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lunedì 31 agosto 2009

Il celibato dei preti, perché sceglierlo ancora? - di Stefano Guarinelli

INTERVISTA ALL’AUTORE

Nella chiesa si vive oggi un calo di vocazioni sacerdotali. I media di frequente danno risalto a notizie di deviazioni sessuali aventi come protagonisti preti cattolici. Tutta colpa del celibato?
Legare le devianze al celibato sembrerebbe «logico»: i preti, non avendo vita sessuale attiva, da qualche parte devono «recuperare». Ma allora, se così fosse (se, cioè, le devianze procedessero ultimamente dalla mancanza di una vita sessuale attiva), come «spiegare» la presenza diffusa della devianza in famiglia? Se prendiamo in esame, ad esempio, la questione grave e dolorosa dell’abuso su minori, constatiamo come, purtroppo, lo spazio più frequente è quello familiare.
Ciò, sia chiaro, non deve diventare un alibi per nessuno (Chiesa compresa): occorre guardare con obiettività e coraggio ad una tale realtà anche in tutte quelle circostanze in cui i soggetti dell’abuso sono proprio i preti. Però, se l’abuso coinvolge anche (e perfino più diffusamente) i non celibi, siamo sicuri che rileggere la questione della devianza a partire da quella del celibato sia una posizione corretta del problema?
Certo mi sentirei di dire che rispetto all’attuale cultura sessuale diffusa il celibato, oggi, sia assai più complicato da sostenere perché la sessualità genitale ha una visibilità assai maggiore che in passato e perché il vissuto sessuale-genitale non legato ad un legame affettivo o matrimoniale non solo è diffuso, ma culturalmente legittimato. Il che significa che viene presentata una sessualità con «pochi costi e molti benefici». Pensiamo alla facilità enorme ad accedere alla sessualità virtuale. Ma questo stato di cose investe non poco anche i legami di coppia.
È vero che il calo di vocazioni c’è, ma mi domando se, al di là del fatto che taluni matrimoni si celebrino ancora in una chiesa, si possa parlare di «calo delle vocazioni sacerdotali» o non piuttosto di calo nella consapevolezza della dimensione vocazionale della vita (matrimonio, sacerdozio, ecc...) e, all’interno di questa, dello spazio della affettività e della sessualità.

La proposta formativa che normalmente viene fatta nei seminari, fornisce ai candidati al sacerdozio, un sufficiente discernimento sulla sessualità umana, per andare incontro al celibato con consapevolezza?

Credo che le cose varino notevolmente da seminario a seminario. E questo accade anche rimanendo soltanto sul territorio italiano, e perfino fra diocesi confinanti. In questo senso, perciò, una risposta uniforme non c’è.
Ritengo che e cose «funzionino» bene là dove la questione sessualità all’interno del tema più complessivo del celibato non viene associata al mondo delle «tentazioni» o, peggio, dei disturbi, ma come dimensione essenziale della persona umana (dunque anche di quella celibe), ma interpretata nella sua complessità, in modo positivo e allo stesso tempo, però, realistico e non ingenuo.
Credo che nella attuale cultura sessuale sia oltremodo importante salvare la positività della sessualità e riconoscere che anche l’eventualità della devianza rappresenta la risposta sbagliata ad una domanda buona, e che come tale va ritrovata.

Perché altre chiese cristiane, ortodosse, non hanno, come la chiesa cattolica latina, il celibato come condizione per il sacerdozio?
La questione è storica ed ecclesiologica e riconosco di non essere competente in merito. Mi limito ad osservare che ciò conferma il legame non essenziale fra sacerdozio e celibato. Allo stesso tempo, però, il fatto che la chiesa latina ha optato per la figura di un prete celibe ha strutturato nel corso del tempo una identità di prete del tutto particolare che non può essere cambiata con una semplice operazione di tipo giuridico. In altre parole: un prete sposato... certo «essenzialmente» sarebbe ancora un prete, ma spiritualmente, pastoralmente, quale la sua figura?
Certo si tratta di un percorso di riflessione possibile (e forse auspicabile), ma talora, soprattutto nei media, la cosa viene banalizzata, come se «eliminando» il celibato non si coinvolgesse anche l’identità (psicologica e sociale, oltre che pastorale e spirituale) di un prete.
In gioco c’è l’identità stessa della Chiesa, la quale esiste nelle sue forme storiche, concrete.

Per quali buone ragioni oggi un sacerdote dovrebbe scegliere ancora il celibato? E cosa significa viverlo bene?
La risposta è semplice, ma credo importante: perché al di là delle questioni canoniche (che hanno stabilito un legame giuridico fra sacerdozio e celibato) e che anche oggi, nei dibattiti, si prendono sempre tutta l’attenzione, il celibato rappresenta lo stile di vita che più immediatamente rimanda al modo di amare di Gesù.
Non è lo stile di ogni cristiano, ma di coloro che riconoscono in questo stile di vita il modo migliore per se stessi di essere cristiani. Dunque non si tratta del modo migliore «in sé» di essere cristiani. Il Vangelo dice che «Chi può capire capisca». Da ciò si coglie la natura di carisma, di vocazione, del celibato. Nel carisma del celibato il cristiano intende riprodurre qualcosa dello stile di Cristo. Ma in fondo questo è il compito di ogni carisma.
D’altra parte ogni carisma non concretizza mai il tutto dello stile di Cristo. Il celibato dovrebbe far leva sulla maggiore immediatezza del segno che propone. Altre scelte di vita cristiana riproducono aspetti non meno importanti dello stile di Cristo, ma agendo su simboli che esigono mediazioni maggiori. È il caso del matrimonio cristiano, che non è solo «matrimonio».
D’altra parte anche fra lo stile del single e quello del celibe per il regno dovrebbero esserci delle differenze non di poco conto. Il che significa che maggiore immediatezza non significa immediatezza assoluta, altrimenti ogni single ci parlerebbe di Cristo con evidenza, e non di rado accade esattamente il contrario.

domenica 30 agosto 2009

Umberto l'Apostata

L'imperatore Giuliano detto l'Apostata: l'ultimo dichiaratamente pagano È difficile alcune volte credere a quel che si legge… eppure bisogna imparare a credere ai propri occhi!
Lo dico da tempo, ma con il partito della Lega Nord siamo alla vera e propria apostasia e prima o poi una scomunica anche ufficiale sarà pur necessaria.
Dico “ufficiale” perché di fatto sono già fuori dalla comunione cristiana e cattolica!
Leggo:
Bossi e Calderoli vanno in Vaticano per «per ricordargli le nostre radici cristiane». «Ci andiamo per ricordare che la nostra matrice è cristiana e cattolica. La Lega è l’unico partito che veramente ha radici cristiane».

Radici cristiane? senza il Cristo! Cattolico? senza Papa e senza vescovi e ancor meno preti!
Ergo: né cristiane, né cattolico!

Per quanto riguarda la loro “devozione” e il loro “rispetto” per le posizioni della gerarchia cattolica… non intendo perdere del tempo, andatevi a leggere gli “insulti” loro e dei colleghi leghisti contro questo o quel cardinale e Papi, che non pensano leghista… Uno può sempre dissentire, ma c’è modo e modo di farlo, argomentando e con il Vangelo alla mano, e non con il dizionario degli insulti lumbard magari in un forum riservato a tale scopo…

Già il Vangelo… con tutta evidenza non sanno cosa sia… Il Cristo secondo Bossi? Un semplice banale “portafortuna”, niente di più che un corno “napoletano” portafortuna (mi perdonino gli amici napoletani ma è solo per mostrare la confusione mentale di un uomo che si crede leader lumbard) …
Leggete qui, dall’intervista a Repubblica. Il giornalista a un certo punto gli chiede «...attraverso la Padania avete minacciato di rivedere il Condordato se il Vaticano continuerà a interferire nelle scelte della politica». E lui con finezza risponde: «Il nostro è un giornale democratico, aperto a chiunque voglia esprimere la sua opinione, che non dev’essere necessariamente quella ufficiale del partito – e noi dobbiamo credergli? –. Comunque non bisogna rivedere niente. È tutto a posto. – e con ancor più acuta finezza aggiunge – Lo scriva che fuori da casa mia ho fatto mettere un crocifisso di legno. È un portafortuna. Ogni volta che vado via lo tocco....». A parte il fatto che quel “tocco” mi ha fatto pensare al gesto che alcuni maschi fanno al passaggio di un furgone delle pompe funebri… mi chiedo: è questo il Cristo di Bossi? uno scaramantico portafortuna, al limite della blasfemia!...

