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venerdì 27 giugno 2008

Pietro non basta a Pietro

Sì!... ma anche…
C’è un fiuto tacito ma infallibile, dagli inizi della chiesa e lungo i secoli, pur dentro le fragilità del cammino nella storia!... o forse è proprio questa la custodia dello Spirito, che nei momenti e nelle scelte più difficili non la lascia travolgere dalle potenze degli inferi (dalle dinamiche perverse della logica mondana che la insidia ancora dalle sue caverne antropologiche), ma gli fa seminare nelle varie situazioni storiche e culturali i semi piccoli e apparentemente insignificanti della logica evangelica. Una di queste è forse proprio la festa di oggi, in questa indivisibile unione tra la Pietra “e” l’Apostolo dei pagani, tra il centro della chiesa e la periferia delle genti! La consapevolezza di sé che la chiesa andava maturando subito dopo l’Ascensione del Signore avrebbe ingabbiato nella cultura mosaica esclusiva e soffocante, la novità del vangelo incarnato in Gesù d Nazareth, se gli eventi esplosivi della storia della salvezza, accolti da Pietro e dalla chiesa come provocazioni dello Spirito, non avessero liberato ogni volta la comunità dalle insidie della regressione in un passato, che era un “passo” nel cammino della salvezza, ma ormai sormontato dallo Spirito: gli Atti ne sono un diario appassionato e paradigmatico!
Ora so veramente che il Signore…
Pietro, pur partendo da una comprensione molto ristretta della salvezza, si accorge passo passo degli squarci e poi del rovesciamento totale del “lenzuolo” che conteneva le bestie più immonde (i popoli non chiamati alla salvezza): “Voi sapete che non è lecito per un Giudeo unirsi o incontrarsi con persone di altra razza; ma Dio mi ha mostrato che non si deve dire profano o immondo nessun uomo. (Atti 10,27) … In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone (Atti 10,34)”. La conversione mentale è ormai compiuta, come dimostra la sua autodifesa contro le resistenze regressive della comunità giudaico cristiana, ma dalle caverne del suo vissuto profondo sale ancora invincibile la paura: “…quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto, perché evidentemente aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. Ora quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?” (Gal 2,11s). È Paolo, che salva Pietro dalla “ipocrisia” pur riconoscendone pienamente il ruolo fondativo : “…poiché colui che aveva agito in Pietro per farne un apostolo dei circoncisi aveva agito anche in me per i pagani - e riconoscendo la grazia a me conferita, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione, perché noi andassimo verso i pagani ed essi verso i circoncisi. Soltanto ci pregarono di ricordarci dei poveri: ciò che mi sono proprio preoccupato di fare” (Gal 2,88ss).
Pietro non basta a Pietro
Nel nuovo regime di “incarnazione” della verità in Gesù, nessuno basta più a sé stesso, ma per essere vero ha bisogno dell’altro! La verità in condizione carnale è sempre un po’ limitata o addirittura crocifissa da un altro brandello di verità non ancora raggiunto, collocato (donato!) in un altro. Questo non toglie i ruoli e le competenze nella comunità ecclesiale, che rimangono un’altrettanto necessaria evidenza della stessa incarnazione nella realtà umana. Incarnazione è collocazione “nel luogo e nel tempo”, e quindi coinvolgimento nell’avventura della im/perfezione o in/compiutezza. La pluralità degli approcci alla verità evangelica, man mano che questa si incarna nella storia, è così evidente negli Atti, quanto è evidente la necessità assoluta di viverla in comunione, di studiarne con umiltà gli stadi preparatori di consapevolezza. Ne è esempio la mediazione carismatica del cosiddetto concilio di Gerusalemme, che ribadisce che la “riconciliazione” di fondo sta nella vita, morte e resurrezione di Gesù: …perché anche gli altri uomini cerchino il Signore tutte le genti sulle quali è stato invocato il mio nome! (Atti 15,17), ma domanda pure di modularsi con il differente grado di comprensione dei giudeo cristiani, feriti nella “loro” verità… (Atti 15,29s).
L’economia del dono
Sotto la necessità delle varie mediazioni, anche sotto la corteccia dura delle nostre ambiguità e presunzioni… sta la corrente calda, quasi sempre sotterranea, ma mai disseccata, che corre lungo tutto il cammino della salvezza e la impregna dell’essenza trinitaria, che è l’amore circolare, “l’essere per”, che salva chi dona la propria vita per dare vita all’altro! Questo è il Vangelo comunicato e partecipato a noi in Cristo Gesù, che per questo è “l’uomo per gli altri”. Ciò che qualifica l’economia umana è la logica del possesso, che tende ad impregnare di sé anche i misteri della fede. La verità è vera finché è dono e non possesso. La nostra verità è un volto che ci ama: …da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna! (Gv 6,68). «L’incontro con Gesù Cristo è prendere coscienza che in lui è avvenuto un rovesciamento di ogni essere umano, che Gesù “esiste solo per gli altri”». Questo non è solo il messaggio della Chiesa. È ciò che la tiene in vita!
La verità è umile e povera, perché non sta in piedi da sé, si “salva” solo se si dona!
…Per questo la verità se non si dilata in benevolenza e comunione verso tutti si ritorce, come dice Paolo, che ne ha sperimentato la salvezza nella sua lunga attività di apostolo: Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone.
E Pietro ne è premunito, e la sua storia è la storia dei suoi successivi fraintendimenti, presunzioni … e conversioni – anche dopo la Pentecoste e il Primato! Per questo è la Pietra e ha le chiavi di casa… tanto è evidente nella sua vita che un Altro è il suo vero fondamento (Colui che per lui ha pregato!) ed è lo Spirito che continuamente lo sostiene e lo guida nell’ amministrazione. Ma se queste prerogative diventano occasione di possesso, chiusura in sé, esclusioni, discriminazioni, deprezzamento della verità altrui… allora la chiesa torna mondana, e dagli inferi rimonta la paura. E si vede subito dai sintomi, che sono quelli dell’economia mondana, che provoca scarsità, paura e competizione, mentre l’economia della salvezza produce sempre abbondanza, comunione e condivisione… Pietro rientra nell’economia del dono quando accoglie Paolo e tutti i diversi con lui, e riporta la chiesa ad essere accessibili e disponibili sempre più per chi … è più povero, smarrito, diverso, fuori… Comunque in qualche modo lontano e forse refrattario alla “nostra” verità. E lo riporta incessantemente dalle periferie del mondo al cuore della chiesa! Curioso che la prima lettera di un concilio ratificando l’accoglienza ufficiale dei pagani convertiti raccomandi a Paolo di ricordarsi dei poveri… riprendendo ancora il tema dell’amore circolare, unico vero amore, come commenterà Paolo stesso, nell’eseguire questo monito: per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: Colui che raccolse molto non abbondò, e colui che raccolse poco non ebbe di meno (2Cor 8,14). Per sempre, Pietro sarà povero… di Paolo! e la chiesa povera… del mondo!
Chi abbia conoscenza della situazione che stiamo vivendo non fa fatica a dare ancora oggi (come sempre deve il cristiano) nomi e volti alle faccende, alle fatiche e alle paure della nostra chiesa!

Pietro e Gesù: l'uomo che dà credito a Dio e Dio che dà credito all'uomo

In questa XIII domenica del tempo ordinario la Chiesa celebra anche la festa dei santi Pietro e Paolo. Le letture proposte infatti, fanno riferimento proprio ad essi, alla loro vita, alle situazioni che si sono trovati a vivere, alle loro parole.
Più che il ribadire l’ovvia decisività di questi uomini nella vita della Chiesa, mi pare sia di maggior interesse il tentativo di leggere quanto la liturgia ci propone, liberi dai pregiudizi che la storia (confessionale) ha posto sulle spalle di noi cristiani del 2000.
Mi spiego: leggendo questo brano del Vangelo di Matteo (16,13-19), a me inevitabilmente e involontariamente salta subito in testa l’idea che siamo di fronte alle parole che fondano, da un lato, il ministero petrino, per cui l’espressione di Gesù «tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa» sarebbero l’istituzione del primato papale; e dall’altro, con la frase «A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli», il sacramento della confessione, come ce l’abbiamo in testa noi, con il sacerdote come ministro, la stola viola, ecc...
Questa immediatezza con cui la nostra testa legge una cosa e ne pensa un’altra, è frutto di quella sedimentazione culturale che l’umanità, e in essa anche la chiesa, porta avanti generazione dopo generazione e che noi introiettiamo semplicemente perché ne siamo impregnati fin da subito: la succhiamo dal seno di nostra madre.
Eppure, alla luce del rinnovamento degli studi biblici e teologici del secolo scorso, dei loro risultati, della fatica di uomini che hanno passato la vita sui libri per studiare, approfondire, capire (spesso osteggiati, frenati, perseguitati dal Magistero), non possiamo più accettare questo fascio di pregiudizi con cui leggiamo il vangelo: dobbiamo toglierci le lenti distorte con cui guardiamo al testo e tornare a farlo parlare.
Anche perché se solo ci fermassimo un attimo, già da soli capiremmo l’assurdità di quanto immediatamente ci viene da pensare: davvero Gesù, in quel momento a Cesarea di Filippo, rivolgendosi a Pietro, ha in testa la storia dei papi? Davvero dicendogli «tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli», Gesù pensava ai nostri confessionali intarsiati e alle loro lucine verdi e rosse perché il fedele sappia se sono liberi o occupati?
Non voglio esagerare nella demitizzazione, e ovviamente è giusto che, chi oggi si occupa teologicamente o magisterialmente del primato petrino e del sacramento della riconciliazione, faccia riferimento a questi testi; ma, concesso questo, a noi rimane il dovere di evitare di distorcere il testo, ricollocandolo nel suo contesto e non riferendolo immediatamente ai problemi ecclesiali odierni.
Il contesto proprio del brano dunque è quello in cui Gesù, «giunto nella regione di Cesarèa di Filippo», dopo 16 capitoli in cui Matteo ha tentato di delineare il suo volto, pone la domanda su cosa la gente e poi i discepoli stessi hanno percepito della sua identità: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?», «Voi, chi dite che io sia?».
La vita pubblica di Gesù è ormai ben avviata, a questo punto del vangelo infatti Gesù ha già detto molte cose (Matteo nei capitoli precedenti ha infatti già riportato il discorso della montagna, il discorso missionario, il discorso in parabole), ne ha anche già fatte molte (a partire dai racconti sulla sua infanzia, l’inizio della sua vita pubblica, fino ai miracoli e alle controversie coi farisei) ed è come se volesse fermare un attimo il flusso degli eventi e fare il punto della situazione: cosa ha capito di me la gente? Cosa han capito di me i miei?
Ed ecco che arriva la risposta di Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»; risposta che fa sussultare Gesù, a cui addirittura scappa detto «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
Tenendo sempre presente quanto detto sulla necessità di liberarci dai pregiudizi nella lettura e interpretazione del testo, proviamo a guardare semplicemente alla dinamica che si sviluppa tra Gesù e Pietro.
Gesù sta tastando il terreno, vuole capire in che misura ciò che dice e fa, mostri effettivamente alla coscienza della gente chi lui sia. Questa è la sua preoccupazione fondamentale: che la sua vita, il dipanarsi della sua singolarità, la sua libertà storica, sia incontrata nella sua verità dai singoli uomini e donne che incontra.
Perché è così importante per Gesù che l’uomo non fallisca l’idea su di lui? Perché nello svolgersi della storia di questo uomo, si rivela Dio. E Gesù sa bene che dall’idea di Dio che uno ha in testa dipende tutto l’orizzonte di senso in cui imposta la sua vita, la sua idea di uomo, di amore, di relazioni, di morte...
L’interrogazione di Gesù dunque non è un pour parler; mostra anzi il costruirsi storico della rivelazione di Dio: Gesù infatti non è solo l’occasione del rivelarsi di Dio, non è il portatore di una serie di norme o definizioni, piuttosto «Questi è Dio», cioè quella libertà storica (di Gesù) nel suo decidersi in nome del Padre!
Ecco perché è così importante anche la risposta di Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»; perché è il riconoscimento! Pietro ha capito che in quell’uomo lì si dà qualcosa che non è contenibile nella categorie solite della religiosità ebraica: Gesù non è Giovanni Battista redivivo o Elia o Geremia; la sua persona non è esauribile dalla categoria di profeta. Egli – dice Pietro – è il Messia, colui che deve venire a salvare gli uomini, e il Figlio di Dio, qualcuno che ha a che vedere direttamente con Dio. La Chiesa poi dirà Dio lui stesso, che per l’ambiente ebraico (da cui provenivano Pietro e tutti i primi cristiani) è una delle bestemmie peggiori, perché infrange in primo (e più importante) comandamento, fondante lo stretto monoteismo ebraico: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione servile. Non avere altri dei di fronte a me» (Dt 5,6-7).
Ecco perché a Gesù nasce come un guizzo di gioia interiore «Beato sei tu, Simone»! Ed ecco anche perché proprio qui, dopo questo riconoscimento di Pietro, Gesù pone nei suoi confronti parole così cariche: «tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa»; «A te darò le chiavi del regno dei cieli»!
Ancora una volta proviamo a fare una piccola pausa prima di lasciar scorrere il flusso dei pensieri: perché associare immediatamente la pietra su cui si edifica la chiesa, con la cattedrale di san Pietro o le chiavi del regno dei cieli, con l’accesso, permesso o vietato, al paradiso è, non solo banale, ma sbagliato!
Un discorso molto più serio è piuttosto quello di soffermarsi su ciò che qui Gesù sta facendo: di fronte alla professione di fede di Pietro, cioè di fronte alla dichiarazione di Pietro di fidarsi di Gesù e in lui, di Dio, Gesù risponde con la sua professione di fede nell’uomo: il Dio di Gesù Cristo è il Dio che si fida dell’uomo: «tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa»; «A te darò le chiavi del regno dei cieli»!
Ecco la dinamica seria, e insieme sconvolgente, che c’è dentro a questo testo: che la vita dell’uomo non è costituita solo da una fiducia anonima e infantile in un dio che sta nell’alto dei suoi cieli, ma che la vita dell’uomo è Vita proprio perché consiste nel dare credito che essa è possibile perché fondata su un Altro, che ha il volto di Gesù Cristo, che a sua volta si fida di me, dà credito alla mia buona riuscita.
Eppure senza neanche girare una sola pagina del vangelo, sembra che questo credito accordato a Pietro da Gesù, sia mal riposto. Dopo il nostro episodio infatti Gesù pone un ulteriore gesto di rivelazione della sua identità: forse incoraggiato proprio dalla risposta di Pietro annuncia la sua passione. «Ma Pietro lo trasse in disparte e cominciò a protestare dicendo: “Dio te ne scampi, Signore, questo non ti accadrà mai”». E Gesù: «Lungi da me satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini».
Ma come? È lo stesso Pietro di un attimo fa, lo stesso Gesù... Cosa ha rotto quella che sembrava la reciproca fiducia, tanto che Pietro, a chi ha appena chiamato Messia e Figlio di Dio, si sente in dovere di fare un rimprovero; e Gesù, a chi ha appena detto «tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa», «A te darò le chiavi del regno dei cieli», risponde ora appellandolo satana?
In realtà non si tratta di una rottura del rapporto di fiducia, ma ancora della preoccupazione di Gesù che essa abbia il referente veritiero. Ciò che Pietro, pur avendo dato la risposta giusta alla domanda «Voi, chi dite che io sia?», non ha ancora capito è in che senso vada intesa la sua risposta: in che modo cioè Gesù è Messia e Figlio di Dio? E la prospettiva che Gesù stava lanciando – quella della croce – («Da allora Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno» Mt 16,21) non gli pareva compatibile con l’idea di Messia e Figlio di Dio che aveva in testa lui.
Ecco perché Gesù è così intransigente: perché la questione è teologica, si tratta proprio del modo di intendere ‘Dio’ e dunque l’uomo. È questa la fatica che Pietro – e con lui tutta la Chiesa – deve intraprendere, immischiandosi nella vicenda storica del Figlio! Un intreccio di libertà fondata sul credito che l’uno dà all’altro. Con la consapevolezza che se anche l’uomo a volte confonde Dio con il serpente, Dio non lo confonde mai con l’uomo. Tanto che, se anche io disperdessi questa fiducia in me, la tiene salda lui per me. Neanche il mio peccato intacca questo suo darmi credito, perché ai suoi occhi io non mi riduco mai a quello che ho fatto!

