Pagine

ATTENZIONE!


Ci è stato segnalato che alcuni link audio e/o video sono, come si dice in gergo, “morti”. Se insomma cliccate su un file e trovate che non sia più disponibile, vi preghiamo di segnalarcelo nei commenti al post interessato. Capite bene che ripassare tutto il blog per verificarlo, richiederebbe quel (troppo) tempo che non abbiamo… Se ci tenete quindi a riaverli: collaborate! Da parte nostra cercheremo di renderli di nuovo disponibili al più presto. Promesso! Grazie.

venerdì 28 maggio 2010

Dio è la non-solitudine che si riversa su tutti

Domenica scorsa, con la celebrazione della solennità di Pentecoste, si è chiuso anche per quest’anno il Tempo di Pasqua. Lunedì è infatti ripreso il cosiddetto Tempo Ordinario. Eppure, in questa prima domenica dopo Pentecoste, ci ritroviamo subito a festeggiare un’altra solennità: quella della Santissima Trinità. Non è facile “star dietro” a tutte queste feste (ascensione, pentecoste, trinità…), una dietro l’altra, perché i misteri che vogliono celebrare sono davvero grandi… e soprattutto sono impastati di così tante precomprensioni culturali, che – a volte – già solo nominarle, fa scappar via la gente…

Per esempio… parlare di Trinità non è così immediatamente agevole… si rifugge all’idea di provare a spiegare o spiegarsi cosa stia realmente dietro a questa parola, che non è nemmeno biblica… istintivamente vengono in mente piroette filosofico-teologiche che tutti sentiamo come assolutamente estranee, estrinseche, lontane, incomprensibili… con nessuna incidenza o significatività per la concretezza e quotidianità della nostra vita…
E allora m’è perfin venuto da chiedermi: “Ma perché la Chiesa celebra questa festa”, “Perché mi costringe a riflettere su ‘questa cosa’ così complicata?”… E la risposta che mi son data, mi ha fatto quasi sorridere nella sua semplicità ed evidenza così spesso dimenticate o offuscate da tante impalcature intellettualistiche che i secoli passati ci hanno montato nella testa: “La Chiesa celebra questa festa e parla di Trinità, semplicemente perché è ciò che emerge dal vangelo. La Chiesa parla di Trinità perché Gesù, oltre che di sé, ha parlato del Padre e ha parlato dello Spirito”.
E non lo ha fatto occasionalmente, o per inciso… Ma tutta la sua vita è come sostenuta da una passione “urgente” di rivelare il Padre, di farlo conoscerlo, di farlo vedere («La parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato», Gv 14,24); e da una “fissazione quasi ossessiva” per l’annuncio del dono dello Spirito («Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me», Gv 15,26).
È per questo che parliamo di Trinità! Perché Gesù non ha semplicemente parlato di sé come del Messia o del Dio fattosi uomo, ma ha contemporaneamente parlato (con le parole e con la vita) di un Padre e di uno Spirito…
Un annuncio che poi la Chiesa ha condensato nel dogma niceno del Dio uno (nella sostanza) e trino (nelle persone). Ma – appunto – diversamente da quanto noi spesso facciamo (e in parte nei secoli passati anche la chiesa ha fatto) è il vangelo a dare la misura e il senso al dogma, non il contrario: per cui di fronte alla solennità della Trinità il nostro pensiero non deve immediatamente andare a chissà quale congegno intellettualistico partorito dall’uomo per tentare di spiegare (inventarsi?) dio; quanto piuttosto alle parole di Gesù, che indubitabilmente fanno con costanza riferimento al Padre ed allo Spirito. È lui – che noi crediamo l’insuperabile rivelazione di Dio – che ci ha parlato dell’intimità di Dio in quei termini. Tra l’altro all’interno di un contesto in cui non era facile elaborare una “teoria” del genere: siamo infatti nella culla dell’ebraismo, religione che tutti ricordano e riconoscono come il primo grande e ferreo monoteismo della storia. Una religiosità che non a caso ha nel primo dei suoi dieci comandamenti, precisamente la “blindatura” della sua rigorosità in materia: «Non avrai altro Dio»!
Ma… se tutto questo è vero… la domanda diventa: “Cosa ha dunque detto Gesù del Padre e dello Spirito?”.
Evidentemente non possiamo qui ora richiamare alla memoria tutti i passi (espliciti o meno) in cui Gesù – vivendo – fa tralucere questa sua relazione intimissima col Padre («Chi ha visto me, ha visto il Padre», Gv 14,9; «io sono nel Padre e il Padre è in me», Gv 14,11; bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, «e come il Padre mi ha comandato, così io agisco», Gv 14,31), che è lo Spirito… Ma possiamo certamente annotare come “premura incalzante” di Gesù sia quella di annunciare agli uomini la loro non - orfanità: «Non vi lascerò orfani» (Gv 14,18).
Dire che Dio è Abbà e dire che il ritorno di Gesù a lui non è abbandono, ma assenza colmata («io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre», Gv 14,16) è il vangelo di Gesù, la sua buona notizia. Dire “trinità” è dire non-solitudine: questo è Dio per Gesù, una non-solitudine che vuole coinvolgere l’uomo, perché non sia e non si senta mai (mai più) solo, nemmeno di fronte alla morte, che è così paurosa perché – per quel che vediamo noi – è solitudine estrema, eterizzata, abbandonata…
La non-solitudine che invece è il Dio che ci ha raccontato Gesù è relazione da sempre e per sempre. Questo è Dio: relazione da sempre e per sempre. E non una “relazione qualsiasi”…
Per specificarla dovremmo forse dire “una relazione d’amore”, ma quest’ultima espressione risulta così abusata da non essere più in grado di dire e significare niente… o tutto e il contrario di tutto, che è poi lo stesso…
Diciamo allora che è “relazione decentrante” – che è lo stesso che dire “amore” ma con un termine un po’ meno noto e dunque, forse, meno scontato –, relazione cioè in cui si vive della custodia dell’altro (degli altri) e per la custodia dell’altro (degli altri); dove quindi non sono io a dovermi pre-occupare di me, perché è il bene degli altri che mi “tiene”, ma devo piuttosto pre-occuparmi degli altri, perché siano “tenuti” da me… Dio è questa “cosa” qui; tra l’altro circolare (ha tre persone coinvolte) e non solamente reciproca (relazione a due): perché è come se il bene che i due (Padre e Figlio) si vogliono, straripasse al di là dei confini del loro rapporto e diventasse a sua volta terzo elemento del rapporto (Spirito) “sovrabbondante”, che ingenera una specie di reazione a catena coinvolgendo sempre qualcun altro… Come quelle particelle che si liberano nelle reazioni chimiche e vanno ad innescare altre reazioni, che a loro volta liberano un sovrappiù di “particelle” che andranno ad innescare nuove reazioni… e così via… a catena…
E questa storia – che è la stessa del dogma niceno, solo raccontata con parole più laiche e più riconoscibili dalle orecchie dei giorni nostri – non è quella che a me è piaciuto inventare o che a qualche padre conciliare è piaciuto ipotizzare 1700 anni fa (il Concilio di Nicea è del 325): è la storia che è piaciuto narrare (vivendola) a Gesù di Nazareth, che noi crediamo essere il Figlio di Dio e la sua piena rivelazione… Dio è la non-solitudine, è l’esserci per l’altro…
Ma se questo è vero – e lo è radicalmente – allora bisogna essere coraggiosi fino in fondo: «A ben vedere, [infatti] ogni tentazione cristiana (e, a livello inconsapevole, ogni tentazione umana) è una tentazione antitrinitaria. Ogni totalitarismo, che censura le differenze per esaltare un solo valore; ogni spiritualismo che deprezza la carne e la debolezza ad essa legata, esaltando superuomini; ogni materialismo che seppellisce il seme dello Spirito e il suo gemito nascosto nel cuore dell’umanità; ogni lucignolo di verità spento in nome delle verità più grandi; ogni uomo isolato o perseguitato per le sue idee o la sua diversità; ogni debole oppresso dalla prepotenza di altri uomini; ogni bimbo che non può crescere e gioire a causa del nostro egoismo… è una bestemmia contro la Trinità. Noi cristiani, cui questo mistero è affidato, ne abbiamo fatte e dette tante di queste eresie storiche - e Giovanni Paolo II ne ha chiesto perdono a tutti più di cento volte… Ma è pure vero che un’innumerevole folla di martiri ha testimoniato il rifiuto della prepotenza politica o ideologica di capi, re e imperatori. Generazioni di credenti, laici e consacrati, famiglie e chiese, hanno sfidato la logica del potere e del danaro…e hanno seminato nel mondo il fermento del primato della persona, e quindi l’accudimento del malato e del debole, l’assistenza e l’istruzione del meno fortunato, l’ascolto e il rispetto di tutti i pareri diversi…» [Giuliano].
È ben vero allora che l’idea di Dio che abbiamo in testa non è ininfluente sulla vita che costruiamo (foss’anche l’idea che Dio non c’è – perché anche questa è un’idea di Dio…), ma anzi: dall’idea di Dio che uno ha in testa, si capisce anche che uomo egli è; e viceversa, ovviamente: da che vita uno conduce, si può capire in che “idea” di Dio crede… se in un dio monadico, totalitario, autoritario, autosufficiente, autoriferito, ecc… o in un Dio di relazione, di pluralità, di custodia, di solidarietà, di collaborazione…
Un “dio per sé” ha infatti seguaci che vivono per se stessi; un “Dio per gli altri” ha seguaci che vivono per gli altri…