Ma c’è di peggio e veniamo alle cose serie… Tra le tante ne scelgo (per ora) una.

Visto che i leghisti sono per i respingimenti e contemporaneamente ci dichiarano che sono gli unici veri difensori delle radici cristiane, domando: hanno mai accertato se tra i clandestini respinti ci fossero dei cristiani? No? Ovviamente no! Infatti mentono quando si dicono preoccupati delle radici cristiane (sempre senza il Cristo vivo e vero però)… La loro è pura propaganda per gli allocchi che ci credono...

Infatti a ben vedere, la politica “umanitaria” (visto che sempre nella stessa intervista rifiuta di considerarsi razzista e xenofobo) di Bossi e della Lega è radicalmente anticristiana.

Dal libro degli Atti degli Apostoli e dalla stesse lettere di san Paolo, si legge che da subito il cristianesimo ha dovuto affrontare il dilemma: o aprirsi al mondo o restare una delle tante sette del giudaismo, radicalmente chiuso all’interno della cultura e etnia giudaica in cui se uno si convertiva questi di fatto doveva rinunciare alla propria cultura (nel giudaismo di ieri come di oggi infatti non si parla di inculturazione)…

Questa, ieri come oggi e come sempre sarà, è la posta in gioco manifestata dallo “scontro” tra san Paolo e san Pietro: Il Vangelo di Cristo è multiculturale e multietnico o non esiste: non è Vangelo e non è di Cristo.
Ora il pensiero leghista, con la sua politica verso quelli-che-non-sono-dei-nostri, negando di fatto che ogni popolo, razza e cultura è radicalmente partecipe della “radice cristiana” – o perché vi è chiamato o perché già vi è inserito – nega la ragione stessa del cristianesimo, l’incarnazione di Cristo, la sua Passione e morte e Resurrezione, vissuta e offerta per tutti. Anche e soprattutto per coloro che sono i lontani… Ed è per questo che la Chiesa esiste… Togliete questo e la Chiesa sparisce!

Il “leghismo” da questo punto di vista non rappresenta una “novità”. Il rifiuto dell’uomo di incontrare il “diverso”, fino ad ucciderlo o ad abbandonarlo a morte certa, è insita in ogni uomo che non si converte al Vangelo. E non si è mai definitivamente convertiti al Vangelo.
L'immigrazione di massa è un problema? Certo e chi lo nega! Quello che noi e la Chiesa tutta diciamo è che la soluzione del problema dell’immigrazione, non è questione da predicare o da razzolare è questione vitale per le stesse radici cristiane. E va trovata una soluzione che non sia peggiore del male, che non distrugga cioè le stesse radici cristiane che si pretende di proteggere...
Non capirlo, da parte chi dovrebbe vigilare, adeguando i toni e i comportamenti, porterà inesorabilmente allo svuotamento del Vangelo e alla nullificazione della Chiesa in quanto portatrice dei valori della multietnicità e multiculturalità del Vangelo. E a questa distruzione della Chiesa in realtà mira la Lega Nord e i suoi attacchi sguaiati alla gerarchia sono lì a comprovarli...

Non basta dire, come dice nell'intervista Bossi, “aspettate e vedrete”: a quante morti dobbiamo assistere ancora? I tre giorni sono passati e nessuno di loro è risorto! Ogni morto in mare è un pezzo di Chiesa che se ne va... e i morti in mare sono i veri argomenti che distruggono alla radice ogni pretesa di chiamarsi difensori delle “radici cristiane”. Chi crede ancora che il pensiero leghista lo sia, siccome non è scemo, è in malafede!

giovedì 27 agosto 2009

Un Dio meticcio

Dopo la lunga “pausa” estiva, caratterizzata dalla lettura del capitolo 6 di Giovanni, la liturgia riparte con la lettura corsiva del vangelo di Marco. Siamo al capitolo 7, quello che segue appunto la moltiplicazione dei pani nella versione di questo evangelista e le guarigioni di Gesù nella regione di Gennesaret. Quel brano si concludeva con un’atmosfera assai positiva: «Là dove giungeva, in villaggi o città o campagne, deponevano i malati nelle piazze e lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello; e quanti lo toccavano venivano salvati», Mc 6,56, che è il versetto immediatamente precedente all’incipit del brano odierno. Quest’ultimo si apre invece bruscamente su una scena di controversia con i farisei e gli scribi, che richiama da vicino l’atmosfera dura che domenica scorsa aveva tratteggiato Giovanni.
L’occasione della discussione in questo caso è la critica che viene mossa a Gesù perché i suoi discepoli «non si comportano secondo la tradizione degli antichi», nella fattispecie «prendono cibo con mani impure, cioè non lavate», come spiega il testo stesso.
La reazione di Gesù («Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti…») mostra come oggetto del contendere non siano tanto le puntuali e contingenti mancate abluzioni, quanto piuttosto la logica che sta dietro al rimprovero.
Gesù infatti non si sofferma a giustificare i suoi sul perché non si siano lavati le mani prima di mangiare, ma in modo veemente svela la dinamica che soggiace alla polemica farisaica: e cioè il mis-conoscimento del rapporto dell’uomo con la legge di Dio e dunque con Dio stesso.
Si tratta di un mis-conoscimento che – stando a come prosegue l’incalzante risposta di Gesù – si colloca a due livelli: innanzitutto vi è un mis-conoscimento antropologico (legato cioè a chi l’uomo sia) e poi un mis-conoscimento teologico (legato a chi Dio sia).