venerdì 20 giugno 2008

Il coraggio della paura…

La sorte del Maestro sarà la sorte del discepolo
I discepoli, appena tuffati nella storia senza il Maestro, si devono essere ben spaventati, se l’evangelista ricorda loro e ripete come una litania l’incoraggiamento: non temete, non temete, non temete… (la versione italiana cambia parola, forse per attenuare l’impatto). La verità del vangelo non è “potente”, splendente, riconoscibile, non è demagogica. È piuttosto un seme minuscolo, un fermento impercettibile, una proposta scandalosa… La verità che illumina il discepolo è verità crocifissa, la sua luce levata tra le nazioni è velata. Gli “altri” non la vedono e non la sentono… quindi pensano che sragioniamo. Ma il loro giudizio è troppo importante per noi e manda in crisi la poca fede cha abbiamo. Secondo Gesù il pericolo del discepolo è la paura… Mandato come agnello in mezzo ai lupi… contrastato da conflitti e persecuzioni, incompreso o travisato nell’annuncio della sua fede… la paura gli entra dentro nel cuore e mette in discussione i fondamenti della sfida evangelica.
la paura
…paura di doversi congedare per sempre dal successo, dal consenso e dal riconoscimento degli altri… che gratificano e insieme nutrono la nostra fragile identità personale con il supporto del tessuto umano in cui viviamo. Quando la gente non ci capisce o addirittura ci contesta, andiamo in crisi di identità. Possiamo reagire con aggressività o con depressione, ma rischiamo comunque di rimanere con una fede ridotta a un lumicino, nel segreto del proprio cuore, senza più forza per diradare le tenebre… né proposte comprensibili ed efficaci per affrontare la vita. La quale ci riporta invece sempre le stesse sofferenze e impotenze personali e collettive… gli stessi fallimenti. La fede dunque non era un rimedio, una risposta, una ‘redenzione’ dai mali della vita… Ma allora, a che serve?
…paura di perdere i beni necessari alla propria sussistenza, quando la verità del vangelo riduce il consenso attorno a noi… si diventa precari: è il momento di congedarsi anche da tanti beni materiali… legati alla carriera, alla vanità, alle comodità che il consenso consolidato offrirebbe.
…ma soprattutto paura di congedarsi da Sé, dal proprio corpo di carne e dal proprio io abbarbicato alla vita biologica e psichica, per salvare “l’anima evangelica”, cioè la propria vera identità di discepolo del Signore. Questa disponibilità a congedarsi da se è la premessa drastica del cammino del discepolo, messa in chiaro dal Signore, fin dall’inizio della fede in lui: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,24)… È un cammino aspro e difficile, attraverso una via stretta e in salita, ma così si costruisce l’identità vera del discepolo, che è il primato dell’amore. Imparare a credere è imparare ad amare! Non con l’entusiasmo di Pietro, focoso e sincero, ma inconsistente di fronte alla paura di “morire con lui”… La fedeltà nella paura è una conquista sofferta e difficile, come ogni amore vero – che anche lui, il Maestro, ha guadagnato, ‘con forti grida e lacrime’, e che ripropone ai suoi con estrema lucidità: «Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà. Ora l'anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest'ora? Ma per questo sono giunto a quest'ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: L'ho glorificato e di nuovo lo glorificherò!» (Gv 12, 26s)». Gesù non era immune dalla paura di morire, dall’angoscia della solitudine, dall’istintiva repulsione della sofferenza… ma ha avuto il coraggio di contenere questi sentimenti, umanissimi ma paralizzanti, e sottometterli alla volontà del Padre.
una promessa, infatti, è seminata nella paura!
…promessa che ogni amore vero, per quanto timido e riservato, vincerà le tenebre e manifesterà la sua verità. Ogni luce che si riesce a fare attorno a sé, ci rinforzerà ulteriormente il coraggio di testimoniare dai balconi… che è come bruciarsi alle spalle i ponti della paura. E ci darà il coraggio di proclamazione della verità, cioè di coinvolgimento nel Regno. Non riguarda tanto il successo finale, che secondo Gesù, è il Regno del Padre, che impregna, salva e trasfigura la storia. Ma riguarda immediatamente il “successo” quaggiù: un “diverso successo” che è la misteriosa e vera ricompensa del Padre nel segreto della propria anima, che impercettibilmente si diffonde e rigenera il cuore. I piccoli miracoli dell’amore che risanano le persone e ridonano speranza nella vita, anche se nessuno o pochi se ne accorgono. I semi che crescono dal nulla e offrono un angolo di ospitalità e fraternità a chi è smarrito e senza aiuto…
…promessa di una vita più bella, compiuta e intensa di quella fisica, anche se è solo sulla piattaforma di quella fisica che può spuntare e crescere… Esperienze di amore e tenerezza, accudimento e affidamento, liberazione dalle catene che imprigionano l’anima e avviamento alla libertà e autonomia personali… Queste esperienze inducono progressivamente una passione interiore più forte che la paura di perdere il corpo e suoi beni e la consapevolezza che l’anima, pur soffrendo è preservata, e diventa territorio non calpestabile da nessuno, riservato a Chi l’ha guadagnato con il suo amore…
…la promessa della tenerezza del Padre: “voi valete ben più di molti passeri … Perfino i capelli del capo sono tutti contrassegnati dalla sua attenzione affettuosa… Non è la “Provvidenza” che guida gli eventi a mio favore, evangelicamente smentita dalla sorte del Figlio. Dio non interviene nella dinamica delle forze naturali, non ci ha riservato ricette magiche per manovrare gli eventi a nostro vantaggio… Ci ha affidato piuttosto di continuare la consegna messianica al Figlio: che è il vero senso caratteristico della sua vita messianica, cioè assorbire su di sé il male che è attorno a noi e lasciare passare in noi il “suo” amore paterno al mondo! È verso questo nostro compito “smisurato” per le nostre forze, che va tutta la sua tenerezza paterna.
anch'io lo riconoscerò…
se questi segni caratteristici di Gesù si consolidano in noi, ci cambiano l’anima e il volto. Allora non solo superiamo la paura, ma lo rendiamo riconoscibile dagli uomini a cui arriva il nostro (suo!) bene. E facciamo riconoscere il suo Vangelo... È chiaro allora che Gesù gioirà, alla fine dei tempi nel presentare e riconoscere sulla nostra faccia, questo volto “cristiano” di fronte al Padre… Ma ogni escatologia evangelica ha la sua sorgente nella storia di questo nostro mondo. Allora, questo “riconoscimento” non é una promessa per “dopo”: il riconoscimento di Gesù sta preparandosi adesso, nel tempo della paura… man mano che facciamo i nostri piccoli passi di distacco da noi stessi per dare spazio all’amore disinteressato, e questo implica la nostra morte. È il segreto forte e ostico dell’avventura di Gesù sulla terra e non convinceremo mai del tutto il nostro io a non averne paura… Per questo la tenerezza paterna del Dio di Gesù che ci carezza perfino i capelli, ci è necessaria per rassicurarci.

Perché la paura?

Gli uomini vanno a Dio nel loro bisogno
Implorano aiuto, invocano pane e fortuna,
salvezza dalla malattia, dalla colpa, dalla morte.
Tutti, tutti, cristiani e pagani

“gli uomini vanno a Dio nel suo bisogno
Lo trovano povero, umiliato, senza tetto né pane,
lo vedono soffocato dai peccati, dalla debolezza, dalla morte.
I cristiani stanno vicini a Dio nella sua sofferenza”

Può sembrare strano il fatto di postulare per l’uomo forte e adulto un Dio crocifisso e impotente. Già, ma è lui che si è rivelato così e poi questa è l’unica maniera di respingere ogni forma di integrismo e eteronomia in forma clericale. La terra è laicamente liberata dai cortocircuiti dell’oggettivazione teologica per le realtà mondane, e Dio gli sta sofferente nel cuore come imprevedibile fermento: Fonte di pietà senza fine, capace di attrazioni amorose, come quelle che portarono Bonhoeffer sulla via della sequela e della consumazione. Se “Dio onnipotente” atterrisce oppure crea l’ubriacatura del dominio, il “Dio impotente” attrae come un destino di partecipazione.

C’è poi un altro motivo per questa scelta biblica e cristiana, che rappresenta un “rovesciamento” teorico e pratico di fronte alle teologie dell’onnipotenza, ed è quello che solo nel senso di questa logica teologicamente depotenziata e umanisticamente esaltata porta Dio in Gesù ad essere totalmente per l’uomo. Il crocifisso infatti dice due cose molto importanti: l’antitrionfalismo e la totale immersione con la caratteristica tutta teologica della sostituzione. Il crocifisso infatti implica l’impotenza che Dio si sceglie per lasciare posto alla potenza dell’uomo: Il crocifisso non è allora un evento capitato a Dio, ma l’essenza del suo essere nel mondo. Il cristiano deve sapere che il modo cui il suo Dio vuole essere presente nel mondo è quello dell’assenza. La logica teologica non può essere giudicata con i parametri logici normali. Chi può insegnare a Dio come essere potente?

