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venerdì 23 aprile 2010

Contagiati dal “troppo” dell’Amore

In questa quarta domenica di Pasqua, la Chiesa ci offre un vangelo brevissimo, ma intensissimo. Siamo al capitolo 10 del vangelo di Giovanni: Gesù è a Gerusalemme in occasione di una festa ebraica e mentre passeggia nel Tempio, viene interpellato dai Giudei – coi quali aveva già avuto diversi scontri: «Fino a quando terrai l’animo nostro in sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». Gesù – quasi sconsolato – risponde: «Ve l’ho detto e non credete… ma voi non credete, perché non siete mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io dò loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».
Ecco… tutto il vangelo odierno è contenuto in queste potentissime frasi… Infatti dopo le prime tre domeniche di Pasqua, in cui il vangelo si soffermava sui racconti di apparizione, la Chiesa vuole ora farci fare un passettino ulteriore: mentre là infatti raccontava l’evento e contemporaneamente lo spiegava, qui prende una piccola distanza dall’evento e prova a concentrarsi sul senso. Come succede con le persone che amiamo: quando le abbiamo vicine le viviamo e le sentiamo, ma per vederle con occhi nuovi serve una distanza nuova. Così è il vangelo (che non a caso è la buona notizia che parla di una persona – anzi di tre): Giovanni infatti fa dire queste parole (che a noi servono per tentare di capire la risurrezione dei morti) a Gesù quando – secondo la cronologia evangelica – egli è ancora “vivo e vegeto”. In realtà però, quando Giovanni scrive, la prima comunità cristiana ha già vissuto “la distanza nuova” della morte e risurrezione che permette appunto di vedere Gesù con occhi nuovi. E dentro a questo gioco strabiliante di passato, presente e futuro che si intrecciano in questo testo, emergono parole potentissime che l’evangelista vuole lasciare alla sua chiesa: alle sue pecore il Signore dà la vita eterna… non andranno perdute in eterno… nessuno le strapperà dalla sua mano… e se questo non bastasse: «Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre»! Quasi a riaffermare in maniera ritornante e sempre più incontrastabile quanto aveva detto qualche versetto prima: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».
Ecco il punto che Gesù va a toccare, il centro del suo “essere venuto”, lo snodo dove si vede se una proposta, una vicenda, una libertà è degna di essere ascoltata o va a cadere nel vociare confuso del mercato umano: il problema della vita e della morte; della vita che rimane; della morte che non annienta… In base a quello che si dice su questo, a questo livello, dove non c’è possibilità di gradazione, ma c’è il tutto (la vita) o il niente (la morte), una proposta risulta degna di ascolto o meno; e Gesù lo sa. Non basta dire parole vere; non basta fare segni che tolgono il problema contingente delle vicende che si stan vivendo; non basta nemmeno fare tutto questo con autorità… L’uomo valuta ciò che sente in base a quanto questo risponde al problema della vita e della morte. Oggi infatti la mediocrità in cui spesso siamo gettati è dovuta al fatto che nessuna proposta ha la pretesa di dire qualcosa che vinca la morte, che valga al di là della morte… non i soldi, non il successo, non la salute, non gli amori facili… e infatti la nostra vita si riempie di tutte queste cose, per soffocare dentro l’anelito che dice: “Tutto questo finisce sottoterra”… Non crediamo più che ci sia qualcosa che regga il confronto con la morte, nessuna proposta pare all’altezza, tutte in qualche modo sono state screditate… Tanto vale allora vivere senza pensare che si deve morire… E tutta la nostra economia, la nostra politica, il nostro quotidiano pensare, parlare, scegliere, va in questo senso (spesso)… Perché morire fa paura… e allora meglio non pensarci… anche perché nessuno – come dicevamo – in proposito, sembra riuscire a tenere testa al problema del morire (e del rimanere morti, che è il vero dramma).
Ecco, Gesù in questo senso sfida questo indicibile, questo invalicabile confine del nulla, questo straziante destino che fa ammutolire tutti: Lui parla e ha il coraggio di dire che la sua proposta tiene testa anche alla morte, per questo è vera e va ascoltata, perché permette di abitare davvero la tragicità della drammatica umana.
Stando al vangelo sembra che tutto giri intorno al fatto di essere “sue pecore”… E la domanda che sorge spontanea è evidentemente quella che chiede: “Come si fa a essere sue pecore?”. Ecco il punto… il problema vero a cui il brano conduce… essere “sue pecore”…
L’immagine è fin troppo inflazionata per lasciar correre con troppa disinvoltura ciò che ci salta in mente con immediatezza: “essere sue pecore è andare a messa”, “è comportarsi da bravi cristiani”, “è non fare il male”… Che non sono cose false o sbagliate… ma bisognerebbe anche saper dire cosa vuol dire andare a messa e vivere una vita eucaristica… cosa vuol dire essere “bravi cristiani” (formula curiosa, perché un cristiano non ha bisogno di essere bravo… dire “cristiano” è infatti già dire molto più che “bravo”…)…
Piuttosto – stando al testo – pare che l’essere sue pecore sia legato a due caratteristiche: ascoltare il pastore e seguirlo. E poco prima si diceva anche: conoscerlo.
Ma non nel senso con cui noi solitamente affrontiamo il problema religioso, per il quale di fronte al problema della salvezza (del salvarsi l’anima), sale pressante la domanda sul da farsi e le indicazioni che si possono racimolare si trasformano in precetti morali, itinerari spirituali, dogmi da credere… sotto questo meccanismo è fin troppo evidente la nostra ritornante mentalità mercantile: Cosa devo fare per pagarmi la salvezza? Credere questo, non fare questo, celebrare questa pratica… e sono apposto… Come se il problema della salvezza sia qualcosa di slegato da me, da chi sono io veramente. È il problema dell’anima, è il problema dell’aldilà. Non c’entra nulla con la mia vita, con ciò che amo, spero, temo… Più o meno come portare la macchina a far la revisione… E il tono della domanda che i Giudei gli rivolgono è molto chiara in questo senso: «Fino a quando terrai l’animo nostro in sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente».
Lette in quest’ottica le parole di Gesù sull’essere sue pecore han veramente poco da dirci… aggiungono forse qualche prescrizione, indicazione, orientamento…
Ma questo non è Gesù, questo non è il vangelo… questo slegare vita e morte, anima e corpo, aldiqua e aldilà è un germe che si è insinuato un po’ dopo nella storia della Chiesa e dell’umanità… Per Gesù invece l’aldiqua non va vissuto per l’aldilà. Le due realtà non sono separate. Quello che sarò è quello che sono. Quello che costruirò dentro come consistenza e dilatazione umana, sarò io (da viva e da morta).
E questa “consistenza”, questa “vita che rimane in eterno”, la si scopre mettendosi dietro a lui, come buon pastore… di nuovo, non perché abbia chissà quali consigli, o nuovi precetti, o parole che – limitando la nostra natura umana peccaminosa – ci evitino l’inferno… Ma perché ascoltarlo, seguirlo, conoscerlo, vuol dire ripercorrere la vicenda del darsi storico della sua libertà (chi lui ha deciso di essere) e scoprire che il suo “segreto” per la Vita è stato perderla… non in maniera mortificante e autolesionistica, repressiva di sé e della sua umanità, ma perché affetto da “troppo amore”…
Ecco… chi si fa convincere e contagiare da questa malattia del “troppo amore” è una sua pecora a cui è promessa la vita che rimane e un abbraccio così forte nelle mani del Padre che nessuno potrà strapparlo.
E dentro a una logica così non c’è spazio per dire: beh, allora, quello là è fuori da questo abbraccio… perché se fosse solo un credo, beh, chi non crede è fuori; se fosse solo una norma, beh, chi non la segue è fuori… ma siccome è una “malattia” che viaggia per contagio, quella del lasciarsi toccare dentro dal troppo dell’amore, beh allora è davvero per tutti. E il compito del cristiano è fin troppo chiaramente evidenziato… contagiare, contagiare, contagiare… senza paura di essere a volte inadeguati, pasticcioni, infelici e imbranati nel proporsi… senza paura addirittura di tradire quello stesso amore che si va contagiando… perché il ricircolo dell’amore che il Signore non ha mai interrotto (né da vivo, né da morente, né da risorto) è nuovamente sempre lì da ri-attingere. Per questo bisogna continuamente seguirlo senza pensare ad un certo punto di essere noi i pastori… perché quando la storia fa tremare d’angoscia le nostre viscere e la paura blocca i nostri canali dell’amore, allora anche noi – magari cristiani da sempre – abbiamo bisogno di tornare a farci contagiare da Lui… fonte inesauribile dell’amore che si commuove dentro…

domenica 18 aprile 2010

Un vuoto incolmabile... Ma egli vive!


Ringraziando il Padre di averci incontrati...
03/05/1942-18/04/2010

Il rito funebre sarà celebrato
martedì 20 aprile, alle ore 15.00
nella chiesa parrocchiale di Lessolo.
Il corpo verrà tumulato nel cimitero di Lessolo.

COMUNICAZIONE DAL MONASTERO DI LEGNANO
Contrariamente a quanto annunciato, venerdì 23 aprile alle ore 21.00, non si terrà la terza tappa del cammino in compagnia di Teresa, ma una Celebrazione Eucaristica in memoria di padre Giuliano Bettati.
Presiederà l’Eucaristia mons. Ambrogio Piantanida, Vicario Episcopale per la Vita Consacrata.
Infatti padre Giuliano doveva essere il relatore di questo ultimo incontro.
La nostra comunità ringrazia quanti vorranno essere presenti.
Le sorelle del Carmelo di Legnano

sabato 17 aprile 2010

Mi ami più di loro?...