sabato 22 maggio 2010

venerdì 21 maggio 2010

Credere nel dono dello Spirito Santo: la vita che continua

La domenica di Pentecoste – come tutti sanno – si celebra il memoriale del dono dello Spirito Santo da parte del Padre, attraverso Gesù risorto, ai discepoli.

Ma di cosa si tratta davvero? Al di là delle formulazioni, al di là delle frasi fatte che conosciamo da sempre, al di là delle spiegazioni nominalistiche di questo “mistero” (vere, ma del tutto insignificanti – non significative per noi, per me), di cosa si tratta quando si parla del dono dello Spirito santo?
Io credo si tratti – andando contro il sentire comune per cui questa è una festa (solo) gioiosa – in realtà, di uno dei momenti più drammatici della vita della Chiesa (di allora) e dell’esperienza dei singoli cristiani (di sempre). Credo infatti si abbia a che vedere con la “cosa” più difficile da credere di tutto il fatto cristiano. E provo a spiegarmi…
Qui si tratta di credere:
1) Che la storia va avanti anche senza Gesù: cioè – allora come oggi – che il “non averlo più tra noi” non chiude la storia, non solo o non tanto quella umana, di cui chi ha perso chi dava senso alla sua vita non è poi molto preoccupato, ma quella personale; il dramma infatti per i suoi è: “Come mai io sono vivo se lui è morto?”, “Che senso ha che io sia in vita, se nella vita lui non c’è?”… Precisamente questo infatti è in gioco con l’elaborazione dei testi neotestamentari che parlano del dono dello Spirito. In prima battuta infatti il fatto che ci sia lo Spirito, vuol dire che non c’è più Gesù. O appunto: che c’è in Spirito… Ma su questa drammatica non si può soprassedere o passar via troppo in scioltezza… Perché che Gesù “non ci sia più” non è affatto una cosa banale. E non lo è stato allora…
2) Ma non solo questo… Qui si tratta di credere, non solo che la storia vada avanti anche senza Gesù, ma che essa quasi “debba” andare avanti; e non solo per inerzia, perché finché il corpo non muore si resta in “vita” (come cantava De Gregori: «Cosa sarà che fa morire a 20 anni, anche se vivi fino a 100?»); e nemmeno perché Gesù abbia fallito e quindi la vita debba andare avanti alla ricerca di altro, che dia senso, che sia la vera via, verità e vita…; no: credere nel dono dello Spirito santo vuol dire credere che – nonostante Gesù non ci sia più come prima – sia sensato andare avanti, portare avanti quella sua medesima storia, quella sua via, verità e vita che – pure – l’ha portato a non esserci più…
La Pentecoste è dunque la scelta radicale tra il credere alla vita o alla morte, all’affidamento o alla paura, all’aprirsi o al chiudersi, all’amare o all’odiare… Pentecoste è scegliere se la storia continua o se la storia finisce… Questa infatti è la posta in gioco: vivere da figli o vivere da orfani?

I testi neotestamentari – anche quelli delle letture di questo anno C – sono nati precisamente con l’intenzione di raccontare (attraverso l’elaborazione “a posteriori” di questa scelta) come la Chiesa delle origini, quegli uomini e quelle donne, si siano determinati. Quale sia stata la loro risposta. E ogni generazione cristiana, ogni singolo uomo su questa terra, a partire da quella loro esperienza fondante, è chiamato a rispondere per sé a questo interrogativo…
Ciò che a noi può sembrare strano è la puntualità con cui – per esempio il testo della prima lettura di questa domenica – racconta la scelta, come se tutto si fosse concentrato in un episodio, in un momento, in un attimo che ha determinato tutto il resto della vita di questi uomini. In realtà – come si evince dalla faticosa vicenda degli Atti – anche per loro non è bastato decidersi una volta per tutte… e l’elaborazione “a posteriori” che noi oggi ci ritroviamo tra le mai nei testi neotestamentari è – appunto – una ricostruzione “a posteriori”, un tentativo cioè di condensare in un breve racconto cosa abbia voluto dire credere alla vita che continuava, alla sensatezza della vita che continuava… al fatto che si trattasse di una continuazione “abitata” e non orfana…
Come dire… Lo Spirito donato ha avuto anch’esso bisogno del credito di chi lo ha ricevuto, ha avuto bisogno del riconoscimento del fatto che si trattava di una nuova modalità di presenza di Gesù e del Padre suo tra i suoi.
Questo perché non si ha a che fare con un’idea, con un dogma, con una proposizione da imparare a memoria e ripetere a comando, ma piuttosto con il credito che si è disposti a dare alla parola / vita (promettente) di Gesù... che aveva promesso di non lasciarli/ci soli («Non vi lascerò orfani», Gv 14,18), di restare sempre con loro / con noi sulle vie di questo mondo («ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo», Mt 28,20) e di costruire insieme a loro / a noi la vita (così come spiega san Paolo: «Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio»)…
Ma se Pentecoste è tutto questo, se credere al dono dello Spirito santo, vuol dire credere ad una modalità nuova di accessibilità a Gesù (e in Lui, a Dio) – nonostante non lo si veda, non lo si senta, non lo si tocchi –, se vuol dire credere in una possibilità diversa – ma vera, addirittura più intima e universale – di relazione a Lui, che continua nonostante l’assenza fisica (in spirito, appunto…), se – inoltre – lo si fa basandosi sulla sua parola… allora non ci si può più porre di fronte a questo mistero come di fronte “a questo sconosciuto”… come se lo Spirito fosse qualcosa d’altro rispetto a quanto raccontato nel vangelo… come se credere in Lui fosse qualcosa di diverso che credere che Dio è «Abbà, Padre» e che «Gesù è Signore», “nonostante” la sua morte e la sua assenza fisica… che dunque Egli è incontrabile, che può davvero ancora alimentare la vita che continua, che può davvero plasmare i nostri cuori perché il suo Regno venga…

«… Si può dunque, nella vita feriale, camminare secondo lo Spirito [di Gesù], disinquinando la storia dal basso – cominciando dalle piccole cose accessibili agli uomini senza potere, che però sono assuefatti ai segreti del Regno. E imparando a lasciarsi abitare e guidare da Lui. Così cresce il germe divino che dimora in noi, negli appuntamenti silenziosi e nascosti della vita d’ogni giorno…ove lo Spirito stesso viene in aiuto alla nostra debolezza
e intercede con insistenza per noi, con “aneliti senza rumore”.

