (cfr Mt 1,18a), di che cosa parla sto Vangelo?!?
Beh… parla di un uomo a cui è successa una cosa strana… una cosa che potremmo delineare con queste parole: a quest’uomo, che si chiamava Giuseppe, è successo di passare dal rannicchiamento sui suoi pensieri agli orizzonti ampi apertigli da un incontro speciale…
Si sa, Matteo racconta i fatti dell’infanzia di Gesù dal punto di vista di Giuseppe… a quest’ultimo era stata data in sposa Maria. La procedura matrimoniale ebraica prevedeva 2 fasi: lo scambio del consenso e il trasferimento della sposa nella casa del marito… Ecco… Maria e Giuseppe nel momento che l’evangelista sta descrivendo erano promessi, ma non abitavano ancora insieme.
La sorpresa è che Maria si ritrova incinta… letteralmente «si trovò avente in ventre»…
Forse a noi questo ventre riempito, che si ritrova con dentro qualcosa non fa più tanto problema… noi sappiamo già tutto il proseguimento della storia e la sua spiegazione: sappiamo che lì dentro c’è Gesù, che è il Figlio di Dio, che Maria l’ha concepito verginalmente, che c’ha pensato lo Spirito santo… è vero sappiamo tutto… ma – ipotizziamo – se un ragazzino dei miei arrivasse e mi chiedesse “Tu che queste cose le sai già tutte, dimmi allora chi è Gesù, cosa vuol dire che è il Figlio di Dio, che Maria l’ha concepito verginalmente, che c’ha pensato lo Spirito santo…?”… ecco, se arrivasse, non so voi, ma io sbiancherei e con un bel giro di parole lo intorterei su per evitare il discorso…
E allora, forse… anche a noi, a me, che sappiamo già tutto e sappiamo già come va a finire la storia, fa bene metterci un po’ nei panni dei protagonisti e lasciarci istruire da come loro hanno vissuto le cose… o almeno da come ce le racconta Matteo…
Insomma… sto Giuseppe si ritrova con sto ventre riempito… e il problema c’è… tant’è che sa che Maria potrebbe incorrere nel «pubblico ludibrio», potrebbe essere additata con una donna scandalosa, come una di quelle che ha concepito un figlio fuori dal matrimonio…
[…che peccato che i cristiani non abbiano imparato da Giuseppe…]
Il versetto 19 e la prima parte del 20 ci descrivono quest’uomo contorto nei suoi pensieri, nella preoccupazione sul da farsi, nei giramenti di viscere tra incredulità di fronte all’accaduto, rabbia per un tradimento subito, amore per la sua Maria a cui comunque non vuol far del male: «Giuseppe poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto», «mentre stava considerando queste cose».
Potremmo immaginarlo seduto, con la testa fra le mani, incapace di star fermo, col cervello che gli fuma e il cuore che gli sanguina… a me vengo subito in mente io… quante volte mi ritrovo, ci ritroviamo così… raggomitolati su noi stessi alla ricerca di una via che non troviamo… con quella sensazione di impotenza, incapacità, sfiducia che ci ridona la consapevolezza di essere caduti, ancora una volta, nel circolo vizioso del gatto che si morde la coda…
E Giuseppe, proprio come noi, alla fine di tutto il ragionare, partorisce la sua risoluzione… una risoluzione che non può che essere il male minore, il meno peggio… come ogni uomo, nei contorcimenti della vita, non può che trovare espedienti, escogitare risposte in seconda battuta, tamponare la falla…
Eppure gli rimane, come rimane a noi d’altra parte, la terribile sensazione che era altro quello che dovevamo fare, che la vita aveva promesso altro a noi e a chi ci sta intorno… ma d'altronde che potevamo fare d’altro? Che poteva fare Giuseppe d’altro?
«Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”. […] Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa».
È avvenuto qualcosa… Giuseppe arriva all’unica risoluzione che dà gioia, all’unica che aveva sempre sperato di poter realizzare, ma che nel giro di un momento gli era morta in mano: prender con sé la sua sposa!
È successo qualcosa in quest’uomo che avevamo lasciato poco fa incurvato sotto il peso dei suoi pensieri e che ritroviamo qua determinato e quasi felice (il testo non lo dice, ma l’incalzare dei verbi indica che lo scenario – anche interiore – è mutato: c’è dell’aria fresca da respirare ora…).
È successo che mentre sognava gli si è fatto vicino Dio (“un angelo del Signore” nella Bibbia è l’espressione per dire la presenza di Dio) e gli ha sciolto il groppo che aveva in gola «non temere di prendere con te Maria, tua sposa». Gli ha detto di non avere paura a prendere in casa una ragazza madre, gli ha ricordato un’appartenenza promessa e da mantenere (quella ragazza madre è «Maria, tua sposa»), lo ha coinvolto nella vicenda di sua moglie, del figlio di lei, del figlio di Dio… l’ha coinvolto nella vicenda di Dio… che mai infatti – ci insegnerà lo stesso Gesù – si svolge senza l’uomo («ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù »).
E questo incontro speciale ha trasformato Giuseppe…
Troppo spesso lo immaginiamo come lo sfigato – passatemi il termine – della situazione: non fa niente, gli tocca tenere e crescere un figlio non suo, con sta storia dello Spirito santo che fa sorridere i malpensanti, non può stare con sua moglie (che per la Chiesa è vergine prima durante e dopo), a un certo punto della storia sparisce pure, senza che si sappia più niente di lui… insomma…
E invece no! Invece Giuseppe è uno di quegli «amati da Dio e santi per chiamata» di cui parla Paolo nella sua lettera ai Romani: è uno di quelli che attraverso il richiamo a non avere paura (di amare), la fedeltà ad una storia (d’amore) e il coinvolgimento da parte di Dio in una Storia (d’Amore) esce trasformato, convertito, trasfigurato…
Giuseppe fa l’esperienza di passare, nell’incontro con Dio, dalla vita mortifera alla Vita vitale. E il suo sollevarsi dal raggomitolamento all’azione («Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa») è rivelazione che quel Dio lì che ha incontrato è il Dio della Vita… Giuseppe è testimone, nella sua carne, che con Gesù si ha a che fare con il Dio che dà vita, che fa fare esperienza di vita…
È interessante che la Chiesa ci metta proprio questo testo l’ultima domenica prima di Natale: che ci voglia dire che la disposizione per accogliere questa nascita è il non avere paura di amare, essere fedeli alla storia e lasciarci coinvolgere nella dinamica vitale di Dio? Di quel Dio-con-noi che curiosamente è detto a noi, ma non a Giuseppe…?
Matteo infatti mette la citazione di Isaia come suo commento al discorso dell’angelo… le parole «Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi”» non fanno parte del discorso che l’angelo fa a Giuseppe… Giuseppe sa che il figlio che ha in pancia Maria «viene dallo Spirito Santo» e che «egli salverà il suo popolo dai suoi peccati», ma non sa che è l’Emmanuele, cioè non sa che è un Dio che sta dalla parte dell’uomo…
Ma secondo me a lui non l’hanno detto, perché non c’era bisogno: l’aveva già scoperto nella sua carne…