Mi ami più di loro?! … ma che cosa significa veramente “amare di più”? Difficile da dire, ancor più difficile, come ogni paradosso esistenziale, collocarlo con equilibrio nella complessità delle relazioni. Ma ogni innamorato l’ha provato! Forse siamo al mondo (come un po’ troppo schematicamente diceva l’antico catechismo) per imparare proprio questo. – e ci vuole una vita! Ognuno con la sua storia, le sue ferite, i suoi fallimenti e le sue illusioni… E i suoi ricominciamenti, che – secondo Gesù – la vita sempre riconcede. Perché, appunto, è inesauribile la fame che ci muove di essere “amati di più”. E quando questa fame fosse finita siamo finiti anche noi, svuotati come viaggiatori senza meta. Il Vangelo è lo smascheramento delle illusioni o ambiguità o falsità del cammino, con un rigore ed una tenerezza sconcertanti – che inchiodano alla propria debolezza impotente chiunque lo ascolti con sincerità e non cerchi di mascherare dietro le insufficienze altrui le proprie paure e delusioni. E la voglia di tornare indietro. Di “amare di meno”, per soffrire di meno! Il Vangelo non ci insegna una tecnica psicologica o psicanalitica, ma ci è presenta un personaggio – il protagonista di questa “buona notizia” del possibile ricominciamento – che ci chiama ad un percorso dietro lui : va a dire ai miei fratelli che li aspetto in Galilea. La Galilea è il posto da cui era partito per il suo viaggio finale. Fino alla sua passione, morte e risurrezione. Quante attese, quanti entusiasmi, quanti passi di gioia e condivisione e quanti momenti duri e amari… per arrivare fino a lì – per imparare ad “amare di più”. Con la sua famiglia e le inevitabili incomprensioni, con i compaesani delusi e aggressivi, con i capi e i maestri del popolo, ma soprattutto con gli amici, i discepoli e le donne, a cui ha aperto il cuore e la mente … senza risultati immediati, ma senza pentimenti! Fino a patire all’estremo, nella pelle e nell’anima, cosa vuol dire “amare di più”. Gesù ha mantenuto vivo questo fuoco (e la passione perché divampasse nel mondo), nella fatica, nell’abbandono e nella solitudine – senza mai prendere occasione dalla debolezza e nemmeno dal tradimento per diminuire l’amore! È il segreto misterioso di questa qualità divino/umana dell’amore che vuole illuminare quest’ultima pagina pagine aggiunta al vangelo di Giovanni, dopo che già era stato raccontato tutto.
“Rivolgendosi a Simone Gesù gli chiede: “Mi ami tu più di costoro?”. Richiesta esorbitante, non solo perché rivolta a chi aveva rinnegato il suo Signore, non solo per quel curioso “più di costoro”, ma anche e specialmente perché Gesù usa il verbo amare / agapào che indica l’amore totale, esclusivo, incondizionato cioè perfetto, “santo”. Pietro non osa rispondere con lo stesso verbo (forse lo avrebbe fatto prima di conoscere l’amara esperienza del tradimento): risponde semplicemente e poveramente “Ti voglio bene”, usando il verbo dell’amore amicale philéo. Nella seconda domanda Gesù insiste con la richiesta dell’amore totale e Pietro insiste nella seconda risposta con l’offerta del suo povero, umile, amore. Alla terza domanda e risposta non è Pietro che cambia il verbo: è Gesù! “Simone di Giovanni, mi vuoi bene?” e Pietro – sebbene “addolorato che la terza volta gli dicesse: Mi vuoi bene?” (che fosse cioè Gesù ad avere dovuto cambiare il verbo dell’amore) – gli risponde: “Signore, tu sai tutto, sai che ti voglio bene”. Si potrebbe quasi dire che non è Pietro a convertirsi a Gesù, ma è Gesù che “si converte” a Pietro, si adatta al suo linguaggio e alle sue possibilità. È questa “conversione di Dio” che mi colpisce profondamente: anche perché è a partire da essa che Gesù pronuncia l’imperativo nel quale sbocca tutto l’itinerario educativo con cui aveva formato il suo apostolo: SEGUIMI!” (Gv 21, 19). Così dal fallimento è cominciata la storia nuova della santità personale di Pietro, spinta fino al martirio, quando egli dirà, non più con le parole, ma con il gesto della vita donata e con il silenzio eloquente della morte, la parola dell’amore esclusivo e totale per il suo Signore!” (card Martini).
Gesù vive questa qualità dell’amore che è entrare nell’amore dell’altro, e lasciarsene mangiare Ci vuole una libertà interiore totale, di fronte alla quale la “diversità” (fosse anche l’immaturità!) dell’amore dell’altro non è un limite, ma una sfida. Che esige un “di più” di amore e niente da perdere, come dice Giovanni di Gesù : avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine! Il giovane ricco era ricco di doti morali e di beni materiali, ma aveva paura di perderli. Gesù, comunque, lo guardò e lo amò! E di certo il suo amore è rimasto dentro il giovane … ad attendere la maturazione delle possibilità di germogliare. Pietro ha percorso tutte le tappe dell’immaturità dell’amore: la presunzione (anche se tutti ti abbandonassero, io darò la vita per te!), il rinnegamento, ribadito e drammatico (non conosco quell’uomo!). Ma l’amore di Gesù lo riaccoglie e lo ama così com’è: Allora il Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro … (Lc 22,61). Ed ecco nell’ultima pagina del vangelo, il perdono come rifondazione tenera e appassionata dell’amore, instancabile e rigeneratore, sempre a partire dalle umane fragili possibilità soggettive. Chi “ama di più” entra nell’amore dell’altro, accogliendolo e soffrendolo così come è – perché si fida più della potenza mite ma inarrestabile (divina!) dell’Amore che della impazienza prepotente fremente della propria fame!
Nel gioco sottile delle sfumature delle diverse parole sta forse nascosto il segreto della proposta “cristiana” dell’amore, inaugurata da Gesù con l’esempio della sua vita. Lui ha amato ognuno di noi “più di loro – nessuno ci ha amati così!”. Ha dato la vita per me, mentre io non ero ancora capace di amare. E accoglie ognuno come è, più o meno capace di ricevere il suo invito, affidandosi alla forza stessa interna all’Amore – come si accudisce un germoglio senza poterlo forzare, dandogli il suo tempo. Questo vuol dire, nel limite storico della nostra quotidiana debolezza, il dono pasquale: Ricevete lo Spirito santo! Gesù ha chiamato, accolto, lodato, rimproverato, perdonato… Pietro – sempre nel segno dell’amore, sostenuto da una pazienza “materna” inesauribile, che solo la piena gratuità della dedizione può sostenere. Forse ogni amore deve essere così: bisogna che l’altro cresca e che io lo attenda, a costo di diminuire, a rischio di morire, prima che mi ami di ritorno. Amami più di tutti, vorrà dire questo? Rendere Pietro (e tutti noi!) consapevole che l’amore che Gesù ha per lui è così! Il “di più dell’amore”… vuol dire questo, dunque! E quando l’altro s’accorge e si strugge [… addolorato, che per la terza volta gli domandasse : mi ami tu …?], forse gli matura dentro la dinamica vera dell’Amore e scoppia la possibilità di un salto di qualità. Che non è prodotto della nostra umanità di carne, ma dallo lo Spirito che lui ci ha mandato… e geme dentro di noi…
«Se si potesse possedere, afferrare e conoscere l’altro, esso non sarebbe l’altro. Possedere, conoscere, afferrare sono sinonimi di potere. La relazione con altri è l’assenza dell’altro; non assenza pura e semplice, non l’assenza del puro nulla, ma assenza in un orizzonte di avvenire, un’assenza che è il tempo» ( Emmanuel Lévinas)-
Il tempo per maturare! Amare di più è accettare la sfida del tempo, dell’amore che non c’è ancora – dunque la sfida della precarietà, ma anche della fecondità creativa! È affidarsi davvero all’altro, alla sua libertà trepida e fragile, alle sue paure e al suo desiderio di ricomporre l’armonia della sua dedizione, di reimparare ad amare… E per resistere, nel nostro piccolo struggente dramma quotidiano, all’assenza dell’amore, alla solitudine che dà spazio all’altro di essere se stesso… occorre l’aiuto di Chi nella concezione dinamica cristiana di Dio è l’Amore… che si vogliono gli altri Due! Neanche nel nostro piccolo, infatti, ci può essere Pasqua (l’incontro con il crocifisso risorto!) senza Pentecoste: senza che il suo Spirito ci entri nel cuore e lo coinvolga nella dinamica del suo amore, lavandolo progressivamente da ogni ambiguità!

venerdì 16 aprile 2010

Alla fine, ciò che conta, è il bene

In questa terza domenica di Pasqua la Chiesa ci propone di meditare sull’ultimo capitolo del vangelo di Giovanni, quasi per intero. Innanzitutto va detto che il suo accostamento alla prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, risulta davvero simpatico: fa sorridere infatti sentire di questi uomini ormai così saldi e determinati nel loro annuncio e poco dopo ascoltare che quei medesimi personaggi, pochissimo tempo prima, erano invece ancora così impacciati nel riconoscimento del Signore risorto, ancora così addentro a quel processo di costruzione della loro fede in Lui.
Simpatico e piuttosto consolante…
Anche perché Giovanni in poche pennellate riesce a descrivere con efficacia la situazione – soprattutto interiore – di coloro che compongono questa terza scena di apparizione ai discepoli: sono in sette («Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli») e misteriosamente – nonostante le due apparizioni precedenti in cui Gesù aveva, tra l’altro, usato parole quali «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» – stanno facendo ciò che facevano prima della loro avventura umana con il Signore. Non solo non hanno fatto un passo in avanti (sono assolutamente distanti dalla situazione di annuncio descritta dagli Atti), ma sembrano addirittura aver fatto un passo indietro, aver subito una regressione: «Disse loro Simon Pietro: “Io vado a pescare”. Gli dissero: “Veniamo anche noi con te”. Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla». Non a caso la scena risulta molto simile a quella narrata in Lc 5,1-11 (cfr. anche Mt 4,18-22 e Mc 1,16-20), all’inizio della vita pubblica di Gesù e all’inizio della vita da discepoli dei discepoli: sono ancora sulle sponde del lago a fare i pescatori.
Eppure non sono più gli stessi…