QUANDO?:…


 quando dobbiamo fare tante piccole cose senza senso, come sorridere a qualcuno, mentre tutto ci amareggia o ribolle dentro
 quando lasciamo ad altri un minuscolo successo o affermazione, senza ritorsioni, per lasciarli crescere… in pace
 quando silenziosamente condividiamo la passione dei sofferenti e disperati della terra - seduti per terra con loro
 quando sperimentiamo il desiderio e insieme l’impossibilità di uscire dalle gabbie della carne e dall’egoismo - e confidiamo lo stesso che la liberazione è vicina e non ci sarà negata
 quando la fame di compagnia e tenerezza ci rode la carne - e la solitudine sembra l’unica assurda risposta
 quando facciamo i conti della nostra vita e vediamo un passivo incolmabile scavato nell’anima - e ci fidiamo che un Altro, inafferrabile, pareggerà
 quando stiamo dentro l’amara realtà quotidiana sino alla fine, sottomettendoci con fatica alla monotonia corrosiva di una vita che si svuota
 quando ci ostiniamo a pregare, sicuri di essere in ogni caso esauditi, anche se nessun segno ci perviene
 quando la caduta diventa l’estremo umano modo di camminare, che ci rimane - perché sempre di nuovo chiediamo di essere accolti, amati, sollevati
 quando affidiamo la domanda irrisolta e il desiderio inesaudito al mistero di grazia che tutto avvolge - dove Qualcuno, nel buio o nel disagio interiore, ci chiama con il nostro nome
 quando ci esercitiamo nei disappunti delle faccende quotidiane, per imparare a morire con serenità ed amore - vivendo, appunto, come vorremmo morire
 quando ci sono offerte scintille di gioia e compiutezza, e cerchiamo di condividerle …

DOVE?:…


 dove è nascosta la possibilità piccola, ma qualitativamente essenziale, della nostra libertà - di donarci
 dove incontriamo… il diverso – perché l’alterità è la casa dello Spirito, “dove si manifesta la verità ‘più’ intera e le cose future”
 dove siamo chiamati al coraggio di atteggiamenti nuovi… per “abbeverare di Spirito la nostra carne”, aprendola a gusti diversi, in vista della redenzione del nostro corpo
 dove è nascosta la mistica quotidiana, perché questa accoglienza dello Spirito … è l’unione con Dio, l’eterno che scorre nella nostra storia!
 dove si può gustare la sobria ebbrezza dello Spirito, di cui parlano i Padri e l’antica Liturgia: sobria, perché vissuta laicamente e sommessamente nella storia d’ogni giorno; ebbrezza, perché è una strana forza interiore, che vuole mandarci ‘fuori’… dagli angusti schemi mondani».
Giuliano […. su un testo di K Rahner…]

venerdì 14 maggio 2010

Lectio Vitae



Il 23 aprile 2010 si è tenuta nel nostro Monastero di Legnano una Celebrazione Eucaristica per aiutarci a fare tesoro dell'esperienza vissuta da P. Giuliano e, per chi l'ha conosciuto, con P. Giuliano...

Mons. Anbrogio Piantanida, Vicario Episcopale della Diocesi di Milano per la Vita Consacrata, ha presieduto la liturgia e proclamato il Vangelo con una bellissima riflessione che trovate qui sotto.

giovedì 13 maggio 2010

L'ascensione: la festa di chi cerca semi di laicità

Quest’anno la liturgia della Parola che la Chiesa ci propone in occasione dell’Ascensione, è curiosamente composta da due racconti del medesimo evento. Esso infatti nel NT è raccontato sia nel Vangelo di Luca (vangelo che caratterizza questo anno liturgico C), che nel libro degli Atti degli Apostoli, che tradizionalmente, ogni anno, va a costituire la prima lettura della solennità dell’Ascensione. Ci troviamo dunque di fronte – quest’anno, e solo per quest’anno C – ad una prima lettura e ad un vangelo che narrano la stessa esperienza…


Ciò detto, bisogna però anche aggiungere che, l’avere a disposizione e l’essere chiamati a meditare su entrambi i racconti neotestamentari dell’ascensione, non rende l’impresa meno ardua… Parlare di ascensione non è facile. Come scriveva don Dossetti infatti: «Fino alla croce ci sono dei sentimenti naturali che possono in qualche modo, nonostante le nostre resistenze, darci il senso che essa è ancora dentro il nostro orizzonte umano. La risurrezione evidentemente già ci fa faticare di più, perché ci porta assolutamente al di sopra del nostro orizzonte. Ma l’ascensione impegna in modo ancora più totale la nostra capacità di trascendere la nostra esperienza e la nostra capacità di vivere – nella considerazione di questo mistero – tutto il prolungamento dell’esistenza che noi speriamo, ma che contrasta fortemente con la nostra esperienza immediata, che sa che al di là della vita c’è la morte. Bisogna, invece, che pensiamo che questo è il mistero veramente riassuntivo di tutto Gesù, di tutto il Cristo. Bisogna tornarci su spesso» [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 97-98].

Raccogliendo dunque l’invito di don Dossetti, anche noi, proviamo a tornare su questo mistero che la Chiesa ci invita a celebrare, cercando innanzitutto di precisare meglio perché Egli lo definisca come un qualcosa che «impegna in modo ancora più totale la nostra capacità di trascendere la nostra esperienza e la nostra capacità di vivere»… Cosa è in gioco con l’ascensione?

In gioco c’è l’esperienza intensa e lacerante che la prima comunità ha fatto della partenza di Gesù («Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi» / «si staccò da loro e veniva portato su, in cielo»), della sua distanza fisica, della sua assenza, della sua invisibilità, non “consultabilità”, non “fruibilità” almeno nei termini in cui lo era stato fino a quel momento (da vivo o da risorto). Questo è il problema…

Ed è un po’ troppo sbrigativo risolverlo dicendo “Beh, è ‘finito’ il tempo di Gesù, inizia quello della Chiesa”… Innanzitutto perché è una soluzione che toglie la realtà della drammatica in atto – che chiunque ha avuto un morto tra i suoi conosce molto bene –; inoltre perché bisogna intendersi bene su quel “finire del tempo di Gesù” e su quell’“iniziare del tempo della Chiesa”, che sono slogan utili e che dicono anche qualcosa di vero, ma che vanno intesi bene per non risultare fuorvianti…

Forse allora, è utile tornare a chiederci con un po’ di pazienza cosa abbia voluto dire davvero (e cosa voglia dire davvero) questa ascensione… Innanzitutto potremmo farci questa domanda: Letteralmente cosa vuol dire “ascendere”? E soprattutto: Dove è “asceso” Gesù?

Scrivono i biblisti bergamaschi su Scuola della Parola del 2003: «Il racconto dell’Ascensione non concede moltissimo alla descrizione: si dice che Gesù sale al cielo, mentre una nube lo nasconde allo sguardo. Il cielo non è tanto ciò che sta in alto, ma è un altro modo di essere di Gesù. Luca non insiste, non ha l’interesse di stupire il lettore con delle scenografie spettacolari; anzi, il suo modo di esprimersi è molto sobrio, nonostante la qualità del contenuto».

Ma se «il cielo non è tanto ciò che sta in alto», dove è stato assunto Gesù? Dove è andato a finire? E cosa si intende con questo “modo altro di essere”? Ci facciamo aiutare ancora una volta da don Dossetti [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 69-73.99], che con molto acume annota: «Mi sembra che sia detto anche a noi di non dovere stare lì a guardare il cielo fisico, per ritrovare un contatto con Gesù asceso alla destra del Padre», infatti «il cielo di cui si parla non è certamente il cielo fisico – questo già lo sappiamo, però bisogna sempre tornarselo a dire, per sgomberare l’anima da quella pesantezza che viene da questo rapporto con il cielo fisico –, e non è nemmeno una realtà spaziale o una realtà dell’ordine fisico o dell’ordine creato: il cielo non è questo. Questo cielo è esclusivamente Dio stesso».

“Gesù assunto in cielo”, vuol dire allora “Gesù immerso nel Padre”.

«Dunque, vedete, non compiamo nessun itinerario esterno. Soltanto si tratta di raggiungere degli spessori totalmente interni all’essere. […] In questo ordine di essere, in questo spessore intimissimo, Cristo è stato assunto. […] È in conseguenza di questo suo ritorno al Padre che lui si intimizza a noi: è veramente con noi ed è veramente in noi, ritornato al Padre, raggiunge in noi lo spessore più profondo del nostro essere, quello in cui il nostro essere giace in lui, in Dio». Perciò «nell’atto stesso in cui sembra allontanarsi, in realtà si fa massimamente intimo a noi e noi diventiamo massimamente intimi a lui»!

