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sabato 30 gennaio 2010

Un Dio inaccettabile

Il vangelo che la Chiesa ci propone in questa quarta domenica del tempo ordinario, è la precisa continuazione di quello letto la settimana scorsa. Là la liturgia aveva fatto la scelta di concentrarsi sulla prima parte della vicenda di Gesù a Nazaret – quella della sua auto-proclamazione come compimento della citazione di Isaia 61,1-2, ripresa anche all’inizio del brano odierno –, senza preoccuparsi delle reazioni suscitate nei suoi ascoltatori. Qui invece l’attenzione va precisamente su queste conseguenze: la meraviglia iniziale («tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca») si tramuta improvvisamente in rifiuto («tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fino al ciglio del monte per gettarlo giù»).
Curiosamente non sono i compaesani di Gesù ad esprimere la motivazione di questo cambiamento, ma è Gesù stesso che li previene: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Il problema immediato sembra dunque consistere nel fatto che Gesù faccia miracoli fuori dal suo paese e non li faccia invece in patria…
Problema che solo Luca identifica in questo modo: Marco (6,1-6) e Matteo (13,53-58) fanno infatti piuttosto riferimento ad un’altra ragione che avrebbe originato il rifiuto dei nazaretani, e cioè l’umile origine di Gesù, la sua condizione di falegname, che anche Luca ricorda (dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?»), ma sulla quale non si attarda. Inoltre rispetto agli altri sinottici, Luca è l’unico a porre quest’episodio all’inizio del ministero pubblico di Gesù, trasformando quest’esperienza del rifiuto in un episodio di apertura. Gli altri infatti ne parlano più avanti, a missione inoltrata.


Certo, come precisa B. Maggioni, dal punto di vista storico paiono più corretti Marco e Matteo: «l’episodio di Nazareth non è la prima apparizione in pubblico di Gesù: tanto è vero che gli abitanti di Nazareth gli rimproverano di aver già compiuto molti miracoli altrove. Né – sempre dal punto di vista storico – si può dire che il rifiuto sia stato la prima reazione che Gesù ha incontrato: raccontando, infatti, subito dopo i miracoli compiuti a Cafarnao, Luca annota che “la sua fama si diffondeva in tutta la regione” (4,37) e che “le folle lo cercavano” (4,42). Tuttavia – pur essendo al corrente di tutto questo – l’evangelista ha scelto come episodio iniziale un rifiuto. Non c’è dubbio sulla sua intenzione. Storicamente l’opposizione alle parole e alle azioni di Cristo è cresciuta a poco a poco, ma Luca vuole che il lettore la incontri subito, fin dalle prime pagine, e vi rifletta. In tal modo il punto più delicato dell’intera storia di Gesù – il fatto cioè che abbia incontrato l’opposizione del suo popolo e sia stato crocifisso – non è differito, ma affrontato immediatamente. Da una parte il Messia che annuncia l’oggi di Dio e offre la sua liberazione ai poveri e ai peccatori, dall’altra gli uomini che ne provano irritazione: ecco il contrasto già chiaro nell’episodio di Nazareth e di cui l’intero vangelo vuole essere un’ampia illustrazione».
Il problema che dunque ci si profila a partire da questo vangelo è il rifiuto a cui il volto di Dio che Gesù rivela, va incontro. Più precisamente: il problema non è il rifiuto di Dio. Ci sono infatti immagini di dio che doverosamente sono da rifiutare! Ma il rifiuto di questo Dio, di Colui che – come dicevamo settimana scorsa e anche quella prima – è incontrovertibilmente il Dio della Vita degli uomini, dell’umanizzazione delle loro dis-umanizzazioni… Colui dal quale inequivocabilmente giunge all’uomo solo il bene.
Il problema profilato da Luca allora non è semplicemente quello della particolare malvagità da imputare a quella generazione o a quegli abitanti di Nazareth, ma la comune durezza di cuore che si incontra dappertutto e in ogni tempo.
Perché, dunque, il rifiuto di questo Dio?
Io credo che il testo di Luca indichi una duplice e complementare linea interpretativa. Innanzitutto il fatto che precisamente questo volto di Dio faccia problema; e in secondo luogo il tratto di questo volto in cui emerge l’universalità della dedizione.
In altre parole, Luca sembra dire che, per un verso, il rifiuto di questo volto di Dio dipenda dal fatto che è un volto che non giustifica più la cattiveria umana, la ricerca di potere, il continuo riproporre logiche di sopraffazione; questo Dio infatti, in quanto Dio della Vita dell’uomo, di ogni uomo – in particolare del più debole –, non può più essere strumentalizzato contro qualcun altro (il povero non è il maledetto, il malato non è il peccatore, l’altro non è il nemico, l’eretico non è quello contro cui scagliare un guerra santa…); l’altro – anzi – proprio a partire da questo volto di Dio è sempre e solo fratello… Ecco perché diventa un Dio scomodo… perché non giustifica più la mia lotta per imporre me stesso, il mio popolo, la mia razza, il mio partito, la mia ideologia…
Per altro verso, il rifiuto di questo volto di Dio che si propone come Padre di tutti, dipende dal fatto che precisamente questo suo essere di tutti, immediatamente viene percepito dalla logica competitiva umana come meno mio: il problema degli abitanti di Nazareth è infatti che lui faccia miracoli anche altrove.
È sempre la medesima insofferenza che ci nasce dentro quando capita qualcosa di buono a qualcuno che non siamo noi o che non è dei nostri: come se il bene che capita ad un altro fosse immancabilmente qualcosa che è tolto a me, ai miei…
Ecco, precisamente queste sono le dinamiche del rifiuto che Luca vuole mettere in risalto: l’inaccettabilità di un Dio che non coincide con il mio idolo, con il vessillo della mia ideologia, con il “come lo avevo pensato io”; e l’inaccettabilità di un Dio che è anche il Dio di qualcun altro… anzi il Dio di tutti!
Sostanzialmente l’inaccettabilità di un Dio che mi chiede di essere fratello/sorella del mio prossimo, sempre e comunque, dell’altro, sia esso ricco o povero, oppresso o oppressore, libero o prigioniero, cieco o vedente, peccatore o santo, eterosessuale o omosessuale, ebreo o nazista, berlusconiano o bersaniano, buono o cattivo… Solo chi vede l’altro come un fratello/sorella, infatti, non sente come rubato a sé il bene che gli capita, ma anzi, sa dare la vita perché il bene capiti all’altro…
Ma appunto… tutto questo non è altro che inaccettabile, impossibile… e un Dio così, in-credibile, cioè non degno di fede… Non conviene credere a un Dio così, si finisce male… Perché è vero – e Gesù l’ha sperimentato sulla sua pelle: non c’è nulla di più feribile dell’amore che si dona.
Eppure è altrettanto vero che se, per paura di donarsi (di morire), ci si trattiene da questa modalità di stare al mondo, il vivere si tramuta in un triste e sterile sopravvivere impaurito, dove l’altro rimane sempre e solo colui che mi potrebbe fare del male e da cui dunque devo difendermi, e dio sempre e solo l’ultimo baluardo idolatrico della mia ideologia...
L’inaccettabile Dio della Vita e la sua impossibile logica dell’amore che si dona (sempre) sono allora davvero la più autentica possibilità per l’uomo di essere Uomo e per la sua vita di essere Vita…
Io almeno non ne ho trovate altre così affascinanti e credibili, così appassionanti e dilatanti, così azzardate e così belle… Così vivificanti e umanizzanti…