… una donna aspetta ... un bambino – con tutta l’umanità

Questi brani della Bibbia (e un po’ tutta la Bibbia antica e nuova) raccontano di un’attesa. L’attesa della salvezza, come per ogni uomo. Ma più precisamente… attesa di un “bambino”! Anche chi crede che poi … è effettivamente venuto, lo attende ancora, ed aspetta il suo Natale! Al primo gruppo di suoi discepoli il mistero del loro amico, Signore, Maestro (e... Figlio di Dio), dovette sembrare così incontenibile e improponibile, che cercarono in ogni modo di capire ed esprimere ciò che era passato sotto i loro occhi, seguendo le indicazioni di Gesù stesso, di indagare nelle Scritture ciò che si riferiva a lui, per meglio capire il suo Vangelo, ma ancor più la sua passione e disfatta in croce e il trionfo prodigioso ma inesprimibile e indimostrabile della risurrezione…

La prima fondamentale difficoltà che incontrarono è sintetizzata in questo imbarazzante inizio della lettera di Paolo. Questa è la sua (e nostra) vocazione: annunziare il vangelo di Dio, che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture, riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore. Questo bambino, discendente di Davide è divenuto figlio di Dio… dopo la risurrezione? No di certo, ma non è un abbaglio: questa è stata la sua storia di carne, e questa la comprensione dei discepoli, che così l’hanno visto! Solo dopo l’accoglienza dell’umiliazione della sua vita terrena (la sua “obbedienza di fede”, fino alla morte di croce) sarà costituito Figlio di Dio con ‘potenza’. In lui, per tutti (per i primi discepoli come per noi) l’obbedienza della fede è diventata la porta per entrare nella salvezza. Solo così si vede che le Scritture davvero parlavano di Lui. E raccontano le parole che profeti, piccoli e grandi, hanno sentito da lui: a rileggerle adesso non solo ci suggeriscono chiavi di interpretazioni impensate del mistero della salvezza da lui portata…ma nello stesso tempo si illuminano esse stesse, alla luce della vita e delle Parole di Gesù…

il Signore stesso vi darà un segno: il re Achaz, che deve continuare la stirpe davidica da cui nascerà il Messia, non ha figli, ed è spaventato: Ha tentato le strade della superstizione, fino a sacrificare un bambino, ha provato alleanze politiche per salvare almeno il regno, tutti espedienti sterili o malvagi … Adesso è scoraggiato e demotivato. Non crede più in nessun segno! Ma il profeta propone uno scatto di fiducia in Dio… la fanciulla o la vergine (la parola ha i due significati) partorirà… e il bambino si chiamerà “Dio con noi”. Non c’è esegeta che spieghi cosa vuol dire veramente questo segno, se speranza o sventura. Sarà la traduzione dei Settanta che opta per il “segno” verginale, suggerendo quindi nel “Dio con noi” l’atteso Messia. Quando la comunità di Matteo riflette sull’evento di Nazareth e sul dramma dei due fidanzati, il vero senso della profezia s’illumina. Allora si capisce bene perchè l’uomo non ha parte in questa nascita (1,18 e 25; come Lc 1,34). La Scrittura è dunque ridiventata un annuncio vivo che innesca nei secoli un dialogo con i credenti, i quali solo obbedendole (cioè ascoltandola con il cuore) entrano in un’ulteriore comprensione, che a sua volta illumina la loro vita…

Il silenzio di Maria. Il racconto teologico di Matteo è un esempio discreto e luminoso di questa dialettica “cristiana” tra “comprensione (o incomprensione) dell’agire di Dio” e obbedienza della fede, applicata al mistero della nascita di Gesù. Non c’è stata spiegazione di Maria con il fidanzato, se si guarda al tormento altrettanto muto di Giuseppe. Ci sono segreti che sono da portare, tanto potenti e indicibili, che debbono farsi strada da soli, quando Dio vorrà. Ed è sempre una strada di sofferenza, per l’incomprensione, il dolore e l’angoscia che si provocano nelle persone più vicine. A cominciare da Giuseppe, suo fidanzato, angosciato perché non sa come uscire dalla situazione delicata, senza tradire la giustizia e l’amore! Chissà le chiacchiere! se si è accorto Giuseppe, si saranno accorti in tanti… e anche qui non c’è difesa. Più tardi, la gente si adatterà (come ricordano i Vangeli) a vedere nel piccolo, il figlio del falegname! Ci vorranno decenni perché la comunità, ricostruisca “a ritroso” il senso vero di questo bambino, nella sua doppia origine umana e divina.

Per questo il Vangelo di Matteo comincia come una nuova bibbia: ecco il libro della genesi di Gesù Cristo, figlio di Dio (1,1). E nei primi due capitoli, con vario materiale biblico, tenta di raccontare cosa è avvenuto, non secondo criteri storiografici, come faremmo noi (o anche Luca negli Atti), ma secondo criteri teologici che impregnano “un racconto esemplare” di come è nato il protagonista della “libro nuovo”, seguendo in filigrana alcune tracce della Bibbia antica, delle promesse dei profeti, della storia movimentata del popolo di Israele. Ecco il perché di una genealogia che lo lega agli antenati fino ad Abramo attraverso Davide, e poi il riconoscimento dei saggi magi “lontani”, e il rifiuto del nuovo faraone vicino, che vuol ucciderlo, e poi la fuga in Egitto e il ritorno alla magra terra promessa…

