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domenica 1 aprile 2007

Il coraggio dell'intelligenza

Dagli articoli precedenti credo che appaia sempre più chiaro, anche se non esplicitamente dichiarato, che la riflessione sul come essere missionari oggi, coincida inevitabilmente con la necessità di comprendere cosa voglia dire essere cristiani e carmelitani oggi.

La dimensione missionaria è una “cosa” sola con quella cristiana: sono due modi per descrivere lo stesso avvenimento, da prospettive diverse. L’incontro con la Persona di Cristo che mi trasforma in profondità nel mio essere nel mondo (cristiano) mi trasforma in profondità nel mio essere per il mondo (carmelitano-missionario). E circolarmente, è evidente, che il mio essere per il mondo è ciò che costituisce il mio essere nel mondo. Dico circolarmente, perché veramente, il mio vissuto, la mia storia, che si dispiega nella concretezza della vita carmelitano-missionaria, mi “costruisce” nella profondità del mio essere cristiano: Dio, agisce sempre nella storia, per questo ne è il Signore!

Non c’è un prima o un dopo (umano, cristiano, carmelitano, missionario, ecc.) se non nel crescere storicamente in questa consapevolezza. Al crescere (o decrescere) di una dimensione crescono (o decrescono) necessariamente tutte le altre: l’uomo è uno!

Ora è proprio qui il problema: la “crisi” della fede
[1] porta di fatto a una “crisi” della missione e viceversa.
A poco serviranno gli sforzi per (ri)dare slancio alla missione se nello stesso tempo non si ha il coraggio di ammettere che occorre (ri)dare slancio alla propria fede. Insomma per rispondere alla domanda “perché e come essere missionari oggi” occorre rispondere alla domanda “perché e come credere oggi” (che equivale a risponde alla domanda di “come e perché essere carmelitani oggi”).

E quando si parla di fede, necessariamente il discorso cade là dove essa è storicamente iniziata, nella mia vita, nella vita dei miei “compagni di cammino” di oggi e di ieri. Per vedere se strada facendo, qualche cosa di essenziale è stato trascurato, dimenticato, sviato, mal interpretato, ecc., e che “mi impedisce”, per così dire, di continuare il cammino verso “il futuro” che Dio pone dinnanzi a me. Scrivevo infatti la volta scorsa che la memoria del cristiano, non è una memoria che continuamente è orientata al passato, in quanto questo sarebbe un “ritorno al passato”, che mi renderebbe prigioniero di una storia “idealizzata” e quindi una fuga nell’immaginario e per questo idolatria. La memoria del cristiano, dicevo, è una “memoria del futuro”: è una memoria in perenne ricordo della promessa di Dio.

Occorre forse aver percorso certe strade in automobile per capire, plasticamente quello che sto dicendo: spesse volte in Africa la strada “sparisce” o diventa impercorribile. Occorre allora fermarsi, studiare il terreno, la cartina, per vedere come continuare. Avanzare sembra impossibile, ma tornare indietro non si può perché c’è qualcuno che ti aspetta là dove devi andare e ha bisogno della tua presenza. Si sonda il terreno a piedi, si cercano le tracce di coloro che ci hanno preceduto. Se sono troppo grosse, perché ci è passato un camion, rischi di sprofondare in buche ancor più profonde per la tua macchina, devi cercare, qualcosa che sia alla tua portata o usare bastoni o sassi per rendere la buca meno profonda. Il desiderio di arrivare ti ossessiona. L’immagine della meta ti guida e l’idea di rinunciare neanche ti sfiora. Provi, riprovi, ritenti, ti arrabbi e ti sporchi, cadi e ti rialzi, ma non molli, perché sai che non c’è alternativa che valga la pena di essere percorsa…
E quando finalmente riesci a passare oltre, le grida di gioia tue e dei passeggeri trasformano in festa lo scampato pericolo. La fatica è dimenticata per le energie decuplicate dal ritrovato cammino.