Tant’è che ancora i bergamaschi scrivono: «La parola “ascensione” a noi ricorda soltanto il momento finale, quando – quaranta giorni dopo la Pasqua – Gesù sale al cielo», ma essa «comincia ad apparire molto presto nel vangelo di Luca, ben prima del momento puntuale dell’ascensione. In Luca 9,51 leggiamo: “mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo…”. Letteralmente, quel “tolto dal mondo” è diverso nel testo originale e l’intera frase suonerebbe così: “mentre stavano compiendosi i giorni del suo salire (del suo essere assunto)”. È lo stesso vocabolo che abbiamo in Atti per indicare l’ascensione: il “fu assunto in cielo”, non rappresenta solo (o forse non tanto) l’essere tolto dal mondo, ma è il compimento di quella “salita” di Gesù, incominciata il giorno in cui ha con decisione orientato il suo volto e i suoi passi verso Gerusalemme. Il suo salire non avviene soltanto con l’Ascensione nel quarantesimo giorno, ma inizia con quel cammino verso Gerusalemme», proprio perché non è un salire “fisico”, ma un’immersione in Dio…

Ecco perché l’esperienza umanamente insuperabile – e insuperata – dell’assenza di chi non c’è più, è riletta dal NT come l’esperienza di una nuova modalità di presenza: perché Gesù non si è dissolto nel niente, ma si è immerso – trascinandosi dietro la sua umanità – nel Padre. La buona novella da annunciare a tutto il mondo è infatti che da sempre «la Chiesa vive di questa consapevolezza: Cristo è vivo in mezzo ai discepoli».

In questa ottica anche lo slogan prima citato del “finisce il tempo di Gesù, inizia quello della Chiesa”, assume la corretta intonazione: il tempo di Gesù – di per sé – non finisce; finisce una modalità della sua presenza e ne inizia un’altra, quella che noi chiamiamo Spirito. La Chiesa infatti altro non è (o non dovrebbe essere) che la comunità di quelli che vivono di questo nuovo e intimissimo modo di rapportarsi al Signore risorto e dentro a questo rapporto imparano la dedizione per gli altri… anzi è la dedizione per gli altri, perché l’incontro in spirito con chi è spirito è riconoscibile (da chi non è ancora solo spirito) sempre e solo a posteriori, mai “in diretta”…

Non a caso mentre il vangelo di Luca termina – senza che nessuno avverta questo come un problema – dicendo degli apostoli che «stavano sempre nel tempio lodando Dio», gli Atti – in maniera quasi sarcastica – aggiungono subito: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?». Come a dire che il nuovo modo di stare col Signore – starci in spirito – non ha niente a che vedere con il ritagliare uno spazio sacro in cui isolarsi, ma coincide con l’immersione nella secolarità [cfr. brano di R. La Valle*]. Dicevamo infatti qualche settimana fa: «il Nuovo Testamento è molto parco nel parlare di amore nostro per Dio» e invece che impostare il comandamento nuovo sulla logica matematica del “come vi ho amati io, amatemi anche voi così”, proclama: «Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri»… Come a dire che l’incontro “spirituale” (in spirito) passa dalla storia e dai volti che in essa abitano e non da un ritrarsi da essa.

La vita cristiana però «fatica a mantenere il modello di equilibrio della difficile tensione escatologica, nata dall’Ascensione, che è insieme un’assenza del Signore, abitata dallo Spirito – e un’attesa del suo ritorno, impegnata nell’annuncio fattivo del Regno a tutti gli uomini. Ci si orienta piuttosto ad una schizofrenia ecclesiale dove i due poli della tensione si separano e tendono a cristallizzarsi in due classi diverse: i laici comuni, che guardano in basso e curano le cose del mondo e i monaci che, alla deriva della fuga et contemptus mundi, guardano solo in alto. Scordandosi così che il Vangelo domanda fedeltà, condivisione, compassione, servizio radicali e totalizzanti per tutti i discepoli, pur in situazioni esistenziali diverse» [Giuliano].

In questo senso aveva proprio ragione, quando scriveva che: «L’Ascensione è la nostra festa: di noi che cerchiamo i semi della laicità, come il dono capace, man mano che gli uomini se ne rendono conto, di svuotare ed eliminare ogni discriminazione sacrale, ideologica, economica, sessuale… discriminazione sempre fondata sulla diversità che noi interpretiamo spesso come inferiorità e disumanità… lasciandoci sfuggire la forza di umanizzazione per noi, che invece ogni uomo che incontriamo sempre riserva come dono che solo lui può farci».

*RANIERO LA VALLE, Se questo è un Dio, 76-86.97.115-118

«Risalendo alle origini, il primo impulso documentato nell’esperienza di Israele è stato quello di stabilire una netta separazione dal sacro (per gli ebrei qadoš). Se il sacro fa male [«Chi vede Dio muore»], meglio prenderne le distanze, fissare una netta demarcazione di confini. Ma la cosa non è affatto facile, perché il sacro non si fa agevolmente circoscrivere, invade tutta la realtà. […] E se il sacro malefico invadeva tutta la realtà, il problema era appunto quello di ritagliarne e separarne lo spazio profano, una specie di zona franca di ciò che restava indenne e disponibile all’uomo. E così fu fatto, e sul confine fu fissata una barriera protettiva, i cui effetti, come spesso è dei muri, saranno devastanti. La barriera era quella che distingueva l’impuro dal puro; e le norme di purità furono poste a garanzia di tutto il sistema. […] All’inizio al sacro si sposava il termine impuro, al profano il termine puro. Impuro è ciò che sta in contatto col sacro, e ne viene contaminato. […] Poi le cose cambiano […]: l’impurità viene legata al peccato, e il rapporto tra le due coppie di opposti [puro-impuro; sacro-profano] si inverte, da parallelo che era; è la purità, non più l’impurità che viene attirata nella sfera del divino; distinguere il sacro dal profano coincide ormai con la separazione del puro dall’impuro. Dio tre volte qadoš, sacro, sacro, sacro, come lo cantano i cherubini di Isaia (Is 6,3) è puro; è il mondo, è il profano, è la storia che giacciono nell’impurità. […] Questa concezione del contrasto tra puro e impuro è troppo importante, è troppo potente nella sua pretesa di invadere e spartire l’intera realtà umana e divina, per liquidarla come una fissazione di rubricisti, per non interrogarsi sulla sua persistenza storica, per non chiedersi se non sia rimasta all’opera fino a oggi, anche se in forme sempre mutate. Anche le pulizie etniche vengono da lì. E non basta nemmeno dirimere la questione se alla coppia sacro-profano corrisponda la coppia impuro-puro o viceversa. […] Ancora più necessario è chiedersi in che cosa consista l’essere puro o impuro, sia che a essere puro sia il sacro, come è ormai nel senso comune, sia che lo fosse il profano, come era all’inizio. […] Ora dalla lettura delle prescrizioni bibliche, dalla ricognizione dei testi ebraici antichi […] risulta che il connotato essenziale della purità consiste nella separazione dei diversi, e che il disordine della impurità consiste nella loro reciproca contaminazione. La purità sta nella omogeneità e identità con se stesso di ognuno dei due ordini, il sacro e il profano, l’impurità sta nella loro congiunzione, confusione, interferenza. Per estensione, la purità è non mischiarsi con l’altro da sé, l’impurità è il meticciato. La purità è la solitudine, l’impurità è la compagnia. […] Quella che si afferma è una antropologia della disuguaglianza per natura degli esseri umani. La discriminazione tra puro e impuro degenera in una discriminante tra uomini e no, perfetti e incompiuti, nobili e volgari, integri per natura e malriusciti e contaminati. La categoria puro-impuro diventa il paradigma e il primo travestimento culturale di una discriminazione, e perciò di un dominio, che percorrerà tutta la storia». Ma… Innanzitutto: «Se [Dio] ci avesse tenuto alla purità, alla non contaminazione, alle identità prigioniere di se stesse, non avrebbe fatto l’uomo a sua immagine, non avrebbe introdotto la riproduzione sessuata, causa di tutte le combinazioni e le differenze, non avrebbe dato corso alla storia, la quale senza relazioni non sarebbe possibile». E soprattutto: non si sarebbe fatto uomo. Infatti «Con l’apparizione di Dio nel bambino neonato accadde la caduta di tutta la strutturazione della realtà nelle categorie di puro e impuro e la sua riconduzione a unità. Il primo segno è che per il parto non si trova luogo – che fosse una casa o un albergo – dove fosse possibile osservare le regole di purità», (cfr Lev. 12,2 per le regole di purità per la donna che aveva appena partorito e Is 1,3 per la vicinanza agli animali). «Se quella era la nuova “Presenza” di Dio sulla terra, essa si manifesta quindi fuori del luogo deputato, e fino ad allora esclusivo; fuori del santo dei santi, fuori del tempio, senza la mediazione dei sacerdoti vestiti solo di lino; è un’altra struttura del divino che cade. Ciò troverà poi piena esplicazione nella risposta di Gesù alla Samaritana («Né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre; i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità, Giov. 4,21-23) e nel fatto che la sua morte e risurrezione avverranno fuori della città, fuori del tempio. Ma è già alla nascita che egli si pone fuori del recinto del sacro. […] La divisione tra sacro e profano entra in crisi con l’incarnazione. In quella che nella liturgia e nell’arte sacra chiamiamo “epifania di Gesù”, non ve n’è più traccia. Finisce quell’ambiguo gioco di rimandi tra puro e impuro, tra sacro puro e profano impuro. E cade non perché sopravviene una concezione più avanzata, ma perché ne viene meno (ne viene tolto) il presupposto radicale: la giustapposizione tra il divino e l’umano, l’intransitabilità della soglia che divide il mondo da Dio. Se l’invasione di campo del sacro nel profano e del profano nel sacro, la mescolanza, la contaminazione tra Dio e uomo rappresentano la massima impurità, proprio questa Dio sceglie e fa sua. Il gesto sorprendente di Dio è di mantenere la distinzione ma di abolire la distanza. […] La massima impurità diventa pertanto la nuova forma dell’economia divina: la comunione del sacro col profano (nulla è più riservato, tutto è riportato alla condizione comune), il meticciato tra il divino e l’umano. Il Dio puro dell’assoluta trascendenza si impasta anche lui di terra, e si presenta nel volto di Cristo come divino e umano insieme, “perfetto nella divinità e perfetto nell’umanità, veramente Dio e veramente uomo”, come professa il Concilio di Calcedonia. Un Dio meticcio».