L’avvento di Dio nel mondo ricomincia da capo…: da Maria! E sconvolge la vita di coloro che coinvolge nel suo progetto, come era successo ad Abramo e agli altri patriarchi, fino a Davide, fino all’esilio… fin adesso: fino a questi due ragazzi e al loro progetto di matrimonio, una piccola povera famiglia …
Gli esegeti della comunità cristiana di Matteo, tanti anni dopo, hanno intuito il mistero, ed anche loro lo hanno collegato con le profezie, che allora si sono illuminate… “dopo l’obbedienza di fede” di Maria e Giuseppe. E quindi citano le profezie antiche comprese, adesso, perché ormai si sono avverate, grazie alla fede degli umili protagonisti del mistero. I quali soffrono tutte le loro riserve razionali umane: Zaccaria si sente impossibilitato, Maria chiede spiegazioni, Giuseppe si dibatte nell’incertezza sul da farsi per non rovinare la fidanzata… Però queste riserve non li bloccano in un rifiuto, come Acaz. Quale risorsa interiore li spinge a consegnarsi “alla Parola” ascoltata? Di sicuro Qualcuno dentro li ha guidati, sulla via dell’assenso proprio attraverso l’obbedienza della fede. Gli evangelisti non temono di citare ripetutamente lo Spirito Santo (1,18 e 20 - Lc 1-2 otto volte)

La discontinuità improvvisa nella loro vita, prodotta dall’incontro con Dio, è scandita dai sogni e dagli angeli. Fenomeni umanamente poco dimostrabili, i sogni : ma i Giuseppe biblici, che sono sognatori, ci ascoltano dentro l’invito di Dio (il conforto angelico) a coinvolgersi. Dio stava da secoli silenzioso nel tempio (il nulla innominabile del Santo dei Santi) e i suoi serafini stavano zitti. Adesso che Dio riinizia un dialogo con l’umanità, i suoi angeli ridiventano “messaggeri”… aiutano a capire il disegno di Dio. Curiosamente nei due Vangeli dell’infanzia di Luca e Matteo, i due angeli coincidono nell’ordinare ai due diversi protagonisti (Maria e Giuseppe) lo stesso ordine: gli darai nome Gesù! Con lo stesso risultato, che i due fanno “come è stato detto loro” Come se i due fidanzati, ormai infranti i rispettivi progetti personali, si ritrovassero nel consegnarsi ad un altro totale accudimento, la nascita e la crescita del “bambino salvatore”…

La verginità è allora segno fondamentale di questo messaggio. Tanto più che nel mondo semita non aveva un particolare apprezzamento religioso, ma piuttosto la maternità era considerata la pienezza di partecipazione al disegno di Dio sul popolo eletto. Proprio per questo la scelta di Maria si carica di un significato profetico: la parte più debole improduttiva dell’umanità è eletta come strumento principe della salvezza. Ancora una volta Dio rivela le sue preferenze. Maria stessa domanda: come è possibile senza potere maschile? La potenza di Dio ti coprirà! Maria capisce che Dio non sceglie i mezzi umani, che come donna la squalificano, ma i mezzi nuovi, poveri, disomogenei alla cultura e alla logica umana. Anche qui comincia un nuovo mondo, inizia una nuova cultura!

…un Dio bambino? tutte queste… parole dell’inizio del vangelo di Matteo ci mostrano un volto di Dio diverso, incontenibile nei templi, riti, tradizioni, , sacrifici… ma “contenuto” nel seno di una donna. Questo è troppo: la meraviglia, lo stupore, lo scandalo, il rifiuto, anche omicida… lo aspetta. Il “futuro” ragionevole, prevedibile e programmato dall’uomo …non può che reagire così. Ma è un “futuro” sterile ripetitivo e senza speranza: L’ “avvento”, questa profezia di un diverso futuro intravisto nei sogni, è annunciato da angeli, riservato a popolani senza cultura né potere, ma sensibili allo Spirito. Domanda di affidarsi al consenso della fede. È novità, accoglie il povero, accudisce le persone più che le leggi… apre nuovi spazi al “Dio diverso”, che sempre viene… anche se nelle fattezze misteriose e sorprendenti di un bambino.

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…non può uno spirito umano parlare così da se stesso.
Noi che non sappiamo neppure che cosa accadrà l’anno prossimo,
come possiamo anche solo concepire che vi sia chi scruta al di là dei secoli?
E i tempi non erano allora più trasparenti di quanto lo siano al presente. Solo lo Spirito di Dio, che abbraccia il principio e la fine del mondo,
può rivelare a un uomo da lui scelto il segreto del futuro,
e questi ha l’incarico di profetizzare per rendere saldi coloro che credono
e ammonire coloro che non credono.
Questa voce di un singolo, che sommessa echeggia nei secoli
e alla quale si unisce la voce isolata di un altro profeta,
sfocia infine nell’adorazione notturna dei pastori
e nel giubilo della comunità dei credenti in Cristo:
“ un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio!”
Si parla della nascita di un bambino,
non dell’azione rivoluzionaria di un uomo forte, non dell’audace scoperta di un sapiente, non dell’opera pia di un santo.
C’è veramente il capovolgimento di ogni logica:
è la nascita di un bambino che opererà la svolta decisiva di tutte le cose,
che apporterà all’umanità salvezza e redenzione.
Ciò per cui si sono affaticati invano sovrani e uomini di stato,
filosofi e artisti, fondatori di religioni e maestri di morale,
ecco, ora si compie attraverso un neonato.
Come a confondere gli sforzi e le imprese dei potenti,
nel cuore della storia universale viene posto un bambino.
Un bambino nato dagli uomini, un figlio dato da Dio.
Ecco il segreto della salvezza del mondo;
vi sono racchiusi tutto il passato e tutto il futuro.
L’infinita misericordia del Dio onnipotente viene a visitarci,
si abbassa sino a noi sotto la forma di un bambino, suo Figlio.
Che ci sia nato per noi, questo bambino, che ci sia stato dato questo figlio,
che questo figlio degli uomini, questo figlio di Dio mi appartenga,
che io lo conosca, lo abbia, lo ami, che io sia suo e che egli sia mio:
è da questo che ormai dipende la mia vita.