Inoltre il crocifisso è segno di un nuovo senso dell’essere di Dio, quello del consumarsi per l’altro. In ciò è Gesù che rivela compiutamente. La nuova stoffa dell’essere teologico è dunque definitivamente fissata così: “l’esistere per gli altri”. Ecco come si esprime Bonhoeffer nel ricordato schema per un saggio . “Chi è Dio? Non è prima di tutto fede generica in Dio,nell’onnipotenza di Dio e via dicendo. Questa non è autentica esperienza di Dio,ma un pezzo di mondo prolungato- L’incontro con Gesù Cristo è prendere coscienza che qui è avvenuto un rovesciamento di ogni essere umano, che Gesù “esiste solo per gli altri

Nasce così un nuovo concetto di trascendenza e nuovi compiti infiniti: il trascendere non l’uomo, creando un pericoloso”in alto” tanto vicino al trono dei potenti, ma il trascendere l’io, in una tensione e svuotamento inesausti: Bonhoeffer insiste in questa nuova maniera di fare esperienza di Dio e su questa che è chiaramente una trascendenza mondana. «l’“esistere per gli altri” di Gesù è la presa di coscienza della trascendenza. Dalla libertà da se stessi, dall’ esistere per gli altri fino alla morte scaturiscono l’onnipotenza. l’onniscienza, l’onnipresenza. Fede è partecipare a questo essere di Gesù (incarnazione, croce, risurrezione). Il nostro rapporto con Dio non è un rapporto religioso con l’essere più alto, più potente, più buono: questa non è vera, autentica trascendenza; il nostro rapporto con Dio è una nuova vita nell’ “esistere per gli altri”,nella partecipazione all’essere di Cristo. Il trascendente non è… doveri infiniti, irraggiungibili, ma il prossimo, dato volta per volta, raggiungibile».

L’inaudito tocca la sua più alta espressione“Dio in forma umana”


[Italo MANCINI, Scritti cristiani, Marietti, pg 9s]

giovedì 19 giugno 2008

Non aver paura anche se si sta come d'autunno sugli alberi le foglie

I versetti 10-13 del capitolo 20 di Geremia, quelli cioè proposti come prima lettura, costituiscono la parte centrale di quella che è chiamata la V confessione (Ger 20,7-18). Le confessioni sono quei brani in cui emerge con più evidenza l’Io del profeta, la sua intimità, anche se non dobbiamo fare l’errore di pensare questo stile letterario con le nostre moderne categorie psicologiche. Piuttosto si tratta della «testimonianza – scritta – di una lotta per il vero volto di Dio, di uno sforzo fedele e tenace per approfondire una conoscenza di Lui che vada oltre i nostri fantasmi, le nostre immaginazioni, le esperienze troppo parziali e limitanti»[1], testimonianza che è del profeta, ma, insieme con lui, di tutto il popolo.
Leggendo per intero questo brano, si vede subito come l’impressione tutto sommato positiva e vittoriosa che avevamo leggendone solo uno stralcio, cambi: le parole del profeta sono di una tragicità davvero soffocante, quasi straziante... Ma cosa sta vivendo quest’uomo? Gli esegeti ci invitano a «resistere alla tentazione di situare ogni confessione in un momento particolare della vita del profeta». Questo ha l’indubbio vantaggio di fare del profeta «il modello di ogni credente».
Ecco perché è così interessante anche per noi ripercorrere questo testo! Esso è paradigmatico proprio perché mostra come funziona l’uomo quando è come triturato dalla drammatica della vita.
«Mi hai sedotto, Signore, e ho ceduto alla seduzione; mi hai forzato e hai prevalso; sono divenuto derisione tutto il giorno, chiunque si beffa di me!»: Geremia, come ogni essere umano, aveva iniziato la sua missione perché aveva intuito qualcosa di promettente, iscritto dentro alla vita, e aveva voluto dargli credito, giocandosi per quella che gli pareva una vita buona. Funzioniamo così anche noi! Agiamo, speriamo, scegliamo, ci muoviamo, ci appassioniamo, ci dedichiamo... sempre perché percepiamo nella vita, in una situazione, in una persona, come una promessa, un qualcosa di promettente a cui acconsentiamo e per cui – crediamo – valga la pena compromettersi. Lo facciamo fin da bambini, quando acconsentiamo alla vita, considerando promettente il nutrirci dal seno di nostra madre; continuiamo a farlo da adulti, quando la promessa la vediamo iscritta nella faccia di un altro da amare; e lo facciamo perfino quando, morendo, acconsentiamo ad avere imparato a fidarci così della vita, da saperla perdere per ritrovarla.
Ma l’esperienza di Geremia ora è quella di chi si ritrova a mettere in dubbio quell’intuizione, per cui aveva deciso di spendere la vita: il profeta «si è lasciato sedurre da tante belle promesse e ora si trova abbandonato e fatto zimbello della gente. [...] Egli si chiede dolorosamente perché il Signore l’abbia chiamato ad un annuncio sterile («Perché ogni volta che io parlo debbo gridare, violenza e rovina debbo proclamare! Sì, la parola del Signore è divenuta per me obbrobrio e beffa tutto il giorno»). Non è forse un inganno, una trappola, una violenza?».
Quante volte anche a noi è salito alle labbra questo dubbio «Non è forse un inganno, una trappola, una violenza?». È l’esperienza della delusione, della dis-illusione, del fallimento, del tradimento, della messa in discussione di ciò su cui si è fondata la vita. Tant’è che come per Geremia, che pensa che «la soluzione potrebbe essere di non parlare più» in nome di Dio («Perciò pensavo: “Non voglio ricordarlo e non parlerò più in suo nome!”»), anche a noi viene in mente che forse il passo da porre è quello di «rompere i ponti con un Dio così», con un uomo così, con un figlio così, con un lavoro così, con una vocazione così, con una vita così...
Eccoci dipinti, nel giro di un paio di tocchi di pennello: intuizione di una promessa, credito accordatole, passione e dedizione per quanto scelto, delusione, messa in discussione della promessa, di chi ce l’ha fatta e di noi stessi che le abbiamo dato fiducia... con, da sfondo, l’insofferenza per l’attesa di una parola che rompa gli indugi, che ci dica se davvero abbiamo sbagliato, siamo falliti, siamo finiti, così da poterci lasciare andare alla disperazione e placare definitivamente gli impulsi di speranza, che ora sanno di illusorio, che ci tornano in pancia.
«Qui, però, Dio non risponde nulla al profeta, né lo esorta a sperare»: è il silenzio di Dio – letto dal punto di vista dell’uomo; è il desiderio che l’uomo converta l’immagine di dio che ha in testa – da parte di Dio.
I versetti che seguono infatti, quelli della nostra prima lettura, sono – come rivelano quelli ancora successivi (vv. 14-18: «Maledetto il giorno in cui io nacqui; il giorno in cui mi partorì mia madre non sia benedetto! Maledetto l' uomo che portò l' annuncio a mio padre, dicendo: «Ti è nato un maschio!», riempiendolo di letizia. Sia quell' uomo come le città che il Signore ha sconvolto senza pentimenti; oda il grido al mattino e clamori di guerra a mezzogiorno. Perché non mi ha fatto morire nel seno? Mia madre sarebbe stata per me la mia tomba e l' utero, gravidanza perpetua! Perché sono uscito dall' utero? Per vedere affanno e cordoglio e terminare nella vergogna i giorni miei?») – solo un affrettato momento edificante e consolatorio: «il Signore è al mio fianco come un prode valoroso, per questo i miei persecutori vacilleranno e non potranno prevalere; arrossiranno perché non avranno successo, sarà una vergogna eterna e incancellabile. Signore degli eserciti, che provi il giusto, che vedi il cuore e la mente, possa io vedere la tua vendetta su di loro, poiché a te ho affidato la mia causa! Cantate inni al Signore, lodate il Signore, perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori». Un affrettato momento edificante e consolatorio che rivela solo come «il profeta intenda ancora troppo umanamente l’assistenza divina»: «Dio – infatti – interviene nell’intimo dell’uomo, rinnovandolo e trasformandolo», e non come un burattinaio nella storia. Come ricorda Sequeri[2] infatti: «Se gli uomini tentano Dio, sollecitandolo a esibire la sua potenza contro l’altro come una necessità in sua difesa, Dio si sottrae», perché il dio-mio-contro-l’altro è l’idolo; il Dio di Gesù Cristo invece non ha nemici, ha solo figli! È qui che deve approdare Geremia e con lui, ciascuno di noi, toccato nella sua umanità e nei suoi fondamenti quando – per rubar le parole a Ungaretti – «si sta come d’autunno sugli alberi le foglie».
È proprio il silenzio di Dio che «fa sì che il dramma interiore del profeta si sviluppi con tutta la sua intensità ed egli cerchi proprio così più in profondità il volto di quella Persona di Dio di cui si è innamorato la prima volta e capisca in modo nuovo che Egli non è l’imbroglione, il seduttore, ma Colui che si prende cura infallibilmente e fedelmente del suo profeta» e di ciascun uomo.
È l’invito pressante del Vangelo di Matteo. Siamo immediatamente dopo la sezione in cui Gesù chiama i discepoli per mandarli a predicare e annunzia loro la persecuzione: come Geremia, come noi, come d’autunno sugli alberi le foglie! È la situazione della messa in discussione di noi, di Dio, degli altri... è il dubbio sul credito che abbiamo dato alla vita, alla promessa in essa iscritta... è la paura...
Gesù capisce profondamente com’è fatto l’uomo e per questo tocca proprio il punto caldo della questione: è la paura (di morire, di aver sprecato la vita, di non essere stati all’altezza, di trovarci falliti, soli, senza senso...) che blocca il fluire della vita nelle vene dell’uomo, i suoi guizzi di freschezza e di creatività, i suoi zampilli di amore rinnovato, la sua caratura umana, il suo esser-ci! E di fatti continua: «Non abbiate paura degli uomini...»; «non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo...»; «Non abbiate dunque paura...».
Gesù sa che «la paura genera mostri»: è questo il blocco interiore da spezzare, è questo il credito da rinnovare, non dimenticando – nella prova – che Dio non è il serpente. Egli, nella passione e morte del Figlio ha rotto per sempre questa ambiguità; per questo per l’uomo dev’essere un’evidenza, anche nella tragicità della vita, la sua affidabilità!
È quello che Paolo tenta di dire ai Romani! Benché il discorso sembri focalizzarsi sul peccato di Adamo, l’interesse principale di Paolo è sul molto più della grazia, sulla sua sovrabbondanza in Gesù! Il peccato di Adamo è messo lì solo per fare da contrapposto al molto più della grazia!
È sul credito a questa promessa, iscritta già nella grammatica della nostra vita (da quando acconsentiamo a succhiare il primo latte), che fiorisce l’uomo, come uomo, anche se «si sta come d’autunno sugli alberi le foglie».
[1] P. Rota Scalabrini, Il profeta Geremia: sperare in un tempo di crisi, in Scuola della Parola, Litostampa Istituto Grafico, Bergamo 2001, 81.
[2] P.A. Sequeri, Il timore di Dio, Vita e Pensiero, Milano 1993, 133.