Addirittura questo testo fa apparire sotto una luce nuova anche quel «lasciarono tutto e lo seguirono» (Lc 5,11) degli inizi. Aver percorso tutta la vicenda di questi uomini fa infatti guardare le cose da un’altra prospettiva: certo rimane encomiabile ed esemplare la loro disponibilità a lasciare tutto e a seguire prontamente il Signore, ma ora comprendiamo quanto (ancora) poco fosse penetrata nella profondità delle loro viscere quella loro disposizione. In mezzo ora ci sono (secondo la scansione temporale sinottica) tre anni di vita vissuta con Gesù; tre anni in cui tante cose son state viste, dette, ascoltate, fatte, capite, fraintese… Soprattutto tre anni con un epilogo assolutamente pregnante per la vita di chi amava quell’uomo morto in croce… Tre anni di storia che hanno scavato e plasmato e cambiato, e umanizzato e allargato lo spazio interiore di questi uomini, il loro modo di guardare alla vita, di pensare alla vita…
E Giovanni è bravissimo a descrivere tutto questo: «Disse loro Simon Pietro: “Io vado a pescare”. Gli dissero: “Veniamo anche noi con te”. Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla [esattamente come in Lc 5]. Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù [come allora non avevano riconosciuto in Gesù qualcuno di così affascinante per cui giocare la vita]. Gesù disse loro: “Figlioli, non avete nulla da mangiare?”. Gli risposero: “No”. Allora egli disse loro: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete”. La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci [si ripete la “pesca miracolosa”: Gesù è il medesimo da vivo e da risorto]. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: “È il Signore!” [lo riconosce proprio perché Gesù si presenta facendo le cose che faceva prima e che diceva essere il modo in cui Dio si rivelava (chiamare per nome, guarire, mangiare insieme, fare la Cena, spiegare le Scritture…)]. Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare [uno dei versetti più commoventi, in cui tra l’altro non si dice che Pietro riconobbe Gesù. Gli è bastato sentire che era il Signore per lanciarsi in mare e raggiungerlo. Si vede che dopo il rinnegamento e i fatti della passione e morte, aveva proprio un esagerato desiderio di rincontrare il suo maestro e amico]».
Proprio in questo tuffo di Pietro si vede in maniera evidente che non sono più gli stessi uomini che Gesù aveva incontrato tre anni prima. Pietro non è più solo affascinato da quello che Gesù fa e dice (e perciò lo segue), anzi qui neanche vede che è Lui. Eppure in quei tre anni ha costruito dentro la consistenza di un rapporto di bene per Gesù che – nonostante le sue fatiche, i suoi tradimenti, le sue incomprensioni – ora esplode nella sua evidenza: Pietro vuole bene a Gesù, ecco la differenza; un bene non più solo detto, o percepito, o sperato… un bene vissuto, scavato dalla storia, sagomato dalla vita (fatta di sudore, lacrime e sangue: «Diceva Anna Magnani al truccatore che prima del ciak stava per coprirle le rughe del volto: “Lasciamele tutte, non me ne togliere neanche una. C’ho messo una vita a farmele tutte» [dal documentario Il corpo delle donne, reperibile in rete]).
E da questo punto di vista è interessantissimo come Giovanni fa proseguire il testo, perché – come diceva don Bosco – non basta voler bene a qualcuno, ma bisogna che lui lo sappia… Ecco perché l’evangelista ritaglia un dialogo personalissimo tra Gesù e Pietro… che merita proprio di essere guardato più da vicino…
Siamo ormai alla fine del vangelo e Gesù incontra qui per l’ultima volta i suoi discepoli. E non è indifferente che proprio alla fine il discorso cada sul bene tra Gesù e Pietro. Anzi, nel leggere questo testo, non bisogna assolutamente dimenticarsi di questa collocazione, perché l’ultimo atto di Gesù – come per ciascuno – è necessariamente la sintesi prospettica con cui guardare a tutta la sua vita. Lì infatti si condensa il tutto di quello che è stato, come una sintesi incandescente della sua persona.
E l’interessante è che alla fine del vangelo, nell’incontro conclusivo dell’esperienza terrena del Signore, ciò che Gesù sente di domandare a uno dei suoi, e a quell’uno particolare che era Pietro, è se Gli voglia bene. È come se alla fine, ciò che, su tutto quanto hanno vissuto, detto, patito, deciso, sorriso, pianto, imparato, insegnato, ecc…, conta unicamente è la qualità del bene che è passato tra di loro, è la consistenza della relazione che si è creata, è l’apertura dei canali dell’amore a cui il rapporto li ha abilitati. È come per noi: alla fine cosa conta? Al momento del ritorno al Padre che ci sia qualcuno che ci vuole bene… Forse addirittura tutta la vita è la ricerca di due braccia che ci amano tra cui morire…
Ma al di là delle reazioni immediatamente sentimentali che queste considerazioni suscitano, ciò che risulta interessante è che per Gesù, la sintesi del suo percorso vitale stia in questo: che i suoi abbiano imparato ad amare; ad amare come Lui; ad amare Lui.
Non a caso affida proprio a Pietro (che risponde affermativamente anche se sempre un po’ incerto alla triplice domanda: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?»), il compito di essere guida per gli altri: nella logica di Gesù infatti il compito di essere guida di un altro non dipende da criteri estrinseci alla persona (al sesso, all’età, al quoziente intellettivo, ecc…), ma alla qualità cristica dell’amore che la abita. Pietro è guida del gregge perché dopo tanti travagli, gli si è costruita dentro la capacità d’amare il Signore e i fratelli al modo di Gesù. Quante riflessioni potremmo fare in proposito sulla situazione ecclesiale attuale…
Ad ogni modo… quando tutto sembra apposto, riconciliato, finito… eccoti la parola “finale” che non ti aspetti: «Seguimi!». Ma come? Pietro non è colui del quale abbiamo detto che attraverso la vita ha imparato ad amare al modo di Gesù? Non è colui che Gesù ha scelto per guidare gli altri proprio per questo? Non era dunque arrivato? Cosa deve ancora seguire?
… Deve seguire ancora il suo amico e maestro (cfr. Mt 16,23; Mc 8,33): la proposta di Gesù infatti non è un itinerario morale (faccio / non faccio determinate cose e sono apposto) e nemmeno un’adesione intellettuale a certe verità (conosco a memoria il catechismo e sono un buon cristiano): è piuttosto una relazione, in cui la conformità a Cristo la si impara vivendo, agendo, amando… Ecco perché si conclude con quel «Seguimi!»: perché ad amare al modo di Gesù, dunque a essere uomini e donne, si impara in un continuo incontro, scontro, confronto, mescolamento, allontanamento, comprensione, imitazione, adesione, paura, nascondimento, ri-appropriazione tra la sua libertà e la nostra: quella che Paolo chiama la conformazione a Cristo.

mercoledì 14 aprile 2010

La lezione di Adro (da studiare per imitare)

Io non ci sto

Sono figlio di un mezzadro che non aveva soldi ma un infinito patrimonio di dignità.

Ho vissuto i miei primi anni di vita in una cascina come quella del film “L’albero degli zoccoli”.
Ho studiato molto e oggi ho ancora intatto tutto il patrimonio di dignità e inoltre ho guadagnato i soldi per vivere bene.
È per questi motivi che ho deciso di rilevare il debito dei genitori di Adro che non pagano la mensa scolastica.

A scanso di equivoci, premetto che:
  • - Non sono “comunista”. Alle ultime elezioni ho votato per FORMIGONI. Ciò non mi impedisce di avere amici di tutte le idee politiche. Gli chiedo sempre e solo la condivisione dei valori fondamentali e al primo posto il rispetto della persona.
  • - So perfettamente che fra le 40 famiglie alcune sono di furbetti che ne approfittano, ma di furbi ne conosco molti. Alcuni sono milionari e vogliono anche fare la morale agli altri. In questo caso, nel dubbio sto con i primi. Agli extracomunitari chiedo il rispetto dei nostri costumi e delle nostre leggi, ma lo chiedo con fermezza ed educazione cercando di essere il primo a rispettarle. E tirare in ballo i bambini non è compreso nell’educazione.
Ho sempre la preoccupazione di essere come quei signori che seduti in un bel ristorante se la prendono con gli extracomunitari. Peccato che la loro Mercedes sia appena stata lavata da un albanese e il cibo cucinato da un egiziano. Dimenticavo, la mamma è a casa assistita da una signora dell’Ucraina.

Vedo attorno a me una preoccupante e crescente intolleranza verso chi ha di meno. Purtroppo ho l’insana abitudine di leggere e so bene che i campi di concentramento nazisti non sono nati dal nulla, prima ci sono stati anni di piccoli passi verso il baratro. In fondo in fondo chiedere di mettere una stella gialla sul braccio agli ebrei non era poi una cosa che faceva male.

I miei compaesani si sono dimenticati in poco tempo da dove vengono. Mi vergogno che proprio il mio paese sia paladino di questo spostare l’asticella dell’intolleranza di un passo all’anno, prima con la taglia, poi con il rifiuto del sostegno regionale, poi con la mensa dei bambini, ma potrei portare molti altri casi.

Quando facevo le elementari alcuni miei compagni avevano il sostegno del patronato. Noi eravamo poveri, ma non ci siamo mai indignati. Ma dove sono i miei compaesani, ma come è possibile che non capiscano quello che sta avvenendo? Che non mi vengano a portare considerazioni “miserevoli”. Anche il padrone del film di cui sopra aveva ragione. La pianta che il contadino aveva tagliato era la sua. Mica poteva metterla sempre lui la pianta per gli zoccoli. (E se non conoscono il film che se lo guardino…).

Ma dove sono i miei sacerdoti. Sono forse disponibili a barattare la difesa del crocifisso con qualche etto di razzismo. Se esponiamo un bel rosario grande nella nostra casa, poi possiamo fare quello che vogliamo? Vorrei sentire i miei preti “urlare”, scuotere l’animo della gente, dirci bene quali sono i valori, perché altrimenti penso che sono anche loro dentro il “commercio”.

Ma dov’è il segretario del partito per cui ho votato e che si vuole chiamare “partito dell’amore”. Ma dove sono i leader di quella Lega che vuole candidarsi a guidare l’Italia. So per certo che non sono tutti ottusi ma che non si nascondano dietro un dito, non facciano come coloro che negli anni 70 chiamavano i brigatisti “compagni che sbagliano”.

Ma dove sono i consiglieri e gli assessori di Adro? Se credono davvero nel federalismo, che ci diano le dichiarazioni dei redditi loro e delle loro famiglie negli ultimi 10 anni. Tanto per farci capire come pagano le loro belle cose e case. Non vorrei mai essere io a pagare anche per loro. Non vorrei che il loro reddito (o tenore di vita) venga dalle tasse del papà di uno di questi bambini che lavora in fonderia per 1200 euro mese (regolari).

Ma dove sono i miei compaesani che non si domandano dove, come e quanti soldi spende l’amministrazione per non trovare i soldi per la mensa. Ma da dove vengono tutti i soldi che si muovono, e dove vanno? Ma quanto rendono (o quanto dovrebbero o potrebbero rendere) gli oneri dei 30.000 metri cubi del laghetto Sala. E i 50.000 metri della nuova area verde sopra il Santuario chi li paga? E se poi domani ci costruissero? E se il Santuario fosse tutto circondato da edifici? Va sempre bene tutto? Ma non hanno il dubbio che qualcuno voglia distrarre la loro attenzione per fini diversi. Non hanno il dubbio di essere usati? È già successo nella storia e anche in quella del nostro paese.

Il sonno della ragione genera mostri.

Io sono per la legalità. Per tutti e per sempre. Per me quelli che non pagano sono tutti uguali, quando non pagano un pasto, ma anche quando chiudono le aziende senza pagare i fornitori o i dipendenti o le banche. Anche quando girano con i macchinoni e non pagano tutte le tasse, perché anche in quel caso qualcuno paga per loro. Sono come i genitori di quei bimbi. Ma che almeno non pretendano di farci la morale e di insegnare la legalità perché tutti questi begli insegnamenti li stanno dando anche ai loro figli.

E chi semina vento, raccoglie tempesta! I 40 bambini che hanno ricevuto la lettera di sospensione servizio mensa, tra 20/30 anni vivranno nel nostro paese. L’età gioca a loro favore. Saranno quelli che ci verranno a cambiare il pannolone alla casa di riposo. Ma quel giorno siamo sicuri che si saranno dimenticati di oggi? E se non ce lo volessero più cambiare? Non ditemi che verranno i nostri figli perché il senso di solidarietà glielo stiamo insegnando noi adesso.
È anche per questo che non ci sto.

Voglio urlare che io non ci sto. Ma per non urlare e basta ho deciso di fare un gesto che vorrà dire poco, ma vuole tentare di svegliare la coscienza dei miei compaesani.

Ho versato quanto necessario a garantire il diritto all’uso della mensa per tutti i bambini, in modo da non creare rischi di dissesto finanziario per l’amministrazione. In tal modo mi impegno a garantire tutta la copertura necessaria per l’anno scolastico 2009/2010. Quando i genitori potranno pagare, i soldi verranno versati in modo normale, se non potranno o vorranno pagare il conto della mensa residuo resterà a mio totale carico. Ogni valutazione dei vari casi che dovessero crearsi è nella piena discrezione della responsabile del servizio mensa.

Sono certo che almeno uno di quei bambini diventerà docente universitario o medico o imprenditore o infermiere e il suo solo rispetto varrà la spesa. Ne sono certo perché questi studieranno mentre i nostri figli faranno le notti in discoteca o a bearsi con i valori del “grande fratello”.

Il mio gesto è simbolico perché non posso pagare per tutti o per sempre e comunque so benissimo che on risolvo certo i problemi di quelle famiglie. Mi basta sapere che per i miei amministratori, per i miei compaesani e molto di più per quei bambini sia chiaro che io non ci sto e non sono solo.

Molto più dei soldi mi costerà il lavorio di diffamazione che come per altri casi verrà attivato da chi sa di avere la coda di paglia. Mi consola il fatto che catturerà soltanto quelle persone che mi onoreranno del loro disprezzo. Posso sopportarlo. L’idea che fra 30 anni non mi cambino il pannolone invece mi atterrisce.