venerdì 22 gennaio 2010

Gesù parla di sè

In questa III domenica del tempo ordinario, la Chiesa ci invita a tornare a riflettere sul vangelo caratteristico di questo anno C, quello di Luca. Siamo al capitolo 4 – salvo qualche versetto del I capitolo – e siamo agli inizi della vita pubblica di Gesù, in un momento – da questo punto di vista – parallelo a quello narrato domenica scorsa dal vangelo di Giovanni. I primi 2 capitoli di Luca infatti sono i cosiddetti “racconti dell’infanzia”, che dovremmo avere nelle orecchie, perché son quelli che abbiamo meditato nel recente tempo di Natale, da poco concluso; il III e i primi versetti del IV presentano il cosiddetto “trittico sinottico” (battesimo di Giovanni – battesimo di Gesù – tentazioni nel deserto); e i nostri versetti (dal 14 al 21) sono quelli che raccontano l’inizio del ministero pubblico di Gesù in Galilea.
Precisamente, Luca colloca questo inizio a Nazaret, la città dove Gesù è cresciuto: lì, nella sinagoga, Gesù – per la prima volta – dice qualcosa di esplicito su di sé (finora infatti aveva parlato solo in Lc 2,49, quando dodicenne aveva risposto ai genitori «Perché mi cercavate? Non sapete che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?»; e in Lc 4,1-13, rispondendo alle tentazioni): infatti, prende il rotolo del profeta Isaia e legge i versetti 1-2 del capitolo 61, seppur con qualche modifica (tralascia «guarire i contriti di cuore» – presente in Is 61,1 – e introduce – citando Is 58,6 – l’espressione «dare la libertà agli oppressi»; inoltre – a proposito di Is 61,2 – tralascia l’espressione «un giorno di vendetta per il nostro Dio», espressione che avrebbe limitato il significato universale del passo), che rende il testo profetico un testo in cui si accentua l’opera di liberazione e l’universalità di questa liberazione.
Dopo aver letto questi versetti, mentre tutti si aspettano una spiegazione esegetica del testo o una sua applicazione morale, come era prassi comune fra gli abituali predicatori della sinagoga, Gesù torna a sedere e se ne esce con un’espressione sconvolgente: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». In qualche modo cioè Gesù si attribuisce il compimento della promessa isaiana: la parola del profeta si compie con la sua venuta!

Gesù perciò, di sé, sta dicendo: di essere colmo dello Spirito del Signore («Lo Spirito del Signore è su di me»; elemento già presentato in Lc 4,1 «Gesù, pieno di Spirito Santo, ritornò dal Giordano e, sotto l’azione dello Spirito, andò nel deserto») e di essere l’eletto (l’unto) del Signore («mi ha consacrato con l’unzione»).
“Eletto” in vista di cosa? Per «portare ai poveri il lieto annuncio», «proclamare ai prigionieri la liberazione», «ai ciechi la vista», «rimettere in libertà gli oppressi», «proclamare l’anno di grazia del Signore».
Gesù sta allora proponendosi al suo popolo con una pretesa straordinaria… e con un’idea ben precisa del “mondo come Dio lo vuole”. Non a caso il compimento della profezia di Isaia che si compie con la sua venuta, coincide con quello che Marco e Matteo chiamano “la venuta del Regno”. Il Regno di Dio è precisamente questo: che ci sia una buona notizia per i poveri, la liberazione per i prigionieri, la vista per i ciechi, la libertà per gli oppressi, un anno di grazia del Signore… Tant’è che a Giovanni in prigione, dubbioso sul fatto che Gesù fosse davvero il messia («Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”», Mt 11,2-3), Gesù risponde raccontando ciò che accade dove passa lui: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!» (Mt 11,5-6).
Il Regno di Dio dunque, il mondo come Dio lo vuole, sono gambe storte che si raddrizzano, occhi ciechi che ci vedono, orecchie sorde che ci sentono, cuori induriti che si sciolgono… insomma l’umanizzazione della dis-umanizzazione in tutte le sue forme. Sia nel macrocosmo (poveri – prigionieri – ciechi – oppressi), sia nel microcosmo (noi, nelle nostre povertà – prigionie – cecità – oppressioni).
Ed è interessante che nel raccontare gli inizi della vita pubblica di Gesù, tutti gli evangelisti mettano in atto – ognuno a suo modo – uno strumentario specifico per dire che questo personaggio che è apparso sulla scena, è portatore di un messaggio incontrovertibile, univoco, chiaro: sia il passo di Isaia citato da Luca, sia l’episodio di Cana di Giovanni (II domenica del tempo ordinario), sia l’annuncio del Regno di Marco e Matteo, dicono che il compimento delle scritture, l’uomo nuovo come lo pensa Dio, il suo Regno che viene, coincide con la Vita per l’uomo. Questo è Dio!
Ma allora – torniamo a chiederci – perché i poveri continuano ad essere poveri? Anzi, sempre più poveri? Perché i prigionieri restano imprigionati? I ciechi, ciechi? Gli oppressi, oppressi? Anche questo, sia a livello macroscopico che microscopico…
Certo c’è di mezzo la libertà dell’uomo, il suo chiudersi alla proposta affascinante ma tremenda di Gesù della vita che trova Vita solo donandosi… Ma possiamo davvero ridurre – com’era in passato – l’interpretazione del reale, all’esaltazione di Dio per ciò che è buono e alla condanna dell’uomo per ciò che non lo è? Come se ciò che di buono faccio, fosse sempre e solo merito di Dio, mentre ciò che faccio di cattivo fosse sempre e solo colpa mia?
Forse il coinvolgimento delle reciproche libertà assume i contorni di un gioco un po’ più complesso, non banalizzabile…
Un gioco che diventa un po’ più chiaro se si prova a scavare – senza false riverenze – nel mistero che soggiace a questa autodichiarazione di Gesù e alla realtà del mondo che abbiamo davanti. Più radicalmente infatti la domanda è: Perché Gesù, che di fatto ha vissuto così come si è autoproclamato, non ha guarito tutti i ciechi, liberato tutti gli oppressi, ecc…? Perché non ha poi continuato a farlo “automaticamente” con tutti i nuovi nati da donna? Perché non ci ha consegnato un mondo senza poveri, senza prigionieri, senza ciechi, senza oppressi? Se la profezia di Isaia è giunta a compimento in Lui, perché la storia non è cambiata? Gesù forse si sbagliava sul suo conto?
Ecco la domanda radicale…
Eppure se rileggessimo le domande appena poste, chiedendoci nel frattempo quale idea di Dio gli soggiaccia, quale immagine di Salvatore, ci accorgeremmo di entrare immediatamente in conflitto con il volto di Dio e l’immagine di sé che Gesù rivela lungo la sua storia. Per guarire tutti i ciechi, liberare tutti gli oppressi, ecc… Gesù avrebbe infatti dovuto trascendere la fisicità storica in cui, incarnandosi, aveva scelto di vivere (avrebbe dovuto smettere di essere uomo); per continuare “automaticamente” gli stessi miracoli con tutti i successivi nati da donna, avrebbe dovuto saltare la relazione con la libertà umana (avrebbe cioè dovuto smettere di essere colui che crea e pensa l’uomo come l’interlocutore serio della sua vita, ricollocandolo tra le creature determinate solo dalla necessità); per consegnarci un mondo senza poveri, prigionieri, ecc… avrebbe dovuto impedire all’uomo di farsi nella storia (avrebbe cioè dovuto smettere di essere il Dio che non si impone); e così via…
Il punto cioè pare essere quello per cui noi spesso abbiamo un’interpretazione un po’ troppo affrettata e riduttiva di quello che è il volto di Dio che Gesù ci ha rivelato: stando alla citazione di Is 61,1-2, forse un po’ troppo frettolosamente noi diciamo – o diamo per scontato – che Dio è il Dio dei poveri, degli oppressi, dei ciechi, dei prigionieri… Come se Dio fosse una cosa (e immediatamente il nostro pensiero irriflesso va all’immagine “classica” di Dio: onnipotente, infinito, anonimo…) e poi – poiché è buono (come se questa bontà fosse solo una sua qualità che si aggiunge alle altre) – fa cose buone (aiuta i poveri, ecc…). Invece, molto più radicalmente, Dio è colui che fin nelle fibre più intime di se stesso è amore che si dona: non è che Dio è colui che fa il buono, Dio è buono; Dio non è colui che ci lascia un po’ liberi, ma è colui che radicalmente scommette sulla libertà umana, sulla sua storia, sul suo farsi…
Il nostro rischio invece è quello di considerarlo in modo apriorico come il Dio della metafisica greca, a cui poi appiccichiamo qualche nostra buona intenzione, qualche idea riciclata da quello che nell’immaginario collettivo è “il buon Dio”, e che poi rimproveriamo perché non ha saputo gestire bene attributi metafisici greci e attributi misericordiosi romantici…
Ma Dio è Altro da tutto ciò, è radicalmente altro: Lui non fa le cose, lui è Colui che è, è Colui che porta un lieto annuncio ai poveri… ma non perché queste sono “cose carine” che ogni tanto è bello fare, ma perché è Lui che è così; e dietro alle esemplificazioni di Isaia appare il volto del Dio che radicalmente, dalle origini e per sempre, è il Dio della Vita degli uomini. Ma essere il Dio della Vita degli uomini, implica precisamente esserlo, sempre e in modo radicale: rispettandone la libertà, parlandogli nell’intimità, custodendone la storicità… che sono tutte cose che precisamente si compiono in Gesù di Nazaret: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

giovedì 21 gennaio 2010

Ingiustizia è fatta!

