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venerdì 30 maggio 2008

Perché la casa non crolli nel nubifragio

Con la ripresa del tempo liturgico “ordinario” ritorniamo al Vangelo di Matteo, appena dopo il discorso della montagna (cap 5-6-7), dove Gesù ha esposto il manifesto del Regno di Dio. L’opposizione con il Regno dell’uomo (con il modo di ragionare e vivere usuale nel mondo di allora come oggi!) è inequivocabile. Il capovolgimento dei valori è radicale (avete inteso che fu detto… ma io vi dico!...). Alla fine del discorso programmatico Gesù stesso, come Mosè nel deserto, ci pone di fronte alla scelta tra le due vie o le due porte per entrare nella vita, perché non ci capiti di chiudere gli occhi di fronte al dramma della scelta: stretta è la porta e angusta è la via che conduce alla vita… e pochi sono quelli che la trovano ma dai frutti li riconoscerete (7, 14s).

...chiunque ascolta queste mie parole e le fa, è un uomo saggio, che costruisce la sua casa sulla roccia!
Gesù si rivolge ai credenti, al gruppo dei suoi discepoli che già lo seguono (Matteo scrive per i cristiani che già fanno parte della chiesa!). È a noi dunque che si propone questo criterio di giudizio dirimente sulla nostra fede. Non è Gesù che giudica e condanna, ma la vita stessa rivelerà chi fa della sua Parola il criterio di comportamento e il senso della propria esistenza… e chi invece, pur in una vita piena di atti e gesti religiosi, “stranamente” non viene “riconosciuto” dal Signore. Si può dunque esser molto religiosi e addirittura compiere gesti profetici prodigiosi, ma non avere una vera relazione con lui. Non si tratta della dolorosa incoerenza tra il dire e il fare che tutti ci portiamo dentro, nella faticosa ricerca di aderire a lui, ma si tratta di una questione molto più grave – certo la più demolitrice che un cristiano possa sentirsi dire dal Cristo stesso: non vi ho mai conosciuti! É il fallimento totale della vita cristiana, nell’angosciante sconcerto: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato?... cacciato demoni?... fatto miracoli nel tuo nome? La risposta è tragica: lontano da me, operatori di iniquità!
Ascoltare e fare: Ma cosa è successo? Si sono scissi i due elementi che costruiscono la vita umana: la conoscenza e la volontà, il pensiero e l’amore – ascoltare e fare! Entrare nel Regno, cioè imparare quaggiù sulla terra la vita vera (divina o eterna), non vuol dire ripetere gesti o parole o riti… e neanche opere prodigiose… che rimangono tutte al di qua della morte, ma vuol dire fare la volontà del Padre. Consegnargli la propria vita, perché non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici. Gesù infatti non vuole più servi (legati dalla re-ligione, appunto!), ma amici. E quale sia la volontà del Padre nella nostra storia ce lo ha insegnato la sua stessa Parola fatta carne come noi, in lui, Gesù di Nazareth, cioè nel suo vangelo, nei suoi gesti nel suoi sentimenti! L’unione di questi atteggiamenti vitali è il punto culminante della proposta evangelica. È un ritornello anche nel Vangelo di Giovanni: Se mi amate osserverete in miei comandamenti… chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama (14,15ss). Non c’è azione cristiana se non ispirata continuamente e ripetutamente alla contemplazione: cioè alla Parola da accogliere e capire, come Maria, per potere poi donarsi ad essa (avvenga a me secondo la tua parola! Lc 1,38). Altrimenti, nel giro di breve, il discepolo, travolto dalle vicende della storia, si impregna talmente di logica umana da non riconoscere più la parola di Dio, pur continuando a ripetere: Signore, Signore
pongo oggi davanti a voi una benedizione e una maledizione… è il nostro dramma umano e cristiano! Noi vogliamo la benedizione di Dio, e sappiamo che Dio non la ritira mai da noi: ci ha fatti per la vita e per la pienezza della gioia. Ma troppo spesso, con l’incoerenza delle nostre opere, invincibilmente “diciamo male”, ci male/diciamo, attribuendone a Dio la responsabilità. L’alleanza che Dio ci garantisce, esige che noi accogliamo la Parola non come legge da osservare, ma proposta d’amore che, come un fermento, deve impregnare rigenerare a nuova vita tutto il complesso della nostra persona (cuore, anima, mani, occhi… dice il Deuteronomio). Ma noi siamo refrattari all’amore di Dio, perché abbiamo paura che ci faccia morire… Perciò le Scritture sono il racconto delle infedeltà del popolo amato dal Signore. Non c'è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio: non c’è differenza tra uomini di una religione o dell’altra o … senza religione! Non è lì il criterio della salvezza…
La fatica del linguaggio. È arrivata al suo culmine negli ultimi decenni, in occidente, una tale trasformazione del linguaggio, della sensibilità, della qualità della vita umana, e insomma di tutto l’insieme del contesto culturale, che il linguaggio non riuscito a star dietro al cambiamento, e le etichette e i nomi con cui ci sono state trasmesse tante esperienze, processi vitali, dinamiche di vita e di fede rischiano di perdere di significato. Col pericolo di non di non riuscire più a consegnare alla generazione successiva l’esperienza del popolo cristiano. Il confronto diretto con la Parola è diventato insostituibile per capire e ricollocare i significati dentro le parole e agganciarli all’esistenza quotidiana. Il Vangelo parlo di persone religiose e tanto praticanti, da compiere opere eccezionali sotto l’etichetta “religiosa”, ma che sono del tutto “estranee” a Gesù! Allora cosa vuol dire la loro “religione”? Il Vangelo riferisce anche di persone non religiose, che addirittura ignorano il Signore e il suo vangelo, ma sono state fedeli a lui fino a conseguire la vita eterna, e allora vuol dire che c’è una qualità di vita, che sfugge all’ambito religioso, ma è essenziale per il rapporto con Lui (Signore, quando mai ti abbiamo visto…? ogni volta che avete fatto queste cose ad uno di questi piccoli l’avete fatto a me! cfr Mt 25,44s).
la salvezza si è manifestata indipendentemente dalla “legge”. Nella visione di Paolo “legge” è tutto ciò che proviene dall’uomo, è la cultura umana elaborata nei millenni, con le sue istituzioni, le religioni stesse, la civiltà intera… nel suo impasto di bene e di male. L’uomo nonostante questa ricchezza immensa, non è capace di salvarsi, di uscire radicalmente dal suo egocentrismo che lo paralizza nell’amore. I riti religiosi, da soli, chiudono e intristiscono ancor più l’uomo nel suo dramma di conoscere le sue catene e non potersene liberare e covano sempre la deriva farisaica di presumere di salvarsi con i soli mezzi umani. La conoscenze supreme filosofiche, religiose, morali non danno la forza della coerenza. Come dice Paolo: Noi riteniamo che l'uomo è giustificato per la fede senza le opere della legge. Per regalo, dunque! Per grazia! In genere si pensa che chi pratica la religione e compie le pratiche previste, sia per questo una persona spirituale, mentre chi non crede a tutto ciò (e magari neanche in Dio) non lo possa diventare. La differenza tra credenti e non credenti, secondo il vangelo passa invece per un’altra strada: l’arcana forza di Dio che è presente nel corso delle cose e negli avvenimenti della storia umana (Vat. II NA 2), che per il credente è la “forza” dello Spirito di Gesù, è molto più ricca delle creature e può suscitare in loro risorse e possibilità non ancora espresse. Ma occorre un atteggiamento profondo di accoglienza e di consegna di sé. Allora la forza vitale che attraversa e muove le nostre strutture umane (cuore e mente, mani e occhi… che anelano empatia, oblatività, tenerezza, misericordia…) le rende in qualche modo spalancate alla gratuità di cui l’uomo non è capace (è celeste, eterna). le impregna e rivivifica nell’esperienza di una dedizione che non proviene solo dall’uomo, è teologale. Lo chiamavamo “soprannaturale”, perché non riducibile alle nostre insufficienti risorse! Se lo si chiama “spirituale” non è per escluderne la componente psicosomatica, ma per riferimento al pro/motore, che è lo Spirito, la roccia che, anche se viene il nubifragio, che porta via ogni sostegno umano, continua a tenere in piedi la “sua” casa dentro di noi!

Vita psichica e vita spirituale

Per coloro che non crescono nell’interiorità spirituale, anche se compiono opere straordinarie, vale quella parola di Gesù risvolta a quanti avevano “profetato”, “cacciato demoni” e “compiuto miracoli nel suo nome”. Egli dice loro: “non vi ho mai conosciuti!...”. D’altra parte è possibile fare le cose più insignificanti, ma con atteggiamento tale che consente alla vita di espandersi, anche se non si fa riferimento a Cristo…
L’atteggiamento che consente il flusso di vita è l’apertura senza riserve : la fiducia nella vita e la disponibilità ad offrirla. Nella tradizione cristiana è chiamata fede o vita teologale: Non si tratta di restare passivi di fronte all’energia creatrice, ma bensì di farla fluire attivamente. La creatura non è semplicemente un recipiente riempito di sostanze diverse, l’energia che la alimenta diventa la sua stessa realtà. La forza creatrice, infatti, nella persona che l’accoglie, diventa pensiero decisione, attività, servizio, dono da offrire agli altri: Nella creatura sono possibili pensieri nuovi, e non solo quelli che derivano dal suo passato, perché la verità che la investe è più profonda delle sue idee; essa può avere forme di amore mai esercitate prima, perché il bene che alimenta il suo amore è molto più ricco del cuore umano; essa può giungere a qualità nuove di esistenza perché l’energia che l’attraversa e la costituisce vivente, contiene espressioni non ancora fiorite in forma umana.
La densità della vita perciò dipende dalla modalità con cui la si accoglie e dalla disponibilità che si ha di offrirla. Lo sviluppo della dimensione spirituale, quindi non è automatico e meccanico, frutto del tempo che passa e della semplice crescita biologica e psichica, bensì risulta da una particolare modalità di accoglienza della vita. È possibile perciò restare tutta l’esistenza centrati su se stessi, e sviluppare solo dinamiche psichiche, senza mai pervenire alla fioritura della dimensione spirituale.
Quando la persona assume invece un atteggiamento di accoglienza, sviluppa una dinamica nuova, acquista possibilità inedite e ciò che risulta ha qualità diverse. Usando una formula paolina si potrebbe dire che accogliendo e offrendo il dono della vita, l’uomo “psichico” diventa “spirituale” (cfr 1 Cor 2,14) e tutto ciò che egli compie si configura come “culto spirituale”, “sacrificio santo e gradito a Dio” (Rom 12,2), diventa cioè ambito di epifania divina.
Tutti coloro che vivono in questo modo, diventano “degni dell’altro mondo” ed essendo “figli della risurrezione” divengono “figli di Dio” (Lc 20,36). Quando operano, comunicano offerte di vita “guidati dallo Spirito” (Rom 8,14). In definitiva le nostre opere valgono solo in quanto mettono in moto dinamiche eterne, rivelano Dio e comunicano l’arcana forza della vita. Di conseguenza solo coloro che, centrati di fatto su Dio, operano nella lunghezza d’onda della sua azione, diffondono dinamiche spirituali , trasmettono doni eterni, fanno crescere figli di Dio e loro stessi lo diventano.
Chi invece, facendo opere di bene, resta centrato su se stesso e si considera principio dei doni che offre, necessariamente esige riconoscimenti dagli altri, introduce ricatti nascosti nella sua azione, e trasmette messaggi inquinanti. Anche la reazione suscitata in coloro che ne vengono beneficiati in parte dipende dal modo con cui il dono viene offerto. Se l’amore offerente non è gratuito la risposta suscitata non potrà esserlo che difficilmente. Lo potrà eventualmente diventare solo per influsso di altre persone o per ricchezza spirituale acquisita in altre circostanze.
La differenza quindi tra chi opera centrato su di sé e chi opera lasciandosi condurre dallo Spirito, si traduce in un tipo di relazione diversa, in una qualità nuova di amore che i cristiani hanno chiamato carità (in greco biblico : agàpe). Se invece l’amore verso i bisognosi è possessivo e interessato, non alimenta la loro dimensione spirituale e non risponde perciò alle loro esigenze integrali. Solo quando l’amore è creatore, oblativo, gratuito e universale come l’amore divino, può esercitarsi anche di fronte ai difetti delle persone e porvi confini. Allora è in grado di alimentare tutte le dimensioni della vita e conferisce un carattere trascendente alle opere compiute.
L’offerta della vita non può limitarsi agi aspetti transitori e precari dell’esistenza, ma deve raggiungere le dimensioni profonde delle persone, quelle dove si costruisce il loro destino eterno.