sabato 14 giugno 2008

Totalitarismi: lo Stato d'eccezione

Pubblichiamo un articolo di Giuseppe D'Avanzo apparso oggi su Repubblica.it


Berlusconi è intenzionato a dimostrare che - per governare la crisi italiana, come vuole che noi l’immaginiamo - è costretto per necessità a separare lo Stato dal diritto, la decisione dalla legge, l’ordine giuridico dalla vita. Come se il Paese attraversasse una terra di nessuno. Così critica, oscura e sinistra da rendere urgente e senza alternative un potere di regolamentazione così esteso da modificare e abrogare con decreti le leggi in vigore. Con il «decreto sicurezza» (alla voce immigrati) e con il «decreto Napoli», è stato chiaro che Berlusconi intende muoversi in uno «stato di eccezione». Ha deciso di esercitare il suo potere secondo un tecnica che gli impone di creare - volontariamente e in modo artefatto - una necessità dopo l’altra, giorno dopo giorno, quale che siano le priorità più autentiche e dolorose del Paese. Nonostante quel che si può pensare, infatti, la necessità non è una situazione oggettiva, implica soltanto un giudizio o una valutazione personale. In fondo, sono straordinarie e urgenti soltanto le circostanze definite tali: quel che, come tali, definisce il Cavaliere. Il quinto consiglio dei Ministri del Berlusconi IV ha dichiarato l’assoluta necessità di ridimensionare l’azione dei giudici; di limitare il diritto di cronaca; di declinare le ragioni dello Stato con l’esibizione, la forza, le armi dell’Esercito. È finora il caso più emblematico ed esplicito di quel che abbiamo definito la «militarizzazione della politica». Non è mai avvenuto in Italia che i soldati fossero chiamati a far fronte all’ordine pubblico o al controllo delle città. Nemmeno nei terribili mesi che seguirono alla morte di Falcone e Borsellino, all’aperta sfida lanciata contro lo Stato dalla Cosa Nostra di Totò Riina. In quell’occasione, l’Esercito si limitò a proteggere, con «posti fissi», gli edifici pubblici e i luoghi «sensibili» liberando dall’impegno non investigativo le forze di polizia. La decisione del governo di «parificare» 2.500 soldati «agli agenti di pubblica sicurezza» con «compiti di pattugliamento e perlustrazione» delle città inaugura una nuova, inedita stagione. Evocando ragioni (necessità) di «ordine pubblico» e «sicurezza» avvicina, sovrappone il diritto alla violenza. Assegnata all’Esercito, altera il suo segno la funzione amministrativa della polizia, chiamata a rendere esecutivo il diritto. Quella funzione e presenza si fa intimidazione. Non solo per chi trasgredisce, ma per tutti coloro che non credono «democratico» che il governo sostenga le sue decisioni con la violenza. Nello slittamento del legittimo esercizio del potere verso un arbitrario diritto della forza, come non avvertire il rischio che chiunque dissenta sia considerato un «criminale» perché avversario di una «decisione assoluta» che sola può assicurare la «governabilità» e l’uscita dalla crisi? Non è questa l’idea politica, il paradigma di governo, addirittura il fondo sublogico che consiglia a Berlusconi di intervenire anche contro la magistratura limitando l’uso delle intercettazioni o contro l’informazione, promettendo il carcere a chi pubblica il testo o il riassunto di «un ascolto»? Magistratura e informazione, i due ordini che, in un’equilibrata architettura di checks and balances [sistema di restrizioni adottate da un governo per controllare il potere dei propri organi (come il Congresso americano cui spetta il diritto di approvare i membri del Gabinetto del Presidente e i giudici della Corte Suprema), mia nota], sono le istituzioni di controllo dei poteri, diventano in questo quadro i pericolosi agenti attivi e degenerati del declino da affrontare. «Nemici», perché impediscono al sovrano di governare, perché sorvegliano le sue decisioni e quella vigilanza è un ostacolo che crea uno status necessitatis, l’urgenza di un provvedimento legislativo che Berlusconi avrebbe voluto con immediata forza di legge. È stato costretto a una marcia indietro dal capo dello Stato e, dalla Lega, a una correzione che autorizza le intercettazioni anche per i reati contro la pubblica amministrazione. Ma il disegno di legge, se non sarà corretto in Parlamento, dissemina l’iter investigativo e la sua efficacia di intralci, intoppi, legacci, esclusioni, vuoti, bizzarri obblighi (se l’indagato è un vescovo bisognerà avvertire il segretario di Stato vaticano, cioè il ministro di un altro Stato). Sono ostacoli che salvaguardano le pratiche più spregiudicate dei colletti bianchi, rendono più fragile la sicurezza dei più deboli, senza proteggere davvero alcuna privacy. I corifei del sovrano diffondono numeri farlocchi sul passato, mai spiegano perché non chiudono le falle nella rete dei gestori di telefonia, venute alle luce con l’affare Telecom. Né svelano all’opinione pubblica come e se daranno mai conto dell’uso delle «intercettazioni preventive» che oggi, al di fuori del processo penale e di ogni tipo di controllo giurisdizionale, possono essere effettuate dalle polizie e, dal 2005, anche dai servizi segreti su delega del presidente del Consiglio con l’autorizzazione del procuratore presso la Corte d’Appello. Non è la privacy del cittadino che interessa a Berlusconi. Gli interessa soltanto la sua privacy e la sua immagine, l’annullamento di un paio di conversazioni con Agostino Saccà, l’oblio di altre in cui di lui si parla. Intende creare una sorta di «diritto positivo della crisi» che impone al giudice di che cosa occuparsi in ossequio alla funzionalità della decisione politica, presentata come necessaria e univoca. Vuole giornalisti silenziosi, intimiditi dalla minaccia del carcere. Vuole editori spaventati dalle possibili, gravi penitenze economiche. Il soldato come questurino, il giudice come chierico, il giornalista come laudatore sono le tre figure di una scena politica che minaccia di trasformare radicalmente la struttura e il senso della nostra forma costituzionale. Sono i fantasmi di un tempo sospeso dove il governo avrà più potere e il cittadino meno diritti, meno sicurezza, meno garanzie.

venerdì 13 giugno 2008

L’obbedienza della libertà… (se ti chiama un volto che ti ama!)

“…gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date!” …è il filo d’oro che collega i brani della Scrittura che ci sono proposti. È il seme che solo l’Amore preventivo poteva seminare nel cuore della materia inerte (la polvere biblica) perché divenisse nel corso dei tempi infiniti un cuore che pensa e che impara ad amare. È il fermento, che perduto nella nostra radice carnale, ci ha spinto al vertice del nostro essere: l’intera storia umana è un segno privilegiato di questo passaggio continuo, mai interrotto e mai compiuto, dalla condizione necessitata, oppressa e servile, a un regime di libertà. La miscela misteriosa tra pensiero, libertà e amore, tra desiderio dell’altro, voglia di dargli la vita per farlo crescere e rispetto profondo della sua alterità, è “il di più” che ci fa umani! Più un anelito che una conquista, ma qui si gioca il futuro dell’umanità, singolo uomo e famiglia umana. È in questo “più” che Gesù ha giocato la sua “chiamata” a portare a compimento la misteriosa strategia di amore del Padre (l’economia della salvezza raccontata nelle Scritture), promettendo e donando ai suoi discepoli, come definitivo Messia liberatore, un animatore e consolatore in questo difficile cammino…
I cristiani sono un popolo messianico non perché ascoltano prediche rituali, non perché pregano: cose importanti queste, ma non distintive dei cristiani… il cristiano ha il suo segno distintivo nel liberarsi costantemente dai faraoni che gli occupano l’anima e il corpo. Questo è il suo segno distintivo. Con questo in più, che per il cristiano, la libertà totale non si consuma dentro il confine della storia, nell’arco carnale dell’esistenza: esso riguarda la totalità assoluta… Questa è la prima legge del popolo messianico! è una legge dura, che ci coinvolge ogni giorno… Di più, essa ci richiede di liberarci “dentro”, innanzi tutto, nell’intimo della nostra coscienza, dove si connettono le catene più invincibili” (Balducci)

vi ho sollevato su ali di aquila… fino a me
…c’è un’obbedienza a Dio che solleva l’uomo dalle catene che lo legano alla sua condizione servile (asservita!) per portarlo alla libertà. C’è dunque un legame a Dio (più una fede che una religione) che lo slega da ogni altra oppressione, perché ogni nido in cui pure siamo cresciuti, espletata la sua funzione, diventa presto un luogo di costrizione. Da quando Israele ha visto e sperimentato questo passaggio dalla schiavitù alla libertà… nell’esodo dall’Egitto, ha riscoperto fin nelle proprie radici questa caratteristica “pasquale” del Dio degli “eletti”, il Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe…, nomadi e pellegrini in ogni terra, il Dio dei giudici, dei re, dei profeti; il Dio dei poveri e degli schiavi, dei prigionieri e degli oppressi, delle vedove e degli orfani. Finché Gesù, apertamente, con le sue parole e i suoi gesti, rivela che il Regno di Dio, che fa irruzione nella storia, vuol dire il passaggio degli uomini che lo accolgono dalla sudditanza, dalla schiavitù, dall’oppressione delle forze del male di ogni tipo, alla libertà di figli! Perché “eletti”, vuol dire esistenzialmente chiamati a partecipare della caratteristica qualificante della presenza di Dio nella storia: la libertà dell’amore! O… l’amore che libera, e apre sempre ulteriori strade di vita!
… mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi
Non poteva che essere così, il primo passo! … e S. Paolo l’ha sperimentato sulla sua pelle: se non comincia il Signore ad amarci (donandoci la capacità di amarlo, che è la liberazione dalle catene della “necessità” del peccato personale e strutturale, che ci chiudono in noi stessi) come potremmo noi cominciare, mentre siamo ancora incatenati? Chi è ammalato o affamato o schiavo o violentato… non è libero, se non trova qualcuno che lo aiuta a entrare nelle condizioni minime di respiro umano, almeno acquisendo quel minimo di libertà e di coscienza che permette di guardare a sé e all’altro con amore. E l’amore è la voglia di bene per l’altro, una voglia che rigenera non solo chi riceve, ma altrettanto chi dona un po’ della propria attenzione, del proprio affetto, del proprio accudimento… insomma un poco della propria vita! La storia, o (detto alla luce dell’amore di Dio per l’uomo, manifestato nelle Scritture) “l’economia della salvezza” è il racconto del passaggio continuo, tormentato e colmo di contraddizioni e sofferenze, da un regime di necessità e oppressione della condizione umana ad una capacità di apprendere e conquistare… un’umanità più libera e dignitosa!
vedendo le folle ne sentì “compassione”, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore… …è una compassione per la sofferenza di una deturpazione o diminuzione della vita degli uomini, come si vede dal racconto di tutta la sua vita nei vangeli, e dai “poteri” conferiti ai suoi discepoli. Infatti il vocabolo greco fa riferimento all’amore materno, al grembo ove nasce e cresce la vita. Gesù prima di ogni valutazione morale o religiosa è preoccupato della vita. Aiutare la vita umana a crescere e dilatarsi è un compito universale e indivisibile: è la redenzione!. Questo è il fuoco interiore che farà saltare tutte le barriere culturali, religiose, razziali, che sono il tributo inevitabile dell’incarnazione di questa voglia di bene in un momento umano della storia … E quindi queste barriere culturali interiorizzate erano ancor presenti nel tempo di Gesù e persistenti anche quando l’universalità della missione dei suoi discepoli apparirà manifesta… Recinzioni appesantite da tentazioni esclusive non inclusive, stabili invece che provvisorie, sacralizzate piuttosto che umili difese di amori ancora immaturi… Steccati che ci affaticano e frenano ancor oggi, perché inquinano la “riconoscenza”, che è l’esperienza originaria di amore gratuito. Quella, appunto, della “chiamata”, che, “mentre siamo ancora divisi”, quando ancor contrapponiamo giusti e ingiusti, salvati e peccatori, ortodossi ed eretici… abbiamo però già tra di noi l’antidoto a questi veleni… e umilmente “ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, dal quale ora abbiamo ottenuto la riconciliazione
Chiamati a sé i dodici discepoli, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d'infermità.
Un mandato a largo spettro. Quanto l’uomo soffre, tanto è il compito del discepolo di Gesù di aiutarlo a liberarsi! All'iniziativa di Dio, attuata da Cristo, segue la mediazione degli Apostoli e la costituzione di questo gruppo messianico di “mandati” (questo vuol dire ‘apostoli’) a liberare l’umanità stanca e sfinita come pecore senza pastore… Questi dodici Gesù li inviò dopo averli così istruiti… Una scelta radicale e determinata, questa, di legarsi e legarci storicamente a questi dodici e ai loro discepoli, promettendo di essere con loro in questo compito fino alla fine del mondo (Mt 28,20). Uomini con i loro nomi e i loro volti inconfondibili, la loro qualità umana modesta e povera, fatta di cuori grandi quanto fragili, di mani callose e situazioni sociali ambigue… ma tutti “bruciati” da un’esperienza di amore che gli ha trasformata e capovolta la vita!… La trasmissione della fede è dunque legata ai nomi e ai volti, non può diventare un’operazione di massa, perché è anzitutto un’esperienza di amore liberante. Non può essere ridotta a inculturazione, che ne può essere una conseguenza sociale. Non è un indottrinamento che sostituisca nozioni sul mondo e sull’uomo con altre nozioni migliori, ma altrettanto storicizzate e precarie… ma è l’annuncio (fatto di esperienza e speranza) che il “Regno di Dio è vicino”, per cui la gente sofferente riacquista umanità. E la chiesa ne dovrebbe essere il segno levato tra le nazioni: questo segno così raro e difficile, ma essenziale, è l’esperienza del gratuito!