Provate a percorrere la strada che collega il Camerun con il Centrafrica e poi mi direte…

Ecco, cercare le tracce di coloro che sono davanti a noi, perché ci hanno preceduto alla meta, non ha niente a che fare con l’archeologia del passato o ritorno all’indietro, anzi! Sarebbe un tornare là da dove anche loro sono partiti, mentre noi dobbiamo percorre una strada verso là dove loro sono già arrivati! Ed eventualmente, non fare gli stessi errori qualora ce ne fossero stati. Se dobbiamo (ri)studiare il cammino percorso, da loro e da noi, questo va fatto solo in questo senso, con questo scopo, non certo per fare rivivere un passato, che perché passato mai più ritornerà, ma per capire meglio quale è il cammino da percorrere: la direzione da prendere e come affrontarlo…

Credo sia proprio questo che l’autore della Lettera agli Ebrei ci invita a vivere quando spinge ciascuno di noi a dimostrare “il medesimo zelo perché la sua
[2] speranza abbia compimento sino alla fine, e perché non diventiate pigri, ma piuttosto imitatori di coloro che con la fede e la perseveranza divengono eredi delle promesse” (Eb. 6,11-12). Oppure passi analoghi come quello di san Giacomo: “Prendete, o fratelli, a modello di sopportazione e di pazienza[3] i profeti che parlano nel nome del Signore” (Gc. 5,10).

Questo ci domanda necessariamente di ripercorrere le tappe del cammino storico dell’intervento di Dio nella “propria storia”, inserito (se è lo stesso Dio!), nel cammino della fede di coloro che stanno vivendo oggi la stessa esperienza di Dio. È un “lavoro” alle “radici della fede” perché queste possano meglio portare linfa all’oggi della mia vita, e rendermi capace di aprirmi sempre di più alla promessa di Dio che si fa presente nella storia dell’uomo di oggi.
E questo è un “lavoro” fatto nello Spirito Santo certo (cfr Romani 8,1ss) ma anche un lavoro fatto con tutta la mia intelligenza perché questo vuol dire essere uomini maturi nella fede cioè veramente sapienti. A questa “intelligenza” ci invitano anche tutti gli Apostoli (cfr 1Cor 14,20
[4]; 2Pt 3,1[f]; Ap 13,18[g]…).

Infatti, si sente spesso parlare di intelligenza “illuminata”, “purificata” dalla fede, ma si dimentica spesso che questo è solo un lato della medaglia, non meno urgente è oggi una fede che sappia lasciarsi “illuminare e purificare” dall’intelligenza!… Una fede che non ha paura di mettersi in discussione, è una fede che ha voglia di crescere, di camminare verso il “compimento della promessa”, per sé e per coloro che il Padre gli affida
[h].
Il non farlo è segno che a questa promessa non si crede veramente più.

E allora ciò ci obbliga a porci la domanda sulle “ragioni” del “viaggio”, perché forse a furia di camminare ci siamo dimenticati del perché siamo partiti, ci siamo dimenticati verso dove camminare, ci siamo scordati “la meta”!

È questo, con umiltà e coraggio, che vorremmo iniziare a fare nel prossimo numero…
A presto!

[1] Anche qui, quando dico fede (o speranza o carità) intendo sempre fede-speranza-carità, così come quando dico, più sotto, credere (o sperare o amare) intendo sempre credere-sperare-amare, in quanto mancando un aspetto dell’affidamento a Dio nel mio cammino storico, viene a mancare l’atto stesso dell’affidarsi a Dio.
[2] Di Dio!
[3] Attesa fiduciosa nel compimento certo della promessa: questa è la speranza!
[4] Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi; siate come bambini quanto a malizia, ma uomini maturi quanto ai giudizi.
[e] Il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l'intelligenza per conoscere il vero Dio.
[f] Questa, o carissimi, è gia la seconda lettera che vi scrivo, e in tutte e due cerco di ridestare con ammonimenti la vostra sana intelligenza.
[g] Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d'uomo. E tal cifra è seicentosessantasei.
[h] Prego che la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento, (Filippesi 1,9)

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