[Carlo Molari, vita psichica e vita spirituale, rocca - 15-12-2007 p 46]

giovedì 29 maggio 2008

Fede o opere della Legge?

Le letture che la Chiesa ci propone per questa nona domenica del tempo ordinario hanno tutte come tematica di fondo la questione del rapporto tra la fede e le opere della legge. A che cosa va data la priorità? Quale può “garantire” la buona riuscita della vita (cristiana)? In sostanza: cosa dobbiamo fare?
Apparentemente le letture paiono dare sottolineature diverse, per cui il libro del Deuteronomio profila una benedizione o una maledizione determinata dall’obbedienza o meno «ai comandi del Signore, vostro Dio»; la lettera ai Romani suggerisce invece che «Noi riteniamo che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge»; e il Vangelo di Matteo infine che «Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, sarà simile a un uomo stolto, che ha costruito la sua casa sulla sabbia».
E dunque? Forse, per tentare di dire una parola in proposito è utile provare a contestualizzare i vari testi, a sviscerarli nel loro senso più pieno e, magari, scoprire che quella che in apparenza era una divergenza, in realtà nasconde una prospettiva unitaria.
Innanzi tutto va fatta emergere l’impressione immediata che queste letture danno, in modo da valutare se effettivamente essa abbia una consonanza col testo o se non sia piuttosto il frutto di una nostra mentalità distorta, che ha poco di evangelico e molto invece dell’arcaica religiosità della paura di dio…
Mi spiego… Leggendo Dt 11,26-28 («Vedete, io pongo oggi davanti a voi benedizione e maledizione: la benedizione, se obbedirete ai comandi del Signore, vostro Dio, che oggi vi do; la maledizione, se non obbedirete ai comandi del Signore, vostro Dio») istantaneamente (ed istintivamente) a noi viene da fare press’a poco questo ragionamento: il Signore Dio ha posto dei comandi a cui bisogna ubbidire; se lo faremo ci arriverà da lui, come conseguenza, una benedizione; altrimenti una maledizione…
Allo stesso modo per la Lettera di Paolo, quando leggiamo «Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge», immediatamente ci viene da far riferimento a quell’atteggiamento molto devoto per il quale si ribadisce sempre che nessuno può considerarsi salvato, anche se è l’uomo più praticante dell’universo, perché questo non dipende certo dalle sue opere (che comunque – si dice – vanno fatte), ma dall’arbitrio di dio. È lui che comunque ha l’ultima parola e che giudicherà se nella “bilancia finale” il tutto sarà stato sufficiente.
E infine per il Vangelo, l’impressione suscitata da quel «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» è ancora una volta quella di pensare che è proprio legittimo prendersela con tutti quelli che hanno in bocca sempre “Signore, Signore”, ma poi non vengono ad aiutare in parrocchia, non sganciano l’offerta neanche a Natale, non partecipano alle nostre iniziative…
Ebbene, come anticipato, sono tutte letture distorcenti, nel senso che distorcono il testo per fargli dire quello che interessa a noi, in linea ovviamente con l’idea di dio che abbiamo in testa. Questo infatti è l’escamotage per mostrare la falsità di queste letture: fanno emergere un volto di Dio che non è quello che ci ha rivelato Gesù!
Dalle nostre letture immediate infatti emerge un dio pronto a maledire, quanto a benedire, a fare la somma finale dei meriti e dei demeriti, delle opere e delle devozioni; un dio di fronte al quale l’uomo deve strisciare come un verme, sperando in una salvezza, che dipende solo da un suo capriccio; un dio che non ascolta chi lo chiama “Signore, Signore”, se prima non si è capaci di presentargli l’attestato di buona condotta…
Questo tentativo di ricondurre le nostre impressioni nella lettura del testo biblico all’immagine di Dio che ne emerge e, soprattutto, alla sua consonanza col Dio di Gesù Cristo, è un dispositivo serio per verificare che Dio abbiamo in testa… se è Lui… o se siamo noi…
Scartate dunque, proprio per la loro estraneità al Padre che ci ha mostrato Gesù, le letture fatte finora, proviamo a riprendere in mano i testi, tenendoci in una consonanza più prossima con la teologia del NT, appunto con quell’idea di Dio che l’intero testo biblico e in particolare il NT fanno emergere.
Innanzi tutto per quanto riguarda Deuteronomio 11,26-28, è necessario far un cambio di mentalità (letteralmente una conversione, cum vertere) e pensare che non siamo di fronte a un dio che indifferentemente scaglia benedizioni o maledizioni, neanche in seguito a un calcolo dei meriti e dei demeriti; bensì di fronte alla saggezza di chi sta guidando un popolo e che paternamente pare dire: questa è la via della vita, questa invece, se la intraprenderete, vi porterà alla morte. Scegliete liberamente, ma sappiate cosa c’è in fondo al percorso. Non un castigo o un premio inflitto da dio, ma la fioritura o la distruzione di voi stessi, in base a cosa sceglierete (nel particolare, se fondare la vita sul niente – gli idoli – o su Dio – colui che vuole che l’uomo sia).
Allo stesso modo in Paolo va rilevata l’esplosione della creatività dello Spirito (non le solite cose che si sentono sempre e che non con-vincono nessuno): egli infatti rompe quello che era un luogo comune classico (anche cristiano) per cui «Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere» (Rm 2,6); «Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene che in male» (2Cor 5,10); tant'è che Giacomo dice (2,14): «Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? […] La fede: se non ha le opere, è morta in se stessa». Paolo invece dice proprio il contrario: «Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge»!
Bisogna che troviamo un’intelligenza di questa divergenza. Certo non la soluzione che davamo prima: Paolo è proprio tutto il contrario del “devotone” che starebbe qui sottolineando, al di là delle opere, il primato dell’arbitrio divino! Qui Paolo sta dicendo tutt’altro, e cioè che non c’è nessuna pratica religiosa che può sostituire l’affidamento al Padre, il credito all’annuncio lieto del Vangelo, la relazione personalissima tra lo spirito dell’uomo e lo Spirito di Dio. È questo rapporto che deve mostrarsi come il senso della legge (e non viceversa!): a costo di relativizzare la legge! Se infatti l’obbedienza alla legge diventa – a torto o a ragione – un ostacolo all’accoglimento fiducioso di questa relazione, essa va trasgredita! E infatti Paolo litigherà con Pietro per affermare la non necessità per un cristiano della circoncisione; dichiarerà addirittura, sulla questione se mangiare o meno la carne sacrificata agli idoli: «Tutto è lecito!» (1Cor 10,23), e via discorrendo…
Si inizia già, credo, a intravedere quali saranno le conseguenze del nostro ragionare e le risposte alle domande che abbiamo posto all’inizio… ma non prima di prendere in mano anche il vangelo.
Matteo fa dire a Gesù: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. […] Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia. […] Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, sarà simile a un uomo stolto, che ha costruito la sua casa sulla sabbia».
La prima cosa da ricordare è di evitare di identificare immediatamente «regno dei cieli» con “paradiso”. Qui infatti Gesù non sta parlando del post mortem, ma del mondo dei vivi! Il problema infatti è quello della consistenza della vita (che pur non essendo slegato da quello sul post mortem, non può esservi ridotto). Ed è interessante che anche le immagini usate da Gesù facciano riferimento alla consistenza, alla solidità, alla saldezza. Il punto cruciale infatti è: cosa è fondante? Cosa dà consistenza alla vita? Cosa la determina come buona?
Il punto di vista del Vangelo non è quello per cui il problema sarebbe il dire “Signore, Signore” (quasi che il Signore volesse solo una banda di faticatori indefessi, di recitatori di rosari ad libitum, o simili), ma il fatto che quel “Signore, Signore” sia solo flatus vocis, pura inconsistenza, suono vuoto: questo è il problema! Lo stesso che è in gioco in tutte le nostre letture: la consistenza della relazione, del rapporto al Signore.
È questo il discriminante fondamentale: è a partire da esso infatti che possiamo anche dare un giudizio sulle opere e sulle parole. Come non ha senso infatti un “Signore, Signore” effimero, di convenienza, scialbo, allo stesso modo non c’è opera che possa sostituire la centralità del nostro riferirci al Signore: se non c’è Lui nel nostro cuore, quello che facciamo “per Lui” è falso, meschino, interessato.
In entrambi i casi “fede” e “opere” sono svuotate della loro consistenza perché l’una diventa semplice dichiarazione non impegnativa, non coinvolgente il nucleo centrale di noi stessi (come il primo figlio della parabola di Mt 21,28-31: «Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, va' oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò») e le altre si riducono a mera precettistica, senza la minima incidenza sulla vita («Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei: […] Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange; amano posti d'onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare "rabbì" dalla gente. […] Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all'esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume», Mt 23,2.5-7.27).
Che risposta dare allora alle nostre domande iniziali (A che cosa va data la priorità, alla fede o alle opere della legge? Cosa può “garantire” la buona riuscita della vita (cristiana)? In sostanza: cosa dobbiamo fare?)?
Il rapporto corretto tra la fede e le opere è quello in cui entrambe sono considerate nel loro senso forte: la fede come il decidersi della nostra libertà perché il Dio di Gesù Cristo sia il Signore della nostra vita; e le opere come implicazione necessaria nell’amore che sgorga da questa relazione, come una mamma che accudisce suo figlio perché lo ama e non perché la legge la obbliga fino al compimento del diciottesimo anno d’età!