Se il gratuito si appanna… nella chiesa...

di Zita DAZZI

MILANO - Una durissima lezione per gli uomini di Chiesa, peccatori come tutti gli altri uomini. E un severo ammonimento ai preti: «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo. Occorre un vero rinnovamento della mente». Malato e sofferente per il Parkinson, pensava di non farcela, il cardinale Carlo Maria Martini, a predicare gli esercizi spirituali. E invece, appena tornato da Gerusalemme, è arrivato fino a Galloro, vicino ad Ariccia, alla casa dei gesuiti, dove si recano i sacerdoti a meditare. E con loro, interrompendo le omelie di tanto in tanto per sottoporsi ai controlli clinici, è stato molto chiaro, commentando i brani della lettera di San Paolo al romani, dove si parla del peccato: «Tutti questi peccati, nessuno escluso, sono stati commessi nella storia del mondo, ma non solo. Sono stati commessi anche nella storia della Chiesa. Da laici, ma anche da preti, da suore, da religiosi, da cardinali, da vescovi e anche da papi. Tutti».
Una vera e propria lezione sui «vizi capitali» della Chiesa d’oggi, senza nessun timore di dire cose sgradevoli. Anzi con la certezza di offrire «una pista di riflessione». Martini ha voluto parlare dei «peccati che interessano proprio noi come chierici»: anzitutto i peccati «esterni», come le fornicazioni, gli omicidi e i furti, precisando «questi ci toccano meno di altri, ma comunque ci riguardano anch’essi». E poi è passato ad esaminare «le cupidigie, le malvagità, gli adulteri». Ha ammonito: «Quante bramosie segrete sono dentro di noi. Vogliamo vedere, sapere, intuire, penetrare. Questo contamina il cuore. E poi c’è l’inganno, che per me è anche fingere una religiosità che non c’è. Fare le cose come se si fosse perfettamente osservanti, ma senza interiorità».
L’arcivescovo emerito di Milano ha parlato poi dell’invidia, «il vizio clericale per eccellenza: l’invidia ci fa dire «Perché un altro ha avuto quel che spettava a me?». Ci sono persone logorate dall’invidia che dicono «Che cosa ho fatto di male perché il tale fosse nominato vescovo e io no?»«. E ancora: «Devo dirvi anche della calunnia: beate quelle diocesi dove non esistono lettere anonime. Quando io ero arcivescovo davo mandato di distruggerle. Ma ci sono intere diocesi rovinate dalle lettere anonime, magari scritte a Roma... «.
Carlo Maria Martini, vescovo per 22 anni a Milano, sente il dovere di parlare esplicitamente ai giovani preti, auspicando un rinnovamento: «Devo farlo perché sarà l’ultimo ritiro, fa parte delle scelte che fa una persona anziana e in dirittura d’arrivo, ci sono cose che devo dire alla Chiesa». La sua lezione continua giorno dopo giorno durante la settimana di ritiro spirituale. «San Paolo parla del «vanto di fare gruppo», di coloro che credono di fare molti proseliti, di portare gente perché così si conta di più. Questo difetto grave è molto presente anche nella Chiesa di oggi. Come il vizio della vanagloria, del vantarsi. Ci piace più l’applauso del fischio, l’accoglienza della resistenza. E potrei aggiungere che grande è la vanità nella Chiesa. Grande! Si mostra negli abiti. Un tempo i cardinali avevano sei metri di coda di seta. Ma continuamente la Chiesa si spoglia e si riveste di ornamenti inutili. Ha questa tendenza alla vanteria».
Non fa nomi, Martini, se non quello del papa Benedetto XVI, citato tre o quattro volte, affettuosamente: «Dobbiamo ringraziare Dio di averlo, anche se poi abbiamo qualcosa da criticare». Ma Martini è come se volesse anche mettere in guardia Ratzinger quando, riprendendo le parole del papa, mette in guardia i preti dal «vanto terribile del carrierismo»: «Anche nella Curia romana ciascuno vuole essere di più. Ne viene una certa inconscia censura nelle parole. Certe cose non si dicono perché si sa che bloccano la carriera. Questo è un male gravissimo della Chiesa, soprattutto in quella ordinata secondo gerarchie perché ci impedisce di dire la verità. Si cerca di dire ciò che piace ai superiori, si cerca di agire secondo quello che si immagina sia il loro desiderio, facendo così un grande disservizio al Papa stesso».
Un quadro fosco, che il grande biblista, dettaglia, come può solo chi conosce dall’interno i meccanismi di potere della Chiesa: «Purtroppo ci sono preti che si pongono punto di diventare vescovi e ci riescono. Ci sono vescovi che non parlano perché sanno che non saranno promossi a sede maggiore. Alcuni che non parlano per non bloccare la propria candidatura al cardinalato. Dobbiamo chiedere a Dio il dono della libertà. Siamo richiamati a essere trasparenti, a dire la verità. Ci vuole grande grazia. Ma chi ne esce è libero».
(Repubblica.it, 5 giugno 2008)

Vedi anche: Martini, il Cardinale e Dio: Il testamento del cardinale, di Marco POLITI

giovedì 12 giugno 2008

L'elezione: essere “a favore di terzi”

La tematica scottante che le letture di questa XI domenica del tempo ordinario ci propongono è quella dell’elezione: il libro dell’Esodo infatti ci parla dell’alleanza al Sinai di Dio col suo popolo Israele e il Vangelo di Matteo ci racconta la chiamata dei dodici...
La prima cosa che balza allo sguardo è come il punto di vista della narrazione sia sempre quello degli eletti. Sono loro a raccontarne la vicenda, a tentare di esplicitarne il senso, a dirne la pregnanza, mai gli altri. E questo va detto per evitare di guardare il testo da un punto prospettico a lui eterogeneo: non si possono qui chiamare in causa osservazioni o commenti lamentanti un atteggiamento di presunta superiorità, di mancata attenzione al punto di vista di quegli altri che eletti non sono o non si sentono; non si può arrivare a considerazioni banali (perché inconsistenti e prive di qualsiasi supporto argomentativo), del tipo “Ma se questi sono i testi dei cristiani, che dicono che bisogna voler bene a tutti, come mai parlano di un popolo preferito agli altri, di uomini chiamati e di altri no?”... “Saranno anche loro tra i tanti che predicano bene e razzolano male!”...
E invece no! Perché la logica evangelica è qualcosa di ben più serio e complesso di un panagapico “Vogliamoci bene e cerchiamo di essere buoni”... essa infatti ha la pretesa di arrivare a toccare la struttura antropologica, i fondamenti della vita individuale, ciò per cui si ama, ci si decide, ci si determina...
E dunque non deve scandalizzare (nel senso etimologico di farci inciampare) il punto prospettico con cui sono scritti questi testi: sono infatti l’attestazione scritta della vicenda degli eletti, di coloro che raccontano della loro struttura antropologica (di singoli, di comunità, di popolo) toccata da un sussulto dello Spirito.
E però, chiarito questo, bisogna essere altrettanto trasparenti nel mostrare quelle che ad un primo sguardo sembrano ambiguità non di poco conto: perché l’elezione? Perché questa scelta, che ai nostri orecchi di figli della carta dei diritti dell’uomo (in cui tutti gli uomini– almeno sulla carta – sono rigorosamente ritenuti uguali) suona così discriminante? Che ne è degli altri? E della prospettiva universalistica dell’amore (di Dio e dell’uomo)?
Certamente bisogna riconoscere che l’immediata identificazione di elezione e discriminazione, che emerge dalla logica delle domande appena riportate, deriva dal fatto che storicamente (sia per Israele, sia per la Chiesa) le cose siano andate proprio così: il ritrovarsi tra gli eletti, ha scatenato (inevitabilmente?) un gelosia del proprio dono, tanto da ritenerlo un privilegio che necessitava un’esclusione e dunque una condanna.
Ma il fatto che le cose siano andate così storicamente non può essere troppo banalmente liquidato facendo riferimento all’inettitudine degli uomini, a considerazioni sulla loro moralità o spiritualità... Siccome sembra che in qualche modo questa tensione storicamente sia sempre presente, ovunque ci sia una forma di elezione (anche cristiana), bisogna che ci sia qualcosa nel marchingegno umano che ne rende ragione...
La questione è fondamentale, nel senso che, ancora una volta, interpella il fondamento del nostro pensarci come uomini (inestricabilmente legato al nostro pensare Dio). L’elezione-discriminante nasce infatti dal bisogno umanissimo di salvarsi la vita. E quindi da un’immagine di dio che non lo fa: che oggi ti elegge, ma potrebbe cambiare idea. Ecco perciò il dinamismo della custodia gelosa del privilegio. A scapito degli altri (mors tua, vita mea), sui quali inevitabilmente si ha uno sguardo di rivalità, competizione, lotta per la sopravvivenza.
Ma... il Dio che ci aveva rivelato Gesù... non era così...
Anzi questa logica mondana è proprio quella che lui vuole scardinare, per instaurare la sua, quella evangelica da cui anche l’elezione (la sua) trae senso nuovo!
Senza tanti giri di parole lo si capisce subito dall’incipit del brano di vangelo: «In quel tempo, Gesù, vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore».
Ecco l’elemento che segna l’irriducibile differenza tra l’elezione divina (secondo la logica di Dio) e quella umana: il suo essere a favore di terzi.
Questo è l’elemento discriminante! È su qui che si può valutare se si è dalla parte giusta (quella di Gesù) o no.
Egli infatti, come era anche per tutto l’AT con Israele (anche se lì forse con qualche ambiguità, fumosità, magmaticità in più...), non porta certo avanti l’elezione-discriminante, bensì quella del «gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date».
Quella di Gesù non è un’aggiustatina alla mentalità umana, un insieme di indicazioni etiche per il quieto vivere, ma un capovolgimento della logica di fondo (fondante, fondamentale!): dall’elezione-discriminante all’elezione-crocifissa. Questa è l’unica vera per lui e l’unica che noi dobbiamo intendere leggendo le sue parole. Fuori da qui ci ingarbugliamo in tutti i discorsi di prima (che hanno fatto annaspare per secoli anche la teologia cattolica): che rapporto c’è tra elezione e grazia? Tra universalismo e chiamata? Tra intra ed extra ecclesiam? Tra consacrati e laici? Eccetera...
Il problema è che a noi viene immediatamente da mettere su quegli altri occhiali per leggere la realtà: quelli dell’elezione-discriminante... e il motivo l’abbiamo detto: il bisogno di salvarsi la vita (che vuol dire anche solo il bisogno di compensazioni, gratificazioni.... tutti indizi – anche se va detto con tanta trepidazione perché poi ci siam dentro tutti... – della scarsa fiducia di essere fondati da altro, su un Altro).
Ecco invece la prospettiva con la quale le letture ci vorrebbero plasmare la testa e la pancia: quella di un’elezione per gli altri. Non un’elezione, con tutto il suo corredino di privilegi, posizioni, onori, che poi con magnanimità distribuiamo agli altri; ma un’elezione, che è un essere scelti per stare dalla parte degli altri: eletti a essere per gli altri! E la chiamavo elezione-crocifissa, perché non c’è niente di più normante e scarnificante come la fedeltà alla faccia dell’altro! È una dedizione che va a morire: che o è aperta alla possibilità di morire per l’altro o– semplicemente – non è.
E se questa è la prospettiva si capisce bene perché a essere chiamati non sono né i più bravi (Dt 7,7: «Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli»), né i più religiosi (i discepoli sono pescatori, pubblicani, traditori), ma coloro che, per vicende storiche, possibilità, fortuna, codice genetico (insomma per grazia), si ritrovano coinvolti in una dinamica d’amore che li cambia dentro (Mc 3,14 «Ne costituì Dodici che stessero con lui»). E da lì non fan più ritorno indietro. E diventano «operai nella sua messe» (che differentemente da quello che ci viene subito in mente non sono tout court i preti!), cioè con le mani, gli occhi e il cuore, immischiati appassionatamente con tutti quelli che il codice genetico, la mamma, la fortuna, le condizioni sociali (e chi più ne ha più ne metta...) non hanno invece reso eletti, privilegiati, fortunati, graziati, perché liberati dentro dall’amore: «Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni».
Ma che confini ha questa messe? Gesù in Matteo inizialmente dice: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele», ma poi una donna straniera pare fargli cambiare idea: «Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano delle briciole dei figli», «Per questa tua parola va’, il demonio è uscito da tua figlia» (Mc 7,28-29), inaugurando una prospettiva che si svilupperà lungo la vita di Gesù (come rilevabile dalle sue scelte concrete: va lui stesso dai Samaritani e dai pagani) e che trova il suo esponente più compiuto in Paolo, il quale arriva a proclamare:: «Cristo morì per gli empi»! Ecco dunque i confini della dinamica dell’amore: è per tutti! La messe è l’umanità intera.