Un bambino tiene la nostra vita nella sua mano.
(Bonhoeffer, Predica di Natale 1940)

giovedì 13 dicembre 2007

Si rallegri il deserto e la terra arida, esulti la steppa

…ripete Isaia!… quante volte ci arrivano questi scossoni “non temete! rallegratevi!”, nella Bibbia e nella vita, nella “nostra” vita, perché il profeta sta rivolgendosi a noi, umanità di tutte le generazioni. E ci vede bene! Perché troppo spesso … le mani sono stanche, le ginocchia ci tremano, il cuore è smarrito, per i nostri problemi, di ognuno, certo, ma ancor più, a guardarsi in giro, nelle famiglie, per la strada, nei posti di lavoro, nelle scuole, negli ospedali… per non cadere nella retorica amara delle periferie immense di intere popolazioni al disotto del livello minimo di sussistenza dignitosa. Eppure, dice il profeta : qui… è il vostro Dio! Egli viene a salvarvi! E ancora una volta ci viene elencato il catalogo profetico delle nostre miserie umane da guarire, i dolorosi impedimenti della compiutezza umana. Lo riconosciamo questo catalogo, perché l’abbiamo sentito tante volte come promessa luminosa, negli oracoli ostinati dei profeti, ma anche, in versione rovesciata, nei salmi e nei libri sapienziali, come descrizione sarcastica degli idoli, anche loro ciechi, sordi, muti e paralitici… con occhi, orecchie, lingua, mani e piedi inservibili. Curiosa questa coincidenza, per cui l’arrivo del Regno vuol dire il ritrovare la pienezza della vita per tutti gli impediti, che liberati dall’incontro con Gesù, vanificano tutti quegli idoli che in qualche modo consacravano l’impossibilità di superare questi mali. Orami guarire l’uomo è un criterio di riconoscimento del messia e dei suoi discepoli: “E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome… imporranno le mani ai malati e questi guariranno” (Mc 16,17).
nel deserto di Giovanni
Giovanni è la nostra verità umana più umile, perciò più vera e più autentica. Tra i nati di donna non c’è nessuno più grande di lui: è la soglia, dunque! Più in là non siam capaci di andare. È presentato da Gesù stesso come il culmine del Primo Testamento, il grande profeta severo e ardentemente impaziente di preparaci per l’arrivo del Signore. Ma, almeno come anelito, Giovanni segna l’avventura intima di ogni uomo, man mano che la voglia di vivere e la speranza di bene con cui si nasce, si scontrano contro troppi ostacoli e fatiche, contro la impermeabile resistenza del male, della solitudine, della nostra fragilità, del peccato. E tutto sembra inutile. Il dolore dei più sventurati non è consolato - ed il dubbio (la morte della speranza) entra in cuore e tenta di avvelenare anche noi… Non doveva arrivare il Messia? Il Regno di Dio non era già qui alle porte? C’è dunque un imbroglio nelle profezie messianiche? sempre più ci tocca rimandate, sempre domani,“forse”?… come le fate morgane che abitano il deserto, appunto, che quando stai per arrivarci, sono sparite un’altra volta, e ne riappare il miraggio ancora più in là, dove non hai più la forza di arrivare!
Tutta la vita ad aspettare il Messia: quando arriva è un Messia inaspettato!
Il Messia e il Regno che ci annuncia è introvabile, per uno strano travestimento: quando lo trovi non è più lui, non corrisponde ai segni del catalogo. Qui, il problema del Messia non è più quello del popolo che si converte, alla voce di Giovanni, mentre i maestri e i capi lo rifiutano, ed Erode, prima affascinato, è poi travolto nella logica di morte dalla quale non riesce a togliersi… Il problema è di Giovanni stesso. Proprio lui, il più preparato ad accoglierlo, la cui missione è di preparatore gli altri. Ma anche per Giovanni, quando il Messia s’avvicina, la sua vera identità è sorprendente, inaspettata anche per lui, come poi per Maria, come per tutti i discepoli, Gesù è il messia, il figlio del Dio vivente, dirà Pietro… ma non come l’aspettavano!. E questa è la vera fonte dei nostri guai di fede! Il Signore non è ovvio, non è prevedibile coi criteri miracolosi che ci hanno detto: è sempre inaspettato – sempre, per tutti! Giovanni aveva atteso e predicato, sulla scia di antiche profezie, un Potente che battezza con Spirito e fuoco…una scure incombente alle radici dell’umanità in attesa. Occorre convertirsi subito, o sarà la fine! Ma arriva un Mite, che si mischia coi poveri e i peccatori, li perdona senza castigo, si autoinvita a casa loro… Qualcuno dei suoi “miracoli” assomiglia davvero al catalogo profetico e sembra confermare che è davvero il Messia. Alla domanda drammatica su cui Giovanni gioca tutta la sua missione (la sua morte e la sua vita!) : «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro?»), non risponde direttamente, ma rinvia alle sue opere: «I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, e beato colui che non si scandalizza di me» (Mt 11,2-6). Si tratta di miracoli che ricalcano le profezie dell'Antico Testamento, e tra questi c'è persino la risurrezione dei morti. Ma… infine, e soprattutto, l' ultimo:
ai poveri è predicata la lieta notizia!
L'ultimo segno non è un miracolo! Però tutta l’avventura di Gesù lo rivelerà come il più decisivo, perché è la chiave di interpretazione di tutti gli altri. Lo ribadirà nel manifesto iniziale della sua predicazione nella sinagoga di Nazareth, e poi per tutta la vita fino alla fine … solo e abbandonato nella passione e sulla croce, dove rifiuterà il miracolo potente (scendere dalla croce) per un altro miracolo/promessa: con l’ultimo sospiro che gli rimane annuncerà ancora la ‘bella notizia’ ad un ‘povero’ ladrone, che muore con lui, e il perdono a chi lo sta uccidendo… Miracoli sì, ma di un'altra qualità da quelli che aspettavamo! I miracoli che ci ha regalato!
beato chi non si scandalizzerà di me
A Giovanni che lo può capire, Gesù rivela la vera beatitudine, il vero segreto “incredibile”della sua missione di Messia. I miracoli stanno a dimostrare a chi crede nella Scritture, che Gesù è l’inviato di Dio! Ma non è da questi miracoli che nasce la fede. Tanta gente li ha visti, e applaudito, ma non è scattata la fede in loro. Giovanni è chiamato a superare la soglia che fa grande il più piccolo del Regno. È veramente “follia e stoltezza” questa svolta teologica nella manifestazione del Messia. Un modo tanto diverso da provocare lo scandalo perfino in chi gli è più vicino. Da questo primo tentativo con Giovanni, l’amico dello sposo, fino all’ultimo con i due di Emmaus, quante volte Gesù ha cercato di spiegare agli “scandalizzati” che “era necessario” così! Il Messia è il servo sofferente, reietto e umiliato, schierato coi poveri, lui stesso di umili origini, e incamminato” verso la croce. Il rifiuto dei capi e dei farisei, ma anche l’incomprensione “testarda” e “dura di cuore” dei discepoli suoi coetanei… fino a noi, dopo 2000 anni, ha unicamente questa radice : lo scandalo dell’impotenza del Messia e del suo Regno! Ci sogniamo ostinatamente come oggetto/soggetto della nostra fede un “Signore”, capace di esaudire le nostre preghiere e soccorrere le nostre impotenze, mentre lui ci offre piuttosto di coinvolgerci nel suo sprofondamento nell’umanità (non avete potuto vegliare con me un’ora sola?! - Mt 26,40).
il rovesciamento!
Eppure rimane ancor più vero l’augurio iniziale della profezia: rallegratevi e non temete! Ma la scansione delle scadenze sono diverse: Non è qui, nelle nostre battaglie e traguardi personali o sociali o ecclesiali che ci è promesso il trionfo o la risposta soddisfacente… Non avremo sorte migliore del Maestro! Ma ci è detto di essere testimoni quanto più possibile operosi e impegnati della liberazione che Gesù è venuto a portare. Sapendo però che il male non è tolto dal mondo e tenterà di opprimerci con il suo veleno di morte e disperazione: Ma noi possiamo rovesciarne la sorte! E dello “scandalo” (la pietra su cui si inciampa: le nostre fatiche, impotenze, malattie, angosce…) fare la pietra angolare della ricostruzione della nostra fede. Non ci hanno imbrogliato! Con la pazienza dei profeti e dei contadini, noi sappiamo seminare speranza, e attendere. Quindi già adesso ne siamo lieti, anche se trepidanti, perché non sappiamo ancora quando daranno frutto.
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il miracolo rovesciato!
… volevo fare cose grandi,... ma la malattia mi fece fare… cose migliori...
…“la sola forma di sofferenza dell’anima è il fare la volontà propria e non quella di Dio!”
Poche parole, scritte con mano tremolante; c’erano volute ore, per scriverle. Sono così le ultime pagine del diario di Benedetta Bianchi Porro, morta a soli 28 anni, di tumore: una forma di “neurofibromatosi” (incompresa dai medici, se l’era diagnosticata da sola!) che l’ha resa progressivamente sorda, cieca, paralizzata, priva di ogni facoltà sensitiva… [era nata a Dovadola, nella provincia di Forlì, l’8 agosto 1936, morta il 23 gennaio 1964. Nel 1996 è dichiarata venerabile…]