Lasciati sempre più soli da questo Stato che sforna leggi contro il Bene Comunedi Luigi Ferrarella in Corriere.it
Da 6,5 a 10 anni per un processo non sarebbero pochi, a patto di risorse commisurate. Ma senza misure coerenti e complessive sulla giustizia, e fuori da riassetti costituzionali delle immunità, spicca la norma retroattiva che farà evaporare due interi processi del premier in corso.

Mai prima d’ora in Parlamento, con pari evidenza in nessuna delle 7 leggi approvate dal 2001 dalla maggioranze di Silvio Berlusconi e poi applicate ai suoi processi, una norma retroattiva si appresta ad avere l’immediato effetto di far evaporare non due figure di reato, o due prove d’accusa, ma addirittura due interi processi del premier già a metà del loro percorso verso la sentenza di primo grado: quelli nei quali il presidente del Consiglio è imputato di frode fiscale sui diritti tv Mediaset, e di corruzione in atti giudiziari del testimone David Mills. Ascolta, una volta un giudice come me giudicò chi gli aveva dettato la legge: prima cambiarono il giudice, e subito dopo la legge. Risuona De Andrè (1973) nella legge che, approvata ieri dal Senato, paradossalmente Berlusconi fa mostra di non apprezzare perchè «prevede tempi ancora troppo lunghi, sino a 10 anni è eccessivo». Ha proprio ragione. Solo che non è il suo caso. E’ piuttosto il caso delle 465 vittime di altrettanti reati che ogni giorno in Italia restano con un pugno di mosche in mano davanti a imputati graziati dalla prescrizione. E’ il caso delle parti offese dei 12 processi che, ogni 100, «saltano» per un difetto nei 28 milioni di notifiche manuali l’anno che affannano 5mila cancellieri. Ed è il caso dei 30mila italiani che reclamano indennizzi per l’eccessiva durata dei loro processi, già costata allo Stato 118 milioni.

Non è invece il caso di una politica che finge di ascoltare l’Europa quando Strasburgo condanna la lentezza italiana (per la verità raccomandando, invece di rigide gabbie temporali, l’adeguamento di risorse proporzionali al tipo di cause), ma fa orecchie da mercante quando l’Europa condanna l’Italia a risarcire i detenuti in 2,7 metri quadrati a testa. Se almeno accompagnassero una coerente e sistematica riforma della giustizia, le controverse norme sull’estinzione dei processi troverebbero forse maggiore asilo. Anche perché tre anni per arrivare a una sentenza di primo grado, altri due per l’Appello e 18 mesi per la Cassazione non sono pochi, a patto di ben ponderare la congruità, e quindi la sostenibilità, delle attuali dotazioni della Giustizia rispetto alla nuova tempistica con la quale lo Stato vuole garantire ai cittadini, per il futuro, di non far durare tre gradi di giudizio appunto più di 6 anni e mezzo nella maggior parte dei casi (7 anni e mezzo per gli altri, 10 anni per mafia e terrorismo elevabili a 15).

Ma nessuno può ignorare la norma transitoria retroattiva che a gamba tesa cambia, a metà partita, le regole sulla cui base si stanno celebrando i processi in primo grado per reati con pene sotto 10 anni e commessi prima del 2 maggio 2006: appena in vigore, la norma transitoria ne determinerà l’estinzione se sono trascorsi 2 anni non dall’inizio del dibattimento, e neanche dal rinvio a giudizio, ma addirittura dalla richiesta del pm di rinvio a giudizio. Un totale non senso. Che però ne acquista uno solo, se si bada al fatto che il giudizio sui diritti tv Mediaset nasce da una richiesta del 22 aprile 2005, e il processo Mills da una del 10 marzo 2006: entrambi saranno dunque estinti dalla norma transitoria retroattiva. Che, come danni collaterali, falcidierà anche tutti gli altri processi nelle medesime condizioni. Quanti non si sa, ma quali, in alcuni casi, sì: per esempio la scalata Antonveneta, l’aggiotaggio Parmalat contestato ai colossi bancari mondiali, i dossier illegali Telecom e Pirelli, le truffe allo Stato sui rifiuti da parte di Impregilo, le corruzioni Enipower-Enelpower. Peccato che l’altra domanda nel testo di De Andrè, oggi un giudice come me lo chiede al potere, se può giudicare, non riesca a trovare risposta in una equilibrata disciplina costituzionale delle immunità, e in un rinnovato bilanciamento di contrappesi tra politica e magistratura a garanzia dei rispettivi terreni di autonomia: guasti sempre più profondi sarebbero risparmiati all’ordinamento, e acute tensioni smetterebbero di lacerare la società. Invece si stanno tramutando i proclami sulle «immunità» in sotterfugi di «impunità». E si sta scegliendo di mettere la colonna sonora di De Andrè (Tu sei il potere: vuoi essere giudicato? Vuoi essere assolto o condannato?) pure sotto il nuovo «calendario» dei processi.

venerdì 15 gennaio 2010

Nella Giornata Mondiale del Migrante, l'uomo come Dio lo vuole

In questa seconda domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa ci invita a riflettere sui primi versetti del II capitolo del vangelo di Giovanni. Dopo il Tempo di Natale infatti, la liturgia ci avvia alla scoperta della vita pubblica di Gesù, inaugurata col Battesimo al Giordano (celebrato domenica scorsa), e approcciata oggi dal punto di vista giovanneo. Non a caso infatti il nostro testo (Gv 2,1-12), fa parte di quella sezione inaugurale del vangelo di Giovanni, chiamata “prologo storico” (Gv 1,19-2,12), che ha precisamente la funzione di introdurre il lettore al resto della narrazione.
Di questa sezione è immediatamente importante sottolineare una particolare caratteristica strutturale: «Giovanni ha disposto le sequenze narrative di questa sezione in maniera molto chiara, secondo uno schema caratteristico. Lo segnala anche la Bibbia di Gerusalemme mettendo un titolo significativo a questa sezione: “la settimana inaugurale”. L’inizio della vicenda di Gesù è racchiuso nello spazio di una settimana di sei giorni; tale disposizione a noi ricorda subito un’altra settimana, quella dell’inizio per eccellenza: la settimana della Creazione, al sesto giorno della quale ci fu la creazione dell’uomo. Si osservino dunque i seguenti versetti:
- 1,29: “il giorno dopo”, il che significa che c’è stato un giorno precedente con la comparsa del Battista e adesso c’è un secondo giorno in cui è ancora il Battista il protagonista;
- 1,35: di nuovo l’annotazione: “il giorno dopo…”;
- 1,43: “il giorno dopo”;
- 2,1: “tre giorni dopo” [che la liturgia sostituisce con “in quel tempo”], una traduzione di per sé imprecisa, bisognerebbe infatti tradurre “due giorni dopo”, perché tale è nella lingua greca il significato dell’espressione “il terzo giorno” che compare nel testo originale.
Il materiale degli avvenimenti iniziali che riguardano Gesù e i discepoli è disposto quindi su un film che è fatto di sei grandi scene, e le nozze di Cana stanno come il culmine di un cammino: da una parte il culmine degli eventi di cui si compone la presentazione iniziale di Gesù e, dall’altra, il sorgere della fede nei discepoli: “Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”.
Al termine dunque della settimana iniziale che ci riporta alla creazione, la comparsa e l’azione di Gesù hanno il valore di una ri-creazione del mondo; in particolare vi si allude alla ri-creazione dell’uomo (sesto giorno). […] Ciascuno dei sei giorni è caratterizzato da qualcosa di particolare e di unico:
- La prima giornata (1,19-28) è la giornata del testimone, del Battista […];
- Il secondo giorno (1,29-34), è il giorno di Gesù, della sua prima comparsa sulla scena […];
- Il terzo giorno (1,35-42) è il giorno dei primi discepoli […];
- Nel quarto giorno (1,43-51) la figura centrale è Natanaele […];
- La quinta giornata non c’è;
- La sesta giornata è Cana, con la rivelazione della gloria di Gesù nel segno del vino nuovo», [P.PEZZOLI, La testimonianza del discepolo amato, in AAVV, Scuola della Parola, Litostampa Istituto Grafico, Bergamo 1997, 174-176].