Per quanto riguarda l’uomo infatti, Gesù mostra come il modo legalistico–puritano di intendere la legge da parte dei farisei, di fatto avvalli l’idea che sia ciò che sta fuori dall’uomo a “contaminarlo”. Come spiega bene Raniero La Valle nel suo Se questo è un Dio ciò ha origini molto lontane: «Risalendo alle origini, il primo impulso documentato nell’esperienza di Israele è stato quello di stabilire una netta separazione dal sacro (per gli ebrei qadoš). Se il sacro fa male [«Chi vede Dio muore»], meglio prenderne le distanze, fissare una netta demarcazione di confini. Ma la cosa non è affatto facile, perché il sacro non si fa agevolmente circoscrivere, invade tutta la realtà. […] E se il sacro malefico invadeva tutta la realtà, il problema era appunto quello di ritagliarne e separarne lo spazio profano, una specie di zona franca di ciò che restava indenne e disponibile all’uomo. E così fu fatto, e sul confine fu fissata una barriera protettiva, i cui effetti, come spesso è dei muri, saranno devastanti. La barriera era quella che distingueva l’impuro dal puro; e le norme di purità furono poste a garanzia di tutto il sistema. […] All’inizio al sacro si sposava il termine impuro, al profano il termine puro. Impuro è ciò che sta in contatto col sacro, e ne viene contaminato. […] Poi le cose cambiano […]: l’impurità viene legata al peccato, e il rapporto tra le due coppie di opposti [puro-impuro; sacro-profano] si inverte, da parallelo che era; è la purità, non più l’impurità che viene attirata nella sfera del divino; distinguere il sacro dal profano coincide ormai con la separazione del puro dall’impuro. Dio tre volte qadoš, sacro, sacro, sacro, come lo cantano i cherubini di Isaia (Is 6,3) è puro; è il mondo, è il profano, è la storia che giacciono nell’impurità. […] Questa concezione del contrasto tra puro e impuro è troppo importante, è troppo potente nella sua pretesa di invadere e spartire l’intera realtà umana e divina, per liquidarla come una fissazione di rubricisti, per non interrogarsi sulla sua persistenza storica, per non chiedersi se non sia rimasta all’opera fino a oggi, anche se in forme sempre mutate. Anche le pulizie etniche vengono da lì. E non basta nemmeno dirimere la questione se alla coppia sacro-profano corrisponda la coppia impuro-puro o viceversa. […] Ancora più necessario è chiedersi in che cosa consista l’essere puro o impuro, sia che a essere puro sia il sacro, come è ormai nel senso comune, sia che lo fosse il profano, come era all’inizio. […] Ora dalla lettura delle prescrizioni bibliche, dalla ricognizione dei testi ebraici antichi […] risulta che il connotato essenziale della purità consiste nella separazione dei diversi, e che il disordine della impurità consiste nella loro reciproca contaminazione. La purità sta nella omogeneità e identità con se stesso di ognuno dei due ordini, il sacro e il profano, l’impurità sta nella loro congiunzione, confusione, interferenza. Per estensione, la purità è non mischiarsi con l’altro da sé, l’impurità è il meticciato. La purità è la solitudine, l’impurità è la compagnia. […] Quella che si afferma è una antropologia della disuguaglianza per natura degli esseri umani. La discriminazione tra puro e impuro degenera in una discriminante tra uomini e no, perfetti e incompiuti, nobili e volgari, integri per natura e malriusciti e contaminati. La categoria puro-impuro diventa il paradigma e il primo travestimento culturale di una discriminazione, e perciò di un dominio, che percorrerà tutta la storia» [pagg. 76-86].
Ciò che mi contamina è dunque ciò che sta fuori di me, è l’altro. Questa è la mentalità ebraica dei farisei che parlano a Gesù e però anche la nostra, basta pensare che per non farci contaminare ne abbiamo fatti morire altri 75 in mare senza soccorrerli.
Questa è la logica antropologica che Gesù invece vuole ribaltare, alla quale anzi si oppone con violenza: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». Gesù cioè – quello che Raniero La Valle arriva a chiamare il “Dio meticcio”, proprio per sottolineare questa opposizione alla logica della contaminazione che arriva da fuori – rimette a fuoco dal suo punto di vista la “questione uomo”: non sono le cose esterne il problema dell’uomo, ma è l’uomo stesso ad essere problema per se stesso. Ognuno è cioè richiamato a se stesso, alla qualità della sua interiorità, allo spessore della sua intimità più intima, al cuore del suo cuore. Questa è la sede del puro e dell’impuro, del sacro e del profano, che al di là dell’abbinamento di significato, vuol dire che è il cuore dell’uomo la sede di una vita buona o meno. E non buona in senso solo morale, ma nel pieno senso esistenziale, evangelico, umano. Gesù, in buona sostanza, riconduce l’uomo a sé, mostrando che è ora di smetterla di “arrangiarsi” nella vita dando la colpa ad altro o ad altri o ad Altro, cioè pensandola, decidendola, vivendola secondo una logica che non mi chiama mai in causa personalmente, ma trova sempre il problema ad extra. È tra te e te – pare dire Gesù – che si determina la qualità della vita.
E questo – come dicevamo – non può non contemplare anche il livello del rapporto col Signore. La relazione al sacro che mettevano in atto i farisei (e noi con loro) è infatti una relazione de-responsabilizzante. Basta definire i confini, basta sapere cosa si può fare e cosa no, basta conoscere cosa è dovuto a Dio, che tutto è risolto: il resto è il mio spazio, sono le mie cose, è la mia vita, Lui è fuori, nel suo spazio, nelle sue cose, nella sua vita. Ma così la relazione non esiste: è solo rimandata o circoscritta alle cose, mai ai cuori dei due interlocutori.
Ma questo non è Dio.
Scrive infatti ancora Raniero La Valle: «Se [Dio] ci avesse tenuto alla purità, alla non contaminazione, alle identità prigioniere di se stesse, non avrebbe fatto l’uomo a sua immagine, non avrebbe introdotto la riproduzione sessuata, causa di tutte le combinazioni e le differenze, non avrebbe dato corso alla storia, la quale senza relazioni non sarebbe possibile».
Soprattutto non è il Dio di Gesù Cristo.
«Con l’apparizione di Dio nel bambino neonato accadde la caduta di tutta la strutturazione della realtà nelle categorie di puro e impuro e la sua riconduzione a unità. Il primo segno è che per il parto non si trova luogo – che fosse una casa o un albergo – dove fosse possibile osservare le regole di purità», (cfr Lev. 12,2 per le regole di purità per la donna che aveva appena partorito e Is 1,3 per la vicinanza agli animali). «Se quella era la nuova “Presenza” di Dio sulla terra, essa si manifesta quindi fuori del luogo deputato, e fino ad allora esclusivo; fuori del santo dei santi, fuori del tempio, senza la mediazione dei sacerdoti vestiti solo di lino; è un’altra struttura del divino che cade. Ciò troverà poi piena esplicazione nella risposta di Gesù alla Samaritana («Né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre; i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità, Giov. 4,21-23) e nel fatto che la sua morte e risurrezione avverranno fuori della città, fuori del tempio. Ma è già alla nascita che egli si pone fuori del recinto del sacro. […] La divisione tra sacro e profano entra in crisi con l’incarnazione. In quella che nella liturgia e nell’arte sacra chiamiamo “epifania di Gesù”, non ve n’è più traccia. Finisce quell’ambiguo gioco di rimandi tra puro e impuro, tra sacro puro e profano impuro. E cade non perché sopravviene una concezione più avanzata, ma perché ne viene meno (ne viene tolto) il presupposto radicale: la giustapposizione tra il divino e l’umano, l’intransitabilità della soglia che divide il mondo da Dio. Se l’invasione di campo del sacro nel profano e del profano nel sacro, la mescolanza, la contaminazione tra Dio e uomo rappresentano la massima impurità, proprio questa Dio sceglie e fa sua. Il gesto sorprendente di Dio è di mantenere la distinzione ma di abolire la distanza. […] La massima impurità diventa pertanto la nuova forma dell’economia divina: la comunione del sacro col profano (nulla è più riservato, tutto è riportato alla condizione comune), il meticciato tra il divino e l’umano. Il Dio puro dell’assoluta trascendenza si impasta anche lui di terra, e si presenta nel volto di Cristo come divino e umano insieme, “perfetto nella divinità e perfetto nell’umanità, veramente Dio e veramente uomo”, come professa il Concilio di Calcedonia. Un Dio meticcio» [pagg. 97.115-118].

giovedì 20 agosto 2009

La verità di Gesù, anzi: la verità che è Gesù

In questa ventunesima domenica del tempo ordinario, il brano di vangelo arriva a concludere il lungo itinerario che la liturgia della Parola ci ha fatto seguire in queste domeniche estive: la lettura del capitolo sesto di Giovanni.
L’epilogo del lungo discorso di Gesù lì contenuto sul pane della vita è duro: «Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui»; e lo è a maggior ragione se posto – come accade nelle letture odierne – accanto all’episodio raccontato al capitolo ventiquattresimo di Giosuè: lì – al di là della questione sulla storicità del testo – è presentata infatti la grande adunanza delle tribù di Israele che dopo i quarant’anni nel deserto al seguito di Mosè, l’ ingresso nella terra di Canaan, la terra promessa, al seguito di Giosuè e la spartizione dei territori fra le dodici tribù, si raduna per rinnovare l’alleanza al Signore, Dio di Israele.
Il contrasto col Vangelo è evidente perché da un lato è presentato il consenso di massa al rinnovamento della fedeltà al Signore attuato da tutte le tribù di Israele nei loro massimi rappresentanti, e dall’altro l’abbandono di quasi tutti i suoi che Gesù subisce.
Evidentemente i due brani non si possono paragonare in modo semplicistico, soprattutto perché il primo ha chiaramente enfasi nazionalistica e dunque tradisce una certa idealizzazione dei fatti, eppure nonostante queste considerazioni il contrasto appare pungente, perché sottolinea ancora più fortemente la disfatta comunicativa di Gesù: di certo da questo testo emerge che Gesù non sa farsi pubblicità…