venerdì 23 maggio 2008

Chi mangia di me vivrà per me

Io darò la mia carne per la vita del mondo
La domenica del “Corpo del Signore” chiude simbolicamente le “feste” pasquali del Dio della nostra salvezza, perché il dono dello Spirito della Pentecoste, che ci ha rivelato il misterioso abbraccio Trinitario in cui viviamo, ci lascia in dono questo cibo essenziale alla “sopravvivenza”, nel cammino difficile della storia in cui noi ancora viviamo, dopo che Gesù ci ha lasciato ‑ prima che ritorni.
Giovanni non racconta l’istituzione dell’Eucaristia, già ampiamente spiegata negli altri testi dei vangeli e di Paolo, che giravano nelle prime comunità cristiane. Al suo posto mette la lavanda dei piedi, come gesto in cui condensa il senso dell’esistenza di Gesù e questo lungo capitolo 6°, nel quale il Maestro stesso spiega “l’eucaristia” (come noi diremmo). In questo serrata discussione con i giudei, ove la provocazione è evidente, per smuovere l’attenzione dei discepoli e di quelli che sono disposti ad ascoltarlo, fino ad oggi, Gesù non espone una proposta religiosa, una formula di preghiera o un rito simbolico riservato ai discepoli privilegiati – ma il senso e la salvezza del mondo intero. Non usa il termine “corpo”, come negli altri testi eucaristici del N. T., ma ‘carne e sangue’, ad indicare ancora più crudamente la dimensione fisica, biologica, corruttibile e precaria dell’ “animale” umano trafitto, che deve essere assolutamente “mangiato”! Il riferimento all’agnello pasquale richiama il retroterra simbolico antico dell’avventura fondante per Israele: la liberazione dalla schiavitù egiziana e l’errabonda parabola del deserto… allargata oramai alla salvezza dell’umanità intera. Solo attraverso e dentro questa umanità di carne donata e mangiata “scandalosamente” si apre la possibilità della salvezza eterna (cioè totale, storica, presente tra noi quaggiù ‑ e futura, che duri per sempre!). Con una ripetizione martellante dei termini “mangiare/bere carne/sangue e vita vera/eterna, si stringe un legame fisico tra di loro tanto indissolubile che esclude ogni possibilità di interpretazione psicologica o spirituale o sentimentale.
In una storia assetata senz’acqua, … c’è un segreto nel cuore dell’uomo
Nella terra arida, luogo di serpenti velenosi e scorpioni… è capitato il miracolo che indica presente la tenerezza di Dio che accudisce il suo popolo oppresso e disperato. Dalla roccia durissima è scaturita l’acqua, e in un deserto grande e spaventoso è arrivata la manna sconosciuta alle generazioni precedenti… Senza chiudere gli occhi sulla sofferenza e sul dolore, la sete e la fame, il lamento e la ribellione che segnano di lacrime e sangue la storia del popolo e dell’umanità tutta, la lettura che ostinatamente Israele si propone della propria vicenda storica è sempre aperta alla speranza: “ricordati!”... Tutto il cammino che il Signore ci fa fare nel deserto della vita ha questo scopo: perché si sveli a noi stessi “cosa abbiamo in cuore”. Non è per umiliarci o farci soffrire che instancabilmente Dio si occupa dell’uomo, nonostante la durezza della sua “cervice”. Ma lo accompagna per fargli scoprire il segreto per divenire “umani”, cioè per superare la soglia dell’animalità della carne che vuole sopravvivere ad ogni costo ed incattivisce perché non lo può! È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita (63).
Non di solo pane vive l’uomo… ma di ogni Parola che esce dalla bocca di Dio.
La Parola che si rivolge ad un volto” per farlo rispecchiare in sé , per farlo crescere in ciò che lui ha già nel cuore, è l’unica risposta adeguata all’anelito insopprimibile di libertà e amore che c’è nel cuore dell’uomo. Dunque, solo la “parola” di Colui che l’ha creato a propria immagine e somiglianza, lo può liberare. Ogni altro legame è costituzionalmente “servile”, al di là delle buone intenzioni, delle dipendenze educative, delle regressioni insuperabili … Tutto l’alveo delle relazioni nelle quali siamo intessuti fin dal ventre della madre, che modella la nostra vita affettiva, economica, politica (e ci fa uomini) è intossicato dai serpenti avvelenati e dagli scorpioni, dai quali già i nostri padri sono stati contagiati. Il suo motore è la competizione drammatica per la vita, che oppone carne a carne, in una guerra all’ultimo sangue, ove il più forte sopravvive mangiandosi il più debole… mors tua, vita mea: la tua morte è la mia sopravvivenza!
Il rovesciamento eucaristico
Le religioni hanno tentato di assumere e trasfigurare questa dinamica tendenzialmente omicida nel rito del “sacrificio”, per cui si offre a Dio quanto si ha di più caro e prezioso per sé e per il proprio futuro (sostentamento e prosecuzione della vita… come i primogeniti, le vergini… e poi, in sostituzione, gli animali…), come capri espiatori! Ma proprio perché ancora piccoli e indifesi… sono le vittime scelte dal potere sacro del sacerdote. La proposta di Gesù è tanto eversiva che genera continui fraintendimenti negli ascoltatori… ma soprattutto è tanto radicale e coinvolgente che provoca repulsione e rifiuto. Eppure questo è il centro di fuoco del messaggio e della vita di Gesù. Il senso della sua esistenza e la sua dinamica esplosiva di salvezza. Il sacerdote e la vittima in lui si identificano, eliminando ogni violenza sull’altro: solo sé stessi si può offrire in sacrificio! solo di sé si può dare da mangiare la carne e da bere il sangue. Non facendo deliberatamente del male a sé stessi, ma assorbendo su di sé il male del mondo, opponendosi al suo potere oppressivo e menzognero, per fermarne il contagio. Questo è l’unico modo non violento che ci è possibile. A partire da Gesù, il dono della propria vita per nutrire gli altri, diventa il cuore del cristianesimo: il “servizio” di amore che ci ha donato per contagiarne il mondo: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me.
Questa è l’arma segreta invincibile e necessaria: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Nel buio della nostra storia anonima, lenta e faticosa, è questo l’estremo rimedio ‑ decisivo per vincere la competizione, la contesa, la sopraffazione che avvelenano la vita degli uomini, con la connivenza di ogni potere ‑ religioso compreso. Ogni autorità o potere o interesse, infatti, che non accettasse logica, vuol dire che è disposto ad autodistruggersi, perché crede più nella forza inerme dell’amore che nella forza armata del potere. Ma è l’unica strada per fare di tutta l’umanità un solo corpo, come dice Paolo.
Questo linguaggio è duro!
…infatti questa è la versione eucaristica del nocciolo duro del messaggio evangelico: Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà (Lc 17,33). L’unico punto su cui Gesù non può cedere e si gioca l’abbandono dei discepoli stessi: volete andarvene anche voi? È ancora Pietro che ci offre l’uscita che mette insieme la debolezza tonta che ci accumuna a tutti, con la consapevolezza di sapersi chiamati per grazia: Da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna!

Una mamma eucaristica

Tanti preti, ieri, attorno all’altare
a fare eucaristia,
con tanta gente davanti, nei banchi.
E, in mezzo, nella bara,
ultima dimora
del suo vecchio dolce corpo stanco,
la mamma!

La mamma … di noi dieci figli.
Ad ogni bimbo che veniva alla luce,
dieci volte ha detto:
questo è il mio corpo, questo è il mio sangue!

Come ogni donna
dell’infinita processione di mamme,
che hanno concepito, nutrito, accudito
l’umanità nei millenni.
Originali madri dei viventi:
non solo la carne e il sangue,
trasmettono di generazione in generazione,
ma un “vuoto” del cuore
che ci fa umani,
a cui loro insegnano la parola,
mentre lo crescono
…e non basterà la vita per poterlo colmare,
…e imparare a rispondergli.

Una donna
ha raccolto l’esperienza materna
delle sue sorelle passate e future
di ogni tribù lingua e nazione
ed ha detto anche lei:
ecco il mio corpo, ecco il mio sangue!
e lo Spirito dentro di lei ha intrecciato la carne e la Parola,
ne ha fatto la carne di Dio.

e Gesù ha imparato,
stampato nel suo corpo,
il sacramento che ci salva.

giovedì 22 maggio 2008

Santissimo corpo e sangue di Cristo: la dedizione di Dio

«Nell’atto di dare vita risplende sempre immediatamente il fondamento: nel generare e nel nutrire, nel far vedere cose belle e nel far ascoltare notizie buone, nella cura e nella guarigione, nella risurrezione e nel perdono. […] Questa è la differenza: il fondamento come dominio, il fondamento come dedizione» (Sequeri).
Quella proposta dal teologo, è la medesima evidenza che i testi offerti dalla Chiesa per questa festa del Corpus Domini ribadiscono: il volto del Dio cristiano è, inequivocabilmente, dedizione!
Le letture infatti ci accompagnano in un percorso che da Mosè a Gesù, dal popolo ebraico alla Chiesa, dall’uomo di ieri all’uomo di oggi, ci mostra l’apparire di questa evidenza e la faticosa e magmatica storia con cui gli uomini l’hanno dipanata, riconosciuta come persuasiva, scelta come affidabile.
Infatti il capitolo 8 del libro del Deuteronomio, che andrebbe letto per intero, si colloca all’interno del discorso che Mosè, prima di morire, fa al popolo, che ormai sta per entrare nella Terra Promessa. Tutti i capitoli precedenti sono una sorta di riepilogo del cammino percorso fino a quel momento nel deserto; cammino da ricordare («Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto»), proprio perché luogo dell’apparire della dedizione di Dio, come suo univoco volto: «ti ha nutrito di manna. […] Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant'anni».
Eppure, per arrivare a questa evidenza, serve che si proceda con qualche passo intermedio, perché l’impalcatura del brano, con la sua sinuosa articolazione, ci chiede di evitare facili liofilizzazioni del suo messaggio e quindi, al contrario, di fare la fatica di percorrerlo. Infatti è solo “dal di dentro” della narrazione che, ciò che viene interpellata, è la nostra libertà (e non solo il nostro intelletto o il nostro “buon costume”); è solo da lì che il testo biblico (la parola di Dio!) chiama in causa il nostro deciderci-per! Qualsiasi altro approccio infatti, che non contempli il coinvolgersi vitale nella vicenda narrata, ha sempre in sé il rischio di ridurre la Sacra Scrittura a “manuale dei buoni consigli”.
E di fatti immediatamente ci accorgiamo che insieme alle parole inequivoche della cura, ce ne sono altre («Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant'anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che l'uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant'anni. Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te») di cui bisogna rendere ragione; di cui bisogna rendere ragione, tra l’altro, evitando di rimettere in discussione il fondamento come univocamente buono: dopo Gesù infatti non si possono più sfruttare argomentazioni del tipo «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?» (Gb 2,10), perché da Dio non viene il male, neanche per educarci! E quindi non si può più, dopo Gesù, leggere le frasi apparentemente problematiche della prima lettura («per umiliarti e metterti alla prova»; «ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame»; «come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te») come se Dio infliggesse “a freddo” umiliazioni, prove, stenti per un bene più grande! Ancora Sequeri, afferma: «Si tratta di togliere ogni ombra di dominio e di assoggettamento alla relazione che caratterizza Dio: neppure a fin di bene Dio esercita la propria potenza». E se invece, leggendo le espressioni che paiono rimandare a un infliggere il male all’uomo da parte di Dio, a noi viene il dubbio su Dio, sull’ambiguità del suo volto, dobbiamo ricordarci che quello lì che ci viene in mente non è dio! Forse ce lo hanno anche messo in testa così… ma non è Lui!
Come rendere allora ragione di queste frasi che paiono suonare male?
Anzitutto, mai de-contestualizzarle, sia culturalmente (sono espressioni linguistiche di un tempo storico ben determinato, così come di un luogo geografico e di società specifici), sia letterariamente (sono contenute nello svolgersi di un discorso, che ha le sue finalità, le sue ragioni, le sue regole stilistiche…). Questo, certo, non esaurisce la loro carica problematica, ma se non altro la colloca.
Serve comunque qualcosa di più per renderne ragione. E ciò che manca è infatti l’intelligenza del brano: ossia, cosa significano, nel loro contesto, l’umiliare, il mettere alla prova, il far provare la fame, il correggere?
Una chiave di lettura la si può trovare in tre punti particolari del testo, che ne segnano anche i passaggi fondamentali: «per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi»; «per farti capire che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che l'uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore»; e una volta entrato nella Terra Promessa, «guardati bene dal dimenticare il Signore tuo Dio così da non osservare i suoi comandi, le sue norme e le sue leggi che oggi ti do; […] il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da […] pensare: “La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze”».
L’intelligenza del racconto è cioè quella per cui il deserto, non tanto come luogo geografico, ma come luogo esistenziale dell’umiliazione, della prova, della fame, della necessità di revisione, ecc, è lo spazio dove l’uomo si ritrova messo in discussione. Questo deserto, che tutti nella vita sperimentiamo (ognuno il suo, personalissimo) è fenomenologicamente presente nell’esistenza umana, c’è, ce lo ritroviamo dentro; e il nostro testo non dà ragione del perché; parte anzi dal dato di fatto di trovarcisi in mezzo! La sua preoccupazione infatti è un’altra: quella di mostrare come questo ritrovarsi messi in discussione (dal dolore, dalla morte, dalla malattia, dalla sofferenza, dalla noia…) non debba diventare il luogo della messa in discussione di Dio. Il male che ci circonda, cioè, non deve arrivare a inficiare nel nostro cuore la relazione con quel Dio dal volto univocamente caratterizzato dalla tenerezza per l’uomo, dalla passione, dalla dedizione. Questo volto, che solo ci con-vince in un deciderci per Lui, non deve essere guardato con sospetto di fronte al male che sperimentiamo (“Se mi succede questa cosa, allora vuol dire che dio ce l’ha con me”; “Cosa ho fatto perché dio mi mandasse questa pena”…)!
Anzi, la prova è proprio il luogo del ri-professarlo affidabile, dalla nostra parte, solidale con noi nel dolore, nella fatica, nella morte del cuore. In questo senso il deserto mostra «quello che avevi nel cuore»: mostra infatti che faccia di Dio avevi conosciuto, se quella “doppia”, a cui attribuire il bene e il male dell’uomo, o quella univoca, del bene per l’uomo, che resta indiscussa anche di fronte alla realtà del male, perché essa non viene da Lui, ma è vivibile con Lui: «l'uomo non vive soltanto di pane, ma di quanto esce dalla bocca del Signore»! Il deserto perciò non solo non dev’essere il luogo della messa in discussione di Dio, ma anzi deve diventare lo spazio per riconoscerlo l’unico fondamento stabile, l’unico in cui l’uomo può trovare un accudimento convincente per la vita, nei suoi momenti oscuri e nei suoi momenti luminosi.
E di fatti il testo mostra anche il rovescio della medaglia: il tempo della prosperità! Anch’esso rivela che Dio hai in testa (in cuore): se quello che è comunque dalla parte dell’uomo, o se quello da ingraziarsi nel male e da dimenticare nel bene! Perché come scriveva santa Chiara a Ermentrude: «sopporta volentieri i mali avversi e i beni prosperi non ti esaltino: questi, infatti, richiedono la fede, e quelli la esigono».
In questo senso è interessante anche il fatto che nemmeno un certo pensare religioso è esente da questo meccanismo teologico perverso. Lo fa all’incontrario, ma ha lo stesso errore alla radice: quello di chi pare dire “Quando c’è qualcosa che non va nella mia vita è colpa mia, quando c’è qualcosa che va bene è merito di dio…”.
È la medesima prospettiva, anche se rovesciata, della problematica che mette in luce il nostro brano. Ma proprio perché ne è la visione reciproca ne importa anche il difetto: la doppiezza di dio, la sua ambiguità, il suo alternativamente far paura e ricompensare, infliggere e insegnare, mettere alla prova e premiare…
La prospettiva del Dio cristiano invece è radicalmente un'altra, nel senso che cambia fin nella radice questa impostazione, che Gesù stesso definitivamente taccia come improponibile!
Con Lui infatti l’evidenza dell’univocità della dedizione di Dio per l’uomo (da Dio ci viene solo il bene!) si fa definitiva: non solo Dio ci dà da mangiare, ma “ci si dà da mangiare”: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Questo capitolo 6 del Vangelo di Giovanni ha, a detta degli studiosi, il valore che nei sinottici hanno i racconti dell’Ultima cena, della quale infatti Giovanni non racconta l’istituzione dell’eucaristia, bensì la lavanda dei piedi. Siamo dunque in presenza di un testo eucaristico!
«Ecco questa è la differenza: il fondamento come dominio, il fondamento come dedizione. La differenza è affidata alla libertà. […] Dio è in attesa della decisione dell’uomo: quella cioè di assumersi la responsabilità della parte potenzialmente prevaricatrice che esiste in ogni atto di generazione, in ogni impresa della conoscenza, in ogni esercizio del desiderio, in ogni iniziativa della relazione che mira a stabilire un legame d’amore» (Sequeri). Questa è la vita eucaristica, evangelica, cristica: quella della «disponibilità all’esercizio della libertà a imitazione e somiglianza di Dio: che decide di sottrarre l’energia vitale dell’essere alla sua deriva verso il principio del dominio per convertirla all’indirizzo della dedizione».