sabato 7 giugno 2008

La situazione dei diritti umani in Italia

Tortura, maltrattamenti e responsabilità delle forze di polizia
Anche la XV legislatura ha lasciato immutate le lacune relative all'attuazione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la Tortura (CAT): l'Italia resta priva di uno specifico reato di tortura nel codice penale e da più parti sono state autorevolmente segnalate le ricadute di questo inadeguato quadro legale sulla possibilità che le forze di polizia rispondano effettivamente del proprio operato. Il rischio di impunità è aggravato dalla mancanza di forme di identificazione dei singoli agenti di polizia durante le operazioni di ordine pubblico e dall'assenza di organismi indipendenti di monitoraggio. L'Italia non si è ancora dotata di un'istituzione nazionale di monitoraggio sui diritti umani e di un organismo indipendente di controllo sull'operato della polizia e non ha ancora ratificato il Protocollo opzionale alla CAT, il quale imporrebbe l'adozione di meccanismi di prevenzione. Questo quadro desolante viene da anni segnalato da Amnesty International (AI) alle autorità competenti e nel corso del 2007 è stato nuovamente oggetto delle raccomandazioni del Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura.
Genova G8 2001: procedimenti in corso
Sono proseguiti i processi per le violenze commesse nel corso del G8 del 2001 da agenti di polizia, personale sanitario e agenti di polizia penitenziaria, denunciate in quei giorni ed emerse successivamente. A marzo 2007, la Corte europea per i diritti umani ha dichiarato ammissibile il ricorso presentato per il caso di Carlo Giuliani, che venne colpito a morte da un carabiniere durante le manifestazioni. L'inchiesta in Italia era stata chiusa nel maggio 2003, quando il giudice per le indagini preliminari aveva stabilito di non procedere contro il carabiniere poiché, secondo il giudice, questi aveva sparato per autodifesa e la traiettoria del proiettile era stata deviata da un calcinaccio lanciato da un manifestante. Nel processo per le violenze contro 93 manifestanti nell'irruzione alla "scuola Diaz" (complesso scolastico Diaz-Pascoli-Pertini) risultano imputati 28 agenti e funzionari di polizia, tra cui Francesco Gratteri, attuale Direttore della direzione centrale anticrimine della Polizia di Stato e Giovanni Luperi, ora a capo di un dipartimento all'Aisi (ex Sisde). Durante le udienze succedutesi negli ultimi mesi sono emersi elementi scioccanti relativi alle violenze denunciate e sono stati descritti gli effetti delle stesse sulla vita delle vittime. All'udienza del 13 giugno 2007, un funzionario di polizia imputato nel processo, diversamente da quanto dichiarato in precedenza, ha ammesso di aver assistito a gravi violenze perpetrate dagli agenti nel corso dell'irruzione e ha richiamato il ricordo di una ragazza con gravi lesioni alla testa, da lui vista giacere in terra in una pozza di sangue. Il 6 luglio 2007 sono state depositate le registrazioni delle comunicazioni telefoniche tra gli agenti di polizia impegnati nelle operazioni e la centrale operativa del 113. In una di queste, riportata dai media, si sente un'agente di polizia dire: "Ero a caricare le zecche (...) speriamo che muoiano tutti (...) tanto uno è già...1-0 per noi". Altre conversazioni telefoniche fanno riferimento ai feriti durante l'irruzione alla scuola Diaz. Nel medesimo procedimento si sono verificate irregolarità nella conservazione di prove chiave per l'accertamento di responsabilità delle forze di polizia. All'udienza del 17 gennaio 2007 si è infatti appreso che le bottiglie molotov, portate secondo l'accusa alla scuola Diaz dalla polizia per giustificare gli arresti, erano sparite mentre si trovavano sotto sequestro; alcuni giorni dopo la questura di Genova ha dichiarato che potrebbero essere state distrutte "per errore". Sono inoltre emersi indizi che hanno condotto, nel marzo 2008, alla richiesta di rinvio a giudizio per incitamento alla falsa testimonianza di Gianni De Gennaro, Capo della polizia all'epoca dei fatti. L'udienza preliminare nel corso della quale si deciderà sul rinvio a giudizio inizierà il 16 giugno. Gianni De Gennaro è stato Capo di Gabinetto del ministro dell'Interno Amato ed è stato recentemente nominato Direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (ufficio di coordinamento dei servizi di intelligence). Nel processo per le violenze nel carcere di Bolzaneto sono imputati 45 tra agenti e funzionari di polizia (incluso l'allora vice Questore di Genova Alessandro Perugini), agenti e funzionari di polizia penitenziaria e medici, per violenze nei confronti degli oltre 250 manifestanti transitati dal carcere in stato d'arresto o di fermo. A marzo 2008 i pubblici ministeri hanno presentato le proprie richieste al giudice, con una significativa requisitoria. Secondo i pubblici ministeri, il trattamento delle persone a Bolzaneto è stato "di oggettiva vessazione nei confronti di tutti i detenuti e per tutto il periodo della loro permanenza presso il sito" e ha violato il divieto di tortura e maltrattamenti previsto dalla Convenzione europea dei diritti umani. Oltre alle violenze fisiche, i pubblici ministeri hanno ritenuto offensive della dignità "le costrizioni ad ascoltare o pronunciare o gridare slogan, inni o motivi inneggianti al nazismo ed al fascismo in particolare". Le memorie dei pubblici ministeri hanno segnalato che, in mancanza di un reato specifico nell'ordinamento penale, è difficile ricondurre i fatti che costituirebbero tortura nelle fattispecie ordinarie. I reati contestati agli imputati sono: abuso di autorità contro arrestati o detenuti, abuso d'ufficio, ingiuria, violenza privata, minacce, percosse e lesioni personali (e omissione di referto per i medici). I pubblici ministeri hanno sottolineato l'assoluta necessità di introdurre il reato di tortura nell'ordinamento italiano. Ad aprile e agosto 2007 il giudice civile ha condannato il ministero dell'Interno a versare rispettivamente 5.000 euro di risarcimento a Marina Spaccini e 18.000 euro a Simona Coda Zabetta, le quali furono picchiate da agenti di polizia mentre manifestavano. Il ministero dell'Interno ha proposto appello contro entrambe le sentenze. Contrariamente a quanto richiesto da AI al fine di evitare il diffondersi di un clima di impunità, nessuno dei funzionari e agenti imputati nei processi è stato sospeso dal servizio. Diversi di loro sono stati, di fatto, promossi. I reati con cui sono perseguiti gli agenti di polizia sono soggetti a prescrizione e lo scorrere del tempo porta con sé il forte rischio che i processi si chiudano senza che nessuno venga ritenuto penalmente colpevole, né di fatto punito, per gli atti commessi nel luglio 2001.
Val di Susa 2005: procedimento in corso
Ad agosto 2007 il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino ha rigettato la richiesta del pubblico ministero di archiviare il procedimento aperto dalle denunce presentate da 20 persone, relative ad atti di violenza da parte delle forze di polizia intervenute in Val di Susa nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2005. In quell'occasione, alcune centinaia di agenti di polizia intervennero per far sgomberare circa 100 persone che manifestavano contro la costruzione di un collegamento ferroviario ad alta velocità. Secondo quanto riferito, i dimostranti furono aggrediti e picchiati, alcuni di essi durante il sonno. Il pubblico ministero aveva chiuso le indagini chiedendo l'archiviazione sulla base dell'affermazione che gli agenti accusati non potessero essere identificati, mentre il giudice ha chiesto un supplemento di indagine.
La morte di Federico Aldrovandi: procedimento in corso
Il 19 ottobre 2007 ha avuto inizio il processo contro quattro agenti di polizia accusati dell'omicidio colposo di Federico Aldrovandi, morto a Ferrara il 25 settembre 2005 dopo essere stato fermato dai quattro agenti. Durante le indagini preliminari, erano spariti e quindi riapparsi campioni di sangue raccolti sul luogo in cui Federico Aldrovandi era morto, mentre sono apparse alterate le registrazioni di telefonate ai servizi di emergenza effettuate la notte del decesso.
La morte di Aldo Bianzino e di Gabriele Sandri
Il 14 ottobre 2007 Aldo Bianzino, un falegname di 44 anni, è morto nel carcere di Capanne a Perugia, dove era stato condotto in stato d'arresto due giorni prima assieme alla sua compagna. La morte è avvenuta in circostanze oggetto di inchieste giudiziarie. Nel febbraio 2008 il pubblico ministero ha chiesto l'archiviazione del caso, sulla quale si attende il pronunciamento del giudice. Il 10 novembre 2007 Gabriele Sandri, un ragazzo di 26 anni, è stato ucciso da un colpo d'arma da fuoco esploso da un agente della polizia stradale, mentre si trovava in uscita da un autogrill in auto con alcuni amici, assieme i quali era diretto a Milano per seguire la partita della sua squadra in trasferta. Sul caso sono in corso indagini da parte della magistratura.