Il testo di questa II domenica del Tempo Ordinario, allora, corrisponde al sesto giorno di questa settimana inaugurale: è quindi quello che più di tutti si carica di attesa da parte del lettore; anche perché la locuzione con cui è introdotto – «il terzo giorno» – (omessa come visto dal testo evangelico usato per la liturgia che la sostituisce con «in quel tempo»), produce essa stessa nei lettori un effetto d’attesa potentissimo: «“il terzo giorno” nell’Antico Testamento, era stato, per esempio, quello dell’arrivo al Sinai, il luogo dell’Alleanza (Es 19,10-11), oppure era il giorno in cui Os 6,2 annunciava l’azione di Dio che interviene per dare vita al suo popolo e salvarlo (“dopo due giorni ci ridarà vita e il terzo ci farà rialzare e noi vivremo alla sua presenza”, un brano che un antico commento ebraico spiega così: è il giorno in cui Dio ‘consola i morti’, cioè salva il suo popolo). Senza dire che a un lettore cristiano “il terzo giorno” richiama anticipatamente la Pasqua di Gesù» [Ivi, 184].
Dunque: Cosa avviene in questo sesto giorno della settimana inaugurale, in questo giorno inaugurato dall’espressione “il terzo giorno”, in questo giorno che suscita così grandi attese?
Avviene un miracolo… anzi… più precisamente: un segno!
La grande attesa del lettore si risolve in questo modo: ad un banchetto di nozze, in cui viene a mancare il vino, Gesù trasforma una spropositata quantità d’acqua (500/700 litri) in vino nuovo.
Il problema dunque diventa quello di capire questo segno.
Innanzitutto perché è meglio dire “segno” e non “miracolo”? Perché Giovanni stesso sceglie questo linguaggio. Egli infatti non vuole porre tanto l’accento sul fatto prodigioso, quanto piuttosto sull’intenzionalità di Gesù che lì si mostra: «Questo primo gesto di Gesù [infatti] è un gesto attraverso il quale traspaiono le intenzione di Dio» [Ivi, 185].
«Chi ha seguito Gesù viene portato a conoscere Dio; chi ha incominciato a seguirlo, magari ancora un po’ nell’oscurità, intuendo che Gesù offre una nuova familiarità, intuendo che in lui si trova una dimora in cui è bello fermarsi, a questo punto percepisce che le intenzioni di Dio sono queste, cioè che l’uomo viva, che l’uomo faccia festa, che abbia abbondanza; là dove la sua gioia viene meno, incontra il Dio che gli dà la gioia, che lo vuole invitare a nozze» [Ivi, 185]!
L’uomo nuovo creato nel sesto giorno della nuova settimana inaugurale, è dunque l’uomo felice; l’uomo come lo vuole Dio è l’uomo che fa festa, è l’uomo che è nella gioia, nella convivialità, nell’amicizia…
Questo dato evangelico inequivocabile è il medesimo che altrove è espresso con la categoria di “Regno di Dio”: esso infatti non è altro che “il mondo come Dio lo vuole”, e cioè, la pienezza della vita dell’uomo, l’umanizzazione della sua interiorità ed esteriorità, la dilatazione dell’amore… (cfr. la descrizione del Regno di Dio di Mt 11,2-6: «Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. Gesù rispose loro: “Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!»).
Ma…
Se questo è Dio, se questa è l’idea di uomo che ha in testa…
Perché spesso viene veicolato, all’interno dello stesso cristianesimo, un volto altro di Dio? Un volto ambiguo, un volto da cui all’uomo può venire sia il bene che il male?
E inoltre: Perché se questo è il progetto di Dio per l’uomo, noi oggi ci troviamo molto più spesso di fronte a un mondo dis-umanizzato che a un mondo in festa?
Forse le due problematiche non sono slegate…
Di certo la prima ha a che fare con la strutturale incapacità dell’uomo (ben delineata attraverso il mito genesiaco di Adamo ed Eva) di fidarsi del volto promettente di Dio: l’uomo ha sempre paura che in fin dei conti la bontà di questo Dio sia fasulla, illusoria… che prima o poi Dio chiederà il conto… Nessuno scampa al dubbio insinuato dal serpente che Dio si mostri apparentemente tanto buono, ma solo per poter colpire alle spalle («Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: “È vero che Dio ha detto: ‘Non dovete mangiare di alcun albero del giardino’?. Rispose la donna al serpente: “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: ‘Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete’”. Ma il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male”», Gn 3,1-5). Oggi il dubbio è divenuto addirittura radicale: non solo la sua bontà potrebbe essere illusoria, ma addirittura Lui in persona potrebbe non esistere.
Questo dubbio su Dio ha come inevitabile conseguenza, lo smarrimento dell’uomo: se Dio mi si mostra buono, ma poi non lo è, o addirittura se non esiste, vuol dire che la mia vita non è al sicuro nelle sue mani… vuol dire che dunque non posso affidargliela… vuol dire che o mi salvo da solo… o non mi salva nessuno…
Ed ecco la seconda problematica… Per chi si deve salvare da sé tutto diventa un probabile pericolo… Non mi posso fidare nemmeno di chi mi dorme accanto… Mi devo guardare da tutti… Chi mi sta intorno è un potenziale nemico, di certo un rivale nella lotta per la sopravvivenza (fisica, affettiva, carrieristica, ecc…).
Non c’è spazio per la festa nella gara per la sopraffazione: se devo emergere io, qualcun altro deve soccombere… Ed ecco che la spirale di competizione e morte che la guerra tra fratelli ingenera porta alla dis-umanizzazione che oggi ci si palesa dinnanzi con così tanta evidenza…
Ma il Signore aveva detto un’altra parola sull’uomo e sulle sue relazioni con i fratelli…
E precisamente questa parola dovrebbe ridiventare per i cristiani il centro della vita, il motore propulsore della loro azione e preghiera, il senso ultimo della loro passione: fare dei piccoli spazi che ci sono dati in questa storia, angoli di Regno di Dio!
Ed è molto interessante che proprio in questa domenica in cui leggiamo dell’uomo com’è pensato da Dio, si celebri la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, simbolo mai così eloquente come in questi giorni, della lontananza del mondo che stiamo costruendo, dal Regno che il Signore ci ha proposto… Paura, respingimenti, violenza… proprio là dove il Signore dice: accoglienza, fraternità, amore…