Ma non bisogna farsi ingannare dalle apparenze… andando a scavare un po’ dietro e oltre i versetti presentatici, scopriamo infatti che anche questa grande adunata di Israeliti devoti, in realtà nasconde grandi elementi di fragilità nel suo rapporto col Signore: innanzitutto è un unanime consenso a seguire il Signore, che però è frutto di un esperienza molto gratificante e confermante (la conquista della terra promessa) e che dunque assume il carattere della facile osannazione di chi ci è favorevole, di chi ci dà da mangiare (come era successo allo stesso Gesù, immediatamente dopo la moltiplicazione dei panie e dei pesci, che è l’episodio che inaugurava il capitolo 6 di Giovanni e a cui era conseguito addirittura il tentativo degli ascoltatori di farlo re); inoltre la storia di Israele che precede e soprattutto che segue questa altisonante alleanza con Dio, mostrerà che, se Dio rimane fedele, il popolo invece tornerà continuamente a tradire il consenso dato e ad adorare gli idoli.
Alla luce di queste considerazioni assume allora forse valore diverso il metro di giudizio con cui si misura la capacità comunicativa di Gesù: non è detto che il consenso di massa sia sinonimo di vera comprensione del messaggio e di autentica adesione a colui che lo proclama…
E di questo Gesù è più che consapevole, dato che – come si ricordava poc’anzi – ha appena fatto esperienza del travisamento del suo gesto di dare da mangiare: lentamente allora il suo parlare diventa sempre più chiaro, esplicito, “duro”, lo definiscono gli ascoltatori. All’audience basata sul fraintendimento o su una facile illusione, preferisce la decisione libera di fronte a un messaggio chiaro. Sembra cioè che l’intento di Gesù sia molto più quello di dirsi in verità, che quello di creare consenso.
Questa annotazione, che potrebbe suonare come molto edificante quanto a contenuto virtuoso dell’atteggiamento che suggerisce (essere se stessi senza preoccuparsi del giudizio altrui), in realtà nel caso di Gesù crea un problema ulteriore: qui infatti non si sta parlando di uno dei nostri figli preso in giro dai compagni a cui insegniamo che deve “fregarsene” di quello che pensano gli altri… Qui si tratta del Figlio di Dio, venuto a rivelare il Suo volto… si sta parlando perciò di Qualcuno a cui dovrebbe – almeno un po’ – interessare la problematica dell’audience, la problematica del farsi conoscere e riconoscere dai più, se non addirittura da tutti, come già auspicavano i profeti…
In gioco cioè c’è il serio problema del non riconoscimento di Gesù come il Messia, la possibilità del fallimento della rivelazione di Dio, la perdita – da parte dell’uomo – dell’appuntamento col Signore che viene…
Eppure nonostante questa alta posta in gioco, il Signore non cede alla tentazione di cadere nel ricatto della paura: per paura che vadano via tutti, abbassare il tiro della sua verità, annacquarla o mitigarla… Anzi, man mano il dibattito si fa sempre più serrato, fino al rilancio estremo del «Volete andarvene anche voi?», cioè fino al rischio di rimanere del tutto solo.
Ma cosa c’è dietro a questa “dura” ostinazione che è disposta ad accettare anche l’abbandono totale? Perché per salvaguardare un po’ più di pubblico – e dunque non rischiare che la sua verità non avesse più orecchie che l’ascoltassero – Gesù non accetta di cedere su qualche punto?
La risposta sembra stia in questo: se – come già accennato – per Gesù prevale la verità sul consenso, sarebbe assurdo ridurre la verità per mantenere il consenso; se la verità deve andare persa (morirà solo in croce!), meglio che lo sia per il cuore duro dell’uomo (che può sempre convertirsi), che per la sua mancata proclamazione da parte di chi la conosce; se essa infatti per paura viene censurata o annacquata non ha speranza di essere accolta in verità…
La scelta di Gesù allora, qui come in tutto il Vangelo, è sempre quella di correre il rischio di non essere capito ma di “dire la verità”, meglio di dirsi come verità: e ogni volta che nel vangelo c’è qualche reazione negativa al suo dire o agire è sempre perché scatta questa dinamica (controversie sul sabato, sulla vicinanza a certe categorie di persone, sull’autorità che si attribuisce, ecc, ecc, ecc; fino all’emblematico episodio della morte: Gesù non rinuncia alla sua verità, alla verità che lui è, a costo di morire – solo e nel fraintendimento!).
Il punto allora sta nel comprendere quale sia e di che tipo sia questa verità che Gesù difende strenuamente con le unghie e che pare sovrapporre a tutte le altre istanze della sua vita (l’avere dei discepoli – l’uomo a cui comunicare la Verità; il desiderio di essere compreso; il desiderio di vivere…).
Innanzitutto va liberato il campo da quella mentalità pre-conciliare che si era irrigidita sulla formulazione dottrinalistica, per cui Gesù avrebbe rivelato le verità (al plurale) su Dio, rimandando quasi inconsciamente a pensare al rapporto con Dio in termini intellettualistici (le verità sono cose che si capiscono e conoscono con la razionalità) e estrinseci (quasi che Dio non avesse altro relazione con l’uomo che spedire dal cielo il manuale che racchiude le definizioni che lo riguardano – pensiamo al Catechismo di Pio X – e l’uomo, da parte sua, non avesse che da imparare tali definizioni).
Ciò che allora è assolutamente da evitare, è la riduzione della verità di Gesù alle verità (al plurale) intese in questo senso. Quella di Gesù è la verità!
Ma ancora una volta: non cambierebbe niente il passaggio dal plurale al singolare se non convertissimo l’idea di verità che abbiamo in testa. Essa nella sua matrice intellettualistica, dottrinalistica, estrinsecistica, è una riduzione assolutamente inadeguata per dire Dio.
Può invece instradare la celebre auto-identificazione di Gesù con la verità stessa: «Io sono la verità» (Gv 14,6). Qui infatti è evidente come la verità di cui parla Gesù non sia riducibile ad una definizione, ad un concetto, alla risoluzione di qualche enigma… Essa coincide con la sua persona, cioè con la sua libertà storica, con l’esperienza terrena di quegli anni vissuti in una piccola porzione di spazio.
La verità allora – quella che Egli difende così strenuamente – è il suo determinarsi così all’interno della Vita. E proprio perché è di questa “qualità”, che rimane una verità assolutamente non sintetizzabile: non basta raccontare la storia di Gesù per incontrare la verità; non basta tradurla in indicazioni morali; nemmeno in un percorso di imitazione; non basta cioè dire che Gesù è colui che ha creduto all’affidabilità del Padre, ha vissuto di questa fede e per questo ha proposto l’amore incondizionato tra gli uomini come realizzazione piena della vita di ciascuno… Perchè dire questo, è ancora tentare di dire la verità saltando la storia: cioè dire in parole più aggiornate, più pregnanti ed emozionanti, quello che prima del Concilio dicevano i dogmi in maniera un po’ fredda e incomprensibile…
Per incontrare la verità di Gesù non si può allora saltare la relazione personale con Lui: ogni tentativo di prescindere da questo mettersi in gioco personalmente, elaborando anche la sintesi più particolareggiata di Lui è ancora mancare il bersaglio. Non a caso tutto lo scandalo del capitolo 6 di Giovanni, fino alle dure conseguenze di questi versetti finali, ruota intorno al suo proporsi come pane e carne e sangue da mangiare… che sono i termini forti per richiamare alla necessità di una “assunzione” di Lui, di una relazione personale e autentica.
Ecco perché la domanda che pone ai Dodici non è “Non mi avete capito neanche voi?”, ma “Volete andarvene anche voi?”: perché è l’interruzione della relazione che impedisce l’accesso alla Verità.
E questo – credo – sia molto significativo per giudicare anche della nostra religiosità…