Ci sono cose che non si possono comprare. La famosa carta di credito c’è, ma solo per tutto il resto.

Un cittadino di Adro

Caro direttore,
ringrazio il Corriere della Sera per lo spazio che mi ha dedicato. Ho ricevuto tante richieste di interviste e di presentarmi in qualche trasmissione tv, ma ho detto di no per ribadire che con il mio gesto non cercavo alcun protagonismo. Chiedo il rispetto dell'anonimato, non per pudore o per paura, ma perchè quello che penso su questo argomento è tutto scritto nel documento e credo che ci si debba occupare delle idee prima che delle persone. Se interessa il tema della solidarietà rivolgetevi a tutti quelli che danno gratuitamente una cosa più importante dei soldi che è il loro tempo. E sono tanti e in silenzio.

Inoltre, nel documento che ho lasciato nel mio Comune mi riferivo alla politica locale che conosco e in particolare parlando del segretario intendevo il segretario di Adro. Se qualcuno ritiene che alcune considerazioni hanno valenza generale sono sue legittime deduzioni. Non iscrivetemi nel gruppo dei soloni che hanno in tasca la soluzione dei problemi del mondo.

Uteriori aggiornamenti: qui

martedì 13 aprile 2010

Perché taccio!

Qualcuno mi scrive in privato, sollecitandomi a parlare delle calunnie rivolte al Papa sulla sua presunta copertura di sacerdoti pedofili. Insomma mi si chiede di difendere le ragioni del Papa e della Chiesa

Personalmente penso che l’unico modo di difenderLo è cominciare ad assaporare anche noi quel dolore amaro che hanno le parole e gli atti che sappiamo ingiusti e persecutori. Se non altro per essere un poco, (assai troppo poco), anche nel dolore concreto, in comunione con quelle vittime innocenti che “noi” come Istituzione ecclesiale, abbiamo perseguitato…

C’è un episodio dell’Antico Testamento dove Davide in processione trionfante è insultato (anzi maledetto, lui il prediletto di Dio!) da un tale. Gli altri vogliono farlo tacere e lui invece ordina di lasciarlo gridare perché – dice – quella voce, disumana, irrazionale, offensiva, calunniosa… forse (!) veniva da Dio (cfr 2Samuele 16,11).

Ecco, io vedo in queste “diffamazioni” (sperando che lo siano davvero: peggio sarebbe se non lo fossero) un dono della Grazia, una possibilità della Chiesa di espiare in silenzio, ciò che le sue colpe (e il Papa le ha elencate, e tra queste non si è a priori escluso) hanno fatto di umanamente irrimediabile nei cuori, nelle vite, di troppi innocenti. Espiare, per sé e per tutti.

Siamo a Pasqua e credere nella Resurrezione vuol dire credere nella logica della Croce. E Cristo era innocente e noi non credo che lo siamo come lui. Vuoi per aver sottostimato nel tempo il problema, vuoi per una certa sessuofobia, vuoi per il ruolo marginale anche della donna nella vita del prete (parlo affettivamente come fonte di equilibrio…), vuoi per la mancanza di discernimento vocazionale, vuoi per i pessimi programmi educativi, vuoi per l’abbandono concreto con cui un parroco si trova a gestire il proprio sacerdozio, vuoi per la vita staccata (non solo dalla gente ma anche dai chierici) di tutta la curia romana e vescovile (quante volte tu che mi leggi hai potuto parlare a tu per tu con un vescovo?), vuoi per questo clima ovattato e clericale dei dicasteri e delle curie, vuoi perché quando il Papa era cardinale non ha pestato i pugni sul tavolo e minacciato le dimissioni per obbligare G.P. II ad aprire gli occhi… la lista è lunga e senza fine, prima di parlare di persecuzioni cominciamo a parlare di quanto poco abbiamo fatto per non meritarcele: praticamente niente!… C’è forse qualcuno che invece si crede innocente come il Cristo? Ebbene come lui, si lasci in silenzio condurre al macello per il bene di tutti!

La difesa ad oltranza, sempre, ma soprattutto in questo caso, male si addice a coloro che sono all’origine, anche indiretta, per omissione, del male.
C’è uno spirito di vendetta? Dio mio, se ne hanno diritto… io mi stupisco che non mi abbiano ancora cavato gli occhi!

E in ogni caso il male fatto è troppo immenso per lasciarlo alle parole. Ciascuno può fare un esperimento su di sé – e mi scuso per l’esempio troppo forte – guardate un vostro nipote o vostro figlio e pensate che un giorno possa dirvi che il prete che più stimate, perché vostro direttore spirituale, consigliere, confessore abituale, ecc., ha abusato di lui…
Basta ascoltare l’immenso insostenibile dolore che si prova e ci si accorgerà che non ci può essere pace per un cuore nemmeno nella fede, perché è un crimine che la uccide. Se qualcuno l’ha conservata è stato veramente per un vero e proprio miracolo di Dio, altro che quelli di Lourdes…

Sì credo proprio che parlarne per difendersi, sia un’altra forma di violenza. Credo che qui più che mai serva il silenzio e la preghiera, oltre a fare concretamente tutto il possibile, ma veramente tutto, per riparare al danno fatto alle vittime. E provare a vedere come riuscire a manifestare una giustizia non spietata verso i loro carnefici: c'è una solidarietà crocifissa che un cristiano deve poter manifestare anche verso i propri boia... Fino ad ora questa non è ancora emersa e ha aggiunto dolore a dolore: provate a pensare ora alla madre di un tale uomo!

Per questo a questo post non sono permessi commenti (se proprio qualcuno vuole farlo mi scriva in privato alla email che trova nel mio profilo)…
Scusatemi ma a me ogni parola, davanti a tanto dolore, mi appare oscena. E ne ho dette fin troppe!… Lascio dire chi deve dire (e son sicuro che vorrebbe tacere, se non è scemo) e vivo la dolorosa grazia del dover e poter tacere…

domenica 11 aprile 2010

Beati quelli che vedono perché credono

Gesù entra a porte chiuse. Eppure alla sua resurrezione, la pietra del sepolcro è rotolata e la porta del sepolcro si è aperta. [...] Ma qui egli entra e le porte sono chiuse, affinché quelli che dubitavano della resurrezione fossero presi da stupore al suo ingresso e da questo prodigio fossero condotti come per mano all’altro prodigio. [...] Gli apostoli, nascosti in una casa, vedono il Cristo. Egli entra a porte chiuse. Ma Tommaso, che in quel momento era assente, rimane incredulo. Desidera vedere Gesù con i suoi occhi e rifiuta i racconti degli altri discepoli. Chiude le orecchie e vuole aprire gli occhi. L’impazienza lo brucia, quando pronuncia queste parole: «Se non metto il mio dito nel segno dei chiodi e se non metto la mia mano nel suo costato, non crederò» (Gv 20,25). Troppo esigente per credere, Tommaso sfoga la sua diffidenza, sperando così che il suo desiderio sia esaudito. «I miei dubbi non spariranno se non quando lo vedrò, dice. Metterò il mio dito nei segni dei chiodi e abbraccerò quel Signore che tanto desidero.
Rimproveri la mia incredulità, ma colmi i miei occhi. Incredulo, quando lo vedrò, crederò quando lo stringerò tra le mie braccia e lo contemplerò. Voglio vedere le mani trafitte, che hanno guarito le mani che hanno trasgredito. Voglio vedere quel costato che ha scacciato la morte dal suo fianco. Voglio essere il testimone del Signore e non do peso alla testimonianza altrui. I vostri racconti esasperano la mia impazienza. La buona novella che mi portate non fa che ravvivare il mio turbamento. Non guarirò di questo male se non tocco colui che le guarisce». Ma il Signore appare di nuovo e dissipa contemporaneamente la tristezza e il dubbio del suo discepolo. Che dico? Non dissipa il suo dubbio, colma la sua attesa. Entra a porte chiuse e con questa visione incredibile conferma la non creduta resurrezione. Trova un nuovo motivo di stupore per convincere Tommaso. «Metti il tuo dito nel segno dei chiodi» (Gv 20,27), gli dice. Tu mi cercavi quando non c’ero, approfittane ora. Conosco il tuo desiderio nonostante il tuo silenzio. Prima che tu me lo dica, so che cosa pensi. Ti ho sentito parlare, e benché invisibile, ero accanto a te, accanto ai tuoi dubbi, e senza farmi vedere, ti ho fatto aspettare per meglio vedere la tua impazienza. «Metti il tuo dito nei segni dei chiodi, metti la tua mano nel mio costato e non essere più incredulo, ma credente». Allora Tommaso lo tocca, tutta la sua diffidenza si dissolve e colmo di una fede sincera e di tutto l’amore che si deve a Dio, esce in un grido: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28). E il Signore gli dice: «Perché hai veduto, hai creduto. Beati quelli che non hanno visto e credono!» (Gv 20,29). Tommaso, porta la buona notizia della mia resurrezione a quelli che non hanno veduto. Conduci la terra intera alla fede non della visione, ma della parola. Va’ tra i popoli e le città barbare e insegna loro a portare sulle spalle la croce invece delle armi. Annunciami: crederanno e mi adoreranno. Non esigeranno altre prove. Di’ loro che sono chiamati per grazia e contempla la loro fede. In verità: «Beati quelli che non mi hanno veduto e hanno creduto!».
(Basilio di Seleucia, Omelia sulla santa Pasqua 2-4, PG 28,1084A-1085C).

sabato 10 aprile 2010

Beati quelli che pur non avendo visto hanno creduto!

La liturgia di questo tempo dopo Pasqua ci introduce in un atmosfera di gesti e di parole, di sentimenti e di comportamenti del Signore “risorto” che ci fanno intravvedere un’umanità calda e misericordiosa, premurosa e provocatoria, tutta intenta a far maturare nella fede debole e troppo umana dei discepoli, impaurirti e complessati dai propri sensi di colpa, il salto di qualità verso una fede matura, animata dal suo “Spirito” – come Gesù aveva loro promesso, uno volta arrivato a questa sua compiutezza: Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi! Nella tenerezza misteriosa e dolcemente imperturbabile, del crocifisso risorto, promana ad ogni incontro con i discepoli, il “perdono” e la “pace” e ritrovano speranza le grandi promesse deluse della storia dell’umanità.
“Egli entrò nel cenacolo chiuso, come un vero spirito; la densità della sua carne risorta era diversa dalla densità della carne non risorta. I più puri e ingenui accettano l’apparizione del Risorto semplicemente come un dato di fatto; i più complicati lo obbligano a un’opera di rivelazione. Chi non si aspettava d’incontrarlo lungo la strada lo prende per un viandante qualunque. Tommaso, che invece l’attendeva suo malgrado, gli chiede la più elementare delle prove, quella di toccare le piaghe delle mani e del costato: ‘Non crederò se non metterò la mano nelle sue piaghe’. E Cristo appare nel Cenacolo con la sua carne risorta, Tommaso corre a toccarlo sicuro di sé, incontra la carne piagata, sfiora le ferite con le dita; crede a ciò che vede, a ciò che tocca. Aveva rifiutato la testimonianza, deluso la fiducia degli altri, adesso crede perché tocca, perché vede. Cristo prova una pena profonda per il discepolo incredulo, con dolore accetta un dato di fatto: Tommaso non crede allo spirito, crede alla materia; non alla verità sempre enunciata, ma alla testimonianza dei sensi; non ciò che è, ‘è’, ma ciò che sembra ‘è’!(Vannucci).