Una ragazza tenace, Benedetta: la lunga malattia, le sofferenze, gli interventi chirurgici non le hanno impedito di continuare a studiare. Si è dovuta arrendere solo nel 1960, ad un passo dalla laurea in medicina.
L’esperienza del dolore è stata la ‘cifra’ della sua esistenza:
l’ombra della Croce sovrasta tutto”, scrive Benedetta citando L’Imitazione di Cristo. E aggiunge: “ma è anche la nostra grande speranza, il nostro riscatto. Dio è giusto e quando manda una prova, manda anche la forza per sopportarla”.

Tra le letture preferite di Benedetta, negli ultimi anni della sua vita, la Storia di un’anima di Santa Teresa del Bambino Gesù, il cui “atto di offerta” finale Benedetta si è fatta “trasmettere” dalla madre anche poco prima di morire (non poteva più né leggere né ascoltare: le “trasmettevano” con alfabeto tattile… sulla mano).
Nel 1963, subito prima di sottoporsi all’intervento che l’ha poi resa completamente cieca, Benedetta scrive: “La mia croce è più pesante di quella che posso sopportare. Ma voglio donare con gioia, non per forza”.
Dopo il primo viaggio a Lourdes, che non ha dato i frutti sperati (Benedetta aveva fatto voto di diventare suora, se fosse guarita) si rivolge così ad un’amica: “io sono come sono, soffro molto, credo ogni volta di non farcela più, ma il Signore che fa cose grandi, mi sostiene pietoso e io mi trovo ritta ai piedi della Croce

L’abbandono fiducioso alla volontà di Dio, in Benedetta, arriva fino allo svuotamento di sé: “amare la sofferenza di tutti”, per lei significa dimenticarsi e non possedere niente, neanche la sofferenza, neanche il “sapersi paralizzata a letto sorda e cieca”, neanche il peso della fatica di “non arrivare a sera”.
E in questa luce che va letta questa sua splendida preghiera:

… chiesi a Dio la forza di conquistare…
e il Signore mi fece debole, perché imparassi umilmente ad ubbidire.
Chiesi di essere aiutata a fare cose grandi…
e il Signore mi fece ammalare, perché facessi cose migliori.
Chiesi ricchezze per poter essere felice…
mi diede la povertà, perché fossi saggia.
Chiesi di tutto per potermi godere la vita…
ed ebbi la vita, perché potessi godere di tutto.
Non ebbi nulla di tutto quello che avevo chiesto,
ma ebbi tutto quello che avevo sperato”.
[speciale sir 8 – 30.01-1998 p.iii --- a cura M. Michela Nicolais]