L’anticipo della grazia

È iniziato ormai il tempo ordinario del ciclo liturgico, ma come domenica scorsa per il Battesimo (dom. 1), anche oggi per le nozze di Cana (dom 2), l’antica tradizione ritiene che la manifestazione (o Epifania) di Gesù come Salvatore, non sia ancora completa, senza riascoltare questo “inizio dei segni compiuti da Gesù”. Perché qui nasce la fede dei discepoli. Nel battesimo è il Padre che abilita Gesù come Messia e si compiace di Lui,vedendo già il sacrificio della vita, adombrato nella sua immersione nel peccato del mondo. Nella nozze di Cana è la Madre che, mentre partecipa al matrimonio di due amici che l’avevano invitata, rende consapevole Gesù (lo con/vince) che prima c’è la vita, pur fragilissima e incapace di salvezza propria: è un bene penultimo, ma non può aspettare! Dunque, soltanto dopo e dentro di essa – la vita! – mentre la si vive, c’è l’ora dello svuotamento di tutto per il dono di sé al Padre (il bene ultimo!). Con l’evento del Battesimo si è aperta una breccia nello stesso mistero interelazionale trinitario (come appare dalla voce compiaciuta del Padre e dalla presenza in apparenza corporea dello Spirito – dicevamo domenica scorsa.). Con il matrimonio di Cana, si riapre il dono dell’immagine di Dio nell’uomo duale, offuscata dalla polvere della storia e dalla durezza di cuore dell’uomo. Maria indica a Gesù la necessità di ridonare alla vita umana, nella sua fonte sorgiva – l’unione tra uomo e donna! – il vino del senso e della speranza per il nostro cantiere antropologico. Il quale, pur nella fragilità e consunzione interna d’orizzonti, rimane ricco di un senso suo inalienabile, che il peccato e il suo rimedio finale, che è la croce per amore, non possono né devono cancellare o oscurare! L’amore che lì dobbiamo imparare è indistruttibile!

Non è tanto importante il prodigio
, dunque, quanto il significato suo profondo, fondamentale per interpretare ogni altro segno di Gesù. Per questo rimane fonte della fede di ogni suo discepolo (da quel momento i discepoli credettero in lui!). Nella drammatica inadeguatezza della vita umana a risolvere i propri problemi, non è il deprezzamento dispettoso o la fuga spiritualistica, o il barricarsi in qualche nicchia protetta … la soluzione. Maria, con attenzione materna intelligente e premurosa, semplicemente denuncia una situazione che vede l’uomo in difficoltà: “non hanno più vino!” Una preghiera incessante, come la storia dell’uomo: non hanno più pane – non hanno più pace – non hanno più… vita – né speranza (penso oggi agli innumerevoli morti ad Haiti, in pochi secondi di terremoto – e, ancor peggio, all’abisso di dolore e smarrimento negli occhi e nel cuore dei sopravvissuti! Non hanno più speranza!). La vita sembrava aver promesso la sua festa, ad ogni pranzo nuziale, come ad ogni nascita di un bimbo nuovo al mondo, con tanti invitati, tanta gioiosa partecipazione e tanti desideri! Ma le nostre feste sono brevi e non finiscono bene – viene a mancare il vino, perché si consuma sempre prima che finisca la sete della gente. Il disagio non sfugge alla donna (madre), attenta e interessata al bene di chi ha attorno, e quindi ricorre con piena fiducia a Gesù. E qui si manifesta la qualità sorprendente dello schieramento interiore dei due protagonisti di questo intervento che segna per sempre la dinamica sorgiva della fede cristiana. Perché apre una breccia sul cuore della messianicità di Gesù, come a ricalibrarne la comprensione della sua missione storica e quindi della nostra fede in lui. Come se Maria e Gesù si assumessero la difesa e la testimonianza simbolica delle due polarità che innescano la scintilla della nostra fede. Dalla parte di Maria, a nostra difesa, la fedeltà al mondo di qua e alle sue istanze esistenziali – come il vino alla festa! – che intessono il nostro precario quotidiano (tutto il mistero del Natale secondo Luca è centrato sul segno: la Madre col bambino – Dio inserito nel futuro più fragile fragile di questa umanità – nelle necessità concrete della casa, del latte, dell’acqua, del lavoro, dell’accudimento quotidiano, con tutte le sue piccole cose necessarie!). E, dall’altra parte, la missione profetica di Gesù, protesa nell’appassionata incombenza dell’ora “unica”, in cui il figlio dell’uomo, assumendo questa dolorosa precarietà ontologica e morale dell’uomo, la salva dall’interno con il dono totale di sé.
Alla richiesta della mamma, Gesù si schermisce: che vuoi da me, donna? non è ancora giunta la mia ora! Nella fede “cristiana” non si può anticipare l’ora della manifestazione finale. È l’ora riservata al Padre! L’epifania scandalosa e dirompente del crocifisso glorioso, che sarà il vero miracolo, il vero segno globale della salvezza del mondo, venuta all’umanità per mezzo del dono della sua vita,(ecco l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo!). Ogni altro segno prodigioso rischia di oscurare questo segno definitivo e distrarre pericolosamente l’attenzione dei discepoli e del popolo.
Maria sa tutto questo! Intuisce nel mistero del figlio che il vero scopo “ultimo” – sovrastante e soggiacente ad ogni respiro della vita di Gesù – è questa consegna drammatica di sé al Padre, ma sa anche che la gente deve vivere, che le nostre precarie e banali cose penultime sono la sostanza della nostra vita, dove lo spazio e il tempo non sono soltanto i nastri trasportatori del nostro cammino nella storia, ma costituiscono le dimensioni vitali che ci permettono di costruire noi stessi, istante per istante, nelle “cose” banali e quotidiane che fanno lo spessore dell’esistenza ai vari livelli, fisico, organico, psichico, spirituale. Non possiamo vivere altrimenti … anche se sappiamo che questo rischia di stordirci e frastornarci dall’essenziale, che è ormai tra noi, carne della nostra carne, segno vivo del Regno di Dio, che ci chiama a conversione. Gesù lo ricorda con sgomento, come rischio interno alla sua missione: Come avvenne nei giorni di Noè, così sarà nei giorni del Figlio dell’uomo: mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e venne il diluvio … Così accadrà nel giorno in cui il Figlio dell’uomo si manifesterà … Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva… (Lc 17,26)
La presenza di Gesù Cristo e del suo vangelo non sono solo un seme piccolo che germoglia nel nostro campo e diventa un albero… ma anche una spada a doppio taglio che si insinua tra le ossa e il midollo della nostra esistenza e ne mette a nudo la precarietà: “I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio” (20,34). Sarà in nome di queste auto identificazione messianica che Gesù non aveva pensavo di intervenire?... la sua presenza e il suo annuncio sono di una qualità eversiva rispetto alle vicende umane e alla loro qualità intramondana, precaria, chiusa nelle strettoie del tempo e dello spazio che si consumano…
Eppure – dice Maria! – non c’è altro mondo dove fuggire. È questa la nostra vita! E proprio nel matrimonio sta la promessa e la sfida più forte al futuro dell’umanità… sintetizzata nell’incontro uomo/donna. Perché nel rapporto duale non risiede solo la spinta vitale per la riproduzione biologica dell’umanità, ma la risorsa primaria di elaborazione della compiutezza umana – strutturalmente dialogica.

Ecco che “l’ora” del Figlio dell’uomo è come anticipata, per intercessione di Maria
, non nel suo calendario cronologico, ma nei suoi frutti salvifici per la condizione umana, come tante volte avverrà poi nei vangeli. Il vino finale della grazia è come anticipato, in assaggio, a sostenere la nostra fede nella storia.. Sorprendente che già nei testi canonici così antichi, sia tanto profonda ed esplicita la consapevolezza dell’interposizione di Maria tra noi e il figlio. Alle radici della fede cristiana, Maria si è posta in mezzo, perché a questa è stata abilitata all’Annunciazione : a dare il suo spazio e tempo umano, elaborarne la carne ed educarne la coscienza di figlio d’uomo, nel figlio di Dio – nei figli di Dio. La premura e l’accudimento della realtà terrena è nata nelle sue viscere materne e le ha contagiato inguaribilmente il cuore. È divenuta la sua seconda natura in una maternità che avvolge ogni essere umano. Questa tenerezza solerte, accolta ed esaudita dal figlio, nostro salvatore, è diventata maternità teologale. Cioè componente essenziale della nostra fede. Questa tenerezza attenta e intelligente non riguarda direttamente il fine ultimo… riguarda le piccole gioie e speranze, i contrattempi e i dolori, i lutti e i natali, che accompagnano il destino dell’uomo. C’è come un recupero a livello specificamente teologale ed ecclesiale della mondanità – dell’umile insostituibile mediazione delle “nostre” cose penultime, che le rende capaci, nella loro materialità storica, di essere sacramento alla “cosa ultima” – che è imparare e crescere nell’amore che non avrà fine. È lei che suggerisce anche il criterio luminoso per gestire questa nostra storia difficile: “ciò che vi dice di fare, fatelo!”

giovedì 14 gennaio 2010

Haiti: aiuti...