domenica 9 maggio 2010

Ridisegnare la Storia col soffio dello Spirito

Perché a me? Perché a noi?...
Il contesto del Vangelo di oggi è quello dell’ultima cena secondo il racconto del Vangelo di Giovanni. E fa parte di quella sezione che gli studiosi chiamano per convenzione (e impropriamente in quanto come lui stesso dice, non se ne va: l’andare al Padre non vuol dire che si “assenta” dalla nostra storia…) “discorsi di addio”.

Qui siamo nel primo di questi discorsi che inizia in Gv 13,31. Bisognerebbe ricollocarsi esistenzialmente in quel contesto per cogliere in tutta la sua profondità ciò che Giovanni ci vuole trasmettere in ciò che dice e fa Gesù…

Il brano riportato nella liturgia è propriamente parlando una risposta di Gesù alla domanda di un discepolo (Giuda, non l’Iscariota che è già “uscito”). La domanda era: «Signore come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?». La risposta di Gesù nel dare un senso nuovo alla domanda, dà la chiave di lettura di come sarà possibile il suo “manifestarsi al mondo”…

Se uno mi ama, osserverà la mia parola
Gesù mostra che la fede non nasce da una evidenza, da una cogenza alla quale non ci si può non consegnare: nemmeno la resurrezione lo è! Non esiste un miracolo capace di “costringere” alla conversione. La fede – questo è il bello della fede – è un atto di amore, un atto della libertà che si apre all’incontro-conoscenza con l’altro generando comunione. Non è un “aderire a un’idea” o peggio a “una dottrina” e men che meno una “costrizione”. La fede è un fidarsi-affidarsi che nasce dall’amore che si fa storia comune. In questa risposta Gesù unisce fede-speranza-carità come dimensione profonde della relazione tra l’uomo e Gesù (e, a partire del suo amore per noi che precede e rende possibile il nostro, tra i discepoli cfr 13,34ss).
Il punto di partenza quindi è l’appropriazione personale della sua parola: questo è l’Amore secondo Giovanni. Amare Gesù è vivere della sua Parola al punto da non poterne più fare a meno, se non un sentirsi “morire dentro”. Osservare i comandamenti (v. 15) e osservare la sua parola non hanno niente a che fare per Gesù (e Giovanni!) con “l’osservanza materiale di precetti” ma indicano un rapporto vitale con la parola (logos-dabar) che produce comunione, condivisioni di vite e sequela…
Il manifestarsi di Gesù è un manifestarsi possibile solo a coloro che “gli si fanno suoi”, che accettano di farsi suoi… per questo chi non lo ama, “non può” vivere della sua parola e quindi “non lo può” conoscere (il binomio “conoscere-amare” e “non conoscere-odiare” è fondamentale in tutto il Vangelo di Gv fin dalle sue prime battute nel Prologo cfr anche oltre ai capitoli 13-17 ad esempio il c. 10 sul rapporto d’amore – conoscenza reciproca – tra le pecore e il pastore)…

L’amore per il logos di Gesù è l’amore per Gesù, Logos del Padre, e quindi è nello stesso tempo amore per il Padre… Amore che è dono dello Spirito d’amore tra il Padre e il Figlio e i figli.

Per questo, questo amore, questo vivere della sua parola, è comunione col Padre e col Figlio che si fa presenza concreta, dimora reciproca, reciproco dimorare l’uno nell’altro, reciproca inabitazione, con-vivenza sponsale (cfr il segno-simbolo – sacramentum – del matrimonio) di reciproca conoscenza…
E questo è lo Spirito, Amore tra il Padre e il Figlio e i figli, che alimenta e si alimenta del nostro reciproco vivere l’uno dell’altro, degli uni negli altri, degli uni per gli altri… per questo lo Spirito ricorda e insegna l’amore-parola di Gesù che è Gesù stesso perché Gesù è la sua parola in quanto è tutto in tutto quello che fa e che dice… Il ricordare dello Spirito allora non può essere nel senso biblicistico di riportare a memoria qualcosa che si è dimenticato (es una citazione biblica) o di rivivere la nostalgia di un tempo passato (es il periodo storico di Gesù o di un’epoca “d’oro” della Chiesa), ma un riportare a reciproca presenza, un ripresentare l’uno all’altro il volto dell’uno e dell’altro, per rivitalizzare, vivificare, mantenere in vita l’amore dell’uno per l’altro, il vivere dell’uno con l’altro. Questo “ricordare” dello Spirito, fa dello Spirito il paraclito per l’uomo, cioè consolatore (testimone alla coscienza credente della promessa del Padre che si attua nella storia, e per questo dà forza e coraggio, esorta e spinge all’azione nella storia) e in Dio è colui che intercede per noi con gemiti inesprimibili. Questo significa il ricordare la parola di Gesù: rivivere alla presenza nostra e del Padre l’azione liberante del Cristo…

Tempio di Dio
Questo è il dono più grande, che fa del discepolo il luogo della comunione con Dio, il luogo della presenza di Dio vivente, tempio vivente del Dio vivente.

Per questo il discepolo non può che rallegrarsi del fatto che il Signore vada al Padre, perché solo così la sua presenza diventa definitiva. Perché il suo ritornare col Padre diventi presenza tangibile nel dono dello Spirito per la vita di ogni uomo di ogni luogo e di ogni tempo, senza più i limiti sensibili della dimensione spazio-temporale.

Questa presenza, questa inabitazione reciproca di Dio nell’uomo e dell’uomo in Dio, attuata dall’amore alla sua parola, fa dell’uomo un creatura nuova, autentico «sacramento di Cristo» (M. Magrassi, Vivere la chiesa, 113).

Ciò che Gesù afferma nel Vangelo è descritto con un linguaggio profetico, apocalittico nella seconda lettura. Qui dobbiamo uscire da un equivoco… Se è vero che il libro dell’Apocalisse dà una chiave di lettura della storia in prospettiva escatologica (a partire dal suo fine), questo non vuol dire che ciò che è descritto come “compimento” non sia già una realtà vissuta e sperimentata dal cristiano fin da ora… Anzi il compimento è possibile, proprio perché ciò che deve compiersi alla fine della storia è già pienamente presente nella storia: nulla le manca per poter giungere al proprio compimento!

Per capirci possiamo fare una analogia con la persona di Gesù: il suo “tutto è compiuto” sulla croce, non vuol dire che egli non fosse pienamente figlio anche prima! Anzi il suo vivere pienamente da figlio prima della croce rende possibile fare la volontà del Padre fino al suo compimento!

Altrimenti il libro dell’Apocalisse sarebbe l’unico libro della Bibbia che propone una visione “alienante” della storia presente: una fuga dai problemi dell’oggi nell’attesa di una promessa “oltre la storia”…

La “Gerusalemme celeste” (con tutto quello che nella simbolica dell’Antico e Nuovo Testamento rappresenta), lungi dall’essere allora una realtà da contrapporre alla “Gerusalemme terrestre” è quella dimensione già ora presente nella storia in coloro che vivono della parola dell’Agnello… e diventano comunione e tempio della presenza di Dio in mezzo a noi. Siamo ben lontani dalla contrapposizione agostiniana.
E come domenica scorsa ci ricordava il Vangelo (Gv 13,35: Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri), il discepolo non è colui che appartiene a questa o quella istituzione ecclesiale o religiosa, ma è colui che vive di questo amore lasciandosi abitare dall’amore di Cristo, che è, ci ricorda il Vangelo di oggi, amore alla sua parola, al suo logos, al suo dabar. Perché la sua parola ha in sé la capacità di rendersi “amabile” in quanto ci rivela (ricorda) il volto del Padre nel volto del Figlio per l’azione dello Spirito.