venerdì 16 maggio 2008

Un Dio vicino, come non avremmo mai pensato!

… un Dio che cammina in mezzo a noi!
… a conclusione del lungo periodo pasquale, e, insieme, come cerniera con il tempo “ordinario” della liturgia cristiana, frutto della Pentecoste, sta questa festa della Trinità. Nome un po’ astruso (e non biblico) per indicare, per quel poco che possiamo dire o balbettare, che noi viviamo, nello spazio e nel tempo, dentro l’abbraccio di un amore unico e molteplice – trinunitario, appunto! del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo! Questi, sì, sono i nomi che la Parola del Nuovo Testamento ha preso dalle più intense esperienze di tenerezza umana, per esprimere l’intimità di Dio, manifestata in Cristo Gesù. Un amore che ci coinvolge in un dialogo multiplo di salvezza che gli orientali chiamano “economia” (in greco: amministrazione domestica) come ad indicarne la dinamica “famigliare” di salvezza entro la quale lo Spirito di Gesù ci trascina. L’Antico Patto non sapeva ancora di questa intima dinamica trinitaria di Dio, ma aveva acquisito nei secoli un senso profondo della libertà e pienezza di vita e di amore del Signore misericordioso e longanime, pieno di grazia e benignità, senza nessuna concessione magica, ma in un rapporto personale di libertà e di amore, che, nonostante la dura resistenza della nostra ostinazione ed ambiguità, vorrebbe diventare compagnia quotidiana: un Dio che cammina in mezzo a noi, perdona le nostre colpe e i nostri peccati e ci prende come “suoi”
Mosè… con le due tavole di pietra in mano!
… le prime tavole le aveva già spezzate, dalla rabbia e dall’angoscia per l’infedeltà del popolo, che non uscirà mai da questa contraddizione drammatica. Israele cerca un Dio che gli sia vicino e gli offra una legge (un’identità!) che lo “liberi” non tanto dalla schiavitù d’Egitto, ma dalla “perversità originaria” del suo cuore, ma poi nel deserto della vita quotidiana si costruisce un vitello d’oro da adorare. Poi, insoddisfatto, si pente e cerca sui monti “religiosi” l’incontro con il Dio che è sparito nella nube… È un evento fondante della storia di Israele, ove si delinea una triplice scansione della dinamica della fede. La legge è il primo approccio, il primo manifestarsi di Dio, ancora carnale, psicologico, culturale… ma assolutamente necessario per umanizzarsi e iniziare il cammino della consapevolezza umana e della coesione di una comunità, perché l’uomo ha la testa dura e ha bisogno di una traccia di comportamento, anche se rigida come le tavole di pietra. La legge però può soltanto introdurci, come un pedagogo, a prendere coscienza delle profondità irraggiungibili di Dio “dentro” l’uomo che lo cerca. Non risolve il problema più tragico che l’uomo ha, appunto, dentro di sé: l’anelito incolmabile di amore, di pace, di continuità che gli è stato seminato in cuore. La legge si scontra con il male, la debolezza, la malvagità di noi singoli e della società, … e si rivela tanto necessaria quanto sterile e inefficace, cioè inadeguata al suo obiettivo, perché non dà la forza di fare ciò che comanda. Ogni uomo, anche se spesso non sa dare un nome alla propria ansia insoddisfatta, ne fa l’esperienza in proprio e negli altri…
… allora il Signore scese nella nube, si fermò là, presso di lui e proclamò il nome del Signore!
Proprio attraverso le buone intenzioni della legge, si entra così nella nube oscura della vita, dove le certezze traballano e le speranze si annebbiano, dove siamo chiamati a rinunciare alle maschere. E la propria debolezza s’impone come irrimediabile. Dove l’esperienza di laici e monaci, asceti e gaudenti, atei e credenti, se cercano la verità, potrebbe farsi comune. Scoprendo che è illusoria ogni salvezza “fai da te”. Sia per i singoli, che per la comunità e per la chiesa stessa. Abbiamo pagato troppo caro le presunzioni ideologiche, politiche, affettive e religiose di salvare noi stessi e la gente che ci si affida, strumentalizzando più o meno ingenuamente il nome di Dio… e spacciando la legge o la morale per “grazia”! Allora tutto si è fatto incerto e oscuro. Non si sa bene più cosa sia la fede, ma da questa oscurità esistenziale, soltanto, può uscire … e come rinascere la “novità” della Parola nella nube (perché il Signore è nella nube!)… Come dono di una proposta “personale e libera” che ci chiama e ci rifà umile popolo di credenti, senza più presunzione di sapere niente più degli altri, ma piuttosto testimoni soltanto di quanto il Signore dice di sé stesso. Che diventa il cardine della nostra fede… : Il Signore passò davanti a lui proclamando: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di grazia e di fedeltà…”. Questa esperienza di ambiguità di ogni nostra ricerca religiosa e di riscoperta della Parola come fulcro incrollabile della nostra fede è lo specifico cristiano, come spiega un grande mistico, proprio perché è trinitario.
“Ma ora che la fede è fondata in Cristo e la legge evangelica è promulgata in quest’era di grazia, non c’è più motivo d’interrogare Dio come prima [nell’antico Testamento], perché ci parli o risponda come faceva allora. Avendoci, infatti, donato suo Figlio, che è l’unica sua Parola, egli non ha altra parola da darci. Ci ha detto tutto in una volta e una volta per sempre in questa sola Parola, e non ha altro dà aggiungere..Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi (Eb 1,1-2) … ora tace: non ha altro da dire, perché ciò che aveva detto in parte mediante i profeti, l’ha ora rivelato completamente nel suo Figlio, e ci ha donato così il tutto, che è suo figlio.( Giovanni d. 2S 22,2ss).
Dio ha tanto amato il mondo…
… la preghiera di Mosè (venga il Signore in mezzo a noi!) è stata esaudita in modo superiore ad ogni aspettativa, per quanto avvolto nel mistero, proprio con la presenza viva in mezzo a noi della sua “Parola”, nel silenzio di Dio! Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui.(Gv 14,22)- Lo stesso si dice dell’Eucarestia : ”Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per m (6,56) L’energia che si sprigiona dalla vittoria di Cristo sulla morte è tutta legata al dono dello Spirito, che personalizza per ognuno e per la chiesa il mistero pasquale : Quando verrà il Consolatore che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza;(15,26). Sono promesse ormai a noi accessibili, delle quali non si può pensare maggior intimità e immediatezza, ma sono avvolte nel silenzio, come il fermento nella pasta o il seme sottoterra... La tentazione nostra e della chiesa è di riempire di rumori questo silenzio, perche lo stile discreto e tacito dello Spirito non ci soddisfa … Il vangelo non è un esposizione dottrinale della verità di Dio, ma è il racconto dell’apparire ed entrare del Padre nella nostra vita umana, attraverso suo figlio. Nelle sue preghiere e nei suoi comportamenti, Gesù lascia intravedere il mistero intimo di Dio nel quale ci offre di coinvolgerci. La presenza di Dio in noi (il desiderio che fa impazzire l’umanità!) si realizza attraverso il dono dell’Amore (o Spirito) … dato a noi e a tutta l’umanità il giorno di Pentecoste. La Pasqua non avrebbe efficacia, senza la pentecoste. Non applicherebbe alla chiesa, nella storia, i frutti della redenzione. Il rischio della vita cristiana di perdere significato vuol dire che teologia, liturgia, pastorale non fanno “corpo” con “Dio/Amore” nella vita quotidiana del cristiano…e diventano dogma o culto o riti magici o dottrina, ma non conversione vitale ad un dialogo… che fermenta la vita.
… vivete in pace e il Dio dell'amore e della pace sarà con voi.
Paradossalmente Gesù, divenuto il Cristo, asceso alla destra del Padre, è sottratto alla nostra sensibilità e alla nostra brama di possesso non per assenza, ma per eccesso di presenza! È immerso in Dio, ma nel Dio che è “dimorante” dentro noi, come Padre! A noi tocca “disseppellirlo”, farlo emergere da dentro di noi. La sua forza ci è trasmessa in modo tacito e pacato, ”quotidiano”, attraverso il dono e il frutto dello Spirito che si fa testimone e consolatore all’anima, nell’alveo della comunità ecclesiale, dove l’interiorizzazione e il sostegno della Parola e dell’Eucaristia, suscitano l’adesione della fede e lo slancio dell’amore… Un criterio fondamentale di autenticità è la pace, il frutto dello Spirito che svelenisce il cuore dal male radicale della competizione… nella famiglia, nel lavoro, nella convivenza sociale, e lo riapre alla sfida instancabile dell’amore dialogico, che è il nucleo incandescente del nostro Dio. Se questo sale diventa scipito, con che altro l’umanità si salverà?