Se anche l'ONU è sotto le macerie...
Corriere e Agire - In collaborazione con Agire, l’Agenzia italiana risposte alle emergenze, è possibile inviare un sms al n. 48541 (donazione di 2 euro) da cellulari Tim, Vodafone o da rete fissa Telecom Italia o su c.c. postale intestato ad Agire, n.85593614, causale «Un aiuto subito per Haiti». Da venerdì anche il conto corrente bancario. Altre raccolte di fondi con il Comune e la Diocesi di Milano. Agire, che coordina molte ong italiane tra cui Amref e Save the children, si è subito attivata per raccogliere risorse e fornire immediata assistenza: oltre che attraverso l'sms solidale, è possibile effettuare donazioni attraverso carta di credito al numero verde 800.132.870; bonifico bancario sul conto BPM-IBAN IT47 U 05584 03208 000000005856. cAUSALE: Emergenza Haiti; donazione online dal sito http://www.agire.it/.

Caritas - La Caritas italiana, in collegamento costante con l'intera rete Caritas, ha subito lanciato un appello per poter contribuire alla realizzazione del piano d'emergenza ed ha messo a disposizione centomila euro per i bisogni immediati. Per sostenere gli interventi in corso si possono inviare offerte a Caritas Italiana tramite C/C POSTALE N. 347013 specificando nella causale: Emergenza terremoto Haiti. Offerte sono possibili anche tramite altri canali, tra cui: UniCredit Banca di Roma Spa, via Taranto 49, Roma - Iban: IT50 H030 0205 2060 0001 1063 119, Intesa Sanpaolo, via Aurelia 796, Roma - Iban: IT19 W030 6905 0921 0000 0000 012, Banca Popolare Etica, via Parigi 17, Roma - Iban: IT29 U050 1803 2000 0000 0011 113 ò CartaSi e Diners telefonando a Caritas Italiana tel. 06 66177001.

Unicef - Anche l'Unicef lancia una raccolta fondi- Si possono effettuare donazioni tramite: -c/c postale 745.000, causale: ‘Emergenza Haiti’; -carta di credito online su www.unicef.it, oppure chiamando il numero verde UNICEF 800745000; -cc bancario Banca Popolare Etica IBAN IT51 R050 1803 2000 0000 0510 051”; -i comitati locali dell’UNICEF presenti in tutta Italia (elenco sul sito-web http://www.unicef.it/). Per maggiori informazioni, Ufficio stampa UNICEF Italia, tel.: 06.47809355/233 e 335/6382226 e 335/7275877; e-mail: press@unicef.it, sito-web: http://www.unicef.it/.

Croce Rossa Italiana - Queste le coordinate per la raccolta fondi della Croce Rossa Italiana in favore delle popolazioni colpite dal terremoto ad Haiti: - numero verde tel. 800.166.666; - donazione online causale «Pro emergenza Haiti» www.cri.it; - bonifico bancario causale «Pro emergenza Haiti» IBAN IT66 - C010 0503 3820 0000 0218020.

Medici Senza Frontiere (MSF) - lancia una raccolta fondi straordinaria. Si può contribuire all’azione di soccorso di MSF a Haiti tramite carta di credito telefonando al numero verde 800.99.66.55 oppure allo 06.44.86.92.25; bonifico bancario IBAN IT58D0501803200000000115000; conto corrente postale 87486007 intestato a Medici Senza Frontiere onlus causale Terremoto Haiti; online sul sito http://www.medicisenzafrontiere.it/.

WFP - Per aiutare il Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite (WFP) a fornire assistenza alimentare alle vittime del terremoto si possono inviare offerte tramite: internet, per informazioni e donazioni online, connettendosi al sito www.wfp.org/it; bonifico bancario, causale: emergenza Haiti c/c 6250156783/83 Banca Intesa ag. 4848 ABI 03069 CAB 05196 IBAN IT39 S030 6905 1966 2501 5678 383; versamento su conto corrente postale c/c 61559688 intestato a: Comitato Italiano per il PAM IBAN IT45 TO76 0103 200 0000 6155 9688.

Fondazione Rava - La Fondazione Francesca Rava è un'organizzazione umanitaria internazionale presente in Haiti da 22 anni con numerosi progetti in aiuto all’infanzia. Gestisce l’ospedale pediatrico Saint Damien, l’unico dell’isola e il più grande dei Caraibi, gravemente danneggiato dal sisma. Servono urgentemente fondi per sostenere i soccorsi medici d’emergenza, organizzare gli scavi delle macerie per salvare i dispersi, ricostruzione dell’ospedale. Si può sostenere la fondazione attraverso bollettino postale su C/C postale 17775230; bonifico su c/c bancario BANCA MEDIOLANUM SpA, Ag. 1 di Basiglio (MI) IT 39 G 03062 34210 000000760000 causale: terremoto Haiti, carta di credito online su http://www.nphitalia.org/ o chiamando lo 02 5412 2917.

Misericordie - Le Misericordie Italiane hanno aperto una sottoscrizione in favore delle popolazioni colpite dal terremoto di Haiti. È possibile fare una donazione sul c/c 000005000036, Monte dei Paschi di Siena spa, Firenze Agenzia 6, Iban: IT 03 Y 01030 02806 000005000036; oppure sul conto corrente postale n° 000021468509, Firenze Agenzia 29, IBAN: IT 67 Q 07601 02800 000021468509 entrambi intestati a Confederazione Nazionale con causale «Pro Haiti».