L’azione dello Spirito nella storia: l’incarnazione della Parola nella vita dei discepoli
I discepoli allora costituiscono una comunità, come una città che «non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna» perché «la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello». La Parola abita il discepolo perché il discepolo la abita, vive della Parola e nella parola, per questo non c’è tempio: «il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio». Tempio del discepolo è la Parola vivificata dallo Spirito.
Ora tutto questo prima di essere una promessa futura, è già una realtà vissuta dal cristiano-discepolo… che si attua storicamente e giunge fino a noi anche nella testimonianza della vita della comunità credente, fin dai suoi albori: Come ci è descritto anche dalla prima lettura di oggi, tratta dagli Atti degli Apostoli, dove gli Apostoli mostrano un coraggio inaudito!

Di quale coraggio si tratta?… Il brano ci parla di un concreto problema: cosa devono fare i pagani per convertirsi al Cristianesimo? Devono o non devono aderire in toto agli insegnamenti della Torah? Che si noti bene: data da Dio stesso!

Inoltre, Gesù non era forse ebreo? Certo che sì e osservava tutti i precetti della Torah ed era circonciso! E disse che neanche uno iota della Torah passerà… Dunque pare evidente che se un pagano vuole farsi cristiano deve fare come Gesù e quindi convertirsi nello stesso tempo all’ebraismo!
Gli apostoli stessi erano ebrei, circoncisi e praticanti: ancora negli Atti si vede che per la preghiera, come ogni pio israelita si recavano al tempio e alla sinagoga…
Quindi sembrava logico, che chiunque venisse da un’altra cultura, da un’altra religione, da un’altra etnia, dovesse prima di tutto inserirsi, nella religione, nella cultura e nell’etnia giudaica… Non è forse lo stesso ragionamento di molti cristiani che trovano ovvio pretendere ad altri la propria “superiore cultura cristiana”?…

Aperti alla storia di ogni uomo
Invece gli apostoli facendo un salto culturale senza precedenti, manifestano un coraggio inaudito che li rende capaci, lasciandosi guidare dallo Spirito di Cristo, di “staccarsi”, di andare oltre, persino al Cristo secondo la storia… per entrare nella prospettiva del Cristo secondo la gloria.

Ecco in che cosa consiste, concretamente, il lasciarsi guidare, illuminare, soltanto dallo Spirito di Cristo che fa rivivere in noi la sua parola: avere il coraggio di andare oltre persino alla propria storia, al proprio cammino storico-culturale di fede, per saper dare risposte nuove a domande nuove, che i problemi nuovi dell’incontro con l’altro propone alla nostra storia quotidiana…
Non esistono risposte che vanno bene per tutte le domande, per tutti i periodi storici, per ogni uomo e donna, per ogni situazione… Il dono dello Spirito che rivitalizza la parola-azione di Cristo nella storia della comunità credente, rende capace l’uomo di una libertà inaudita persino rispetto alle proprie più sacre tradizioni…

Sulle ali dello Spirito…
Il cammino fatto fin qui di comprensione della “parola” che la Chiesa ci propone nella liturgia odierna, ci dice quanto il nostro vissuto ecclesiale debba maturare per vivere questa realtà e questo coraggio che nascono dall’amore alla Parola… In nome della Tradizione, spesso si è voluto giustificare il nostro tradimento all’amore per la Parola di Gesù.
Quante volte diciamo che una cosa non si può fare perché nella Tradizione non è mai stata fatta… quante volte abbiamo detto di non sentirci autorizzati a cambiare quello che hanno deciso gli Apostoli… Gli Apostoli stessi invece ci mostrano, in quello che è il Vangelo della Chiesa, che non solo si può, ma – perché la salvezza di Cristo raggiunga ogni uomo nell’oggi della storia – addirittura si deve! Questo è il “comandamento” dell’amore! Che diffonde nel mondo il “rallegrarsi” dei discepoli e non “intristisce lo Spirito” liberandone la forza creativa.

Ma anche nel nostro vissuto familiare, spesso noi adulti, abbiamo rifiutato l’incontro con i nostri figli e nipoti (per parlare di persone che pretendiamo amare), semplicemente perché andare incontro a loro, capire veramente le domande del loro cuore e concordare con ciascuno di loro percorsi educativi per una ricerca comune di una risposta adeguata, avrebbe richiesto l’uscire dai nostri schemi, dalle nostre certezze, dai nostri innegoziabili principi… maschere delle nostre paure, frutto della nostra mancanza di fede e di amore verso la Parola ri-creatrice!

Ciò che l’amore alla Parola di Gesù ci propone invece è di rivivere l’esperienza di Gesù che si aperto all’incontro con l’altro anche a costo di diventare un “maledetto da Dio” (e maledetto dalla sua comunità credente!) avendo come solo conforto (paraklesis) la testimonianza del nostro amore per la sua Parola attestato nella nostra vita dallo Spirito Paraclito donatoci dal Padre… e da noi “riconsegnato” al Padre e al mondo.

venerdì 7 maggio 2010

Un Dio che dimora presso i suoi

Il vangelo che la Chiesa ci propone in questa sesta domenica del tempo di Pasqua coincide quasi per intero con la parte conclusiva del capitolo 14 di Giovanni. Mentre infatti, domenica scorsa, l’invito era a soffermarsi sulle parole che Gesù dice ai suoi non appena Giuda è uscito dal cenacolo (Gv 13,31-35), stavolta l’invito è quello di concentrarsi su una parte del medesimo discorso, riportata qualche versetto più avanti (Gv 14,23-29).


Per comprendere però effettivamente ciò di cui si sta parlando, è utile tornare a leggere – ininterrottamente – tutto questo primo discorso che Gesù fa durante l’ultima cena (ne farà altri due: Gv 15,1-16,4 e Gv 16,4-33), e che appunto parte da Gv 13,31 e giunge sino a Gv 14,31:
(31) Quando fu uscito, Gesù disse: Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. (32) Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. (33) Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete ma, come ho detto ai Giudei, ora lo dico anche a voi: dove vado io, voi non potete venire. (34) Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. (35) Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri». (36) Simon Pietro gli disse: «Signore, dove vai?». Gli rispose Gesù: «Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi». (37) Pietro disse: «Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!». (38) Rispose Gesù: «Darai la tua vita per me? In verità, in verità io ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte. 14 (1) Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. (2) Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? (3) Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. (4) E del luogo dove io vado, conoscete la via». (5) Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». (6) Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. (7) Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto». (8) Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». (9) Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? (10) Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. (11) Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse. (12) In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre. (13) E qualunque cosa chiederete nel mio nome, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. (14) Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò. (15) Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; (16) e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, (17) lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. (18) Non vi lascerò orfani: verrò da voi. (19) Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. (20) In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi. (21) Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui». (22) Gli disse Giuda, non l’Iscariota: «Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?».


Come è facilmente intuibile anche “a occhio”, tutto questo lungo discorso è organizzato in questo modo: dopo i versetti 31-35 (su cui non ritorniamo, perché oggetto della lectio di domenica scorsa), il testo è strutturato in diversi momenti, introdotti ogni volta da una domanda dei discepoli («dice a lui Simon Pietro»; «dice a lui Tommaso»; «dice a lui Filippo»; «dice a lui Giuda, non l’Iscariota») e dalla successiva risposta di Gesù; e sostanzialmente gira intorno a tre concetti fondamentali: «(1) al centro la grande proclamazione cristologica: nel momento in cui ritorna al Padre, per i suoi discepoli Gesù è “la via” per la quale essi stessi possono giungere al Padre; (2) lo sviluppo teologico di questo concetto è la “conoscenza” e la “visione” del Padre a cui si incamminano e che già esperimentano i discepoli che seguono “la via” Gesù; (3) in partenza l’annuncio e la promessa soteriologica dell’ingresso dei discepoli nelle “dimore” del Padre in comunione col Figlio glorificato» [M. LACONI, il racconto di Marco, Cittadella Editrice, Assisi 1989, 290]. Fin qui il testo che precede il nostro brano…

L’ultima domanda invece, quella di Giuda non l’Iscariota, è quella che inaugura – precisamente a questo punto del discorso – la risposta finale di Gesù, che coincide col vangelo odierno. Esso, forse, dopo la lettura di quanto precede, diventa più facilmente comprensibile, o per lo meno, non così estemporaneo.