venerdì 14 agosto 2009

Credere è credere che Gesù non dia un cibo, ma sia il cibo

In questa ventesima domenica del tempo ordinario, si apre la quarta e penultima parte del capitolo 6 di Giovanni, che il liturgista ha voluto spezzare perché in queste domeniche estive potessimo riflettere approfonditamente su di esso.
Prosegue il discorso tra Gesù e i Giudei, che, sebbene già serrato nei versetti precedenti, qui trova il momento di più grande tensione prima della drammatica finale che leggeremo domenica prossima.
Questa tensione nasce soprattutto dal fatto che Gesù, coscio del continuo fraintendimento a cui le sue parole sono sottoposte, decide di non tentare più di spiegarsi diversamente, ma sceglie di cavalcare questa incomprensione. Di fronte infatti allo scandalo dei Giudei per l’identificazione di Gesù col pane vivo disceso dal cielo e per l’offerta della sua carne per la vita del mondo, ribadisce ancora più esplicitamente la necessità, per avere la Vita, di mangiare la sua carne.
A noi forse sembra strana, se non altro esagerata, la reazione di incomprensione dei Giudei: noi infatti di fronte all’affermazione di Gesù di essere il pane disceso dal cielo e alla proposta di mangiare della sua carne per avere la Vita, istintivamente pensiamo all’eucaristia, a quel pane e a quella carne offerti per noi, e dunque non ci viene molto da “sobbalzare sulle sedie” e ci risulta per lo meno strano il vigore con cui questi reagiscono alle parole di Gesù.
Questa nostra reazione non è del tutto fuori luogo, anche Giovanni infatti, quando scrive questa parte del suo Vangelo, ha in mente la celebrazione eucaristica delle prime comunità cristiane e cioè il significato che nella prima chiesa ha assunto l’ultima cena e la morte e risurrezione di Gesù e indubbiamente si sta rivolgendo a dei cristiani: quindi forse il suo intento è quello di mostrare in chiave polemica la durezza dei Giudei o, se non altro, di usare questo escamotage letterario per invitare i suoi a riflettere sul corpo e sangue offerto da Gesù per la salvezza del mondo.
Identificare però immediatamente questo discorso giovanneo di Gesù con quella che è la nostra messa e avere reazioni di perplessità e stupore di fronte alle posizioni che assumono i Giudei, ci impedisce di metterci realisticamente nei loro panni e di entrare in quel gioco letterario in cui invece lo stesso Giovanni vuole introdurci: cioè attraverso gli occhi dei Giudei, fare, noi cristiani, la fatica di andare a capire o a ripensare quale sia il senso vero dell’eucaristia che celebriamo e in cui già crediamo. Soffermarci invece sullo scarto linguistico tra Gesù che parla e i suoi ascoltatori sempre più irrigiditi nell’incomprensione, può aiutare anche noi a capire lo spessore delle questioni in gioco, senza correre il rischio di accontentarci di risposte preconfezionate, non pensate e dunque estrinseche al nostro cuore.

Ciò che pare suscitare più clamore fra i Giudei è la pretesa di Gesù di essere mangiabile. Ciò che essi non riescono ad accettare è infatti non tanto che egli abbia un cibo per loro (avevano appena assistito alla moltiplicazione dei pani e dei pesci reagendo molto positivamente ad essa), quanto piuttosto che sia Lui tale cibo.
E io credo che il nocciolo della questione stia proprio qui: anche a livello intraecclesiale. Il problema cioè è quale sia la pretesa (la proposta) di Gesù di fronte all’uomo e d’altra parte la riduzione di tale pretesa di cui noi continuamente siamo tentati.
Ciò che infatti Gesù propone non è un cibo, ma è se stesso come cibo; non propone una via, ma è Egli stesso via; non propone uno stile di vita, ma è Egli stesso vita; non propone una o alcune verità, ma è Egli stesso verità («Io sono la via, la verità e la vita», Gv 14,6).
Noi spesso invece, sia personalmente che ecclesialmente, siamo andati e andiamo alla ricerca di cibo da Lui, non di Lui; di indicazioni per trovare la strada, di consigli o norme per uno stile di vita, di definizioni o concetti per capire il senso della vita, ma non della via, verità e vita che Lui è.
Spesso cioè lo scollamento – che Giovanni visibilizza magistralmente in questi versetti del suo Vangelo prendendo come prototipi i Giudei – è quello tra la persona di Gesù e tutta una serie di accessori alla relazione con Lui che, se possono essere utili a favorire tale rapporto, di certo non possono sostituirlo.
Per i Giudei questo era naturale, perché di fronte avevano Colui che a loro pareva essere solo un uomo: magari un uomo un po’ speciale, un profeta, uno degno di essere fatto re, anche un uomo di Dio. Ma pur sempre un uomo, dunque uno da cui non ci si deve aspettare la salvezza, ma istruzioni per raggiungerla, consigli, indicazioni, norme, ma nulla più.
La pretesa di Gesù invece è quella di non essere un cartello indicatore della meta, ma la meta stessa. Questo è l’inaccettabile per i Giudei (che si fondano su un stretto monoteismo) e dall’altra parte è il fondamento – a volte dimentico – dei cristiani: il cristianesimo infatti non è una religione del libro o della morale, addirittura non è nemmeno una religione – ribadisce spesso mons. Coletti – ma è una fede, cioè una relazione con il Vivente. Non si fonda cioè su un insieme di precetti da rispettare, su un insieme di definizioni da apprendere, su dei traguardi graduali da raggiungere: ma sul rapporto a tu per tu di ciascuno col Signore.
Questo spesso per paura della responsabilità (nostra) o della impossibilità alla gestione di coscienze libere (dal punto di vista istituzionale) è stato storicamente adombrato, lasciato in secondo piano; non necessariamente per malizia, ma per tutta una serie di andirivieni storici, sociologici, psicologici, ecc… che non sta ora a noi ricostruire.
Ma, ad ogni modo, ogni volta che ecclesialmente o personalmente questa centralità della relazione a tu per tu col Signore va in ombra, stiamo riducendo la portata della pretesa gesuana all’uomo: se non si dà questo dialogo interiore tra la nostra libertà e la sua, ma ci si accontenta di sapere alcune cose di Lui, di applicare alcune cose che ha detto, di ripetere alcune cose che ha fatto ricadiamo nell’errore dei Giudei di cercare da Lui del cibo, ma non di assumere Lui come cibo, ci illudiamo di essere bravi cristiani, senza conoscere il nostro Signore, ci illudiamo di comportarci bene, senza andare ad indagare con Lui nell’autenticità che si denuda di fronte a chi la ama le profondità più nascoste e più tenebrose della nostra interiorità.
In altre parole, se non ci avventuriamo in questa relazione personale, ci limitiamo a credere ad un’ideologia (piuttosto che ad un’altra), sposiamo un codice etico (piuttosto che altro), seguiamo alcuni orari (piuttosto che altri), leggiamo un certo libro (piuttosto che un altro), facciamo certi gesti (piuttosto che altri), ecc… non uscendo mai da quell’estrinsecismo, da quella lontananza, da quella sensazione per cui in fin dei conti tutto questo con me non c’entri proprio niente… anzi mi passa tre metri sopra la testa e non entra mai a interrogare davvero la mia intimità, a interpellare la mia libertà, a chiedermi “Chi sono?” e “Chi voglio essere?”.
La proposta di Gesù sembra invece proprio andare contro questo modo estrinseco di vivere il rapporto col Padre, che poi è il rapporto col senso, con la vita, con la morte, con gli altri… Il suo invito è ad entrar-ci dentro, a smuoversi verso un affidamento, un lasciarsi andare, un dare credito, un fidarsi… è un invito a mangiare il cibo che dà la Vita e non tanti piccoli cibi che non saziano, a puntare alto, a puntare al centro, senza disperdersi – per paura di non farcela o di essere ingannati – alle tante proposte periferiche che non sono mai definitive… è un invito a giocarsi per Lui, ad accettare la sua pretesa di essere via, verità e vita nostra… è un invito ad accogliere questo sguardo alto sull’uomo, chiamato non a sentir parlare di Dio, non a fare cose per Lui, non a parlargli per interposta persona, ma a vivere della relazione personalissima con Lui.
Se non avremo il coraggio di questo rapporto (sia di attuarlo come singoli, sia di permetterlo e favorirlo come Chiesa) rimarremo con in mano una vuota struttura del sacro incapace di salvare e dunque di entusiasmare, interessare, interpellare e più che il dramma di chiese vuote, dovremo affrontare quello di vite senza Vita.