fonte: Corriere della Sera

lunedì 11 gennaio 2010

Tammurriata nera

di Giulia Galeotti

Oltre che disgustosi, gli episodi di razzismo che rimbalzano dalla cronaca ci riportano all'odio muto e selvaggio verso un altro colore di pelle che credevamo di aver superato. Per una volta, la stampa non enfatizza: un viaggio in treno, una passeggiata nel parco o una partita di calcio, non lasciano dubbi. Non abbiamo mai brillato per apertura, noi italiani dal Nord in giù. Né siamo stati capaci di riscattarci, quando il "diverso" s'è fatto più vicino, nel mulatto, a prescindere dalle diversissime cause per cui ciò è avvenuto. Sia stato il risultato di un atto d'amore o, invece, di uno stupro, ben difficilmente abbiamo considerato quel bambino come nostro, al pari dei nostri. Anzi, la doppia appartenenza è sembrata (e continua a sembrare) una minaccia ulteriore. In questo, davvero a nulla è servito l'esempio americano: l'Obama-mania che imperversa trasversalmente, dalla politica all'arte, dallo stile al linguaggio, non ha invece fatto breccia alcuna nel dimostrare il valore dell'incontro tra razze diverse.
Le esperienze coloniali del Regno d'Italia di problemi ne avevano posti diversi da subito. Integrando di fantasia, già Pirandello aveva raccontato - in Novelle per un anno, Zafferanetta - di una Norina Rua della Sabina, che accettò di sposare il giovane Sirio Bruzzi, pur sapendo della figlia di cinque anni che gli aveva "laggiù", a Mokàla in Congo. E accettò anche, la poverina, che l'uomo facesse salire in Italia "quel fiore selvaggio della sua vita avventurosa" a vivere con loro. Titti, alias Zafferanetta (come la ribattezza la cameriera) arriva quando la Norina è già incinta di un mese, e l'incontro tra la donna e la "pupattola ramata" non promette nulla di buono (presagendo quel che sarà). Sirio "le entrò in camera con le braccia e le gambe di quel mostriciattolo avviticchiate al collo e al petto. Non vide dapprima che queste gambe e queste braccia, gracili, color zafferano, e i capelli ricci, gremiti, piuttosto lunghi, boffici e quasi metallici. Quand'egli alla fine riuscì a sviticchiarla da sé, parlandole in quello strano linguaggio infantile, ed ella potè vederle la faccia, anch'essa color zafferano, con quel casco di capelli ricci d'ebano quasi soprammessi, la fronte ovale, protuberante, gli occhioni densi, truci, fuggevoli, smarriti, il nasino a pallottola e i labbruzzi divaricati, non tumidi, un po' lividi, si sentì gelare: istintivamente compose il volto a una espressione di pena e di raccapriccio". Né, dopo la prima impressione, le cose migliorano. "Teneva le labbra serrate e le manine rattratte, e vibrava tutta ad ogni minimo rumore. (...) Doveva essere invasa dallo sgomento quell'animuccia selvaggia. Norina stava a mirarla in silenzio, quando Sirio non c'era; e, mirandola, s'accorgeva che veramente (...) non era poi tanto brutta: solo la tinta, quella tinta ramata, incuteva ribrezzo. E Zafferanetta, immobile, seduta su una sediola di bambù, si lasciava mirare".
Con Mussolini l'avversione al mulatto assume una veste inedita. Nel 1938, per esempio, un processo per procurato aborto vede alla sbarra la giovane nubile che vi s'è sottoposta, insieme con l'infermiera che l'ha praticato. Se la corte sarà reggimentalmente severa con quest'ultima ("bisogna stroncare questa forma di attività che a scopo di lucro è così esiziale alla integrità della stirpe e agli interessi vitali della Nazione che sono legati alla potenza demografica"), nei confronti della giovane il tono è, evidentemente, ben diverso. "Merita grande pietà per un particolare intimo venuto in luce in udienza, e cioè che avendo avuto rapporti con un negro, autista della delegazione di Cuba, maggiore sarebbe stato il suo disonore se il prodotto del concepimento fosse venuto alla luce".
Il clima post bellico, per evidenti ragioni, coinvolge anche i mulattini. Se ne parlò già in Assemblea costituente, tra gli altri, il 21 aprile 1947, durante un intervento del repubblicano Aldo Spallacci (medico-chirurgo). "Dovremmo noi restare indifferenti a quegli incroci tra razza bianca e razza nera, che hanno tanto preoccupato la nazione inglese? Lungi da noi il pensiero di razza inferiore o razza superiore. Questi incroci tra razze, che hanno scarsa affinità, non sono fatti per migliorare il nostro tipo umano. I mulatti sono scarsamente resistenti al logorio ambientale dei nostri climi e molto vulnerabili al dente delle malattie. Su queste creature noi ci curviamo con la stessa trepidazione con cui ci curviamo sopra tutte le culle, come davanti a un punto interrogativo del mistero della vita. E pensiamo, col rossore sul volto, che questo colore italo-nero nelle guance di questi bimbi rappresenta il senso di abiezione della patria; e questo senso di tristezza lo sentiamo tutti quanti nel cuore, come senso angoscioso di responsabilità per tutti. A un dato momento questa ondata di corruzione è passata sul nostro Paese, perché, oltre alle violenze delle truppe saccheggiatrici, liberatrici, ossessionate dal sensualismo, c'è stata anche la prostituzione e la corruzione. Noi ci volgiamo a questi illegittimi collo stesso sguardo con cui guardiamo tutti gli altri nostri bambini". Uno sguardo di cui, in realtà, in pochissimi furono capaci. Tra questi, un uomo alto ed elegante, don Carlo Gnocchi e la sua fondazione Pro Juventute, da lui creata proprio per dare cura, assistenza e formazione - tese profeticamente all'integrazione sociale - a "orfani di guerra, mutilatini, mulattini, tutte vittime innocenti della barbarie umana".
Con ottica ben distante, nel 1949 il deputato Silvio Paolucci aveva presentato una proposta di legge volta ad aggiungere all'articolo 235 del Codice civile, che regolava il disconoscimento di paternità, una nuova ipotesi: quella in cui il figlio risultasse di razza diversa da quella del marito della madre. Un tempismo quasi obbligato: proprio nel 1949 aveva suscitato enorme scandalo la decisione dei giudici di Firenze di rigettare la domanda di un padre toscano che aveva chiesto di disconoscere il figlio di colore.
Per fortuna, comunque, ci aveva pensato Napoli, dove nel 1945 Edoardo Nicolardi - all'epoca dirigente di un ospedale cittadino - aveva scritto la celeberrima Tammurriata Nera. Nel vivace botta e risposta con la gente del vicolo, il protagonista-spettatore commenta un fatto "strano", la nascita di un bambino nero da una ragazza partenopea. Nella canzone lo stupore per un fenomeno nuovo ("io nun capisco 'e vvote che succede / e chello ca se vede nun se crede / è nato nu criaturo è nato niro") e diffuso ("sti cose nun so' rare se ne vedono a migliare"), viene spiegato in modo affascinante e singolare: "'e vvote basta solo 'na guardata / e 'a femmina è rimasta sott''a botta impressionata". Interviene quindi il parularo: poco importa che sia dalla pelle bianca o nera, rimane una creatura. "Addó pastíne 'o ggrano, 'o ggrano cresce: riesce o nun riesce, sempe è ggrano chello ch'esce!". Nel 2010, invece, siamo ancora all'odio. Ora muto, ora scandito e ritmato dagli sfottò, ora fattosi gesto concreto.
©L'Osservatore Romano - 11-12 gennaio 2010)