Erosione dei diritti umani nella "guerra al terrore": le scelte dell'Italia
Nel corso del 2007 e della prima metà del 2008 le scelte dell'Italia circa il rispetto dei diritti umani nell'ambito della lotta al terrorismo si sono mosse lungo linee analoghe a quelle percorse negli anni precedenti. La politica del sospetto applicata alle espulsioni e una tenace riluttanza a fare chiarezza sugli abusi commessi in nome della "guerra al terrore" hanno caratterizzato l'approccio delle autorità di governo. In quest'ambito, l'Italia ha anche contribuito a mettere a rischio la tenuta del principio internazionale che impone il divieto assoluto di tortura.
Rendition
Il governo Italiano non ha collaborato pienamente alle indagini degli organismi internazionali che hanno accertato precise responsabilità dell'Italia nelle rendition (trasferimenti illegali di persone da un paese all'altro, generalmente culminanti in arresti arbitrari, sparizioni, detenzione senza processo e tortura). Tre casi di rendition denunciati da un'indagine del Parlamento europeo chiamano in causa l'Italia: Abu Omar (rapito a Milano nel 2003), Maher Arar (condotto nel 2002 verso la Siria da un volo Cia per Amman con scalo a Ciampino) e Abou El Kassim Britel (cittadino Italiano arrestato in Pakistan nel 2002 e tuttora imprigionato in Marocco). L'indagine, realizzata dalla Commissione temporanea del Parlamento europeo (Tdip), ha condotto il 30 gennaio 2007 alla pubblicazione del rapporto sul "presunto utilizzo di paesi europei da parte della Cia per il trasporto e la detenzione illegali di persone" (relatore: on. Claudio Fava) secondo il quale tra il 2001 e il 2005 gli aerei legati alla CIA hanno fatto scalo almeno 1245 volte nei paesi europei. Il rapporto ha documentato che gli aerei della Cia hanno fatto scalo in Italia 46 volte, toccando 15 aeroporti: Pisa, Roma, Sigonella (Catania), Napoli, Bari, Firenze, Venezia, Palermo, Milano, Brindisi, Cagliari, Catania, Olbia, Genova, Montichiari (Brescia). Le autorità di governo responsabili dei servizi segreti al momento dell'indagine (Governo Prodi: on. Enrico Micheli, allora Sottosegretario alla presidenza del Consiglio e on. Enzo Bianco, allora presidente del Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti) e quelle del precedente Governo Berlusconi (Gianni Letta, allora Sottosegretario alla presidenza del Consiglio) hanno rifiutato di incontrare la commissione, scelta deplorata dal Parlamento Europeo nella risoluzione del 14 febbraio 2007. L'8 giugno 2007 l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa (Pace) ha adottato il secondo rapporto del Senatore Dick Marty sulle "detenzioni segrete e i trasferimenti illegali di detenuti che coinvolgono Stati membri del Consiglio d'Europa". Anche questo documento critica le scelte del governo italiano in merito all'accertamento della verità sul rapimento di Abu Omar.
I casi di Abu Omar, Maher Arar, Abou El Kassim Britel
Le indagini della magistratura italiana e l'avvio del processo sul coinvolgimento di funzionari di intelligence italiani e statunitensi nella rendition di Abu Omar stanno contribuendo a svelare la verità per mezzo della giustizia. Il 16 febbraio 2007 il giudice Caterina Interlandi, accogliendo la richiesta dei pubblici ministeri Armando Spataro e Ferdinando Pomarici, ha rinviato a giudizio 26 cittadini Usa per lo più presunti agenti della Cia e 7 funzionari del Sismi per il rapimento dell'imam egiziano Abu Omar, prelevato a Milano il 17 febbraio 2003 e trasferito in Egitto, ove è stato detenuto arbitrariamente e, secondo quanto da lui dichiarato, sottoposto a torture. Tra i funzionari Italiani rinviati a giudizio, Nicolò Pollari e Marco Mancini, rispettivamente direttore e alto funzionario del Sismi al momento del rapimento. Il maresciallo dei carabinieri Luciano Pironi e il giornalista Renato Farina, diversamente coinvolti, hanno patteggiato la pena, mentre altri funzionari, per i quali era stata chiesta l'archiviazione, sono stati successivamente rinviati a giudizio. Due giorni prima del rinvio a giudizio, l'allora presidente del Consiglio Romano Prodi ha promosso un ricorso per conflitto di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale, sostenendo che la Procura di Milano avesse invaso i poteri attribuiti al governo, apprendendo documenti coperti da segreto di stato e ottenendo l'autorizzazione a intercettare utenze telefoniche del Sismi. Un ricorso simile è stato presentato nei confronti del Giudice per le indagini preliminari. Nei due ricorsi si chiede rispettivamente l'annullamento della richiesta di rinvio a giudizio e del decreto che dispone il giudizio. Procedimento analogo e opposto è stato promosso nei confronti del governo dalla Procura. L'8 giugno 2007 si è aperto il processo penale, ma dopo pochi giorni il giudice ha deciso di sospenderlo in attesa della decisione della Corte costituzionale, così accogliendo una richiesta presentata da Pollari e dagli altri imputati. La sospensione, non obbligatoria, è stata motivata con ragioni di economia processuale, in considerazione della potenziale inutilizzabilità di alcune prove a seguito del giudizio costituzionale. La Corte costituzionale ha dichiarato ammissibili i ricorsi e ha fissato un'udienza per gennaio 2008, poi rinviata all'ultimo momento apparentemente in vista di una possibile "risoluzione concordata del conflitto" tra Governo e Procura, sinora non realizzatasi. In seguito, l'udienza di discussione dei tre citati ricorsi innanzi alla Corte Costituzionale è stata fissata per l'8 luglio 2008. Il 19 marzo 2008 il giudice di Milano ha deciso che il processo per il rapimento di Abu Omar dovesse ripartire. Il riavvio del processo agli agenti statunitensi e italiani accusati di coinvolgimento in questo paradigmatico caso di rendition rappresenta un importante passo in avanti per l'accertamento della verità e delle responsabilità. Il 13 maggio 2008 si è tenuta un'udienza nel corso della quale è stata ascoltata la moglie di Abu Omar, Nabila Ghali e il giudice ha ammesso a testimoniare Romano Prodi e Silvio Berlusconi. La prossima udienza è prevista per il 28 maggio. Gli imputati statunitensi sono tutti contumaci e il ministro della Giustizia durante la XV Legislatura, Clemente Mastella, non ha mai risposto alla richiesta della Procura di Milano di inoltrare al Governo Usa le richieste di estradizione dei 26 agenti, nonostante sollecitazioni giuntegli in tal senso dal Parlamento europeo, dal Consiglio d'Europa e da AI, organizzazione i cui rappresentanti il ministro non ha voluto incontrare. Con la citata risoluzione del 14 febbraio 2007, il Parlamento europeo ha deplorato "il fatto che il generale Nicolò Pollari, già direttore del Sismi, abbia nascosto la verità" alla Commissione e si è rammaricato che il rapimento di Abu Omar abbia messo a rischio le indagini sulla rete terroristica a cui Abu Omar era collegato. Dal canto suo, l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa (Pace) ha criticato la scelta del governo Italiano di ostacolare la ricerca della verità sul caso di Abu Omar attraverso l'invocazione del segreto di stato e ha stigmatizzato la scelta dell'Italia di preservare "ad ogni costo" le relazioni con gli Usa. Il Parlamento europeo ha inoltre deplorato il coinvolgimento dell'Italia nella rendition di Maher Arar, cittadino canadese di origini siriane condotto in Siria con un volo della Cia per la Giordania, che fece scalo a Ciampino l'8 ottobre del 2002. In Siria Maher Arar è stato detenuto per un anno e ripetutamente torturato; diverso tempo dopo la liberazione e il ritorno in Canada ha ottenuto le scuse e un risarcimento dal suo governo per quanto accadutogli. Da informazioni pubblicamente disponibili, sul caso risulta essere in corso un'indagine della procura di Roma. Oggetto dell'indagine del Parlamento europeo anche il caso di Abou El Kassim Britel, cittadino italiano arrestato in Pakistan nel marzo 2002 dalla polizia pakistana, interrogato da agenti statunitensi e pakistani e successivamente consegnato alle autorità marocchine. Secondo la documentazione trasmessa alla Commissione dall'avvocato di Britel, dopo l'arresto il ministero dell'Interno italiano era stato in "costante cooperazione" con i servizi segreti stranieri. Abou El Kassim Britel è tuttora detenuto in Marocco. Le indagini della magistratura italiana nei suoi confronti si sono chiuse senza alcuna incriminazione.
Gli effetti delle espulsioni antiterrorismo del "decreto Pisanu" e l'intervento della Corte europea dei diritti umani
Nonostante le richieste del Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura (Conclusioni del 18 maggio 2007), l'Italia ha mantenuto pressoché immutate le norme sull'espulsione contenute dalla Legge 155/05, il cosiddetto "decreto Pisanu", riguardante misure urgenti per la lotta al terrorismo. Esse prevedono l'espulsione di migranti regolari e irregolari sulla base di una vaga definizione del rischio da essi posto ( "fondati motivi di ritenere" che la loro "permanenza nel territorio dello Stato possa in qualsiasi modo agevolare organizzazioni o attività terroristiche") e senza tutela efficace contro il rimpatrio forzato in paesi in cui rischiano la tortura e altre violazioni gravi. La legge non presuppone necessariamente che la persona espulsa sia stata condannata o accusata di un reato - di natura terroristica o meno - né che l'espulsione venga convalidata da un giudice. Il ricorso contro l'espulsione non ne sospende l'esecuzione. Il 28 febbraio 2008 la Corte europea dei diritti umani ha definitivamente annullato il provvedimento di espulsione nei confronti del cittadino tunisino Nassim Saadi, emesso dall'Italia nell'agosto 2006 sulla base del "decreto Pisanu" e allora sospeso in via cautelare e urgente dalla stessa Corte. Quest'ultima, nel definire il caso, ha ritenuto che dai rapporti di AI, ritenuti credibili, coerenti e corroborati da numerose altre fonti, emerge "un rischio concreto" che Saadi sarebbe sottoposto a tortura o ad maltrattamenti in caso di rientro in Tunisia. L'allora ministro Mastella si era recato nel maggio 2007 in Tunisia per chiedere c.d. "assicurazioni diplomatiche" che Nassim Saadi non sarebbe stato sottoposto a tortura e maltrattamenti, "assicurazioni" poi prodotte nel procedimento a suffragio della richiesta alla Corte di non annullare l'espulsione. L'Italia aveva inoltre sostenuto, con il supporto del Regno Unito intervenuto nel giudizio, che nella valutazione sull'espulsione il rischio corso dalla persona di essere sottoposta a tortura e altri abusi dovesse essere controbilanciato dal rischio posto da questa. La Corte ha rigettato questa teoria del "bilanciamento" e ha riaffermato la natura assoluta del divieto di tortura e altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti, principio messo a rischio (nella sua stessa essenza e non soltanto rispetto al tema dell'espulsione) dalle tesi sostenute dall'Italia. Nonostante ripetute richieste di AI, l'allora ministro dell'Interno Amato non ha annullato l'espulsione da lui emessa nei confronti di Cherif Foued Ben Fitouri, rimpatriato in Tunisia il 4 gennaio 2007 sulla base delle norme del pacchetto Pisanu. Dopo l'arrivo in Tunisia Ben Fitouri, che ha moglie italiana e tre bambine, è stato trattenuto in detenzione segreta per oltre 12 giorni e in seguito incarcerato e sottoposto a processo sulla base della legge antiterrorismo tunisina. Secondo informazioni ricevute da AI egli è stato sottoposto a tortura e maltrattamenti mentre sua moglie e le sue bambine, in Italia, hanno scontato gli effetti della sua prolungata assenza.