Innanzitutto la prima battuta di Gesù: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola». Un’idea già esposta due volte nel discorso (al v. 15: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti»; – al rovescio – al v. 21: «Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama»; e successivamente, in negativo, al v. 24: «Chi non mi ama, non osserva le mie parole») e che ha un’eco interessante: noi spesso infatti ci troviamo molto più in sintonia con la logica del v. 21, quella cioè per la quale può dire di amare Gesù chi accoglie e osserva i suoi comandamenti, che è una cosa vera, ma che in qualche modo non sta in piedi senza che questa relazione non sia bilaterale/circolare: perché è anche vero che chi ama Gesù, cioè chi si fa coinvolgere e conquistare da Lui, è colui che segue la sua parola, come un innamorato che vive il suo amore (le sue parole, i suoi gesti, le sue attenzioni, ecc…) non perché deve, ma perché ama, perché solo in quell’attuazione lì dice se stesso in verità… Scriveva Dossetti in occasione della sesta domenica di Pasqua del 1971: «Tutte le parole del Vangelo si concentrano nella persona di Gesù e nell’amore che dobbiamo a lui. […] L’unico modo per stare totalmente attaccati a Dio è quello di amare Gesù. E l’unico modo per stare attaccati all’Evangelo stesso del Signore, è quello di amare lui, la sua persona. Solo allora i suoi comandamenti, i suoi precetti, le sue indicazioni, i suoi insegnamenti restano nel nostro cuore; altrimenti persino le parole del Vangelo possono diventare idoli, o pretesti, o diaframmi superstiziosi. […] Fino a che non scatta un incontro personale col Signore Gesù, anche il rispettare, ammirare e meditare le stesse parole del Vangelo è una cosa che vale solo nella speranza che porti a questo incontro personale. Quando invece questo incontro è avvenuto, quando abbiamo incontrato il Signore Gesù, sia pure solo per qualche barlume – non possono essere mai altro che barlumi [!!!] –, allora anche il Vangelo stesso diventa estremamente semplice e luminoso. […] Non lo diciamo in modo sconsiderato, no, sappiamo benissimo che vivere secondo l’Evangelo in concreto è difficile, perché siamo ammalati di tanti mali, soprattutto del male peggiore che è il male dell’io. Ma, nonostante questo, possiamo dire senza leggerezza che crediamo che il Vangelo diventi semplice e agevole, luminoso, quando un poco ci lasciamo attirare dall’amore per la persona del Signore. Allora anche tutti i nostri insuccessi e le nostre sconfitte non sono più degli inadempimenti a dei precetti, ma diventano elementi di un rapporto dinamico con una persona. Quando consideriamo il Vangelo come legge, se violiamo un precetto è un guaio: la violazione c’è stata. Ma se invece ricapitoliamo tutto il Vangelo in questa “semplificazione”, cioè nel nostro rapporto personale col Signore, l’inadempimento è una cosa riparabile, proprio perché è nella dinamica del nostro rapporto con la sua persona. Se io contravvengo il codice stradale, l’ho contravvenuto, ma se oggi non realizzo una parola del Vangelo e me ne accorgo e cerco di spremere dal mio cuore un pochino più di amore per il Signore Gesù, ecco che il buco è già colmato, anzi è meglio di prima, proprio perché non sono in rapporto con una norma o con una dottrina, ma sono in un rapporto dinamico con il Signore. E la violazione di un’ora fa o di un minuto fa può essere compensata da una decisione più forte di amore» [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, San Paolo, Milano 2007, 35-37].

Ciò che però di questa “dinamica circolare” diventa radicale nella seconda parte del v. 23 è che Gesù prosegue: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui».

Anche questa tematica del “dimorare” non è nuova nel discorso: al v. 3 Gesù aveva infatti detto «verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi»; inoltre per tutto il capitolo 14 aveva parlato della sua relazione col Padre nei termini di un essere reciprocamente l’uno nell’altro (v. 11: «Io sono nel Padre e il Padre è in me») e di un inclusione del discepolo in questa dinamica (v. 20: «Io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi»)… addirittura era già stata introdotto anche il “ruolo” dello Spirito (ripreso poi nell’odierno versetto 26): infatti al v. 17 si diceva «lo Spirito della verità voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi». Sostanzialmente cioè era già chiaro che il tema di questa grande pagina fosse il dono che Gesù fa ai suoi discepoli. Infatti «la sua partenza significherà l’apertura di un dono immenso e straordinario: Dio viene ad abitare in noi. La partenza di Gesù significherà di fatto il momento in cui si inaugura una sua presenza non più di tipo fisico – come era fino allora, e quindi limitata a qualcuno, in un certo tempo e in un certo luogo –, ma di tipo interiore, per cui Dio, Gesù e lo Spirito verranno a porre la loro dimora nel cuore dei discepoli, in ogni tempo e in ogni luogo» [P. PEZZOLI, Giovanni 13-17, in AAVV., Scuola della Parola 2002, Diocesi di Bergamo, 230].

Ma, nonostante questo fosse già chiaro, come scrive ancora Laconi, il «prenderemo dimora presso di lui» del v. 23, «persino in uno scritto come il quarto vangelo, estremamente originale e persino spregiudicato nella profondità e intensità delle sue formule religiose, rappresenta una straordinaria eccezione. Non vi si parla soltanto della venuta di Dio in mezzo agli uomini; il discorso va molto più in là. Si tratta dell’amore di Dio verso il discepolo, della venuta verso di lui del Padre e del Figlio, della stabile dimora divina accanto alla sua vita. Si ha addirittura l’impressione di un grosso passo avanti persino nei confronti del Prologo, dove si alludeva alla “tenda” liturgica dell’abitazione del Verbo fra gli uomini, aprendo l’importante discorso sull’abitazione sacra – il Tempio – del Divino in terra. Qui ogni allusione liturgico-sacrale sembra decadere: Dio viene semplicemente a “prendere dimora” là dove gli uomini abitano, accanto alla “dimora” terrena del discepolo di Gesù. L’immediatezza concreta, la quotidianità di questo divino “abitare” accanto all’uomo, alle cose e alle sue situazioni nella loro ovvia, e magari banale, consistenza, potrebbe apparire come il supremo tentativo teologico di Giovanni di portare alle estreme conseguenze il processo di avvicinamento di Dio all’uomo iniziato con l’Incarnazione. Al di fuori di implicazioni direttamente religiose o cultuali, Dio entra senza condizioni e senza limiti nella vita dell’uomo che crede in Gesù, “abita” accanto a lui, entra nella sua vita con una divina scelta di familiarità, di amicizia e di intimità sconcertanti». Bisogna cioè rinunciare a espliciti risvolti spirituali leggendo questa pagina: «Dio viene semplicemente a prendere parte alla vita del discepolo di Gesù, a vivergli accanto, come gli stanno accanto le cose e le persone che fanno parte della sua esistenza».

Ecco perché è possibile davvero pacificarsi il cuore, ascoltando Gesù che dice: «Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore». Perché questo suo abitare presso di noi, e dunque la possibilità reale di incontrarlo “in spirito” (perché «Dio è spirito» Gv 4,24), quindi di amare la sua persona, di lasciarcene affascinare e conquistare, fino a giocare la vita per lui e per la via che lui è, perché – appunto – affidabile nel suo farsi prossimo, è davvero ciò che può rompere autenticamente il giogo della paura che blocca il nostro sgorgare Vita.

sabato 1 maggio 2010

La "reazione a catena" dell'amore di Dio

Il vangelo che la Chiesa ci propone per questa quinta domenica di Pasqua è tratto dal capitolo 13 del vangelo di Giovanni: un capitolo “svolta”, in quanto proprio qui iniziano ad essere raccontati i fatti degli ultimi giorni di vita di Gesù. Siamo infatti nel contesto dell’ultima cena, immediatamente dopo la lavanda dei piedi (che – come noto – in Giovanni sostituisce l’istituzione dell’eucaristia raccontata dai sinottici e da Paolo) e l’annuncio del tradimento. Giuda, come ricorda anche il primo versetto che la liturgia ci offre (Gv 13,31), è appena uscito.