Non è tanto difficile, infatti, la prima fede – quella dell’adesione mentale ad una dottrina affascinante o al potere taumaturgico del messia di Nazareth. Il difficile è la seconda fede – quella consumata dalla delusione dell’impossibile, quando tutto è finito nel fallimento e nella morte. La fede, chiamata alla fiducia e allo sbilanciamento interiore nello spirito, a credere a chi che non si vede e non si tocca – la fede che continua ad affidarsi pur, nel tunnel dell’incredulità e del non senso …
L’esperienza di Tommaso è diventata così popolare e paradigmatica perché il buon senso istintivo della gente ci ha visto il “piccolo uomo” che tutti abbiamo dentro, quello che vede solo ciò che si vede, programma la sua vita su ciò che rende e … dopo, è già abbastanza stanco da non aver tempo da perdere per indagare oltre... Oltre! – dove solo i poeti e gli innamorati, i mistici e gli insoddisfatti del realismo di questo mondo (i poveri – guarda caso!), rimangono sempre ad aspettare cose che non ci sono ancora... Il “!piccolo uomo” è abituato a idee solide: ciò che gli occhi vedono e le mani toccano, perché solo questo è vero. Cristo lo ammonisce: “Tommaso, tu credi a ciò che hai veduto! Beato chi crederà a ciò che non ha visto!” (Gv 20, 29). Cioè: beato chi si applica ad una conoscenza fuori di ogni forma e misura corporea; beato chi vede con gli occhi dello spirito e non solo con quelli della materia!
Sta di fatto che in genere noi evitiamo volentieri ogni sforzo ‘spirituale’ (fondato o riferito all’immateriale!), perché credere a ciò che si vede e che corrisponde al nostro controllo è più facile che credere a ciò che s’intuisce soltanto e ci spinge oltre, in territori e situazioni non ancora sperimentati. Come si vede bene nell’istinto degli animali e dei bambini. Solo ripetere ciò che già si è visto e verificato sembra sicuro! Ma è solo ripetitivo, rassicurante, ma senza fermento di futuro. Entrare in un piano di aderenza fisica e psichica alle faccende e vicende quotidiane, controllate più o meno dalla ragione e dal buon senso, sembra più facile che inoltrarsi in un piano di aderenza spirituale alla “eccedenza” del vangelo e delle sue proposte sconvolgenti di approccio al diverso, all’imponderabile, al misterioso, a tutto ciò, insomma, che contiene una minaccia di rischio di sofferenza o di morte. L’esperienza di gran parte degli uomini (e di gran parte della nostra vita) si accontenta della “razionalità della carne” – non è molto provocata o coinvolta dalle sollecitazioni dello ‘spirito’, che pure ci appaiono in qualche momento come barlumi intermittenti e flebili (non cogenti) che illuminano per un secondo quali sarebbero le strade e le occasioni ove è promessa una maggior pienezza e coerenza della fede! La vita, giorno dopo giorno, ce ne presenta un’infinità, di queste occasioni o provocazioni, ad una risposta gratuita, ad un sorriso o ad un consenso previo, donato prima di ogni misura. Ma soltanto una litania di continui “affidamenti” e successive consegne interiori rendono possibile questa attitudine d’animo “spirituale”.
Ecco il campo interiore dove si coltiva … lo spirito – cioè l’amore trasparente, gratuito, capace di andare al di là degli psicosomatismi egocentrici, dai quali nel comportamento quotidiano tutto è vagliato e integrato secondo le proprie misure di carne paurosa. Lo spirito é amore! cioè relazione – e per dargli spazio occorre imparare a balbettare questo suo linguaggio sconnesso dai nostri automatismi, quindi ostico, all’inizio, per lo sforzo di uno sbilanciamento oltre abitudini e paure. Perché richiede di elaborare una consolidata attitudine interiore di apertura, di benevolenza, di spendimento generoso. Proprio questo è “agire nello spirito” – cioè entrare nell’orbita di oblatività verso l’altro. Invece che centrarsi sempre su di sé, aprirsi – per amore – cioè per far crescere l’altro! E allora è ovvio che occorre un volto di riferimento, una persona … un amico, che abbia già fatto la strada, che sia la strada stessa – su cui convergere i sentimenti, le attese, le fatiche, le speranze, i fallimenti… cioè tutto il nuovo (ancora maldestro) sistema copernicano “evangelico” o “agapico” (diremmo, nel nostro sistema culturale). E così, finalmente, mettere gradualmente e faticosamente al centro della galassia della propria vita l’amore all’altro – l’amore oblativo, non egocentrico.
Per anni Gesù aveva istruito i suoi discepoli cercando di preparare cuore e mente ai misteri del Regno – che sono i misteri dell’amore misericordioso rivelati ai piccoli e semplici, e nascosti ai grandi e ai sapienti. Adesso, ancora, impauriti nel cenacolo, incantati da una visione incredibile, i discepoli gioivano di aver ancora vicino il corpo che amavano, senza voler vedere o intendere altro. Sono trasecolati da questo corpo che avevano visto senza vita e deposto nel sepolcro – adesso tornato glorioso alla vita. Non son capaci di accogliere il vero messaggio della risurrezione che ora stava davanti a loro. Il lungo insegnamento degli anni terreni naufraga davanti al fatto concreto che li acceca, poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore…! (Lc 24,41). Ecco la tentazione che li chiude in una esperienza storica, necessaria, ma, come tale, transitoria! “Beato chi crede senza aver veduto”, perché sennò la sua fede è grande come ciò che tocca, e dura fin quando e quanto è possibile vedere coi propri occhi e toccare con le proprie mani e sentire con i propri sentimenti… È ancora una fede troppo “carnale!”
Credere senza vedere è possibile non tanto attraverso un intimo convincimento della mente (che ne sarà piuttosto la conseguenza), ma attraverso un affidamento strappato alle proprie viscere, che accoglie l’insegnamento che Tommaso rifiuta. La testimonianza dello Spirito non avviene sul piano della materia concreta, ma nell’attuarsi cosciente di uno stato spirituale che cambia gradualmente ma radicalmente la propria situazione interiore … :“.. ricevete lo Spirito Santo!”. Nello Spirito Santo Cristo vuole continuare la sua discesa negli inferi della coscienza umana, per convertire fino all’ultima fibra la pusillanime paurosa carne umana nella sua capacità di amare, perdonare ed effondere la pace. Si comunica così ai suoi discepoli presenti e futuri, come amore – perché l’amore gratuito è fatto così! – è gratuito è necessario dal di dentro, insieme. Nasce dalla spontaneità della voglia di bene e non è la “necessaria” conseguenza delle appartenenze carnali o psichiche. É una scelta e una grazia, un intimo dovere impellente di non poter fare diverso e insieme un dono inesigibile. E quando ti ha preso dentro … è la morte, non poterlo essere! È, infatti, la memoria rinnovata nella nostra storia dell’avventura liberatrice di Gesù, crocifisso risorto.

In qualunque casa entriate, prima dite: Pace!

«La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”«, così Giovanni descrive il primo incontro che i discepoli fanno con Gesù risorto (solo la sua Maria l’aveva già incontrato, ma per lei – si sa – Gesù aveva una predilezione). Manca Tommaso, si scoprirà più avanti nel racconto, ma ciò che colpisce di più a questo punto della narrazione è vedere il registro su cui Gesù si colloca per ritrovare i suoi. “Pace a voi”, gli dice; e lo ripeterà ancora due volte (una dopo aver mostrato i segni della passione e l’altra “otto giorni dopo”, quando finalmente ci sarà anche Tommaso).
La paradossalità di questo saluto – che magari in prima battuta sembra piuttosto naturale (dato che siamo abituati a sentire che Gesù risorto saluta in questo modo e che – se ci ricordiamo un po’ anche ciò che diceva da vivo – era stato proprio lui a consigliare ai suoi di salutare così quando entravano in casa di qualcuno: «In qualunque casa entriate, prima dite: Pace», Lc 10,5) – salta agli occhi se proviamo ad andare a vedere come si erano lasciati i discepoli e Gesù l’ultima volta che si erano visti... Gv 18,1 era l’ultima volta in cui i discepoli comparivano, là dove si diceva appunto che «Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cedron, dove c’era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli». Da questo momento in avanti essi spariscono: in quel giardino infatti arriverà Giuda, «con un gruppo di soldati e alcune guardie fornite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lanterne, fiaccole e armi» e arresteranno Gesù. Soltanto Pietro ricomparirà ancora – ma nell’episodio del rinnegamento – e in seguito il discepolo amato – l’unico che fa una bella figura – perché “adotta” Maria. I discepoli non ci saranno nemmeno quando si tratterà di andare a recuperare il corpo morto di Gesù: ci andranno infatti Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea, due che erano discepoli “di nascosto”… E non faranno nemmeno il tentativo di raggiungere il loro Maestro morto – la mattina – come le donne, per rendergli omaggio. Non crederanno nemmeno a Maria di Magdala che pure era andata ad annunciargli: «Ho visto il Signore!». Niente! In Gv 20,19 essi sono ancora con le porte chiuse per paura dei Giudei.
Bene, in questa situazione a Gesù la prima cosa che viene in mente di dire è: “Pace a voi!”. «neppure qui come in nessun altro testo, li rimprovera rivangando la faccenda che quando lui era in pericolo i suoi prodi se la sono svignata. Questo è il primo gesto della redenzione, il più bello che ci sia in tutte le Scritture del Nuovo Testamento, quello simboleggiato dall’espressione di Gesù che dice: “Chi cercate voi?” “Gesù, il Nazareno” “Sono io!”, gli altri non c’entrano (cfr. Gv 18,4-9). Impara, evangelizzatore d’assalto! Gesù è quello stesso che prima, quando le cose andavano bene, ai suoi ragazzotti diceva: “Se non prendete la vostra croce e non mi riconoscerete davanti agli uomini, un giorno io non saprò neanche chi siete”. Giusto, perché quando stiamo tutti bene i ragazzotti hanno bisogno di essere istruiti sul fatto che qui non è come iscriversi al club della vela…ci sto, non ci sto, mi va, non mi va, devo provare i buoi, …stai a casa! Ma quando viene il pericolo vero, lo stesso che quando le cose vanno bene ai suoi dice “Ragazzi, questo è un gioco duro, non è una roba per dilettanti!”, i suoi li chiude nella cuccia (e non è vero che non c’entrano perché non han fatto altro che dire: “Signore ci siamo noi! Cosa possiamo fare? Ci organizziamo…”) e alle guardie dice: “Prendete me, tutto quello che sanno, che credono, che fanno, è perché gliel’ho insegnato io, quindi prendete me!”. Questa è la redenzione. Questo è lo stile dell’Evangelo e della testimonianza. Questo è stile, le due parti insieme e cioè: non c’è il Vangelo allo zucchero filato che dice: “Se venite con me vi faccio stare bene, vi spariscono anche i brufoli, vi faccio volare, vi faccio vedere Dio…”…No! Non c’è, il Vangelo non è piazzato come un coefficiente del benessere, ha la durezza che deve avere, però, siccome la Parola di Gesù è che ciascuno deve offrire la propria guancia, non quella di suo fratello (tanto perché qualche volta ci confondiamo), quando viene il momento del pericolo il Signore si aspetta che come fa lui, ciascuno dei discepoli per suo conto offrendo la propria, tenga al riparo i suoi. Anche quelli che di per sé hanno ricevuto dal Signore la vocazione a farsi avanti, non si devono fare avanti al posto suo. Questa è la differenza, questo è Dio. L’uomo sarà anche peccatore, ma Dio non vuole che si faccia avanti al posto suo» [P.A. Sequeri, sbobinatura della lezione del 12 marzo 2003 del Corso di Teologia Fondamentale in FTIS].
Ecco il primo elemento fondamentale del brano: Gesù non è risorto per arrivare a tirare i conti, non ha cambiato l’atteggiamento di redenzione verso i suoi che aveva tenuto durante la passione, ha riconciliato quel pezzetto di storia – piccolo ma tanto determinante – del tradimento di tutti i suoi, semplicemente presentandosi e esordendo con “Pace a voi!”.
E che la chiave di lettura del vangelo odierno sia precisamente il perdono – e più radicalmente il perdono in senso forte, cioè la vera e propria ricostruzione delle condizioni affinché l’altro possa ricostruirsi e ricostruire la relazione – è dato anche dalla seconda cosa che Gesù dice: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Gesù cioè come prima istanza – da Risorto – ha quella di fare dei suoi “ministri della riconciliazione” – come dice Paolo in 2Cor 5,18. Perché – come ricordava il prof. Luca Moscatelli in una sua recente conferenza – “se mi dicessero che posso perdonare chi voglio – e so cosa vuol dire essere perdonato – beh, perdonerei tutti! O no?”… Anche perché lì Paolo è interessante davvero; dice: «L’amore del Cristo infatti ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro. Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana» (2Cor 5,14-16) – alla maniera umana, infatti, uno avendo un potere (in questo caso quello di rimettere i peccati) potrebbe farne anche un uso scorretto, tipico di chi non sa cosa vuol dire davvero avere il cuore e la storia e la provenienza riconciliata (come cantava Zaccaria in Lc 1,72: «egli ha concesso misericordia ai nostri padri»). Ma in più Paolo – giusto per non lasciare adito a dubbi – dice: «Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione» – è l’esperienza dell’essere riconciliati che abilita alla riconciliazione. È perché a Pietro e agli altri non imputa le loro colpe, il motivo per cui subito dopo può invitarli a farlo con chiunque!
Se pensiamo a cosa invece spesso voglia dire nella nostra vita cristiana “riconciliazione”, c’è proprio da mettersi le mani nei capelli e concludere con Petrosino che “L’uomo fa sempre così: prende una roba e ne fa una schifezza”…
Interessante – ad ogni modo – che a Gesù prema così tanto questo fatto della riconciliazione… Forse perché a ben guardare, presa nella sua caratura profonda, essa è l’unica dinamica che può permettere la vita: viviamo – infatti – solo quando gli altri ci abilitano a farlo, quando ci perdonano la nostra inadeguatezza, il nostro non essere mai all’altezza, il nostro tradire, il nostro non riempire i loro desideri… Ciascuno di noi, per gli altri, è sempre inevitabilmente anche questo… Ma se la paura, o l’inacidimento, o l’intransigenza, o la durezza, o “la convinzione di avere la verità”, o chissà che altro, chiude l’altro nel suo errore, nella sua uscita infelice, nel male che ha fatto, se cioè prevale il nostro bisogno di avere ragione sul bene che vogliamo all’altro – beh lì lo uccidiamo e uccidiamo la nostra relazione con lui. Gli spegniamo la fonte zampillante del suo cuore, mettendoci sopra la pietra delle nostre buone ragioni…
Ecco – invece Gesù – da vivo, da morto e da risorto proclama sempre (non solo a parole, ma con le decisioni concrete della sua libertà) che è sempre più importante la faccia dell’altro, cha abbia lo spazio per ricostruirsi, che noi gli facciamo questo spazio, che gli ri-creiamo quelle possibilità di Vita, che magari lui stesso da solo ha rovinato…
E a ben guardare è la stessa cosa che fa con quel rompimento di Tommaso: al quale concede tutto, gli va dietro in tutto, pur di ricostruirgli intorno – intorno alla sua intransigenza («Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo») – la possibilità di un ri-allacciamento della relazione.
È questo il compito di ciascun cristiano e della Chiesa tutta: avere pazientemente il coraggio di mettersi lì a ricreare per tutti la possibilità della Vita.