giovedì 15 maggio 2008

Santissima Trinità: l'affidabilità di Dio

Per introdurci nel nucleo di senso della festa che la Chiesa celebra in questa domenica, quella della Santissima Trinità, è fondamentale collocare nel suo contesto la prima lettura che la liturgia ci propone: i versetti che la compongono infatti (Es 34,4-6.8-9) sono l’ultima parte di una sezione ben più ampia (Es 32,1-34,35) che inizia con la fabbricazione del vitello d’oro.
Già questa annotazione fa intuire come il senso della collocazione di questo brano nella liturgia della parola della festa della Santissima Trinità, abbia il senso di spingere la riflessione sulla questione dell’identità di Dio: chi è il Dio vero? Chi è Dio?
E di fatti dire di Dio che è Trinità per i cristiani è dirne l’identità vera…
Ma procediamo con calma… soprattutto per evitare che gli echi estrinsecistici del parlare di Dio del catechismo ci fuorviino. La risposta corretta infatti è certamente che l’identità vera di Dio sia il suo essere uno e trino, ma al di là della formulazione dottrinale, il problema sta nel tentare di indagare cosa questo voglia dire.
L’incipit del brano di Esodo (32,1) mostra immediatamente il problema: «Il popolo, vedendo che Mosè tardava a scendere dalla montagna, si affollò intorno ad Aronne e gli disse: “Facci un dio che cammini alla nostra testa, perché a quel Mosè, l'uomo che ci ha fatti uscire dal paese d'Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto”».
Il monte su cui Mosè, a detta del popolo, si sta attardando è chiaramente il Sinai. Qui egli sta stringendo con Dio per il suo popolo l’alleanza, suggellata dal dono delle tavole della legge; infatti il versetto che immediatamente precede quello appena citato è il seguente: «Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio» (Es 31,18).
Dato il contesto, ciò che è desolatamente disarmante è questa assoluta nonchalance con la quale il popolo chiede esplicitamente ad Aronne di fargli un dio: fatti da mano d’uomo infatti sono solo gli idoli, i falsi dei, quelli che secondo il profeta Baruc 6,50 «sono una menzogna; […] non sono dèi, ma lavoro delle mani d'uomo, privi di ogni qualità divina» e che proprio per questo a detta del Salmo 114,5-7 «Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Hanno mani e non palpano, hanno piedi e non camminano; dalla gola non emettono suoni».
La situazione appare dunque paradossale: mentre Dio sta stringendo col suo popolo per mezzo di Mosè sul Sinai la loro alleanza, lo stesso popolo chiede di farsi un altro dio, un dio finto; il tutto, tra l’altro, non in una situazione di totale inesperienza di Dio, bensì a liberazione avvenuta, a mirabilia Dei già mostrati: ci ha fatti uscire dal paese d'Egitto!
Com’è possibile che il popolo sia arrivato a questo punto? Com’è possibile da un lato mettere in discussione Dio, il Dio conosciuto, il Dio con cui si ha già un rapporto, una storia, fatta di parole e segni, cura e protezione…? E com’è possibile dall’altro che su tutto questo prevalga la necessità di farsi un dio, un dio a misura di uomo, un dio che si può toccare, vedere, sul quale si possono cioè mettere le mani, sul quale si possono mettere gli occhi?
Stando alla Bibbia… dovremmo, dal nostro punto di vista, però, fare un po’ meno gli scandalizzati…
Già nelle sue prime pagine infatti essa ci rivela come questo sguardo ambiguo su Dio, questo metterlo in discussione, e insieme questa necessità di renderlo toccabile, visibile, contenibile, abbiano accompagnato l’uomo da sempre… anzi caratterizzano l’uomo di sempre… e dunque anche noi.
Gn 3 manifesta infatti che – come mostra in modo eccellente P.A.Sequeri ne Il timore di Dio, 53 - «il rapporto religioso con Dio si è inquinato, senza ragione e sin dall’inizio, tramite il credito che l’uomo ha concesso alla fantasia del serpente. E da allora ogni religione ne rimane inesorabilmente segnata, perché l’uomo viene alla luce in un mondo che ogni volta gli ripropone il sospetto al quale è sin troppo disposto a cedere: il sospetto cioè che il comandamento, invece che il simbolo della solidarietà di Dio, sia il segno di un’oscura prevaricazione».
Ecco l’arcaico sospetto su Dio che ci portiamo dentro, che ci “trasmettono” quando nasciamo e che in qualche modo rilanciamo quando moriamo: che il suo volto sia ambiguo, che da lui – come ogni religione ha sempre pensato del suo/suoi dio/dei – ci possa venire tanto il bene, quanto il male. E a partire da questa atavica paura ecco tutti i tentativi di ingraziarsi dio/gli dei: prima in modi decisamente più triviali (i sacrifici, anche umani), poi in modi sempre più raffinati, ma non certo meno depravati (le preghiere, i fioretti…). Ma non solo… oltre ai tentativi di propiziarsi il divino, il sospetto che da esso potesse venirci tanto il bene quanto il male, ha determinato un’altra rovinosa conseguenza: il fatto che il pensiero si scatenasse in elaboratissime teorie per salvaguardare comunque il rispetto della divinità: e così sono nate le dottrine per cui se da dio ti viene il male, lo fa per motivi pedagogici, per darti cioè un insegnamento morale, un’edificazione spirituale; oppure le dottrine per cui dio infligge il male, ma per un bene maggiore… e via discorrendo su questo canovaccio…
Che non sono altro che i tentativi a posteriori di difendere dio nelle sue implicazioni col male: dando però come presupposto appunto che col male egli sia immischiato… che è l’anti-Vangelo.
Il punto infatti è che come scrive ancora Sequeri «nella concretezza del rapporto instaurato con Dio non v’è alcuno spazio per l’ipotesi formulata dal serpente». È quello che dicevamo anche per il popolo: nella concretezza il rapporto che avevano instaurato con Dio aveva parlato solo di liberazione, protezione, cura… «Lo spazio dell’incredulità, sin dall’inizio, si apre nell’immaginazione: non nell’esperienza».
Eppure: «Una volta che è stato portato alla luce, questo sospetto non ci abbandona più. Ogni uomo, almeno una volta, sperimenta il sentimento della possibile ambiguità di Dio».
Questa incredulità “cronica” è una dinamica antropologica che stupisce perfino Gesù: «E si meravigliava della loro incredulità» (Mc 6,13). Anch’egli infatti sperimenta la crescente resistenza di fronte al suo annuncio, tant’è che diventa pretestuosa ogni cosa «persino la guarigione di un paralitico nel giorno sacro, o la restituzione di un amico morto all’affetto dei suoi cari».
«Ma la coscienza di Gesù appare folgorata dall’intenzione di attestare la verità di Dio sul principio di un’evidenza ‘entusiasmante’: prima di tutto e nonostante tutto, l’essenza della volontà di Dio è la cura per l’essere umano». Ecco la buona notizia di Gesù: che da Dio viene solo il bene per l’uomo! Che nessun uomo sulla faccia della terra deve inerpicarsi nell’avventura impossibile di salvarsi la vita («Chi di voi, per quanto si affanni, può aggiungere un'ora sola alla sua vita?», Lc 12,25), ma che essa è già amata, ben-voluta, salvata!
Non a caso infatti il Vangelo che la liturgia ci offre in questa festa, in cui siamo invitati in qualche modo a “sbirciare” nell’identità di Dio, proclama: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».
Ecco il nocciolo radicale dove dobbiamo porre la nostra conversione!
Per farlo però bisogna ancora rendere ragione di due questioni:
1- Se da Dio ci viene solo il bene, come va inteso il “castigo” raccontato in Gn 3, che è uno dei testi che abbiam preso come riferimento?
2- Perché è così importante non sbagliare l’identità di Dio? Addirittura porre qui la nostra conversione (piuttosto che sul sesso, sulla politica, sui soldi)?
1- è ancora Sequeri a venirci in soccorso: «Da molti indizi comprendiamo quale attaccamento alla propria creatura percorra come un filo incandescente e luminoso la reazione di Dio: […] l’uomo e la donna non muoiono. […] La maledizione invece è per il serpente: […] una clamorosa e appassionata riconferma della superiore dignità della donna e della stirpe di lei (Gn 3,15). [Infatti] Dopo aver sperimentato la differenza della verità di Dio e dell’immagine del serpente, l’uomo si sente vergognosamente solidale col serpente. Dio ristabilisce la differenza, ponendo inimicizia fra il serpente e la donna. E l’ultima parola rimane all’uomo: e alla vittoria della sua specie su quella del maligno. Così d’un sol tratto, Dio ripristina la differenza di sé e della sua immagine creata: rispetto alla fantasia del serpente a riguardo di entrambi. L’immagine di Dio rimane quella della dedizione. La natura dell’uomo quella della comunione. […] L’uomo può confondere Dio con il serpente, e cedere alla suggestione che lo inclina ad apprezzare l’invito all’incredulità come un atto di amicizia. Ma, anche quando ciò accade, Dio non confonde il serpente con l’uomo». Ecco il senso dei gesti di Dio riportati sul finale di Gn 3: l’inimicizia tra il serpente e la donna (la non confusione da parte di Dio del serpente con l’uomo), la fabbricazione delle tuniche di pelli per l’uomo e la donna (la dedizione di Dio per l’uomo), l’allontanamento dal giardino (la distanza tra Dio e immagine di lui che ne ha dato il serpente). Quanto ai dolori del parto, la fatica nel lavoro, ecc… sono «la percezione della incolmabile distanza che esiste fra la condizione limitata dell’uomo e la promessa iscritta nella creazione». L’uomo non è Dio! E tuttavia questo riconoscimento non è mortificante, ma vitale. L’uomo non è Dio, ma è uomo. E questa è la sua dignità. La sua personalissima destinazione!
2- Destinazione che può cogliere nella sua verità e trasparenza solo se colloca bene Dio: «è da ciò che l’uomo crede di Dio che dipendono il senso della vita e della morte sulla terra». Infatti l’uomo che dà credito all’ipotesi formulata dal serpente «impara la paura e coltiva l’istinto di proteggersi da Dio. […] La cosa non gli rende la vita più facile. Ma ogni volta gli offre anche pretesti per la propria voglia di prevaricazione». E non esiste peccato peggiore, dirà Gesù, chiamandolo il peccato contro lo Spirito santo; il peccato contro colui che conosce i segreti di Dio («Chi conosce i segreti dell'uomo se non lo spirito dell'uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio», 1Cor 2,11): infatti «chiunque insegna ai bambini a scandalizzarsi di Dio, farebbe meglio a legarsi una macina da mulino al collo e gettarsi in acqua. Il peccato contro lo Spirito, che impugna l’attendibilità del sentimento di Dio come padre, chiude ogni varco per la relazione che tiene in vita la speranza dell’uomo».
Ed ecco ritrovata la nostra Trinità, la verità dell’uno e trino Signore: la sua affidabilità, che sola abilità la nostra fraternità, perché solo una vita che non ha bisogno di salvarsi la pelle, può guardare all’altro non come ad un rivale, ma come ad un fratello!

venerdì 9 maggio 2008

Domenica di Pentecoste - 2008 (A)