Dio è Colui che rende vivibile la vita

Dopo che domenica scorsa (II di Avvento) la Chiesa con le letture proposte ci aveva introdotto nell’atmosfera di un’attesa carica di aspettative (si parlava di ciò che avverrà «in quel giorno...», di conversione perchè «il regno dei cieli è vicino»), oggi la liturgia della Parola sembra tratteggiare in modo un po’ più delineato i contorni di ciò che si deve aspettare…
Isaia come sempre parte dal suo oggi, dalla realtà, dalla storia e descrive la situazione dell’uomo di sempre: parla infatti di «mani fiacche», «ginocchia vacillanti», «cuori smarriti», cioè, di un’umanità scoraggiata dalla vita, da quella vita che le pareva così accattivante e che invece sembra smentire le sue promesse. Si parla insomma di un’umanità che fatica a dar credito alla bellezza dell’esistenza o anche semplicemente alla sua vivibilità…
Questa fiacchezza, questo vacillare e questo smarrimento di cui parla Isaia, credo non necessitino di spiegazioni, esemplificazioni o dimostrazioni: sono proprio l’aria che spesso respiriamo anche noi…
In questo senso è confortante vedere come il testo biblico sia così consapevole di dove, come e chi siamo. Quella di Dio infatti non è una parola destinata ai perfetti, agli irreprensibili, a quelli che ce la fanno… arriva proprio negli interstizi bui della storia, nelle sue congiunture malate… è la parola dei poveri, dei fiacchi, dei vacillanti, degli smarriti… è appunto la Parola dell’uomo di sempre… è la nostra.
È proprio dentro qui, dentro all’umanità stanca, sfiduciata, dispersa che si cala però un annuncio nuovo: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi».
È la notizia di una venuta che cambia la desolazione del mondo, che ridà vita alle sue aridità («Si rallegrino il deserto e la terra arida»), che fa rifiorire le sue secchezze («esulti e fiorisca la steppa»), che porta gloria, splendore, magnificenza («Le è data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saron. Essi vedranno la gloria del Signore, la magnificenza del nostro Dio»).
Ma soprattutto è una venuta che, oltre a far brillare gli occhi come quelli di un bimbo per lo scoppio di Vita nel mondo, è decisiva perché fa Vivere gli uomini: «Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto. Ci sarà un sentiero e una strada e la chiameranno via santa. Su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore e verranno in Sion con giubilo».
Proprio perché riguarda gli uomini, proprio quelli che sono carne della mia carne, quelli a cui scorre nelle vene il mio stesso sangue, quelli a cui le viscere si commuovono come le mie, proprio perché riguarda loro e me con loro, questo annuncio ha i tratti di una gioia esplosiva: «felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto».
Proprio perché è una parola per l’uomo (costituzionalmente povero), proprio perché è l’annuncio di una salvezza per lui, di una sua liberazione dalle catene della morte, questa non è più una notizia tra le altre: qui si tratta di vita o di morte!
Tra l’altro della vita o della morte di tutti. E di una vita e di una morte caratterizzate da una definitività: è la scelta tra una vita vitale che anche se muore fisicamente, può arrivare oltre la morte, o una vita mortifera che anche se vive a lungo è già abitata dai veleni delle tombe.
Proprio per la decisività di questa venuta, Giacomo parla di pazienza e costanza: «Siate costanti, fratelli miei […]. Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge».
Solo perché è prezioso il frutto della terra, l’agricoltore lo aspetta. Così anche per noi. Se ci fosse annunciato qualcosa di meno che la Vita, non varrebbe la pena pazientare, essere costanti, attendere, perdere tempo, energie, investimenti affettivi… Ma forse, se non ci fosse annunciata la Vita, non varrebbe la pena neanche di vivere…
E invece la venuta annunciata non è una qualunque, non è quella di uno dei tanti ciarlatani, falsi profeti, finti dei che attraversano tutta la storia umana: quella vicina è «la venuta del Signore»! È l’arrivo della Vita!
La “V” maiuscola non deve trarre in inganno: non si tratta immediatamente della vita eterna, come se il discorso fosse “anche se qui siamo schiacciati in un’esistenza invivibile, poi però c’è il paradiso”… No! La Vita è l’abilitazione a Vivere nell’aldiqua, è l’attestazione di Dio che la promessa iscritta nei nostri cuori dal momento che nasciamo non è illusoria, è la sua vittoria sulla nostra morte, che oltre alla morte fisica, indica tutto ciò che ci incatena l’anima, ci indurisce il cuore, ci fa abbassare gli sguardi, ci spegne i sorrisi, ci separa dagli altri. Tutto questo è vinto. Allora sì che la vita è vivibile!
E appunto: vivibile è la nostra vita qui e ora… E di fatti i segni di riconoscimento del Cristo, che Gesù stesso indica come le testimonianze da portare a Giovanni Battista, sono tutte cose che investono l’aldiqua: «I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo».
A Giovanni che in carcere si chiede se Gesù è effettivamente «colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?», Gesù risponde con il rendere vivibile la vita degli uomini.
E infatti: chi è Dio se non colui che fa vivere l’uomo?
«E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!». Beato, dice Gesù, colui che non inciampa vedendomi così, solo perché non rispetto i canoni umani e religiosi dell’attesa del Messia. Beato chi non si scandalizza della predilezione per gli scarti dell’umanità (gli scarti fisici – malati –, morali – peccatori –, economici – poveri –, sociali – donne), chi non si scandalizza della concretezza e laicità dell’azione di Dio (che sta nelle strade e nelle case, non nei templi e nelle comunità osservanti), chi non si scandalizza che la potenza di Dio sia riscritta da una morte in croce…
E in effetti... visto che stiamo attendendo il Natale, è da notare che Gesù arriva neonato (scarto fisico), figlio di non sposati (scarto morale), povero (scarto economico), in una mangiatoia (scarto sociale), circondato da animali e pastori, indifeso…

lunedì 10 dicembre 2007

domenica 9 dicembre 2007

A Te grida il dolore innocente. Il senso dell'umana sofferenza

Evento promosso dalla sezione di Milano dell'AMCI (Associazione Medici Cattolici Italiani) - Milano, 17 novembre 2007 - 09:15

La registrazione, si può ascoltare direttamente dalla pagina originale del sito di Radio Radicale cliccando qui

Attenzione il materiale è rilasciato con licenza Creative Commons Attribution 2.5 Italy

LA DESTRA ECCLESIALE MANGIA SOLO FAGIOLI?