È precisamente a questo punto che Gesù si mette a parlare, inaugurando un lungo discorso che durerà per ben quattro capitoli (da 13,31 a 17,26), del quale i versetti di questa domenica sono, appunto, l’incipit. Si tratta di un discorso la cui struttura e la cui formulazione rendono evidente che, «nel cenacolo, i discepoli svolgono per l’evangelista soprattutto la funzione dei rappresentanti della comunità cristiana futura. Lu curiosa ambiguità dei tempi verbali, abitualmente, ma non sempre rispondenti alle ultime ore di Gesù in terra, ne rappresenta un indizio eloquente. Qui parla Gesù, mentre si avvia alla croce; e nello stesso tempo parla il Signore glorificato e celeste, rivolgendosi alla sua chiesa» [M. LACONI, Il racconto di Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi1989, 278]. Ecco perché leggiamo questo testo anche nel tempo pasquale ed ecco perché in esso possiamo rintracciare il pilastro fondamentale della vita cristiana!

Ma andiamo con ordine… Cercando di ripercorrere gli elementi costitutivi dell’incipit di questo discorso.

Innanzitutto, quel “grido di vittoria”, pronunciato appena Giuda è uscito nella notte: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito». Questa esclamazione – e in particolare la sua collocazione immediatamente dopo la risoluzione di Giuda di attuare il suo tradimento – desta grandi perplessità. Non è di facile comprensione infatti immaginarla associata all’episodio appena accaduto: come può Gesù affermare «Ora il Figlio è stato glorificato», se la scena precedente dell’uscita di Giuda è tutto tranne che una glorificazione? «Perdere un discepolo non è mai un onore, non è mai una gloria; perdere un discepolo è una sconfitta. E lo è talmente, che Gesù era rimasto sconvolto (v. 21) al solo pensiero del tradimento» [P. PEZZOLI, Giovanni 13-17, in AAVV., Scuola della Parola 2002, Diocesi di Bergamo, 225]. Di che gloria sta parlando dunque?

Forse dell’unica gloria che ha una consistenza vera… e che, sempre Pezzoli, prova a raccontare così: «Il Figlio dell’uomo è stato glorificato perché nella notte di Giuda è apparsa la luce dell’amore di Gesù che ha integrato il tradimento. Anche attraverso il tradimento di Giuda, si manifesta quell’amore “fino alla fine”, quell’amore perfetto che è il tema di questa parte finale del vangelo. Ciò che glorifica Gesù e glorifica Dio non è il tradimento di Giuda, ma quell’amore che si manifesta anche di fronte al tradimento, anzi arriva al massimo davanti al tradimento perché si rivolge anche a quello. Viene dato il boccone anche a colui che tradisce, anche per lui c’è la vita donata nella morte provocata proprio da quel tradimento. Ecco la gloria di Gesù! È il raggio di luce che illumina quella notte. È la gloria dell’amore, è lo splendore dell’amore di Dio che si manifesta in Gesù».
Interessante infatti poi la reciprocità della glorificazione, che questi versetti esplicitano: per ben cinque volte è ripetuto il verbo glorificare, attribuito di volta in volta al Figlio e al Padre, come a dire che questo “di più dell’amore” che caratterizza la vita del Figlio non è qualcosa di slegato dal Padre: come se Gesù “fosse stato tanto buono”, ma poi Dio arriverà a far tornare i conti… No! Gesù è Dio e Dio è Gesù; nel senso che è dentro la fornace trinitaria che arde questo “di più dell’amore”; è lì che il Figlio l’ha “imparato”; e la sua vita, con il suo concreto e storico decidere di se stesso (decidere di volta in volta chi essere) è la piena rivelazione di Dio (così come ricorda DV 4: Dopo aver a più riprese e in più modi, parlato per mezzo dei profeti, Dio «alla fine, nei giorni nostri, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2). Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e spiegasse loro i segreti di Dio (cfr. Gv 1,1-18). Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come «uomo agli uomini», «parla le parole di Dio» (Gv 3,34) e porta a compimento l'opera di salvezza affidatagli dal Padre (cfr. Gv 5,36; 17,4). Perciò egli, vedendo il quale si vede anche il Padre (cfr. Gv 14,9), col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione che fa di sé con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l'invio dello Spirito di verità, compie e completa la Rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna!).


Precisamente in questa dinamica trinitaria, in cui il Padre è glorificato «perché nei gesti di Gesù, nei suoi atteggiamenti (la lavanda dei piedi, l’accoglienza di Giuda, l’atto di consegnarsi alla croce), si manifesta l’amore di Dio» e «Gesù viene glorificato, perché la sua umanità diventa la trasparenza di Dio» [Pezzoli], viene invitato ad entrare l’uomo: «Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».

«Ecco il tanto discusso specifico cristiano, il nuovo statuto antropologico – come ristrutturato sul nuovo Adamo: sic-come io vi ho amato, amatevi anche voi (causale ed imitativo). Non è una nuova legge, un super-comandamento: Lui si è piuttosto innamorato di noi: uscito da sé si è abbassato fino a noi, per condividere la nostra sorte… tutto il resto è una conseguenza interna dell’amore. Non si può imitarlo senza innamorarci (decentrarci) anche noi» [Giuliano].

Ecco perché non c’è nient’altro da fare nella vita (cristiana) che rimettersi sempre dentro a questo flusso di amore che ci investe e ci trascina agli altri e dal quale noi ogni tanto ci sottraiamo perché ci pare sempre un dono in perdita, perché ci spaventiamo della morte, abbiamo paura del dis-perderci e vorremmo trattenerci un po’ per noi e tra noi… ma credere a Dio per un cristiano non vuol dire altro che credere a Gesù e credere a Gesù non vuol dire altro che aprire i propri canali al circolo del “di più dell’amore” che dilata sempre più la nostra interiorità, «per farci stare ognuno e ogni cosa che chiederà uno spazio – è terreno tuo che offri alla dilatazione del Regno» [Giuliano].

E in questo senso «è interessante anche un altro aspetto di questo comandamento: “Così come io vi ho amato, amatevi gli uni gli altri”. Secondo una certa logica, avrebbe dovuto dire: “Così come io vi ho amato, voi amate me”. L’amore di Dio scende su di noi, ma il movimento inverso non è quello di risalire, bensì il diffondersi nel mondo. Certo, poi la risposta ha sempre una dimensione verticale, ma il Nuovo Testamento è molto parco nel parlare di amore nostro per Dio» [Pezzoli]! «Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).

Ecco, la Chiesa è il “luogo” dove ci si ama gli uni gli altri, dove si devono sperimentare e vivere relazioni nuove, dove ciò che è distintivo è il “di più dell’amore” per ciascuno… Anche tutto il resto è importante, ma questo – a detta di Gesù, durante l’ultima cena – è il discrimine. Per questo la gloria del Padre e del Figlio trasborda (lo Spirito!) nella costituzione di una comunità che crede all’amore di Dio, se ne lascia convertire le dinamiche profonde seppellite nei meandri della nostra umanità, e di esso vive… “buttandolo” su altri.

In questo infatti sta la “novità” di questo comandamento nuovo, che non è un comandamento. Come ricorda Pezzoli, infatti, «esistono dovunque tra gli uomini convinzioni o comandamenti che insegnano come l’altro, il prossimo, vada amato, apprezzato, accolto e rispettato; soprattutto molto aveva insegnato su questo l’Antico Testamento. E allora in che senso è il nuovo comandamento di Gesù? Principalmente a motivo di quel “come io ho amato voi”. L’amore coltivato dalla comunità di Gesù non è una generica apertura all’altro, ma è il riflesso di quell’amore conosciuto nella vita di Gesù, nei suoi gesti, nelle sue parole». È l’assunzione della dinamica trinitaria… che ci ha investito, ci ha convinto, ci ha riplasmato…

E allora l’amore della comunità di Gesù è inevitabilmente strutturato come quello trinitario, che si riversa sempre su un altro, perché funziona per contagio: come il Padre e il Figlio non rimangono lì soli nell’eternità ad amarsi, ma trasbordano e “buttano fuori” lo Spirito (che è l’amore che si vogliono – infatti Egli procede dal Padre e dal Figlio – e travalica il rapporto duale), così gli uomini e le donne investite dall’amore di Dio non restano lì semplicemente a ri-amarlo, ma lo “buttano fuori”, lo riversano su altri… innestando una reazione a catena che davvero può raggiungere i confini del mondo (geografici e interiori).
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...

I più letti in assoluto

Relax con Bubble Shooter

Altri? qui

Countries

Flag Counter