L’effetto più significativo della bufera di Pentecoste sono queste “lingue”, come di fuoco, che si dividono e, posandosi su ogni discepolo, lo rendono capace di parlare altre “lingue”… in modo che ognuno ascolta l’altro nella ‘sua propria’ “lingua”. Il miracolo è questo circuito di significati della stessa parola (lingua di fuoco = lingua loro = lingua nostra!), nell’interazione tra identità e alterità che si com/ baciano e com/prendono, invece che tentare di elidersi a vicenda. Questa comunione delle diversità è il sigillo dello Spirito, come spiega S. Paolo – di quel medesimo unico Spirito che opera in ognuno distribuendo i suoi doni ad ognuno per il bene di tutti… É finita quella sorta di inarrestabile dispersione competitiva di Babele (Gn 11, 6). La diaspora cristiana è invece dilatazione dell’amore e della pace: Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi!
I vari passi della storia della salvezza si rivelano, a Pentecoste, come un lungo cammino di disinquinamento da questo male radicale di un progresso della civiltà sempre insanguinato dalla competizione disgregante e oppressiva: ove assumere la lingua e la moneta del vincitore è il segno che si è spersonalizzati comunque! non è pervertito soltanto il livello economico, politico, affettivo, ma anche quello religioso, di senso. Il SINAI è la più grande epifania di Dio, costitutiva dell’identità di Israele, ma riguarda direttamente Mosè soltanto, e in certo modo è inaccessibile al popolo. Un’identità scritta su tavole di pietra, etnica, competitiva con gli altri popoli, ai quali finiva per togliere il futuro (le terre, le donne, i bambini…). I PROFETI, una volta crollato il sogno di potenza, sperimentano l’ambiguità storica del regime e richiamano Israele all’interiorità, all’universalità, al diritto dei poveri e degli esclusi, al cambiamento del cuore sotto l’azione potente dello spirito di Dio…
PENTECOSTE vuol dire che il dramma della Babele umana (competizione, oppressione, ambiguità idolatrica dei valori proposti) non si affronta costituendo ancora un impossibile popolo ‘separato’ (sacro), ma suscitando nel mondo persone e comunità che sono ‘sante’ perché accolgono e sono infiammate dallo Spirito di Gesù, dilatandolo a tutti, nella ‘loro’ lingua…
1. Bisogna rinunciare all’immediatezza di Dio nella storia, alla cattura di Dio nella propria gabbia culturale… perché, in tanti modi, storicamente diversi, lo Spirito di Gesù è sempre una bufera incontenibile, che scombussola i cuori, le idee, le comunità, le chiese, le civiltà… mettendo comunione dove c’è separazione e oppressione.
2. La suprema rivelazione storica di Dio (culmine dell’incarnazione) è la Pasqua del venerdì santo: la “divinità” denudata e morta in croce - suprema umiliazione del Figlio di Dio e dell’uomo. “Proprio per questa obbedienza” Dio l’ha glorificato e ne ha fatto la cifra e la misura profetica di salvezza della storia. La possibilità di nuova vita per l’umanità rinchiusa nel cenacolo è la risurrezione, quando il crocifisso “vivente”, si fermò in mezzo a loro e disse: Pace a voi! Detto questo, mostrò loro le mani e il costato… e con questa luce negli occhi li mandò fino ai confini del mondo.
3. La storia degli uomini è l’unico luogo nel quale la presenza di Dio è a noi accessibile. Gesù ci ha predetto il nostro dramma: “adesso non potere sopportare il peso della Verità tutta intera”, che pure ci è promessa e donata. La “verità tutta intera” è lo scandalo e la pazzia che la croce sia la chiave della salvezza del mondo! soltanto lo Spirito può trasformare, rafforzare e consolare tanto il cuore degli uomini da riuscire a guidarli dalle sue mezze verità alla verità tutta intera, in un cammino doloroso e gioioso insieme: “Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia” (Gv 16,21). "L'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo che ci è stato dato", (Rm 5,5) per insegnarci a ripetere nella nostra carne ciò che è avvenuto in Lui… Nella vita di Cristo “lo Spirito” è la sua consegna totale al Padre per la salvezza del mondo: l’eterno è venuto a scorrere nel tempo – povero e precario del nostro vivere quotidiano… “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. (Gv 15,11).

Pentecoste nei giorni feriali

…I SEGNI dello Spirito nella Chiesa del N.T. sono spesso vistosi e manifesti (miracolosi) - come prima in Gesù: ma poi si “normalizzano”. Servivano dunque da “segnali indicatori” di ciò che “può avvenire” ancor oggi nel cuore dell’uomo e dell’umanità… e quindi come si deve imparare a credere e accettare la sfida dello Spirito in mezzo ai conflitti e tribolazioni della storia quotidiana grande e minuscola. Ancora oggi sono questi: la conversione del cuore (non nel battesimo, ma da grandi!), la pacificazione (nel perdono), la comunione delle lingue (nella diversità), il servizio dei poveri e dei malati (nell’amore reciproco, invece che nella competizione e nell’abbandono)… ‘Cacciare’ o allontanare i demoni e ‘non aver danno’ da serpenti e veleni, sono diventati rispettivamente l’aspetto positivo e negativo del camminare nella storia drammatica degli uomini senza esserne travolti né inquinati….
…il FRUTTO dello Spirito (il suo influsso nel cuore e nella comunità) è variamente descritto nel Nuovo Testamento, e dispiegato in Gal 5,22 nelle sue diverse espressioni affettive, intellettive e operative: amore, gioia, pace, longanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé… Si tratta di atteggiamenti (stranamente) tutti LAICI, cioè senza particolari caratteristiche religiose o sacrali o rituali. Accessibili, quindi, a piccoli e grandi, consacrati o semplici cristiani, credenti di diverse fedi o atei, uomini e donne, padroni e schiavi… Ripetutamente gli Apostoli, anch’essi duri a capire, si sono scontrati con questa misteriosa libertà anarchica che lo Spirito semina nel discepolo che lo accoglie, del quale poi odi la voce (vedi i segni e il frutto) ma non sai donde venga né dove vada (non sta dentro gli schemi prefissati).
… Si può dunque, nella vita feriale, camminare secondo lo Spirito, disinquinando la storia dal basso – cominciando dalle piccole cose accessibili agli uomini senza potere, che però sono assuefatti ai segreti del Regno. E imparando a lasciarsi abitare e guidare da Lui. Così cresce il germe divino che dimora in noi, negli appuntamenti silenziosi e nascosti della vita d’ogni giorno…ove lo Spirito stesso viene in aiuto alla nostra debolezza…
e intercede con insistenza per noi, con “aneliti senza rumore”.

QUANDO?:…
 quando dobbiamo fare tante piccole cose senza senso, come sorridere a qualcuno, mentre tutto ci amareggia o ribolle dentro
 quando lasciamo ad altri un minuscolo successo o affermazione, senza ritorsioni, per lasciarli crescere… in pace
 quando silenziosamente condividiamo la passione dei sofferenti e disperati della terra - seduti per terra con loro
 quando sperimentiamo il desiderio e insieme l’impossibilità di uscire dalle gabbie della carne e dall’egoismo - e confidiamo lo stesso che la liberazione è vicina e non ci sarà negata
 quando la fame di compagnia e tenerezza ci rode la carne - e la solitudine sembra l’unica assurda risposta
 quando facciamo i conti della nostra vita e vediamo un passivo incolmabile scavato nell’anima - e ci fidiamo che un Altro, inafferrabile, pareggerà
 quando stiamo dentro l’amara realtà quotidiana sino alla fine, sottomettendoci con fatica alla monotonia corrosiva di una vita che si svuota
 quando ci ostiniamo a pregare, sicuri di essere in ogni caso esauditi, anche se nessun segno ci perviene
 quando la caduta diventa l’estremo umano modo di camminare, che ci rimane - perché sempre di nuovo chiediamo di essere accolti, amati, sollevati
 quando affidiamo la domanda irrisolta e il desiderio inesaudito al mistero di grazia che tutto avvolge - dove Qualcuno, nel buio o nel disagio interiore, ci chiama con il nostro nome
 quando ci esercitiamo nei disappunti delle faccende quotidiane, per imparare a morire con serenità ed amore - vivendo, appunto, come vorremmo morire
 quando ci sono offerte scintille di gioia e compiutezza, e cerchiamo di condividerle …

DOVE?:…
 dove è nascosta la possibilità piccola, ma qualitativamente essenziale, della nostra libertà - di donarci
 dove incontriamo… il diverso – perché l’alterità è la casa dello Spirito, “dove si manifesta la verità ‘più’ intera e le cose future”
 dove siamo chiamati al coraggio di atteggiamenti nuovi… per “abbeverare di Spirito la nostra carne”, aprendola a gusti diversi, in vista della redenzione del nostro corpo
 dove è nascosta la mistica quotidiana, perché questa accoglienza dello Spirito … è l’unione con Dio, l’eterno che scorre nella nostra storia!
 dove si può gustare la sobria ebbrezza dello Spirito, di cui parlano i Padri e l’antica Liturgia: sobria, perché vissuta laicamente e sommessamente nella storia d’ogni giorno; ebbrezza, perché è una strana forza interiore, che vuole mandarci ‘fuori’… dagli angusti schemi mondani.

[…. su un testo di K Rahner…]

giovedì 8 maggio 2008

Pentecoste: lo Spirito di Dio si incontra con lo spirito dell'uomo

In questa domenica di Pentecoste (cinquantesimo giorno) i testi che la Chiesa ci propone nella liturgia fanno riferimento all’evento celebrato in questa festa: il dono dello Spirito santo.
Questi testi non vanno pensati come scritti “in presa diretta”, come se fossero un diario di bordo in cui gli apostoli riportavano i fatti contemporaneamente al loro accadere. Essi sono piuttosto il frutto di anni di riflessione che le prime comunità cristiane hanno messo in atto riguardo al “problema” della nuova situazione, creatasi dopo l’Ascensione di Gesù.
La questione era tenere insieme i dati complessi della realtà: da un lato il fatto che Gesù non fosse più presente in carne ed ossa e nemmeno nel modo post-pasquale delle apparizioni («egli fu assunto in cielo», At 1,2); dall’altro, il fatto che avesse promesso un secondo Consolatore («Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre», Gv 14,16) e che quindi non ci sarebbe stata una situazione di orfanità per l’uomo («Non vi lascerò orfani», Gv 14,18).
Ma come pensare questa nuova vicinanza segnata dai tratti della mancanza? Questa presenza immersa nell’assenza?
La svolta, narrata poi nei termini che conosciamo di «un vento che si abbatte impetuoso» e di «lingue come di fuoco» o nella forma giovannea di Gesù che «soffiò», è stata la graduale presa di coscienza della concretizzazione delle parole promettenti di Gesù: «Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire» (At 2,33).
È stata cioè la constatazione nella vita, nell’esperienza impastata di sangue e fango, di un’energia effettiva, da «vedere e udire»; è stato il ritrovarsi addosso questo Spirito e la sua potenza: «essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere d'esprimersi» (At 2,4), «Pietro, pieno di Spirito Santo, disse…» (At 4,8), «tutti furono pieni di Spirito Santo e annunziavano la parola di Dio con franchezza» (At 4,31), «Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà» (At 20,22); è stato lo scoprire che esso entrava in relazione potentemente col il loro nucleo più intimo, la sede delle loro decisioni: «Lo Spirito mi disse di andare con loro senza esitare» (At 11,12), «Essi dunque, inviati dallo Spirito Santo…» (At 13,4), «Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi…» (At 15,28), «avendo lo Spirito Santo vietato loro di predicare la parola nella provincia di Asia» (At 16,6); è stato infine, il percepire che questa era una forza dinamica, non statica, che circolava e si diffondeva: «non appena Paolo ebbe imposto loro le mani, scese su di loro lo Spirito Santo e parlavano in lingue e profetavano» (At 19,6).
È questa constatazione della presenza reale dello Spirito che abilita la riflessione dei primi cristiani e permette un suo disvelamento, una sua graduale conoscenza, una sua intelligenza e in questo modo anche un potersi rapportare ad esso.
Nel Nuovo Testamento sono tanti i modi in cui si parla dello Spirito, in cui si tenta di dirlo, o attraverso immagini, o proponendo i suoi effetti (per stare alla lettura di questa domenica: «Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue»), ma il modo che a me pare più chiaro è quello contenuto sempre nella 1 Lettera ai Corinzi, ma qualche capitolo prima, rispetto a quello della lettura proposta dal liturgista. In 1Cor 2,11 infatti Paolo dice: «Chi conosce i segreti dell'uomo se non lo spirito dell'uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio».
Mi pare una delle formulazioni più chiare perché accostando una realtà umana, una dinamica antropologica, a Dio, rende tutto immediatamente più comprensibile: come lo spirito dell’uomo (cioè il suo nucleo vitale, il suo essere di fronte a se stesso, la sua autocoscienza…) è l’unico a conoscerne l’intimità verace, l’interiorità autentica, così è lo Spirito di Dio per Dio; è l’intimo di Dio, la “pancia” di Dio… tant’è che per la teologia cattolica esso è identificato con l’amore che il Padre e il Figlio si scambiano e che in qualche modo trabocca e si dona all’uomo: «noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio» (At 2,12).
Ed esso è proprio quella realtà che i primi cristiani riscontravano presente!
Ecco dunque, man mano, come si è evoluta la riflessione sulla nuova situazione data dalla presenza di Dio nell’assenza di Gesù: il cielo squarciato non si è richiuso, l’uomo non è rimasto solo, il cuore di Dio non ha nuovamente nascosto i suoi segreti! Ma anzi nell’incontro tra Spirito di Dio e spirito dell’uomo è possibile proprio l’incontro tra l’intimità dell’uno e quella dell’altro, tra la loro verità, tra le loro libertà!