sabato 8 agosto 2009

La bambola

Prepariamoci ad una fase difficile. In autunno ci sarà l'ultimo (sic!) tentativo di buttarmi giù con le solite armi della sinistra.

Così parlò colui che si crede "il Capo".

La frase, per associazione di idee mi ha fatto pensare alla bella canzone di Patty Pravo "La Bambola". Aveva come ritornello la frase: "...poi mi butti giù, poi mi butti giù, come fossi una bambolaaaaa...".
E allora? Beh! Per un uomo abituato a "buttare giù" le donne come bambole, dovrebbe sapere che chi "butta sarà buttato"...
Bisogna avere la coscienza morale fritta e la percezione della realtà cotta per non rendersi conto che da tempo si è buttato giù da solo... E non per colpa della destra o della sinistra... ma per quello che ci sta in mezzo!

Eccovi il testo della canzone con gli accordi:
[Am]Tu mi fai girar
tu mi fai girar
come fossi una [E7]bambola
[Am]poi mi butti giù
poi mi butti giù
come [A7]fossi una [Dm]bambola
[E7]Non ti accorgi [Am]quando piango
[E7]quando sono [Am]triste e stanca [Dm6]tu
[E7]pensi solo per [Am]te[E7]
No ragazzo no
No ragazzo no
del mio amore non ridere
non ci gioco più
quando giochi tu
sai far male da piangere
Da stasera la mia vita
nelle mani di un ragazzo no,
[E7]non la lascerò [Am]più[C7]

[F]No ragazzo [Gm7]no
tu [C7]non mi mette[F]rai
tra le dieci [Gm]bambole
che [C7]non ti piacciono [F]più
oh [E7]no, oh [Am]no[E]

[Am]Tu mi fai girar, tu mi fai gi[E7]rar…
[Am]poi mi butti giù, poi mi butti [E7]giù…

Ecco il video:
in versione "originale" 1968 (da me preferita)
e in versione moderna 2008
esiste anche una versione (discutibilmente) interpretata da Giusy Ferreri.