L'Uomo Nero


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venerdì 8 gennaio 2010

Il Figlio di Dio decide di essere uomo

In questa terza domenica dopo Natale, la Chiesa ci invita a celebrare la festa del Battesimo di Gesù.
Apparentemente questa sembra la cosa più ovvia del mondo: Gesù si è fatto battezzare da Giovanni e così ha inaugurato il suo ministero pubblico… Le nostre orecchie ormai avvezze a sentire raccontare questa vicenda infatti, non riescono a cogliere immediatamente la paradossalità che si cela dentro a questo evento… eppure… che Gesù si faccia battezzare, è stato fin da subito un “signor problema” per la Chiesa nascente. Non tanto perché se ne metteva in discussione l’autenticità… anzi, proprio per il motivo opposto. Scrive infatti don Bruno Maggioni: «La maggioranza degli studiosi considera il battesimo di Gesù un fatto storico fra i più sicuri. Depone a favore della sua storicità la testimonianza letteraria molteplice, ma soprattutto il fatto che il suo ricordo procurò alla tradizione successiva un innegabile “disagio teologico”, che si è cercato di attenuare: il battesimo poteva, infatti, far pensare che Gesù fosse inferiore a Giovanni, o che fosse bisognoso di conversione come gli altri uomini.
D’altra parte sappiamo che le comunità primitive non si sentivano costrette a tramandare tutti i fatti di Gesù: se hanno tramandato il battesimo – nonostante le difficoltà che poteva suscitare – è certamente perché lo hanno considerato particolarmente importante. E di fatti è un tornante che segna la transizione dal Battista a Gesù, dal vecchio al nuovo, dall’attesa alla venuta, e gran parte di questa “novità” è proprio racchiusa nel suo aspetto “scandaloso”» [Il racconto di Luca, 79-80].
Perché – dunque – Gesù si fa battezzare? Perché se Gesù è Figlio di Dio, Dio lui stesso, si fa rimettere i peccati da Giovanni? Gesù è senza peccato si legge nelle Scritture («Cristo non commise alcun peccato e non fu trovato alcun inganno nella sua bocca», 1 Pt 2,22)... Forse che san Pietro si è sbagliato? Forse che Gesù si mette in fila con i peccatori semplicemente perché non era Dio, ma solo un uomo, bisognoso come tutti del perdono di Dio, appunto? O forse era sì Dio, ma non lo sapeva? Aveva bisogno cioè, come tutti, di prendere coscienza della sua identità, della sua missione, della sua figliolanza...? Ma anche in questo caso: com’è possibile che il Figlio di Dio non sapesse di essere il Figlio di Dio? Che Dio è allora?
Ovviamente entrambe le soluzioni non sono accettabili per il credente che vuole tentare di rendere ragione di questo fatto: non si può ammettere che Gesù non sapesse di essere il Figlio di Dio (lui stesso infatti nel Vangelo rivendicherà con autorità questa sua identità: tanto che per questo verrà messo a morte, «egli deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio» – Gv 19,7), né tanto meno che non lo fosse e dunque avesse bisogno del perdono dei peccati (di se stesso infatti dirà: «il Figlio dell' uomo ha autorità in terra di perdonare i peccati», Mt 9,6)!
Ma allora come porsi – da credenti – di fronte a questa situazione? Perché Gesù, pur essendo Figlio di Dio e senza peccato, si fa battezzare da Giovanni?
Qualcuno (già all’epoca neotestamentaria) cerca di risolvere la cosa, chiamando in causa una non meglio definita giustizia, quasi un piano preordinato indisponibile a Gesù stesso, che determina questa situazione. Matteo infatti – a differenza di Marco e Luca – orchestra la vicenda in modo tale che Giovanni inizialmente si rifiuti di battezzare Gesù, dicendo «Io ho bisogno di esser battezzato da te e tu vieni da me?» e accetti solo quando Gesù gli ribatte «Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia».
Ma questa soluzione, ben al di là dall’essere tale, è in realtà solo uno spostamento del dilemma: in queste parole che Matteo mette in bocca a Gesù infatti, emerge solo il fatto che anche l’evangelista aveva lo stesso nostro problema: rendere ragione di questo fatto... La sua risposta infatti risulta una non-risposta, un semplice spostamento del problema, che – pur suonando diversamente (Perché Dio nel suo piano anteriore e indisponibile al Figlio, ritiene giusto farlo battezzare tra i peccatori?) – rimane.
Altri tentativi di soluzione sono stati posti invece nella linea della pedagogia divina: Gesù cioè qui agirebbe col solo intento di insegnare qualcosa (l’umiltà, per esempio), o di aspettare tempi più maturi per rivelarsi (farebbe dunque finta – per il momento – di essere un uomo qualsiasi, uno tra i tanti)...
Ma anche in questi casi le risposte non reggono: la finta assunzione dell’umanità da parte del Figlio di Dio infatti è addirittura scartata come eresia dalla Chiesa cattolica (docetismo); ma anche la prospettiva pedagogistica di Gesù è sempre più vista come una riduzione della sua identità: sarebbe cioè sbagliato porsi di fronte alla storia di Gesù, cercando di estrarne insegnamenti, codici morali, itinerari spirituali, prescindendo dal suo porsi nel mondo. Non bisogna infatti pensare che ci sia da una parte la vita umana di Gesù e dall’altra i vari insegnamenti per il buon vivere oggi che da essa si possono trarre! È piuttosto il decidersi storico dell’uomo Gesù la rivelazione di Dio: è la storia concreta di Gesù – che di volta in volta ha deciso di sé, ha deciso chi essere – il volto di Dio e il volto dell’uomo rivelati definitivamente nel tempo!
Allora forse anche di fronte al fatto del battesimo di Gesù – al suo decidersi cioè di mettersi in fila per la remissione dei peccati – è necessario porsi con questo atteggiamento. Non tanto domandarsi quindi “Cosa ci vuole insegnare Gesù, facendo così?”, quanto piuttosto “Chi sta decidendo di essere, in quella scelta?”.
Stando ai testi neotestamentari e alla riflessione della Chiesa in proposito, le risposte potrebbero essere diverse (sta decidendosi per una solidarietà con l’uomo peccatore; per un’adesione alla domanda di salvezza del suo popolo; per un andare a vedere le risposte che il momento storico offriva), ma tutte riconducibili a una: Gesù sta decidendo di essere uomo; azzardando un po’ i termini: sta imparando ad essere l’uomo che – da sempre – ha deciso di essere.
Per questo va da Giovanni; perché essere uomo nella Palestina di quel tempo, voleva dire mettersi in fila col suo popolo. Per questo prega: perché dentro a quel dialogo col Padre, il suo pregare è il suo decidere chi essere, è il suo decidere di essere uomo! Pregare infatti è sempre decidere di sé – accedere insieme a Dio e a sé stessi. «Non a caso Gesù ha pregato in tutti i momenti decisivi della sua vita e della sua missione (Cfr. 5,16; 6,12; 9,18.28-29; 11,1; 22,41; 23,46)».
E proprio nel momento in cui Gesù decide di essere uomo al 100%, l’uomo che – da sempre – ha deciso di essere, arriva la voce dal cielo, voce quasi di conferma, di approvazione, di compiacimento: Gesù è Dio così e Dio conferma “un” Gesù così: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».
Questa frase, tra l’altro, non è una semplice esclamazione di consenso, ma – per le esperte orecchie ebree – rimanda inequivocabilmente a Isaia 42: dove dell’eletto di cui Dio si compiace si dice che «porterà la giustizia alle nazioni. Non griderà, non alzerà il tono, non farà udire la sua voce per le strade. Non spezzerà la canna rotta e non spegnerà il lucignolo dalla fiamma smorta; presenterà la giustizia secondo verità. Non verrà meno e non si scoraggerà, finché non avrà stabilito la giustizia sulla terra» (Is 42,1 ss); e anche che sarà preso per mano e custodito «per aprire gli occhi dei ciechi, per fare uscire dal carcere i prigionieri e dalla prigione quelli che giacciono nelle tenebre» (Is 42,7).
Gesù dunque, nella sua intima relazione col Padre, sta decidendo di essere l’uomo – rivelazione di Dio – capace di giustizia senza violenza; di verità senza sopraffazione; di fiducia e stabilità; di liberazione per gli oppressi della terra... Con tutto quello che questa sua scelta comporterà: perché Egli sa benissimo, che l’amore è ciò che di più feribile esiste, tra le cose che esistono, e che dunque la sua scelta di umanità sarà una scelta per la morte. Sempre Isaia, descrivendo il Servo d’Israele, dice infatti: «Disprezzato e rigettato dagli uomini, uomo dei dolori, conoscitore della sofferenza, simile a uno davanti al quale ci si nasconde la faccia, era disprezzato, e noi non ne facemmo stima alcuna. Eppure egli portava le nostre malattie e si era caricato dei nostri dolori; noi però lo ritenemmo colpito, percosso da Dio ed umiliato. Maltrattato e umiliato, non aprì bocca. Come un agnello condotto al macello, come pecora muta davanti ai suoi tosatori» (Is 53,3-7).
E in questo scegliere di Gesù di essere uomo – e dunque Dio – così, non c’è niente di pedagogico, nessun insegnamento da trarre! Non sta invitando anche noi a essere capaci di giustizia senza violenza; di verità senza sopraffazione; di fiducia e stabilità; di liberazione per gli oppressi della terra. Molto di più, sta abilitando la carne umana a percorrere quella strada impossibile (non a caso il cielo si apre – si squarcia cioè la presunta barriera tra il mondo di Dio e il mondo dell’uomo – e lo Spirito di Dio può scendere): perché nello sconforto di una vita che – a differenza dell’annuncio di Natale – sembra essere fatta di tenebre senza nessuna luce che ci brilli dentro (di violenza senza giustizia, di sopraffazione senza verità, di canne spezzate e braci incenerite, di scoraggiamenti, e di impossibilità di salvezza), sia detto a tutti, che se è stato possibile una volta in un uomo, essere Uomo così, allora è possibile per tutti sempre, e dunque per noi, oggi!
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