È strano come questo annuncio risuoni insignificante ai nostri giorni, spesso anche ai nostri cuori: che rilevanza ha infatti nella mia vita il fatto di poter “mischiare” il mio spirito con quello di Dio? Che poi è lo stesso che chiedersi: perché noi oggi non constatiamo per nulla questa presenza nuova di Dio nel mondo, che i discepoli dicevano di poter «vedere e udire»?
Forse il problema sta nel fatto che noi non abbiamo idea (l’abbiamo persa) di che cosa voglia dire “Dio” (di chi sia) e di che cosa voglia dire “io” (chi sono).
Sul primo versante (quello di Dio) siamo sempre più dispersi tra una sovrastruttura religiosa, determinata unicamente dal senso del dovere o dall’abitudine o dal pagano timore di una rivendicazione di dio a fronte di una nostra eventuale trasgressione, cioè tra una religiosità formale e che non tocca minimamente la nostra vita e un senso vago e misterioso del divino, con qualche simpatia per le incursioni orientaleggianti, le pratiche meditative, i benefici psicologici dell’immersione nell’infinito… del tutto dimentichi del fatto che la fede cristiana è quella di chi dice: «Gesù è Signore», cioè questa sua libertà storica è il Signore! E guarda caso proprio questo è ciò che lo Spirito (di Dio) urla in noi: «Fratelli, nessuno può dire: “Gesù è Signore!”, se non sotto l’azione dello Spirito Santo»; insieme all’altro grande sussulto che Egli ci fa fare: «Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre» (Gal 4,6).
È quello che, forzando un po’ i termini per farsi capire, diceva mons. Coletti ad un incontro: “Il cristiano non è chi crede in dio, ma chi crede in Gesù!”. E nel Dio di Gesù, che egli ci ha insegnato a chiamare “Papà”!
Allo stesso modo, oltre a chi è Dio, noi oggi rischiamo di dimenticare anche chi è l’uomo, chi sono io… di ritenere impossibile (e questo è il male, il male radicale!) esser-ci, essere Uomo su questa terra, avere orizzonti ampi, raggiungere quella che Etty Hillesum chiamava la sorgente dentro di sé: «Dentro di me c'è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c'è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta di pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo».
Ed è per questo, perché abbiamo perso di vista chi è Dio e chi è l’uomo, che l’incontro tra i loro spiriti ci appare così insignificante, estrinseco rispetto alla nostra vita… Questo incontro, che è la vita nello Spirito che ci si è spalancata a Pentecoste, oggi ci appare infatti lontano, legato a un passato inaccessibile, impossibile, quasi infantile; tanto che ci scappa detto: è troppo bello per essere vero… la vita, quella vera, è un’altra cosa e per quanto sia bello sognare, ad un certo punto bisogna tornare coi piedi per terra…
Ma come siamo arrivati a questo punto? A considerare il vangelo un racconto fantasioso, quasi favolistico?
Sicuramente la risposta sarà un aggrovigliamento di situazioni personali, sociali, filosofiche, culturali, ambientali… ma come non dire una parola sul percorso ecclesiale che c’ha portati qui?
E mi vengono alla mente le parole del prof. Sequeri, quando – commentando la Lettera ai Romani di Paolo – diceva: Il soggetto di Rm 7-8 è un credente che riconosce in sé la permanenza dell’uomo peccatore, che sta sotto la legge ed è chiamato a vigilare su di essa, e insieme esultante per la libertà a cui l’ha portato la fede in Gesù (la liberazione dalla legge! In questo senso è significativo anche il fatto che la Pentecoste ebraica era la festa per il dono della legge sul Sinai, mentre i cristiani hanno cristianizzato la festa, celebrando in quel giorno il superamento della religione della legge a favore dello Spirito!).
Continua Sequeri: Nella seconda parte della Lettera ai Romani è invece rappresentato il risvolto storico, pubblico, collettivo: è emblematicamente rappresentata la situazione di Israele, il suo essere popolo eletto. Israele – come i cristiani di Roma, eletti del nuovo popolo di Dio – ha iniziato dall’essere in quattro gatti, una manciata di beduini litigiosi persino tra loro e dispersi nel niente (deserto). Questi erano gli “eletti”. Il loro guaio è stato quando hanno incominciato a dimenticarsi di questi inizi. Erano stati avvertiti in molti modi (profeti) che la Legge era necessaria, ma non sufficiente all’alleanza. Senza lo Spirito dell’alleanza le stesse norme istituzionali si incancreniscono. Paolo in questo modo ammonisce i Romani, perché non ripercorrano l’errore di Israele di anchilosarsi su una religione di sito.
E lo fa, lasciando urlare il perno della rivelazione di Gesù, che è la critica alla religione. Senza questa critica infatti la rivelazione non ha modo di far percepire la sua singolarità, che è parlare di Dio
(dei segreti di Dio). La fede si purifica combattendo la religione e questa sua impressionante capacità di involuzione: che passa dall’incanto dell’elezione a pedante amministrazione!
Ma forse, le parole che Paolo diceva ai Romani, non sono bastate… Anche il Cristianesimo spesso lungo la storia ha preso la deriva religiosa, dimenticandosi della libertà dello Spirito… e spesso forse, anche a noi ha fatto comodo sistemarci dentro ad un apparato istituzionale rassicurante… e questo sempre perché la vita nello Spirito spaventa l’istituzione per la sua libertà e spaventa noi per la sua impegnativa radicalità…
Se solo dessimo credito all’esplosione di Vita dei primi passi della Chiesa e di tutti gli uomini e donne spirituali lungo la storia… e al fatto che è possibile anche per noi…

venerdì 2 maggio 2008

Per comprendere a quale speranza ci ha chiamati.