Rom e migranti: discriminazione, xenofobia e provvedimenti sulla "sicurezza"
Nel corso del 2007 e della prima metà del 2008, diversi esponenti politici locali e nazionali hanno usato un linguaggio discriminatorio nei confronti dei rom e dei migranti. Nello stesso periodo si sono susseguiti provvedimenti dichiaratamente a protezione della "sicurezza", in realtà prevalentemente orientati a facilitare l'espulsione dei cittadini dell'UE e dei migranti irregolari.
Discriminazione e xenofobia
Il 31 ottobre 2007 è stata aggredita e uccisa a Roma una donna di 47 anni, Giovanna Reggiani; dell'omicidio è accusato un cittadino rumeno, da alcuni ritenuto appartenere alla minoranza rom. All'episodio sono subito seguite dichiarazioni di esponenti politici locali e nazionali che alludevano a responsabilità collettive di minoranze e gruppi di migranti. Nelle ore immediatamente successive al crimine, gli organi di informazione hanno riportato le dichiarazioni del segretario del Partito Democratico e allora sindaco di Roma Walter Veltroni, secondo le quali "prima dell'ingresso della Romania nell'Unione europea, Roma era la metropoli più sicura del mondo", e ancora: "Se si sta in Europa bisogna starci a certe regole: la prima non può essere quella di aprire i boccaporti e mandare migliaia di persone da un Paese europeo all'altro". In un'intervista rilasciata il 4 novembre successivo l'on. Gianfranco Fini, presidente di Alleanza Nazionale, ha dichiarato: "C'è chi non accetta di integrarsi, perché non accetta i valori e i principi della società in cui risiede" e ha così risposto alla giornalista che gli chiedeva se si stesse riferendo ai rom: "Sì, mi chiedo come sia possibile integrare chi considera pressoché lecito e non immorale il furto, il non lavorare perché devono essere le donne a farlo magari prostituendosi, e non si fa scrupolo di rapire bambini o di generare figli per destinarli all'accattonaggio. Parlare di integrazione per chi ha una 'cultura' di questo tipo non ha senso". Negli stessi giorni sono state riportate queste dichiarazioni del prefetto di Roma Carlo Mosca: "Firmerò subito i primi decreti di espulsione. La linea dura è necessaria perché di fronte a delle bestie non si può che rispondere con la massima severità". Il 6 novembre 2007 l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha espresso preoccupazione per il clima di intolleranza manifestatosi in quei giorni e per lo "stato di tensione nei confronti degli stranieri alimentato negli anni anche da risposte demagogiche alle tematiche dell'immigrazione messe in atto dalla politica"; il giorno seguente il presidente dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa ha messo in guardia l'Italia circa il rischio di una "caccia alle streghe" contro i cittadini rumeni e in particolare contro i rom. Nei mesi successivi sono state riferite molteplici dichiarazioni analoghe di esponenti dei diversi schieramenti politici di livello nazionale o locale. Nel dicembre 2007 gli organi di stampa hanno riportato le affermazioni di un consigliere comunale del Comune di Treviso che invocava "metodi da SS per gli immigrati che recano disturbo", mentre più di recente un deputato della Lega Nord ha affermato: "Storicamente contro le invasioni ogni Stato ha sempre utilizzato il proprio esercito per difendersi. Oggi la storia si ripete: siamo sotto un diverso tipo di invasione, attuata con metodi diversi, ma per gli stessi motivi, ovvero soggiogarci a leggi altrui o depredare i nostri beni". Nel corso del 2007 e sino al maggio 2008 si sono verificati attacchi violenti ad accampamenti rom in diverse città, tra cui Appignano - Ascoli Piceno (aprile 2007), Roma (settembre 2007), Torino (ottobre 2007) e Ponticelli - Napoli (maggio 2008). Sono state anche segnalate dagli organi di informazione diverse aggressioni ai danni di immigrati romeni e di altre nazionalità, tra cui i recentissimi episodi che hanno colpito a Roma, nel quartiere Pigneto, cittadini del Bangladesh. A marzo 2008, il Comitato delle Nazioni Unte per l'eliminazione della discriminazione razziale (CERD/C/ITA/CO/15) ha espresso preoccupazione per le condizioni di "segregazione di fatto" in cui si trovano i rom in Italia, privi di accesso ai servizi essenziali, e per i discorsi di odio dei politici. Il Comitato ha evidenziato gli stereotipi riguardanti i rom diffusi nell'opinione pubblica e presso i Comuni, i quali danno origine a ordinanze discriminatorie. Preoccupazione è stata espressa anche rispetto alla situazione dei migranti irregolari. Il 16 maggio 2008, a seguito dei citati attacchi incendiari avvenuti a Ponticelli, l'Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell'Osce ha espresso preoccupazione per l'aumento della retorica anti-rom e anti-immigrati verificatasi negli ultimi mesi e ha ricordato che la ricorrente stigmatizzazione di questi gruppi aumenta le probabilità che si verifichino violenze. Il 20 maggio 2008 la European Roma Policy Coalition, di cui AI fa parte, ha chiesto con urgenza alle autorità italiane di agire contro l'uso di dichiarazioni anti-rom da parte media e dei politici italiani e ha affermato che l'Italia ha alimentato il razzismo attraverso la retorica anti-rom.
Provvedimenti sulla "sicurezza"
Nonostante le indagini sui centri di detenzione per migranti da parte del ministero dell'Interno, all'esito delle quali erano state avanzate ipotesi di ridimensionamento dell'uso della detenzione, le modifiche intervenute durante la XV legislatura in materia di soggiorno ed espulsione di cittadini stranieri non si sono occupate di riavvicinare la normativa agli standard internazionali sui diritti umani, ma hanno piuttosto introdotto restrizioni dichiaratamente miranti alla "sicurezza". Il disegno di legge Amato - Ferrero si è arenato in Parlamento dopo poche sedute, lasciando la legge c.d. Bossi-Fini pressoché immutata nei suoi aspetti più preoccupanti, come l'utilizzo generalizzato della detenzione a scopo di espulsione senza la previsione di alcuna alternativa. Il decreto legislativo 32 del 2 marzo 2008 ha introdotto restrizioni al soggiorno dei cittadini Ue, ampliando i casi di espulsione. Queste modifiche sono l'esito dell'emanazione consecutiva di più atti normativi, a partire dal decreto legge 181 del 2 novembre 2007 adottato dal Consiglio dei ministri riunitosi in via straordinaria a seguito dell'omicidio di Giovanna Reggiani, decreto poi decaduto e "reiterato" con modifiche a dicembre 2007. Entrambi i decreti sono stati oggetto di critiche da parte di AI e di altre organizzazioni non governative per la forte indeterminatezza dei nuovi motivi di espulsione dei cittadini Ue, in particolare i "motivi imperativi di pubblica sicurezza", lasciati scarsamente definiti nella norma e quindi fonte di un'eccessiva discrezionalità delle autorità chiamate ad applicarle, tra cui i prefetti. I contenuti della decretazione d'urgenza sono infine confluiti nel citato D.Lgs. 32/2008 che, migliorando il testo originario, ha introdotto la necessità di convalida del giudice ordinario per tutti i provvedimenti di espulsione. Restano non ancorati a parametri legali certi i presupposti dell'espulsione. Nel corso del primo consiglio dei Ministri del 21 maggio 2008 il governo Berlusconi in carica ha approvato un insieme di modifiche e proposte normative, anch'esse nominalmente riferite alla "sicurezza", che prevedono pesanti restrizioni e nuove figure di reato le quali colpiscono soprattutto gli immigrati, direttamente o indirettamente. Il giorno stesso il ministro dell'interno Maroni ha così potuto annunciare l'introduzione del "reato di immigrazione clandestina, con una procedura rapida di giudizio e di espulsione (...) e il trattenimento nei CPT fino a 18 mesi, anticipando una direttiva europea" attualmente in discussione. Le nuove misure sono state accompagnate da diverse dichiarazioni in linea con la tendenza segnalata a stigmatizzare interi gruppi di persone, in particolare i rom e i migranti irregolari; il leader dell'opposizione Walter Veltroni ha dichiarato che queste misure in larga parte coincidono con quelle pianificate dalla precedente maggioranza di governo. Il cosiddetto "pacchetto sicurezza" più precisamente include:
un decreto legge che punisce con la reclusione e la confisca del bene chi affitta un immobile a un immigrato irregolare, attribuisce più ampi poteri ai sindaci in materia di "ordine e sicurezza pubblica" e rende una circostanza aggravante di qualsiasi reato quella di essere stato commesso da un immigrato irregolare;
un disegno di legge che propone di considerare reato l'ingresso e il soggiorno irregolare in Italia e intende portare a 18 mesi il tempo massimo della detenzione nei centri a scopo di espulsione (ora di 60 giorni);
una bozza di decreto legislativo che prevede la cancellazione dell'effetto sospensivo dell'espulsione, recentemente attribuito al ricorso contro lo status di rifugiato ; altre due bozze di decreti legislativi che inaspriscono le norme relative ai ricongiungimenti familiari e al soggiorno dei cittadini Ue.
Hanno espresso allarme per la riforma normativa molte organizzazioni non governative italiane e internazionali e lo stesso Unhcr, il quale ha sottolineato come i richiedenti asilo, spesso costretti dalla mancanza di alternative a fare ingresso irregolarmente nei paesi dove cercano protezione, potrebbero venire accusati di aver commesso un reato. AI è estremamente allarmata per il contenuto di queste misure, per le modalità affrettate e propagandistiche della loro emanazione e per il clima di discriminazione che le ha precedute e che le accompagna. L'incriminazione dei richiedenti asilo per ingresso irregolare è peraltro espressamente escluso dalla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati.

Diritti dei rifugiati e dei minori migranti
Miglioramenti legislativi e rischiosi passi indietro
Alcuni miglioramenti sono stati introdotti nel 2007 nella normativa e nella prassi in materia di asilo e rispetto ai minori migranti giunti alla frontiera. Essi tuttavia vengono ora messi a rischio dalle proposte di riforma incluse nel citato "pacchetto sicurezza", che intervengono in un quadro ancora privo di una legge organica sull'asilo. A seguito della chiusura della propria campagna Invisibili a giugno del 2007, che ha raccolto 50.000 firme e si è articolata in oltre 200 iniziative nel corso di 16 mesi, AI ha segnalato i miglioramenti intervenuti relativamente ai minori giunti in Italia via mare. Tra essi la drastica riduzione dei tempi di detenzione dei minori non accompagnati all'arrivo, l'emanazione di regole di identificazione che ancorano l'identificazione al principio di presunzione della minore età in caso di dubbio e la pubblicazione dei dati relativi agli arrivi dei minori via mare, i quali hanno mostrato la loro forte presenza all'interno di quelli che, con gergo militaresco, vengono definiti "sbarchi" di immigrati. Nel 2007 i minori hanno rappresentato oltre il 10,5 % degli arrivi via mare. Agli inizi del 2008, la materia dell'asilo è stata profondamente modificata con l'entrata in vigore di due decreti legislativi emanati dal Governo a novembre 2007, in attuazione di altrettante direttive Ue, rispettivamente il D. Lgs 251/2007 sulla qualifica di rifugiato entrato in vigore il 19 gennaio 2008 e il D. Lgs. n. 25/2008 sulle procedure di asilo, entrato in vigore il 2 marzo 2008. I due decreti hanno introdotto alcuni importanti miglioramenti, tra cui l'effetto sospensivo dell'espulsione determinato dalla presentazione del ricorso contro il diniego della domanda di asilo (effetto sin ad allora escluso, con gravi rischi in caso di rimpatrio forzato del richiedente asilo la cui domanda fosse stata erroneamente rigettata in prima istanza). Come si è detto le modifiche delle norme prospettate nel citato "pacchetto sicurezza" includono la cancellazione dell'effetto sospensivo e quindi rappresenterebbero un pericoloso passo indietro, ripristinando, ad appena tre mesi dall'adozione di nuove norme ancora non applicate, una situazione in cui il richiedente asilo la cui domanda sia respinta in prima istanza rischia di essere rimpatriato senza alcun vaglio sui rischi corsi e quindi in violazione del principio di non-refoulement. Inoltre, in caso di un generale inasprimento delle norme sulla detenzione, i minori, in particolare se al seguito di genitori irregolari, non sarebbero al riparo dai rischi.
La collaborazione tra Italia e Libia in materia di contrasto all'immigrazione
È proseguita la collaborazione con la Libia in materia di contrasto all'immigrazione irregolare sulla base di accordi segreti e senza che alcuna condizione venisse posta dall'Italia in materia di rispetto dei diritti umani. La Libia non ha ratificato la Convenzione sullo status di rifugiato, non ha una procedura di asilo e si macchia ogni anno di gravi violazioni dei diritti dei rifugiati e dei migranti, tra cui la detenzione arbitraria e le violenze contro i migranti detenuti, comprese le donne. Gli intensi rapporti diplomatici tra i due paesi hanno condotto il 29 dicembre 2007 a un accordo bilaterale che prevede il pattugliamento marittimo congiunto attraverso un nucleo operativo italo-libico a comando libico, per mezzo di sei navi della Guardia di Finanza fornite dall'Italia, senza che venga chiarito cosa debba accadere alle persone, migranti e rifugiati, respinte in mare dalle unità navali. L'Italia ha ultimato e consegnato al governo libico una struttura a Gharyan destinata, secondo quanto dichiarato dal ministero dell'Interno nel luglio 2007, "a scuola per l'addestramento e la formazione degli allievi agenti della polizia libica, nell'ambito dei rapporti di collaborazione delle forze di polizia", mentre non si hanno notizie precise circa il centro previsto a Kufra e definito dallo stesso ministero dell'Interno un "centro sanitario di frontiera". La lettera con cui AI chiedeva all'allora ministro Amato chiarimenti circa un'operazione realizzata in Libia con la collaborazione di personale italiano di pubblica sicurezza nei confronti di 190 migranti sudanesi, eritrei, etiopi e di altre nazionalità, tra cu 17 donne e 3 bambini, è rimasta senza risposta. Con il decreto legge di rifinanziamento delle missioni italiane all'estero, il governo Prodi ha destinato alla collaborazione con la Libia oltre 6 milioni e 200 mila di euro. Il decreto è stato convertito in legge dal Parlamento il 13 marzo 2008.

Commercio di armi e bambini soldato
Sussiste una preoccupante disomogeneità delle norme che regolano le esportazioni di armi da guerra e delle piccole armi ad uso civile. Il commercio delle armi leggere e di piccolo calibro (fucili, pistole, munizioni ed esplosivi), le più diffuse nei conflitti in cui sono utilizzati bambini come soldati, non rientra nell'ambito della disciplina della Legge 185/1990, che contiene severe disposizioni procedurali per l'esportazione, l'importazione ed il transito di armi ad uso bellico verso paesi terzi, ma è regolamentato dalla Legge 110/1975 la quale, al contrario, non prevede limiti alle esportazioni sulla base dello standard dei diritti umani del paese importatore e del coinvolgimento del paese stesso in una guerra interna o internazionale. È quindi ammesso e possibile che l'Italia venda armi leggere a soggetti privati o a governi di paesi in cui persone con meno di 18 anni partecipano alle ostilità come parte di eserciti o di gruppi armati. Nel gennaio 2008, il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha reso pubblico il Rapporto Annuale 2007, destinato all'attenzione del Consiglio di Sicurezza, in cui si conferma il reclutamento e l'utilizzo di bambini soldato in diversi paesi già segnalati nel 2006, tra cui: Burundi, Ciad, Colombia, Repubblica Democratica del Congo, Nepal, Filippine, Uganda e Afghanistan. Da un'analisi dei dati disponibili si rileva che, tra il 2002 e il 2007, l'Italia ha autorizzato l'esportazione di armi leggere e di piccolo calibro verso soggetti privati o statali delle Filippine per € 7.169.863, in Afghanistan per € 3.189.346, e in Colombia per € 1.027.196, nonché verso soggetti privati o statali, nella Repubblica Democratica del Congo per € 179.582, in Nepal per € 18.321, in Uganda per € 10.088, in Burundi per € 9.017, e in Ciad per € 1.756. Inoltre, nonostante gli elevati standard sui diritti umani contemplati dalla Legge 185/1990, non sempre le autorizzazioni all'esportazione di armi hanno effettivamente evitato che queste finissero a governi di paesi in cui i bambini vengono utilizzati come soldati. L'Italia, tra il 2002 e il 2006, ha infatti venduto armi alle forze armate delle Filippine per 1,6 milioni di euro e della Colombia per 2,3 milioni di euro.Tutto ciò avviene in aperto e palese contrasto con gli impegni assunti a livello internazionale: in particolare, in occasione della candidatura italiana a componente del nuovo Consiglio delle Nazioni Unite sui diritti umani per il triennio 2007-2010, il governo italiano si è impegnato a tutelare i diritti dell'infanzia, specialmente dei minori coinvolti nei conflitti armati e a settembre 2007 il ministero degli Affari esteri ha presentato uno speciale "Minori soldato una sfida ancora aperta" in cui si evidenziava il ruolo dell'Italia nel contrastare l'utilizzo dei bambini soldato.

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