venerdì 7 agosto 2009

Io sono il pane della vita, perché chi ne mangia non muoia

Solo la Bellezza attrae
Gesù rispose: ...non mormorate tra voi
...quanti brontolamenti in questi racconti di fame e di pane, di carne e di manna, di cibo terreno e di cibo celeste, di sazietà e disperazione! Nel popolo, che si sente tradito, ma anche nel più grande profeta che Israele abbia mai avuto, Elia. Gli si è bloccato lo stomaco e la voglia di vivere. Anoressia e inedia spirituale. Perché la delusione è andata così in profondo che gli ha seccato le radici dell’anima: Non sono migliore dei miei padri! Se l’obiettivo delle sue violente lotte profetiche era di purificare la società ed i suoi capi da tutto ciò che è male, ambiguo e contrario alla crescita dell’uomo e ai diritti di Dio, se ha dovuto eliminare i cattivi maestri per costruire una società che i suoi padri hanno solo intravisto da lontano... allora, ritrovarsi rinchiuso nelle prigioni di prima, vedere che non si esce dal stesso cerchio che incatenava i nostri padri alle loro possibilità meschine, ristrette e precarie, lo ha ammalato di una amarezza letale. Come ogni giovane di grandi energie e presunzioni, era cresciuto dicendo: io arriverò più in là! Tetragono a chiunque tutt’intorno gli replicava aggressivamente (quasi sempre) o suggeriva dolcemente (qualcuno!): chi credi di essere? – finirai come tutti noi! Infatti l’Elia in formato più o meno ridotto, che vive dentro ciascuno di noi, se la presunzione non lo acceca del tutto, appena inoltrato nell’esperienza concreta degli anni, s’accorge che per affermare la propria visione della verità e della vita, ha mangiato e consumato quella di altri. Perché anche il più schivo di noi ha lasciato qualche ferito o sconfitto, abbandonato lungo il cammino.
provenienza e qualità...
...hanno ragione in fondo, i giudei! Qui, come in genere nel vangelo di Giovanni, si dice ‘giudei’, anche se siamo in Galilea, per indicare chi, sicuro della “provenienza genuina” della sua verità, si oppone teologicamente (ideologicamente) a qualsiasi proposta o novità non abbia lo stesso sigillo di garanzia – il suo! Di lui conosciamo padre e madre, come può dire: “sono disceso dal cielo”?! Perciò il dissidio si rivela insanabile. Li scandalizza l’affermazione di Gesù: io sono il pane disceso dal cielo. Effettivamente la “provenienza” di tipo terreno è documentabile facilmente entro la logica del mondo fisico, biologico, psichico, secondo le leggi di necessità che governano questi mondi, a portata delle misure dell’uomo. La “provenienza” spirituale è un rapporto di amore divino (dove c’è amore c’è Dio!) insondabile. È credibile, è affidabile, può esser più certo dell’esistenza di me e di te, ma non è dimostrabile con mezzi tecnici, né manipolabili da noi. Addirittura bisogna cambiare totalmente livello di esperienza e di conoscenza, per entrare in sintonia con questa lunghezza d’onda. Uno, infatti non può entrare in questo tipo di rapporto se non lo “attira”, come una calamita vivente, il Padre che mi ha inviato. Qualche barlume di ciò avviene anche nelle nostre minuscole esperienze di amore. Dunque c’è un mistero di predilezione che avvolge libertà e necessità interiore, e ottiene un consenso che trasforma la vita. È irripetibile e gratuito, non acquisibile col proprio sforzo, ma non è esclusivo di nessuno. Anzi, secondo Gesù, c’è una scuola misteriosa, di predilezione, ma aperta a tutti, profetizzata fin dai tempi dell’esilio, nella quale si “ascolta” e si “impara”, nei tempi e nei modi più diversi e personali, ad essere ammaestrati direttamente dal Padre. Naturalmente noi possiamo esserne solo segno indicatore: nessuno è abilitato ad insegnarvi, se non chi conosce di persona il Padre. Perché è lui l’oggetto e il soggetto dell’insegnamento. Attraversi colui che soltanto lui! viene da Dio e quindi ha visto il Padre. Il ragionamento, nel caratteristico stile circolare di Giovanni, sembra scorrere intercettando i vari simboli e i vari soggetti, coinvolti in questa spirale per attirarvi i “giudei” (noi!), liberarli nella mente e nel cuore dai loro fraintendimenti... e aprirli alla verità vitale di un cibo nuovo, offerto a loro e al mondo, annunciato proprio dai loro profeti, nelle scritture! Chi ci salva è solo il Padre che ha mandato il figlio suo come il maestro, perchè ha imparato dal Padre la sola “dottrina” da insegnare: che è l’intimità del Padre stesso da cui proviene – che ha un solo cibo capace di saziare finalmente la nostra fame congenita, questo : lui stesso, figlio suo, che proprio come pane per la nostra fame, è rivelazione piena del suo amore di misericordia.
provenienza e attrazione
Elia è troppo sfinito e disperato per farsi domande da dove provengano focaccia e orciolo d’acqua, quando viene svegliato e indotto a mangiare a forza... Di sicuro è roba che proviene da fuori. Ma bevendo e mangiando ritrova la voglia di vivere e camminare... Credere (mangiare, accogliere, affidarsi... a qualcosa/qualcuno che ti chiama) e rimettersi sul cammino della vita sono strettamente legati. Questo sussulto che ci fa riaccendere la spinta vitale, con un soffio che proviene da un misterioso amore di attrazione, è strettamente legato alla risurrezione, come un primo germoglio appena nato, che già quaggiù ne prefigura la forza e la qualità. Inutile e insensato (fuori sintonia) ogni scetticismo: Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Credere in lui, sotto la spinta libera, impercettibile e irresistibile del Padre, e quindi andare verso di lui, ascoltare lui, mangiare di lui, sono tutte manifestazioni convergenti dell’azione del Padre nel mondo, attraverso Gesù. Tutte seminano “adesso” dentro di noi il germe della vita eterna. Dirà infatti allo stesso modo: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno (54). Questa attrazione così intima che diventa segno e causa efficace di vita divina in noi e quindi fermento di risurrezione, trova il suo simbolo reale (sacramento), nella fame e nella nutrizione, nell’assimilazione e nella digestione. Diventa il luogo umano (la nostra carne fatta di spazio e di tempo e di energia) dove è innestato il fermento dinamico che trasforma una vita terrena mortale (destinata a consumarsi senza residui) in una vita mortale rigenerata e capace di risurrezione (eterna), cioè abilitata a passare attraverso la morte senza esserne svuotata, senza annichilirsi! L’attrazione ‘celeste’ di amore Paterno seminata in lei dallo Spirito del Figlio l’assorbe in sé!
pane vivo e pane morto
...io sono il pane della vita! proclama apertamente Gesù, incurante, ormai, delle ambiguità e dei fraintendimenti scandalizzati che ne seguiranno. Adesso vuole soltanto che si capisca chiaramente la verità sconvolgente della sua presenza. È nettissima la contrapposizione ad ogni altro cibo, magari necessario e utile per la vita terrena che stiamo conducendo, ma incapace di sostenerla nella sua caducità. Come si vede dall’esempio che riprende proprio dal discorso dei giudei... la manna! Prodigiosa senz’altro, ma i padri che l’hanno mangiata, sono tutti morti. Il suo pane (lui, come pane) è di tutt’altra qualità: questo è il pane disceso dal cielo, perché chi lo mangia non muoia. Questo pane infatti dà la vita, perché è vivo, è una persona vivificante. È un volto che si mette in comunione intima con te, fino a lasciarsi assimilare nello specchio dell’anima! e così attira a sé colui che entra in questa relazione con lui. Una relazione costitutiva e rigenerante tutta la persona. Il pane che viene dal cielo induce nell’amico che lo accoglie, questa qualità “celeste”. Rende capaci di cielo, cioè di eternità, chi lo “mangia”, proprio perché questa è la qualità del suo sigillo di provenienza, trasmessa in un rapporto di totale dedizione e intimità. Questa vita eterna che viene infusa in un incontro terreno tanto intimo da essere significato in un’assimilazione biologica nutritiva, vuol dire rendere capaci della stessa relazione intima col Padre, da cui viene questo “cibo inviato a noi”: ci fa diventare dunque capaci di eternità, dove amore e vita, desiderio e verità, orfanità e figliolanza si intrecciano e si compenetrano in una promessa radicata però alla terra, alla nostra e sua carne: Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo.
...fatevi imitatori di Dio
questa dinamica di immersione nella materia di carne per attrarci nell’unico modo “terreno” (carnale) a noi accessibile, nella sua vita divina, diventa, secondo Paolo, il motore della nostra vita. Ci fa imitatori di questa vita intima di Dio, in un coinvolgimento tanto personale da “rattristare”, se non corrisposto, lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione. Non si diventa dolci e misericordiosi per virtù, e se è vero che comunque bisogna sforzarsi per essere tali... ognuno può costatare, passando gli anni, i magri risultati raggiunti, anche dopo qualche decennio di frequentazione cristiana. Era già un problema della chiesa nascente. Asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità... segnano solo la sfiducia profonda che ci morde e dispera nel profondo ed emerge anche nelle persone più ‘a modo’ come un’accusa più o meno inconscia (e reciproca!): nel momento della mia debolezza mi abbandonerai, per salvare te stesso! Agire diversamente, cioè amare l’altro più di sé e piuttosto lasciarsi mangiare da lui che abbandonarlo, è amore di un altro mondo! Si diventa virtuosi per nutrizione! E Paolo lo sa bene: Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore. Dio stesso, infatti, in lui si è fatto cibo e nutrimento perché nessuno venga meno e nessuno si lasci morire. Ma, a sua volta ognuno si faccia pane... Amare non vorrà dire, allora, andare alla ricerca (non apposta, lo fanno già le varie traversie della vita che ci è data!) di qualcuno che ci faccia diventare pane, come Gesù; ci dia il coraggio di diventare dono, come lui, di diventare gli uni per gli altri pane e sostegno, compagnia nel cammino?

giovedì 6 agosto 2009

La volontà di Dio di dare la vita all'uomo e il desiderio dell'uomo di darsi la morte

In questa diciottesima domenica del tempo ordinario, la liturgia ci propone la prosecuzione del discorso di Giovanni 6 sul pane del cielo.
Rispetto a domenica scorsa c’è un salto di 5 versetti (Gv 6,36-40), quelli che completavano l’affermazione di Gesù, in cui Egli si identificava col pane della vita. Il brano odierno infatti riparte con le reazioni che tale identificazione aveva suscitato nei Giudei: «I Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: “Io sono il pane disceso dal cielo”».
Vale comunque la pena di andare a rileggere i versetti che il liturgista omette, perché in particolare verso la fine, essi forniscono una possibile chiave di lettura per quanto segue: «Vi ho detto però che voi mi avete visto, eppure non credete. Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».
Sono versetti strategici perché mettono in luce la dinamica del discorso seguente, in particolare nella contrapposizione tra punto di vista dell’uomo e punto di vista di Dio.