sabato 3 aprile 2010

…ma Dio lo ha risuscitato …e ci ha ordinato di annunciarlo al popolo!

ormai, dunque, poiché è risorto, da lui dipende tutto ciò che ogni uomo (tutta l’umanità) va cercando con sempre più angoscia e consapevolezza della propria precarietà: questa è la testimonianza dei suoi amici e discepoli! Da lui dipende la vita e la morte (egli è il giudice dei vivi e dei morti) – e il recupero della fiducia in sé e nel futuro, perchè dal riferimento costante e vitale alla sua avventura umana, scaturisce la pacificazione con il male proprio e del mondo (chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome). Questo è il mistero della risurrezione, al centro della fede che abbiamo ricevuto. Non una fiaba commovente per sfuggire dalla durezza e insignificanza di una vita impotente di fronte all’incombere della morte, ma la chiamata a credere e vivere il mistero di Cristo e della sua vittoria sulla morte, come qualcosa che ci concerne, perché dalla morte e risurrezione di Cristo vengono a noi quelle energie che intessono il nostro destino di coscienze risvegliate e inquiete, che vogliono raggiungere la pienezza della vita. Anche a noi, come gli apostoli, ci prende il dubbio o la paura che si tratti di accorati vaneggiamenti come capitò alle donne, sconvolte di fronte alla tomba vuota – un amore irrepetibile, perso per sempre! Il mistero della risurrezione ci è trasmesso circondato da debolezza e fragilità … e la risurrezione si fa ‘certa’ e percepibile solo attraverso testimonianze di apparizioni riservate a coloro che Dio ha chiamato (a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti ). Mentre la crocifissione e la morte erano fatti evidenti a tutti e irrefutabili, qui si entra in un nuova qualità di rapporti, in cui la relazione tra il fatto e la coscienza non ha più niente di così evidente o di cogente. Chi ha visto il Risorto? Non tutti quelli che passavano, come sotto la croce, ma solo testimoni prescelti. Dunque la risurrezione si presenta sotto la forma di una chiamata di alcuni a vedere che Dio ha vinto le potenze di morte coalizzate per uccidere il giusto liberandolo dalla tomba. Non si entra in questa sfera (propria della fede) né si convincono gli altri con argomentazioni costringenti. Si possono dimostrare storicamente molti tratti della vita e dell’insegnamento di Gesù di Nazareth, ma la risurrezione non ha dimostrazioni di tale evidenza che uno sia costretto razionalmente a crederci.
Perché Dio è così riservato e reticente sul fatto centrale della rivelazione cristiana? Non è un miracolo tra i tanti, ma il fondamento della fede, come già asseriva Paolo: se Cristo non è risorto vana è la nostra fede! Ma proprio quello che è essenziale nell’atto di fede non può essere frutto di evidenza cogente. Non si tratta infatti di un rapporto di conoscenza intellettuale, ma di coinvolgimento vitale. La costrizione dell’evidenza annullerebbe le dinamiche dell’amore, che può nascere soltanto dall’incontro sempre più compromettente di due libertà che si affidano reciprocamente la vita … Credere, infatti, non vuol dire aderire semplicemente a fatti avvenuti o a verità proclamate nel ‘credo’. Ci induce ad un coinvolgimento della persona credente attraverso un cammino di comprensione, di adesione e di affidamento che coinvolge il senso e l’orientamento della vita intera. Per introdursi in questo cammino o prendere vera consapevolezza di questa “conoscenza” di Gesù di Nazareth, occorre aver fatto una scelta preliminare: si tratta di cambiare la visione di sé e del mondo e l’impostazione delle proprie attese dall’esistenza. Bisogna anzitutto aver incontrato o riscoperto il Signore come centro di riferimento della propria vita. E ancor prima, aver messo a nudo (l’ha fatto o lo farà presto la vita, se non ci intontiamo!) le caverne che si sono scavate dentro di noi e dentro la gente con cui viviamo, dove vibrano e patiscono e domandano inutilmente ascolto le sofferenze e le impotenze del mondo, a cominciare dai più deboli e più piccoli. Allora la risurrezione appare non come eventuale riserva estrema di salvezza “per me”, se tutto va male di qua, ma come il dato fondamentale di senso o non senso della fede: colui che è stato crocifisso, per la sua radicale fedeltà all’amore di Dio e dell’uomo, è risorto ed è vivo in mezzo a noi! Questo nucleo di fuoco della fede accomuna tutte le prime chiese in una sola comunione. Anche Paolo che ha approfondito questo mistero come nessun altro, è cosciente che trasmette ciò che a sua volta ha ricevuto dai testimoni primi: sia io che loro così predichiamo (1Cor 15,11)!
Credere nella risurrezione del crocifisso, nel concreto dei giorni, vuol dire anzitutto aver capito che il messaggio delle beatitudini è vero – e si è realizzato in Gesù di Nazareth, che l’ha trasmesso a noi! Comporta di vivere nella storia sotto lo sguardo di misericordia del Padre, pienamente consegnati a lui e al suo Regno – come orizzonte di senso e attitudine di vita! Ma questo richiede anche di fidarsi dei “testimoni” che l’hanno conosciuto e sono stati con lui, sui quali questa fede è fondata e trasmessa fino a noi, per metterci in contatto con la Parola di Dio che si è manifestata negli eventi di salvezza e nelle Scritture che li raccontano. Infine (è il terzo passo) la fede si vive e comunica ecclesialmente – cioè comunitariamente – di fronte e in mezzo alla gente, nonostante le innumerevoli difficoltà esterne ed interne – perché la comunicazione reciproca e la comunione dei credenti in Cristo è essenziale alla dinamica di maturazione e trasmissione della fede stessa (è trinitaria – cioè ‘divinamente’ relazionale!).
La novità della risurrezione si sintetizza dunque nel fatto che Gesù è elevato dall’umiltà della sua esistenza mortale, per il suo totale affidamento al Padre, strappato alla morte che non poteva tenerlo incatenato, viene costituito figlio di Dio “con potenza”. Può dire quindi agli apostoli che l’avevano visto sconfitto e perciò l’avevano abbandonato: A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Mt 28,18s). Da qui è cominciato l’annuncio del Vangelo per tutti i popoli lungo i secoli … fino a noi. La resurrezione non è annunciata come fosse uno straordinario fenomeno che riguarda solo Gesù / individuo, ucciso e resuscitato nel suo corpo e ora assiso alla destra di Dio, dove ci aspetta. Credere che è risorto vuol dire invece che Egli è divenuto principio di nuova creazione (il nuovo Adamo), inscindibile da noi, che organicamente facciamo una cosa sola con lui – noi, a livello non ancora manifesto, ma inedito, nascosto – eppure determinante per la nostra vita e il futuro del mondo! “Cristo abiti nei vostri cuori mediante la fede (le forze spirituali introdotte da Cristo nelle coscienze) perché possiate esser radicati nell’amore (nella partecipazione alla vita, alla luce, al fuoco che Cristo ha donato all’uomo) (Ef 3,17). “L’idea fondamentale dell’esperienza del cristianesimo “vissuto” è quella del Cristo interiore: quando si tratta di Cristo è di me stesso che si tratta, di Cristo che abita nei nostri cuori come forza trasfìguratrice. Questa certezza, raggiunta per una mutazione di coscienza, rende comprensibili alcune espressioni del primo cristianesimo: «Non sono io che vivo, ma Cristo che vive in me» (Gal 2,20) … Cristo, la Parola incarnata, è la Persona in sé, l’Uomo interiore, il nostro vero Io. Nella prospettiva di questa possibile esperienza di fede, cerchiamo di penetrare, per quanto le insufficienti parole umane lo permettano, nel mistero della morte e della risurrezione di Cristo”. (Vannucci).
Morire è necessario per risorgere, ma questo non vuol dire che la carne deve sparire – perché non è spirito. Niente è più potente in noi, lasciati a noi stessi, della carne, nulla più vincolante della carne. Pensiamo di fare la nostra volontà, invece noi siamo incatenati ai comandi dello stomaco, del sangue, del sesso, dei nervi, delle voglie ormonali e degli equilibri o squilibri psichici – soggiogati e tormentati, infine, della angoscia dell’io di non essere amato. Fintanto che eseguiamo gli ordini dell’organismo, esistiamo come un dato di natura, con poche briciole di libertà … poca capacità di resistere e governare queste necessità” rivestite di razionalità. “E allora non siamo né tenebra né luce, né bene né male, né verità né menzogna. Quando invece orientiamo le energie della nostra tremenda natura verso la consapevolezza che lo Spirito di Gesù è presente, diffuso nei nostri cuori – e perciò possiamo vivere insieme con lui, a noi per sempre contemporaneo, l’avventura di morire insieme, essere insieme con lui sepolti e insieme risuscitare nei nostri corpi mortali, allora la carne, il sangue, i nervi, le velleità non dominano più e veniamo a conoscere quello che nella realtà siamo: terra perché nati dalla terra, spirito perché nati dallo spirito, e perché tali chiamati a trasfigurare la terra in una pienezza di luce e di vita” (id).
Nel profondo dell’essere nostro, laddove il cuore osa far sentire il suo palpito, dove siamo soli, più soli di ogni solitudine, sentir ascendere la vita nel profondo abisso della morte, e vivere totalmente in questa realtà, comprendendo che essa sola ha un significato.
Penetra nelle nostre idee di razza, di popolo, di patria, di religione, e brucia i loro elementi caduchi ed egoisti, per far brillare la visione dell’Uomo vero, dell’uomo eterno non più vincolato a mète terrene, ma in cammino verso la vita senza fine, ove l’uomo finalmente si sentirà figlio di Dio. Avvicina le nostre tradizioni venerabili e plurisecolari, e vi risveglia un’inquietudine di vita e di verità che farà dileguare tutto ciò che in esse è sorpassato e morto.
Le opere della carne nella carne si esteriorizzano, le opere dello spirito nello spirito si sublimano. Se nella carne, nel perenne gioco della vita che fluisce, c’è una perennità di mutazioni, questa non può esistere nello spirito. Ogni avanzamento nello spirito è una conquista da cui non possiamo tornare indietro; i ponti e le navi sono bruciati. Sempre oltre, la gloria della risurrezione è continua, la sua animazione è costante.
è possibile la morte che precede la risurrezione, allora moriamo e risorgiamo. Molti sono i modi di morire, uno solo in verità costituisce il preambolo alla risurrezione: la morte del rinnegamento di se stessi, cioè del proprio io egoistico! Questa morte ci inserisce nella corrente della risurrezione, nella rivelazione consustanziale che ci rende una sola realtà, mediante l’ardore dello Spirito, con il Figlio e con il Padre. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria

Il tessuto dell’esistenza è composto dalla perenne lotta tra la morte e la vita; la vita che invade i campi devastati e li rende nuovamente fecondi, la morte che si adagia sui nuovi virgulti e lentamente li estingue. Questo su tutti i piani dell’esistenza: la pianta vive e muore, nel seme riprende il suo ciclo vitale; l’animale vive e muore, nella generazione la sua vita continua; la mente vive nei pensieri, i pensieri vengono spenti dalla ripetizione, riprendono vigore in nuove formulazioni; il cuore vive nei sentimenti, a loro volta questi vengono usurati dall’abitudine, e riprendono vita quando appaiono nuove visioni, nuovi ideali. Le creazioni dell’uomo, dopo un tempo di intensità, si affievoliscono, e ciò che prima era stata l’attuazione di grandi speranze, si trasforma in rattristanti istituzioni, finché non vengano rianimate da nuovi e più intensi ideali – destinasti pure loro a cedere all’onnipotenza della corrosione e della morte. Qui si inserisce il mistero della risurrezione di Cristo (dell’uomo nuovo – cioè di cristo e di noi! Risuscitato – ricreato dalla potenza di Dio) come dice Paolo:. Se prima non si muore non si può risorgere, non vi è risurrezione senza morte, come non esiste riscatto senza schiavitù, luce senza tenebre, bene senza male. Per vivere la Risurrezione è necessario morire, chi non muore non risorgerà. Possiamo celebrare la Risurrezione in due maniere: o
L’evento della morte-risurrezione di Gesù Cristo si rivelerà l’inizio di un immenso movimento ascensionale di un imperativo creatore che ci impone la necessità di accettare la nostra vita e la nostra morte positivamente, l’ascesi di tutto l’essere nostro personale per integrare e sublimare ogni energia, per intensificare la vita della coscienza, che farà passare l’uomo e il suo universo nella pienezza della luce della risurrezione.

Trovarono la pietra rotolata via
la prima scoperta del giorno di Pasqua è la tomba vuota. Cosa vorrà dire? se la porta della tomba si è spalancata, il morto dov’è finito? Infatti le donne, scrive Luca, “si trovano senza via d’uscita…” : letteralmente “erano in aporia” (senza soluzione, senza senso: come una vita… la cui via è nascosta e che Dio da ogni parte ha sbarrato? Gb 3,23). È importante capire cosa Luca vuole mettere in rilievo, perché questa è la condizione di ogni uomo di fronte al problema della morte: “non c’è via d’uscita”. Per ogni uomo, è come un anticipo personale dell’angoscia sul senso finale del mondo e della storia in cui viviamo: “…vi saranno sulla terra angoscia – aporìa! – di popoli senza scampo… e gli uomini tramortiranno per la paura di quanto incombe sull’universo! Lc 21,25. Lo sgomento della tomba vuota non è certo una prova della risurrezione, non è la fede pasquale… ma è una condizione previa, per domandarci : cosa è successo? Le donne sono poste di fronte al problema della sorte … del loro straordinario amico. Straordinario, anche, che siano proprio le donne (la cui testimonianza non aveva nessun valore nella cultura e nel diritto giudaico) ad essere testimoni di questa situazione assolutamente nuova.
Sta nascendo la fede cristiana, … la fede nella resurrezione di Gesù, il crocifisso! E nasce in modo debole, fragile, affidata al cuore abbagliato dalla possibilità impensata che l’amato sia ancora vivo … e sente nascere dentro di sé uno sbilanciamento, trepidante e incerto ancora, ma ormai avviato a lasciarsi prendere tutta la vita. La passione e la morte erano visibili ed evidenti. Ma la resurrezione è fondata su fatti ed esperienze non a disposizione di tutti, non cogenti, non costrittive. Anzi, riservata ad un ristretto gruppo misteriosamente privilegiato. La resurrezione si manifesta, infatti, in base ad una scelta di Dio, non dell’uomo. Non è l’esito di un ragionamento o di un’autoconvizione. È Dio che chiama i testimoni “prescelti”… e, secondo un metodo suo proprio, evidente nei vangeli, sceglie come testimoni proprio quelli che nella cultura del tempo non possono esserlo, cominciando, appunto, dalle donne. Perché si tratta di una testimonianza assolutamente nuova – di una sfera di relazioni nuove…
Ecco subito… “due uomini”: per suffragare e rendere plausibile la loro testimonianza, come le Scritture e la tradizione volevano! Due “annunciatori” sfolgoranti, come Gesù nella trasfigurazione, che ribattono alla domanda di senso sulla tomba vuota: perché cercate il Vivente con i morti? É la provocazione più caustica, perché denuda la rassegnazione delle donne alla morte definitiva e irrimediabile di Gesù, che dovrebbe essere “insieme” a tutti i morti. Ogni illusione umana finisce così… in questo: “non è qui!” Neanche nella tomba! (Anche Maria di Magdala cadrà in questo equivoco disperato: dimmi dov’è, e andrò a prenderlo!). Per quanto ci riguarda, presto o tardi anche le tombe si svuotano nella consunzione di ciò che gli uomini, con dolore e paura, vi hanno posto! E la terra divora ogni vita. (“se non vedo il mio Dio, o natura splendente, sei una tomba immensa, per me non sei niente!... scriveva in una poesia S. Teresa di Lisieux).
… è risorto
!
Questo è l’incredibile annuncio pasquale, il nucleo portante della nostra fede! Tanto incredibile e misterioso per noi, come per loro, pur in qualche modo, testimoni oculari. In questo momento, infatti, le donne non vedono Gesù risorto. In nessun modo era comprensibile quando aveva pure più volte predetto, che un morto risuscitasse. Adesso, di fronte alla tomba vuota intuiscono cosa volesse dire Gesù, proprio perché gli “annunciatori” li richiamano ai passi essenziali della fede: “ricordate come vi parlò … quando era ancora in Galilea… che il Figlio dell’uomo doveva essere consegnato… crocifisso… e risorgere!” – E si ricordarono delle sue parole. Dunque le donne erano con Gesù, erano testimoni della sua predicazione, soprattutto della sua preannunciata passione e morte, ma non avevano capito nulla di quanto riguardava la risurrezione. E corrono subito a trasmettere questo annuncio ai loro compagni, come vere apostole… Ma sono accolte come visionarie.
… e non credevano loroPietro e gli altri apostoli non si fidano delle donne, ma dovranno anche loro fare lo stesso cammino che le donne hanno fatto per prime. La barriera che oscura la fede (l’aporia) è inevitabile e ci sbarra il cammino che tutti (anche noi!) dobbiamo rifare ad ogni tornante della vita, dall’incredulità all’affidamento di sé. Lo si fa tornando a Gesù! Occorre fare memoria (ricordate!?...) della sua vicenda, considerare la sua storia a partire dalla sua fine (passione, morte e risurrezione), assumere la chiave di lettura che lui stesso ha usato, per capire e donare la propria vita, come chiave di lettura anche della nostra vita, per imparare a fare come lui. Cioè “cogliere” il significato profondo (il logos di Giovanni) della nostra vita e della storia del mondo. La risurrezione è l’esito finale di un percorso che ha segnato a morte la vita di Gesù, come dono di sé. Non si può separare la risurrezione dalla vita di Gesù e dal suo vangelo. Ecco perché la fede non può essere l’esito di una dimostrazione argomentativa o razionale, ma è una questione che coinvolge le radici e la destinazione dell’esistenza, dove l’uomo cerca, ama e si dona… nel complesso e trepidante gioco di componenti interiori che fanno “la libertà” – la fragile libertà umana, chiamata ad incontrarsi con un’altra libertà… quella di chi ci ha “pre/scelti”, in Gesù – per la salvezza nostra e di tutti. E in questo approccio, Dio è rispettoso, timido, paziente e infinitamente misericordioso.
Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret…Gesù per primo ha giocato questa libertà umana in dialogo fiducioso (e talora difficile: con forti grida e lacrime!) con suo Padre. Non si è sottomesso alla paura e alle minacce di morte… ma subendole, senza tradire la verità e l’amore, le ha vinte. Perciò “Dio lo ha costituito giudice dei vivi e dei morti”… come annuncia Pietro. I Giudei… lo uccisero, appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno … La resurrezione di Gesù non è la rivitalizzazione di un cadavere, ma un giudizio sul mondo e sulla morte. Toglie alla morte il pungiglione che avvelena l’umanità. Il condannato crocifisso con i malfattori è risorto giudice. È questa la risposta, la sfida di Dio alla imperante logica umana di morte, paura, oppressione e perdizione – del debole prima, ma poi di tutti gli uomini. È il capovolgimento addirittura della creazione – dove tutto è destinato alla consunzione! La nostra drammatica vicenda umana ci spinge in un tunnel senza uscita: un’aporia! La risurrezione è davvero incredibile! Ecco perché, secondo i Vangeli, alla morte di Cristo tutta la creazione ha sussultato: il sole, il buio, le rocce, il terremoto, i morti nelle tombe, il velo del tempio, la gente, il centurione e il ladrone … capiscono che sta succedendo qualcosa di oltreumano. Da allora, fin adesso… “…la creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio;… e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rom 8,19ss).
“voi siete morti, infatti, e la vostra vita è nascosta con Cristo, in Dio”!… il motivo per cui possiamo morire in Cristo è che noi, agli occhi di Dio, siamo già con/resuscitati in lui. “mortificate dunque immoralità, passioni, desideri cattivi… e rivestitevi di tenerezza bontà, umiltà, mansuetudine…”. Questo nostro cammino di morte alla logica mondana e di vita nuova fa parte del FATTO cristiano – cioè della resurrezione di Gesù. E la Parola ne è l’annuncio – e l’Eucaristia la dose di veleno quotidiano! Questo paradosso è il seme esplosivo della nostra risurrezione! cfr, in un contesto più ampio, Rom 8,10ss :“Se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto, a causa del peccato, ma lo spirito è vita, a causa della giustificazione. E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti, darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi”.