Cercando materiale per riflettere un po’ sulle letture di questa II domenica di Avvento mi sono imbattuta in un incontro tenuto dal biblisti Giacomo Facchinetti il 7 febbraio 2001 su Rm 14,1-15-6. Il testo completo è pubblicato in Scuola della Parola 2001, io ve ne propongo uno stralcio.
«Paolo formula così il problema: “Uno crede di poter mangiare di tutto, l’altro, che è debole, mangia solo legumi”. […] Non so se si tratti di ironia o di un modo molto forte di suggerire come la questione della fede si ponga anche in situazioni apparentemente secondarie come quelle del mangiare e del bere. Ecco comunque due modi di fare, due tendenze.
Primo: c’è uno che crede di poter mangiare di tutto. Come possiamo immaginare questi cristiani? Sono dei credenti che si sentono liberati, mediante la fede in Gesù, […] restituiti alla visione di una realtà in cui tutto è puro. […] Niente in sé è impuro, niente è in sé fonte di contaminazione. Si può costruire un rapporto nuovo tra il credente e il mondo: il mondo è il dono di Dio, […] che egli come Padre e creatore mette a disposizione dei credenti i quali, liberati per mezzo di Gesù da ogni proibizione alimentare, possono goderne. Sarebbe il segno visibile della libertà, che permette anche un diverso modo di rapportarsi e di vivere all’interno di una società fatta di non credenti, per cui uno potrebbe tranquillamente, senza nessun problema, incontrare chiunque e diventare commensale di chiunque senza nessuno scrupolo. […] La cosa era vissuta come un profondo senso di liberazione, come il frutto di novità nel rapporto tra l’uomo e le cose buone del mondo, nel rapporto tra l’uomo e le altre persone e le altre religioni.
Qui Paolo non dà elementi per capire quali fossero i presupposti per cui alcuni, a partire dalla loro fede, si sentissero autorizzati a mangiare di tutto, in una commensalità libera, riconoscente e festosa; ma possiamo pensare che potessero appellarsi anche all’esempio di Gesù, il cui comportamento era stato censurato attraverso quel giudizio: un beone e un mangione, amico dei pubblicani e dei peccatori. […] Per Gesù questa libertà era segno della novità rappresentata dal suo messaggio: una novità che faceva cadere le barriere e faceva di nuovo, della mensa, il luogo vero, il momento autentico della comunicazione libera e fraterna. Permetteva una commensalità che doveva essere il segno di una disponibilità di Dio, di un dono di Dio che non si ferma davanti a barriere poste all’interno della Chiesa, o tra la Chiesa e quelli di fuori. […] Dunque le ragioni che potevano stare dalla parte dei ‘forti’ erano ragioni veramente ‘forti’, notevoli!
Proviamo invece a immaginare il modo di vedere di colui che è debole e mangia solo legumi.
Verso questa scelta potevano convergere tante posizioni, tante intuizioni o suggestioni che potevano venire dalla tradizione ebraica, oppure da tradizioni varie del mondo greco o romano, oppure potevano ispirarsi a grandi figure come Giovanni il Battista, che non mangia e non beve, e che in qualche modo rappresentava appunto l’ascetismo nella sua forma più rigorosa ed esigente. Potevano anche portare a proprio favore un ragionamento di questo tipo: dobbiamo essere coscienti della nostra condizione di peccatori; certo, liberati e salvati, ma pur sempre persone che portano in sé il segno del peccato. E potevano ricordare che uno degli elementi fondamentali del Vangelo è la croce di Gesù, morto per i nostri peccati, e potevano giustificare così il loro ascetismo, la rinuncia alla carne e al vino, richiamandosi ad uno spirito penitenziale, alla coscienza di essere stati salvati dal peccato sotto il segno della croce: una visione austera, rigorosa, penitenziale della vita.
[…] E poteva scattare il giudizio vicendevole fra questi due gruppi.
I progressisti – quelli cioè che si sentivano liberi di mangiare di tutto pensando che gli altri non avessero il coraggio e la forza intellettuale o morale di vivere fino in fondo la libertà della fede – e i mangiatori di legumi, quelli che potevano giudicare gli altri come ‘modernisti’ disposti a cercare una soluzione comoda della fede, pronti a tutto per il consenso sociale, paurosi di mostrare pubblicamente la propria fede e di riconoscere che siamo segnati dal peccato, incapaci di indicare che al centro della storia ci sta la croce di Cristo, il giudizio di Dio sul mondo e sulla nostra condizione appesantita dalle forze negative personali e sociali.
[…] E il pericolo che l’apostolo vede, qual è? Il pericolo è che partendo dalla stessa fede si possa mettere in questione la fraternità.
[…] Qual è la risposta di Paolo? Al termine della lettera, Paolo sembra disposto a rimettere in discussione la caratteristica che distingue la sua teologia che ha nella libertà, come dono di Cristo, uno dei grandi segni e uno dei grandi temi. […] Pare disposto a rimettere in discussione non l’essenza del Vangelo, ma alcune conseguenze della sua teologia. È pronto a rimettere in discussione, in una situazione critica, coloro che erano contenti di essere giunti, dopo tante fatiche, a ragionare come Paolo; proprio da lui essi si vedono posti di fronte a questa imposizione: fermati! C’è qualcosa di molto più decisivo della teologia di Paolo. E che cosa è? È il fratello che mangia fagioli!
“Accogliete tra di voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni”.
[…] Come vedete il giudizio dell’apostolo è netto: ‘sono deboli nella fede’; la loro posizione dal punto di vista dottrinale, dal punto di vista della riflessione teologica è certamente più debole, è una posizione che dovrebbe essere superata perché non è pienamente sostenibile e giustificata.
[…] Senza discutere le esitazioni, senza fare il processo; eppure ci sarebbero state mille ragioni, dal punto di vista culturale, per contestare, per rimproverare, per mettere in crisi questi deboli nella fede. Ci sarebbero stati motivi per dire loro: siete conservatori, reazionari, siete legati a una visione che non riesce a percepire e a gustare la bellezza e la novità del messaggio di Cristo. [E invece] l’apostolo dice questa parola così netta e severa: Accogliete tra di voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni. […] Poi riprende, formulando l’esigenza da tutti e due i punti di vista: “Colui che mangia non disprezzi chi non mangia; chi mangia non giudichi male chi mangia”.
[...] Per l’apostolo non si tratta di intavolare una discussione teologica perché una delle due mentalità superi il proprio punto di vista, per unificarsi al punto di vista dell’altro e raggiungere così il risultato di una comunità unita nel pensiero, nella cultura. Per Paolo non è questo il problema. Ai forti, ai progressisti, profondamente coscienti della novità del messaggio di Cristo egli chiede di non disprezzare o, nell’aspetto positivo, di stimare coloro che sono deboli; il non disprezzare è legato ad una disponibilità del forte a prendere in considerazione, a interrogare anche se stesso sul valore, sul senso della posizione di quello che è debole nella fede.
Dall’approfondimento risulterebbe che le grandi domande sorgono da entrambe le parti se c’è la stessa passione per il mistero di Dio. Per tutti e due la teologia rappresentata dal debole nella fede contiene in sé degli elementi che non possono essere frettolosamente ignorati, emarginati da colui che è forte, maturo e progredito nella fede e nella sua formulazione culturale.