TESTI

Nel Vangelo, come ci dice Luca stesso, è già spiegato tutto quello che Gesù fece e insegnò nella vita terrena, “…fino a quando fu assunto in cielo…”. Ora, nel ‘diario’ di primi passi della comunità cristiana, l’evangelista racconta che Gesù, dopo la risurrezione, alla fine dei quaranta giorni durante i quali si è mostrato a tanti testimoni in diverse apparizioni ‑ ricorda ai discepoli l’imminenza della realizzazione della “promessa del Padre”, il dono dello Spirito Santo, di cui tutta la sua vita messianica è stata la preparazione e la rivelazione. Ma loro, privi ancora di questa pienezza dello Spirito, non hanno capito questo dono (la compiutezza del Regno del Padre), ma sono preoccupati piuttosto del realizzarsi dei loro progetti umani (il Regno per Israele!). Questo è il “fraintendimento originario”, nel quale la chiesa è nata e che si porta nei millenni come una ferita inquinante, che solo lo Spirito può incessantemente purificare. L’Ascensione – mentre lo guardavano fu innalzato e una nube lo sottrasse ai loro occhi! ‑ è la smentita di questo fraintendimento: Gesù Cristo Messia trionfante non è in mezzo a noi! Bisogna aprirsi nello Spirito a un nuovo rapporto con lui! Il fraintendimento è chiarito e sciolto alla radice, dalla parola di Gesù, “mentre era a tavola con essi”, con due consegne finali ai suoi: rimanere “assidui e concordi in preghiera…” nell’attesa dello Spirito, ‑ ed essere testimoni di lui fino ai confini della terra.
Quante tensioni sono condensate in questo linguaggio e in questi simboli! Che cercano di trasmetterci l’esperienza intensa e lacerante (alcuni dubitavano! Mt 24,16) che la prima comunità ha fatto del mistero che è condensato in questa partenza di Gesù, detta “ascensione”! Eppure questa speranza a cui ci ha chiamati, il dono che ci ha promesso (un’assenza che non abbandona, una orfanità consolata) è la condizione della nostra stessa vita di credenti in lui, che ci avvolge e impregna come Gesù stesso continua a ribadire – ormai non più a loro, ma a noi: “Ora io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore…” (Gv 16,7); “Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me… quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io.” (14,1ss). Questa doppia tensione dialettica è indivisibile: rimanere e partire, riunirsi a pregare per resistere nell’attesa dello Spirito e annunciare l’amore del Padre fino alle frontiere del mondo, guardare in cielo e dedicarsi alla terra… Da questa tensione è nata (anzi, è in nascita continua) la chiesa – il corpo mistico di Cristo rimasto in terra, collocata esistenzialmente nel “frattempo” che intercorre tra la sua partenza e il suo ritorno. Non è una difficoltà passeggera provocata dalla paura o dalla impreparazione dei discepoli alla dipartita di Gesù, ma è strutturale, interna al suo nuovo rapporto con noi. È la condizione storica della chiesa, proprio per la sua condizione di ospite e pellegrina in un mondo a cui non appartiene, ma insieme luce levata tra le nazioni, la cui salvezza è affidata alla sua testimonianza “di Lui”.
Il mistero del’Ascensione
Il continuo tentativo di tutto il Nuovo Testamento di spiegare il nuovo rapporto del credente e della chiesa con Gesù, ha la sua chiave ermeneutica fondamentale nel mistero dell’Ascensione. Gesù, il crocifisso risorto glorificato alla destra del Padre, presso il quale intercede per mandare a noi lo Spirito (Gv 14,15), proprio in questa sua nuova condizione ‑ per mezzo dello Spirito! ‑ è la sorgente da cui scaturisce la nostra fede, la luce che ci fa comprendere la nostra vita e nutre la nostra speranza in questo mondo ‑ e ci rigenera nell’amore, cioè nella capacità di osservare i suoi comandamenti e testimoniare al mondo il suo vangelo di salvezza, amandoci come lui ci ha amati. La tentazione è di rimanere in attesa del suo ritorno glorioso, rassegnati o tristi per le vicende dolorose e oscure della nostra vita e della storia (le nubi che oscurano il nostro sguardo fisso su di lui!). Finché ci stanchiamo di guardare all’inaccessibile luogo dove se ne è andato. E la tensione del suo ritorno rischia di trovarci smarriti … un angolo dell’attività frenetica del mondo, o aggressivi in concorrenza con il mondo, nell’attesa che arrivi il momento in cui il mondo capirà che abbiamo ragione noi! Mentre la condizione cristiana si apre qui alla sua verità storica , che è accogliere e aderire allo Spirito promesso, la cui venuta in noi è proprio il dono che ci fa capaci di imparare a “patire” l’assenza di Gesù, che ci “obbliga” a diventare testimoni di lui, – cioè a mantenere il contatto con la sua presenza “diversa”. Questo è il messaggio e il contenuto stesso del mistero dell’Ascensione.
… alcuni però dubitavano!
Perché è inevitabile (fa parte dell’avventura del credente!) che nell’adorazione, cioè nel totale riconoscimento della presenza divina in Gesù, s’insinui il dubbio, il timore, la riserva di una parte di sé che non riesce a consegnarsi … a questa assenza! E continua a domandarsi: Cosa gli è capitato? Dove è andato? Perché mai è bene per noi questa sua distanza da noi? Dunque ancor più è necessario capire cosa intendessero nella prima comunità dicendo: fu elevato e una nube lo sottrasse ai loro occhi! L’ascensione non è un distanziamento fisico, come quasi inevitabilmente si tende a immaginare, tant’è vero che si traduce: fu elevato in cielo… mentre il greco qui dice solo: fu elevato! – anche se poi il contesto stesso aggiungerà : in alto o in cielo! Ma vuol dire: “in Dio!” Non certamente in un altro luogo, pure iperuranico! Si può piuttosto immaginarlo, alla luce dell’esperienza che ci è narrata, questo “trasferimento” di Gesù in Dio, come l’immersione nell’oceano originario dell’essere, non tanto ontologico o metafisico, ma nell’ “essere per”, che è l’amore di Dio, da cui appunto era partito per venire a salvare noi: Dio ha tanto amato il mondo da mandare il Figlio… perché il mondo fosse salvo per mezzo di lui! Ecco dove è tornato – dove lo stesso amore che gli ha fatto donare la vita per noi, si esprime adesso mandandoci il secondo Consolatore. Il Verbo fatto carne nell’uomo Gesù lo porta con sé, ritorna in Dio, nel seno del Padre, con tutta la sua umanità integrale, carne della nostra carne, nel più intimo di Dio: una totale traslocazione al di sopra, o al di là o nel più profondo ‑ ogni simbolo o figura è inadeguata! ‑ ma certamente “al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa nominare, non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro”.
Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del tempo!
… una distanza dunque che se pur ci fa soffrire, temere e talora piangere e disperare, è intima a noi, perché Gesù non può smentire la sua promessa. Una distanza che paradossalmente si rivela insieme come intimità consolante. È nell’intimo del nostro essere, dove la benevolenza del Padre ci genera alla unica vita dell’essere e dell’amore, che occorre rientrare per prendere il contatto vitale con Gesù mentre è “trasferito” nel Padre. Perché lì Gesù è “ritornato” e abita come uomo / Dio. Ha trascinato e coinvolto nella sua “glorificazione” (inserimento nel cuore del Padre) tutto l’essere umano, tutto il nostro faticoso rapporto con la storia che ci conduce e ci travolge, tutta la realtà che noi diciamo terrestre, che l’ha nutrito e intriso nella sua vita terrena. Ma soprattutto la rete vitale dei rapporti umani che hanno intessuto e fatto crescere il suo vissuto umano conoscitivo e affettivo… i suoi amori e le sue piaghe, le sue fatiche e le sue gioie. “Tutto questo”, nato e cresciuto nell’avventura umana di Gesù nella persona del Verbo, è stato come raccolto, condensato e imploso nell’intimo di Dio… Ma “tutto questo” non è andato ad abitare chissà dove (cieli, super cieli, troni potestà… che nell’immaginario religioso erano il luogo degno di Dio), ma è andato ad abitare nel profondo del nostro cuore, perché non c’è altro luogo più degno nell’universo, più capace (pur nella sua miserrima fragilità!) di interloquire da amico con Dio, per il dono che il Padre stesso gli ha fatto di “essere per”… e di essere figlio, fratello di Gesù. Il quale ci ripete: “Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me… anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre. Qualunque cosa chiederete nel nome mio, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Dunque questo suo ritorno all’origine, che l’aveva lanciato nella sua avventura umana di manifestazione dell’amore di Dio nella storia, è il luogo da cui promana adesso la Forza, l’Energia consolante e trasformante per chi si affida a lui – si lascia impregnare dalla Parola, e con Gesù acquista la sua singolare capacità di riportare a pienezza tutto il creato e l’umanità intera : Tutto infatti ha sottomesso ai suoi piedi e lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa, la quale è il suo corpo… cioè, letteralmente:
…la pienezza di colui che si riempie di tutte le cose in tutti…
…una passione “umana” infuocata è entrata dentro Dio ed ha assunto la potenza di Dio. È un corpo umano tanto sprofondato e assorbito nella divinità che con essa può impregnare di tenerezza “umana” divinizzata ogni cosa e tracima invadendo tutto il mondo, l’universo, gli angeli e ogni essere che possa esistere, nel tempo e fuori del tempo, come Dio ‑ un Dio di carne trasfigurata, che sa cos’è lo spazio e il tempo e la materia, ma non lo limitano più. Ecco l’Ascensione! Per di qui quest’amore (lo Spirito!) trabocca e preme in noi per illuminare la comprensione e rianimare il cuore… la possibile nostra di partecipazione alla glorificazione di Gesù che è avvenuta nella risurrezione. Dunque il mistero dell’Ascensione (di Gesù immerso nel cuore del Padre) trasmette alla nostra faticosa ricerca di amore, di pace e di perdono la sua energia, il flusso vitale potente di cui sta riempiendo con la sua umanità trasfigurata l’universo, secondo l’esperienza che ci è narrata e che diventa preghiera per noi: “Il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui. Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti”.

giovedì 1 maggio 2008

Ascensione

La prima impressione leggendo i testi che la liturgia ci propone per questa festa dell’Ascensione del Signore, può, forse, essere quella di una sorta di asetticità, impersonalità, lontananza... Da un lato infatti Luca negli Atti fa come una sorta di ricapitolazione del fatto dell’ascensione (già raccontato per altro alla fine del suo vangelo), dando quasi l’impressione di aver di mira unicamente il raccordo tra il suo primo libro e il secondo. E di fatti il tono sembra quello di una semplice trascrizione del racconto, ormai oralmente raccontato chissà quante volte, e dunque fissato in un modello sistematizzato.
Dall’altro l’episodio evangelico (la finale di Matteo) ci rimanda: per un verso a formule ormai fissate dalla liturgia della prima chiesa («battezzando nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo»), che nelle nostre orecchie, riascoltate all’infinito, risuonano come anestetizzate, de-potenziate, ormai private della loro vitalità; e per l’altro mette in bocca a Gesù uno degli inviti forse più conosciuti dai cristiani di ogni tempo, ma mai come oggi così insignificanti: «Andate e fate discepoli tutti i popoli». Esso infatti fa comparire in tutti (esplicito o meno) un sorriso sarcastico: l’hanno già fatto... Nel giro di pochi decenni l’annuncio cristiano aveva percorso tutto il mondo conosciuto; addirittura l’impero, a distanza di pochissimi secoli, era cristiano... ma poi... alla lunga... non ha tenuto questo “essere andati”... e si è riandati, e ancora... e ancora... spesso facendo più danni che altro...
Per non parlare delle parole di Paolo... sempre così vibranti di passione... ma anche sempre così aeree per noi che né sappiamo storicamente e contestualmente collocarle, né abbiamo mai avuto l’impressione che andassero troppo al di là dei bonari consigli del parroco, che troppo spesso ce le ha presentate così... E così anch’esse si ritrovano nei nostri orecchi mancanti di qualsivoglia recettore che le giudichi significative per la nostra vita.
La domanda dunque, alla fine della lettura della liturgia della parola, potrebbe essere: e noi? E io? Cosa c’entro con tutto questo racconto della chiusura della presenza storica di Gesù nel mondo e dell’inaugurazione trepidante della vita della Chiesa? Di quella stessa Chiesa che ormai, dopo 2000 anni sa trasmettere solo un senso di disillusione, di scoraggiamento...? Di quegli inizi, così carichi di densità antropologica e teologica, a noi, che li abbiamo sentiti raccontare così tante volte, cosa rimane, se non la percezione di un mito fondatore arcaico... straordinario certo, nel senso di promettente... ma anche nel senso di extra-ordinario, di estraneo alla nostra storia, a quella così disincantata che ci è messa in mano ogni mattina, ogni volta che vi fermiamo a guardare questa chiesa, questo mondo...?
Ma forse, provando a scrollarsi un po’ di dosso questa prima sensazione, qualcosa che c’entra anche con me, con noi, c’è... se non altro il fatto, non scontato (neanche per i discepoli della prima ora) che con Gesù non finisca la storia! Anzi, essa è invece ri-aperta, ri-abilitata, ri-umanizzata, ancora percorribile in modo vivificante per ciascun uomo che in essa vi entra... Come se con ogni uomo essa ricominciasse.
Luca parla di questa possibilità nei termini di una “immersione nello spirito” («battezzati in Spirito Santo»): questo è ciò senza cui non ci si può allontanare da Gerusalemme, ma anche ciò per cui poi non si può stare ad attendere col naso all’in su, ma ci si deve avventurare sulla via personalissima della costruzione della vita.
È questo infatti il senso profondo della doppia narrazione del fatto dell’Ascensione: mentre infatti il vangelo di Luca (che aveva lo scopo di trattare «di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo», di guardare dunque le cose avendo come centro la vita storica di Gesù) si conclude con i discepoli che «stavano sempre nel tempio lodando e ringraziando Dio», gli Atti si aprono con lo sguardo puntato sulla vita che continua (senza la presenza in carne ed ossa di Gesù)... e da questo punto di vista ribadiscono con forza (e anche con un po’ d’ironia) come non si possa stare a guardare il cielo («Perché state a guardare il cielo?»), ma ci sia da vivere, da costruire personalmente e comunitariamente la consistenza di un’esistenza.
Ecco dunque il senso anche per noi, per me: che con il non finire della storia in Gesù, a ogni uomo che si ritrova a nascere in questo nostro mondo è messa tra le mani l’avventura della scrittura della propria storia; non “come se niente fosse accaduto” (in Cristo), ma col l’abilitazione (nello Spirito, che è la sostanza del Padre e del Figlio) a intersecarsi con quella libertà storica che è Gesù di Nazareth: è come se ci venisse detto che il senso della vita di ogni uomo che nasce è essere uomo... e per sapere cosa vuol dire essere uomo c’è da guardare a quell’uomo lì, Gesù.
Questo è il compito sacro di chi nasce uomo su questa terra: essere cristici... Non essere Cristo, non ripetere la sua avventura umana, ma in lui, costruire la nostra, singolarissima e personalissima.
È questo che Paolo augura a ciascuno: che «il Padre – nello Spirito – illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati»... E proprio questa è la speranza: che per ciascuno è possibile essere uomo così, essere consistente così, essere felice così... esser-ci e non semplicemente sopravvivere o passare su questa terra come uno dei tanti, confuso nelle catalogazioni dei manuali di storia o di sociologia...
Ed è questo quello da andare a dire a tutti i popoli, a ciascun uomo di ciascun popolo: che questo incontrarsi e mischiarsi e vivere col Signore è possibile per me, per te, sempre: e solo così trova risposta l’anelito di ciascun uomo che si ferma a guardare il cielo.
«Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» è un’espressione che ha questo peso... e chi la legge o la fa leggere come la classica e cattolicissima pacca sulla spalla, tradisce e svilisce la potenza della novità di Cristo: dopo la sua vita terrena, la sua presenza non svanisce, non si ritira nell’alto dei cieli... ma continua la possibilità, nello Spirito, di stare con lui e quindi di costruirsi con lui (proprio come con chi ci vive accanto, di cui inevitabilmente, alla lunga, prendiamo la parlata, i modi di fare, la mentalità, l’orizzonte di senso...). In questo mischiarsi, di singolarissima libertà storica di Gesù e personalissima autocoscienza mia, si scrive la storia... della Vita.
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