giovedì 1 aprile 2010

La Pasqua di Gesù, uno che mangia e dorme

In questa domenica di Pasqua, il giorno più importante per i cristiani, la Chiesa ci propone tre bellissimi testi: At 10,34.37-43; Col 3,1-4 e Gv 20,1-9.
Innanzitutto il vangelo: il racconto riprende esattamente là dove lo avevamo lasciato la domenica delle palme (la sepoltura) e dove la liturgia del Triduo ci ha fatto più volte ritornare: Gesù muore di venerdì e quello stesso giorno viene sepolto in tutta fretta, perché il giorno seguente era sabato, giorno sacro per gli ebrei, in cui le donne e i discepoli «osservarono il riposo come era prescritto» (Lc 23,56). «Il primo giorno della settimana» – la domenica – invece «Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio» (Gv 20,1). Cioè, appena cessata la prescrizione sabbatica, Maria va da Gesù; meglio: dal suo corpo morto.
Sarebbe molto interessante riflettere su questo dato incontrovertibile del vangelo: sono le donne ad andare per prime al sepolcro di Gesù e ci vanno per prendersi cura del suo corpo morto; tutti e quattro gli evangelisti lo sottolineano. Certo in gioco vi sono gli usi e costumi ebraici del tempo, ma questo fatto non deve essere irrilevante per il lettore: a fronte degli apostoli nascosti (nei quali prevale la paura: non sono stati loro nemmeno ad andare a richiedere il corpo di Gesù a Pilato, ma Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, due discepoli dell’ultim’ora), le donne escono alla scoperto (vincono le paure) e vanno da un corpo morto. Scenograficamente è come se – dopo la morte di Gesù – tutti i suoi e le sue fossero rintanati in qualche nascondiglio silenzioso, tramortiti dal dolore e bloccati dal terrore. Ecco, da qui, dopo che un grande silenzio avvolge il tutto e la telecamera inquadra una città deserta, a far capolino da quelle tane in cui si erano ritirati, non sono i discepoli, ma delle donne, armate di oli e unguenti e determinate a rimanere attaccate all’ultimo pezzo del loro Signore che gli era rimasto: il suo corpo morto.
Interessante: rischiano la vita per un cadavere… A testimonianza imperitura che quando una donna ama, diventa atea: nessuna legge sovrasta quell’amore, nessun dio, nessuna paura può normarne il cuore. Quel cadavere infatti non è un cadavere qualsiasi: quello è l’ultimo brandello di carne dell’amato; morto, ma visibile; muto, ma a cui ci si può ancora rivolgere; immobile, ma ancora accarezzabile; freddo, ma cui si può ancora regalare il calore di un bacio.

E ancora più strepitoso è il fatto che Giovanni riduce il numero delle donne alla sola Maria di Magdala (la sua Maria): quella stessa che qualche versetto dopo, per prima (e senza nessuno scrupolo di discriminare gli altri) incontrerà il Signore risorto, il suo Maestro. Con buona pace di tutti quelli che sentono il bisogno di ricordarci ogni due per tre che Gesù era casto, celibe, vergine, ecc… che son cose vere, ma che spesso fanno passare Gesù come un ectoplasma cosmico, incorporeo e fantasmico, quasi inconsistente, di certo poco umano. Lo straordinario di Gesù è invece che in Lui finalmente il Dio dell’AT «si scioglie nell’assoluta intimità di un uomo col quale si può passeggiare lungo il mare e bere un whisky». Se infatti noi non abbiamo nessuna possibilità di costruire il Regno di Dio che guardando a Cristo, bisognerà pure che lo guardiamo! «Soltanto che bisogna guardare a Cristo in un mettere a fuoco che non sfuoca […]. Qui Ignazio è forte, quando dice: “Guardate a Cristo”. Tutti gli esercizi di Ignazio sono: “Guardate a Cristo”. Però dovremmo essere più ignaziani di Ignazio e cioè dire: “Ma lui come beveva? Come camminava? Come dormiva? E come guardava le donne? Come sognava? Come mangiava?”. I vangeli dicono delle cose. La santità infatti è in relazione al modo di mangiare, di baciare, di camminare, di guardare il cielo, non è che sia un’altra roba. […] Per questo è importante che Gesù sia una persona storica e non sia l’idealizzazione di un modello: perché se è l’idealizzazione di un modello hanno ragione quelli che dicono che è una contromossa della psiche (idealizzo l’ideale, che è una parola che non a caso è così vicina alla parola “idolo”). Invece di fronte a Gesù, tu non sei in presenza di un ideale, sei in presenza di uno che mangia e dorme […]. Per quello dico: bisogna guardare a Lui. Come sta con le donne, poi si può fare tutta una fenomenologia delle cose […]: mangia, si fa toccare dalle donne, tocca. Ricordo un prete che una volta mi diceva: “Silvano, a me in seminario hanno detto: ‘Non toccare, non farti toccare, non toccarti’”. Però Gesù non fa altro che toccare: sputa, fa… tocca, si fa toccare da donne, prostitute, bambini, malati…» [tratto da una conferenza di Silvano Petrosino].
In quest’ottica, forse, si capiscono molto meglio gli stati d’animo con cui Maria va al sepolcro.
Solo che quando ci arriva «vide che la pietra era stata tolta. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”». Maria non interpreta immediatamente il sepolcro vuoto come un indizio della risurrezione. Siamo noi ad aver dato questo significato a quel simbolo. Per lei è soltanto l’ultima espropriazione: anche quel brandello di carne di Gesù rimastole, le è stato tolto. Tant’è che quando ricomparirà nel racconto (qui infatti lascia la scena a Pietro e al discepolo amato), la ritroveremo ancora disperata: «Maria invece stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: “Donna, perché piangi?”. Rispose loro: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto”. Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. Le disse Gesù: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”. Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: “Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo”. (Gv 20,11-15).
Nel frattempo però, i due discepoli “più importanti” del Vangelo di Giovanni, Pietro e il discepolo amato, sono andati al sepolcro, tirati fuori dal loro nascondiglio da una donna (e anche qui la finezza con cui l’evangelista legge le dinamiche umane è strepitosa), svegliati a tal punto che ormai corrono. Giunti sul luogo, essi a differenza di Maria, entrano, uno dopo l’altro, nel sepolcro: prima Pietro, che pure era arrivato per secondo, e poi il discepolo amato. Anche in questo correre insieme, superarsi, aspettarsi c’è molto di ciò che abita i cuori di questi uomini e – attraverso loro – i cuori degli uomini di tutti i tempi: le paure, le trepidazioni, le speranze. Dopo tutto quello che avevano vissuto in quegli ultimi giorni, chissà che cosa pensavano mentre correvano?
E poi c’è il finale di questo brano: dopo la descrizione di ciò che trovano nel sepolcro (teli posati, sudario) e soprattutto di ciò che non trovano (non c’è il corpo di Gesù) si dice quasi contemporaneamente «l’altro discepolo vide e credette», «infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti». Ma se non avevano ancora compreso che doveva risorgere dai morti, in cosa credette l’altro discepolo?
La domanda sorge solo se ci si ostina in una lettura troppo cerebrale del vangelo e non si fa invece lo sforzo di farsi prendere per le viscere, di tentare cioè un’immedesimazione nei vari personaggi, dove allora il punto non è il contenuto oggettivo di un credo, ma è il ripetersi interiore dello squarciamento del velo del tempio: come quello non era solo un lenzuolo strappato, questo non è solo un sepolcro vuoto; senza ancora dire – come faranno giustamente poi – che il velo del tempio squarciato voleva dire che era annullata la distanza tra Dio e l’uomo o che il sepolcro vuoto voleva dire che Gesù era risorto…
Non sanno ancora che Gesù è risorto, ma dentro gli si è girato qualcosa: «vide e credette».
E precisamente questo giramento interiore sono le “cose di lassù” che Paolo invita i Colossesi a cercare. Infatti, anche se la nostra cultura e formazione cattolica ci porterebbe a pensare la dicotomia “cose di lassù” / “cose della terra” come se si trattasse di anima / corpo, soprannaturale / naturale, spirituale / carnale, o più esplicitamente sesso / castità, in realtà Paolo sta parlando, paradossalmente (per noi, non ancora girati dentro) del contrario, cioè di come abitare l’aldiqua in prospettiva cristica, abitando davvero l’amore, guardando davvero a Gesù che mangia e dorme e tocca e si fa toccare; dice infatti: «Se siete morti con Cristo agli elementi del mondo, perché lasciarvi imporre precetti quali: “Non prendere, non gustare, non toccare”? Sono tutte cose destinate a scomparire con l’uso, prescrizioni e insegnamenti di uomini, che hanno una parvenza di sapienza con la loro falsa religiosità e umiltà e mortificazione del corpo, ma in realtà non hanno alcun valore se non quello di soddisfare la carne» (Col 2,20-21, che sono i versetti immediatamente successivi alla nostra seconda lettura). «Vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza ad immagine di Colui che lo ha creato. Scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto» (Col 3,9-10.12-14).
Che è la stessa scoperta di Pietro, che fa il discorso che riporta la prima lettura in casa di Cornelio, il centurione pagano, a cui aveva detto poco prima: «Dio mi ha mostrato che non si deve chiamare profano o impuro nessun uomo» (At 10,28), che esso sia donna, immigrato, malato, anziano, colpevole, diverso…
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