[…] L’apostolo non formula direttamente il comando al dialogo, ma, tentando di fermare il ‘processo a carico’ e la condanna vicendevole, apre lo spazio perché vengano prese in considerazione le ragioni dell’altro e non solo della sua fede – che appartiene al mistero di Dio. Il progressista, il forte nella fede, non è colui che stende il dito per giudicare, non è colui che si sente all’avanguardia, ma è colui che, seguendo il fratello, si interessa cordialmente della sua posizione. Non lo giudica, non gli interessa se si trova nella retroguardia, perché quello è il fratello.
[…] Da parte sua il debole nella fede che cosa deve fare? Colui che non mangia non giudichi male chi mangia. Deve astenersi dal condannare, dal vedere l’altro come uno che non è pienamente fedele a Dio, uno che tiene di più alle mode del tempo che alla radicalità, al coraggio e alla disponibilità al sacrificio in nome e a causa della fede, uno che ama essere aggiornato culturalmente per poter essere libero di comunicare con tutti senza ostacoli. Non deve condannarlo! Anche il debole nella fede, essendo invitato a rinunciare al giudizio e alla condanna, è invitato positivamente a interrogarsi sulle ragioni di colui che è forte nella fede, non a sospettarlo di presunzione o di superbia, ma a interrogare se stesso sulla fede che anima quelle ragioni.
Per quale motivo tutto ciò? Perché “Dio lo ha accolto”. Ecco il pensiero comune!
[…] In certo senso la grande questione è di affermare il diritto-dovere di imitare Gesù nella sua comunione di mensa con i peccatori. Quindi i deboli nella fede devono riconoscere – superando la tentazione degli scribi e dei farisei, che contestavano la commensalità di Gesù – che non si possono mettere dei limiti, per ragioni culturali o ecclesiali, alla misericordia, all’ospitalità, all’accoglienza veramente incondizionata di Dio. Ma i forti nella fede devono conoscere che Dio può ospitare, oltre il pubblicano, anche il fariseo e lo scriba. Dio accoglie anche loro.
[...] Sorge così la domanda: “chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo? Stia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone”. Non è un invito al menefreghismo: “Faccia un po’ come gli pare, a me non interessa”. No, Paolo qui è duro e con molta chiarezza vuole spiegare che cosa implica il giudizio o il disprezzo tra fratelli cristiani. Significa mettere in discussione Dio.
[...] Oltre a questo, Paolo è convinto non solo dell’azione originaria di Dio, ma anche del suo lavoro continuo nel fratello. “Ma starà in piedi, perché il Signore ha il potere di farcelo stare”.
[...] Per l’apostolo c’è un impegno comune: quello di trovare nella fede le ragioni del proprio comportamento, non solo astenersi dai giudizi, ma anche esplorare il proprio mondo di fede, trovare in essa le ragioni autentiche del proprio modo di vedere la realtà, affinché il comportamento non sia frutto di un certo tradizionalismo religioso o di un conformismo culturale o di un desiderio di apparire nuovi e moderni. Queste non sono ragioni che hanno a che fare con la fede! È necessario approfondire continuamente, pur nella differenza di posizioni, l’esigenza permanente del rinnovamento della propria mentalità sul fondamento della fede.
Questo porterebbe a capire che: “chi si preoccupa del giorno, se ne preoccupa per il Signore; chi mangia, mangia per il Signore, dal momento che rende grazie”. L’apostolo invita a riconoscere la comune ragione: è il Signore nella propria vita.
[...] Paolo non tenta una conciliazione di tipo razionale o culturale tra le diverse posizioni, ma rimanda le due posizioni differenti alla loro radice comune.
[...] La domanda: “Chi sei tu, per giudicare il tuo fratello?” pone in evidenza l’assurdità che dei fratelli, dei figli, si giudichino e si disprezzino. Questo comportamento rivela una profonda ignoranza e una profonda incoscienza. [...] Per entrambi la domanda è: vi rendete conto che tutti e due arriverete davanti al tribunale del giudizio di Dio?
[...] L’apostolo non dice cose nuove, ma semplicemente richiama le grandi parole della fede, e le richiama in modo tale che diventino operanti nella costruzione dei rapporti quotidiani. Egli vuole impedire che da una parte ci sia la professione di fede, e poi dall’altra i propri ragionamenti, le proprie valutazioni tra credenti che, dimenticando le proprie origini e la propria identità, si comportano come se quelle grandi parole di fede non dovessero determinare il modo di guardarsi, non dovessero dare forma al modo di stare uno di fronte all’altro, al modo di parlarsi, al modo di valutarsi.
[...] “Cessiamo dunque di giudicarci gli uni gli altri; pensate invece a non essere causa di inciampo o di scandalo al fratello”. Il tema è sempre quello, ma ci troviamo davanti ad un’altra argomentazione. Paolo si mette dal punto di vista dei forti e riconosce che, in linea di principio, hanno ragione perché tutto è puro, e quindi avrebbero il diritto di mangiare ogni cosa rendendo grazie a Dio. Ma il problema è rappresentato dall’altro che, nella fede, rappresenta per me la domanda che Dio mi rivolge, che Dio rende presente davanti a me in questo determinato momento.
[...] Il Vangelo si impone nelle situazioni quotidiane che sembrano le più banali. Si impone quando uno pensa: figurati se devo farmi un problema del fatto che l’altro trovi scandalo, entri in crisi e provi un disagio profondo perché vede in me non un destinatario della grazia di Dio, ma uno che per essere progressista e moderno si sente libero di esibire la propria libertà. È lui che sbaglia! Sbaglia nel suo ragionamento e sbaglia anche nella carità perché mi giudica.
[...Ma:] “Ora se per il tuo cibo il tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti più secondo la carità. Guardati perciò dal rovinare con il tuo cibo uno per il quale Cristo è morto!”. Ecco il metodo dell’apostolo: far emergere la presenza del crocifisso quando sembra soltanto questione di banali rapporti interpersonali, soltanto questione di mentalità.
[...] Verrebbe spontaneo un moto di repulsione: [...] il mio prossimo è quello lì, che non mangia il salame e ce l’ha con me. E non riesco a farlo ragionare, è un testardo e vuole fare l’asceta. Non sa gioire delle cose della vita! Ma l’apostolo domanderebbe dove sia stato messo Cristo, dal momento che quell’importuno lì è uno per cui Cristo è morto. Ecco la capacità veramente sconvolgente dell’apostolo di richiamarci alla serietà delle domande suscitate dalla fede.
[...] La situazione può sembrare banale, ma Paolo dice: in questa situazione è in questione l’essenza del Vangelo, l’imitazione di Gesù, l’essere a immagine del Figlio, morto e risorto. Ecco dove si pone la questione della fedeltà al Messia non trionfante: risorto sì, ma non trionfante. [...] Si pone in questo: non cercare la propria gratificazione, ma vivere della dedizione e dell’attenzione all’altro, anche se è spiacevole, anche se non è totalmente maturo, anche se è veramente pesante».

venerdì 7 dicembre 2007

com'è bello essere giovane

AUGURI DI BUON COMPLEANNO A MARIO
CHE OGGI COMPIE GLI ANNI RICCORDANDO
LA SUA VENUTA NELLA STORIA DELL'UMANITA
Grazie di esistere
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