Innanzitutto in questi versetti è esplicitata la “volontà di Dio”. Quest’ultima è una categoria iper usata, tanto da risultare abusata e addirittura travisata. Di fronte a tale locuzione infatti immediatamente in noi sorge il timore di non riuscire a comprenderla (Cosa vuole Dio da me?) e dunque a compierla (Cosa devo fare per adempiere tale volontà?), con l’esito di vivere sempre nell’incertezza sulla volubilità del giudizio di Dio (L’avrò accontentato? Mi sarò guadagnato il paradiso? Oppure no?). Questa infantile e un po’ forzata – ma molto reale – ricostruzione della nostra idea immediata di “volontà di Dio”, contrasta però in maniera inconciliabile con quella che Gesù ritiene essere tale volontà: «questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».
La prospettiva di Gesù, che – a suo dire – coincide con quella del Padre, ha infatti un’impostazione positiva: è riaffermato inequivocabilmente il desiderio di vita che Dio ha per l’uomo. Nessuna ambiguità, nessuna doppia faccia, solo il desiderio che i suoi figli abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (Gv 10,10).
A fronte cioè dell’insanabile sospetto dell’uomo – che l’immagine biblica dice introdotto dal serpente – che la volontà di Dio «invece che il simbolo della [sua] solidarietà, sia il segno di un’oscura prevaricazione», che «dietro un volto apparentemente buono e promettente» Dio «ne celi forse uno inquietante e minaccioso», Gesù ribadisce con indiscutibile univocità che «nella concretezza del rapporto instaurato con Dio non v’è alcuno spazio per l’ipotesi formulata dal serpente». E questo prende evidenza pratica soprattutto nell’atto del dare vita, dove «risplende sempre immediatamente il fondamento: nel generare e nel nutrire, nel far vedere cose belle e nel far ascoltare notizie buone, nella cura e nella guarigione, nella risurrezione e nel perdono», lì prende corpo la certezza della differenza tra il fondamento come dominio (quello dell’uomo e che egli attribuisce a Dio) e il fondamento come dedizione (Dio).
Il Dio di Gesù è dunque incontrovertibilmente il Dio della Vita. Lo dice l’intelligenza delle scritture evangeliche, lo ribadiscono i versetti omessi dal liturgista, lo confermano quelli del brano odierno: «In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna. Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo»
Al di là della domanda di profilo storico sul come abbiamo fatto in duemila anni a oscurare tale evidenza, tanto da aver re-introdotto pressoché tutte le ambiguità pre-cristiane sul volto di Dio, resta comunque aperto il quesito se tale “travisamento” sia dovuto solo a processi storici, scelte sbagliate di alcuni, desiderio di potere di altri (ecc…), o se – più radicalmente – dentro a tutto questo e senza venir meno ad una seria presa di responsabilità in proposito – non ci sia una strutturale fatica umana a dar credito a tale paternità. Che l’indagine debba andare in questa direzione, lo suggerisce soprattutto il continuo ritornare delle parole di Gesù sulla necessità di credere: «Vi ho detto però che voi mi avete visto, eppure non credete», «In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna».
È come se il contrasto letterario tra prospettiva dell’uomo e prospettiva di Dio fosse tutta in questi due poli: la fatica dell’uomo a credere nella vita, con il suo conseguente desiderio di morte, e la volontà di Dio di dare Vita all’uomo, con il conseguente desiderio di nutrirlo. Ma perché l’uomo desidera morire? E in che senso?
Lo mettono in luce bene sia la prima lettura con la presentazione di Elia, che «desideroso di morire», disse: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri», sia le mormorazioni raccontate nel vangelo, sia l’asprezza, lo sdegno, l’ira, le grida, le maldicenze e le malignità di cui racconta Paolo.
Dietro tutti questi atteggiamenti sta infatti lo stesso percorso interiore: l’interruzione del credito dato alla vita.
Perché Elia vuole morire? Non perché ritenga la morte più auspicabile della vita, ma perché ritiene quest’ultima non più degna di credito, che è il “ragionamento” di ogni aspirante suicida, come attestava già De Andrè nella sua Preghiera in Gennaio: «Signori benpensanti spero non vi dispiaccia se in cielo in mezzo ai santi Dio fra le sue braccia, soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte che all’odio e all’ignoranza preferirono la morte». Si preferisce dunque la morte perché la vita non è più Vita.
Questo percorso interiore della sfiducia nella vita, lo si capisce ancor meglio se si va a vedere perché Elia voglia lasciarsi morire: egli ha appena saputo che la regina Gezabele vuole ucciderlo. Sembra un paradosso, eppure è proprio così: Elia decide di lasciarsi morire perché qualcuno lo vuole uccidere. Che è come dire che la vita diventa non più degna di credito quando ci si rivela che essa può essere smentita, non custodita, spazzata via; quando qualcuno o qualcosa possono metterla in questione a tal punto da annientarla.
Questo è il problema di Elia: che senso ha una vita in cui un altro può togliermela? Ma a ben guardare è il problema medesimo che soggiace alle mormorazioni, o alle maldicenze, all’asprezza, allo sdegno, ecc…: questi atteggiamenti interiori infatti rivelano solo un mettersi sulla difensiva a fronte di una vita che si è rivelata ostile, che letteralmente vuol dire nemica.
Chi infatti mormora? Chi teme di essere ingannato: «I Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: “Io sono il pane disceso dal cielo”. E dicevano: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: ‘Sono disceso dal cielo’?”».
Chi si veste di maldicenze, malignità, ira, ecc…? Chi non è amato e non ama (due cose che van sempre insieme) al modo di Gesù: «Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo. Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore». Chi dunque non riconosce più la qualità sensata della vita.
Mi pare che questi esempi che la Scrittura traccia per mettere in luce questo contrasto tra desiderio di dare vita di Dio e desiderio di darsi la morte dell’uomo, siano ancora oggi molto attuali e rispondenti in qualche modo a quello che anche noi ci troviamo a vivere.
Anche a noi vien da dire “Ora basta! Desidero morire”: e non solo e non tanto in senso fisico stretto (suicidio), ma in quelle piccole morti della speranza, dell’amore, della fiducia, che ogni giorno attuiamo e che pian piano ci conducono dentro a un circolo vizioso per cui non sappiamo neanche più riconoscere le conferme della promessa che la vita ha in sé iscritta. È come se ci dessimo tante piccole morti “per protesta” contro una vita (e i suoi abitanti e i suoi meccanismi) che pare non mantenere le sue promesse, quindi in qualche modo per tentare in un ultimo disperato tentativo di far sentire la nostra disperazione, che qualcuno la veda, se ne faccia carico… in modo che qualcosa cambi, che è il senso di ogni protesta; ma poi incartati dentro alla mortifica-azione della chiusura alla vita (i piccoli/grandi baratri in cui ci richiudiamo) non sappiamo più neanche rinvenire ciò che invece dà in qualche modo ragione alla protesta e riconferma la speranza di vita: «Elia s’inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri”. Si coricò e si addormentò sotto la ginestra. Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse: “Àlzati, mangia!”. Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve, quindi di nuovo si coricò».
Solo che se da questo circuito non si esce, si rischia di rimanervi imbrigliati per la vita, con le conseguenze che Paolo lucidamente mette in chiaro: «asprezza, sdegno, ira, grida, maldicenze, malignità», ritrovandoci senza accorgercene inaciditi, gretti, tristi…
Eppure sia dal testo biblico che dall’esperienza quotidiana è fin troppo evidente che dalla mortificazione della fiducia nella vita, non si esce da soli: non si tratta (solo) di consolidare la propria identità, non si tratta (solo) di uno sforzo volontaristico, non si tratta (solo) di piccoli passettini di miglioramenti graduali… C’è dell’altro che deve avvenire… o meglio: è un Altro che deve venire… per Elia è l’angelo che «per la seconda volta» lo invita a mangiare (cioè a tornare a vivere), per Paolo è il preveniente amore di Cristo che sana dall’acidità, per i Giudei è Gesù che si fa cibo… è cioè l’amore sovrabbondante, gratuito e dedito incondizionatamente («il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo») che può creare quel miracolino interiore, quella svolta, per cui uno non si vota più al desiderio di morire perché la sua vita ha parlato di morte, ma si ridona alla fiducia nella vita.
Di fronte a un mondo che sempre più si popola di persone che per paura di essere “uccise” si “uccidono” – un mondo che ben lungi dall’essere fuori è ben radicato dentro alle nostre stesse case – la provocazione della Scrittura diventa duplice: È perché ci amiamo troppo poco che non siamo più in grado di far scattare questi miracolini nei cuori della gente? E per altro verso: È perché ci poniamo come irraggiungibili dall’amore che ci ritroviamo ripiegati su noi stessi?

Campo estivo 2009

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