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venerdì 24 settembre 2010

XXVI Domenica del Tempo Ordinario: Meglio essere ricchi o poveri?

La parabola del vangelo di Luca che la Chiesa ci propone in questa ventiseiesima domenica del Tempo Ordinario, è una di quelle che merita una spiegazione previa. Infatti il riferimento al povero Lazzaro «portato dagli angeli accanto ad Abramo» e al ricco epulone che stava «negli inferi fra i tormenti […] lontano», ci porta subito a pensare a quelli che noi abitualmente chiamiamo “paradiso” e “inferno” e rischia di farci fraintendere il tutto.


Sentendo infatti parlare di aldilà, di inferno e paradiso, di angeli e di tormenti, il contesto culturale cattolico in cui siamo immersi da quando nasciamo e cresciamo, fa scattare come un meccanismo automatico per cui non ascoltiamo più cosa dice davvero la parabola, ma ci fissiamo sul “già noto”, sulla necessità di comportarsi bene per “meritarsi” il paradiso, sull’imperativo di evitare il male per non finire all’inferno, identificando con “l’essere buoni” o “l’essere cattivi” qualcosa che da sempre ci dicono: una rigorosità morale in ambito sessuale, una mortificazione della nostra spontaneità, una puntualità legalistica nella partecipazione alle celebrazioni sacre, ecc… ecc… ecc…

Questa prospettiva però – che probabilmente ha avuto una sua ragion d’essere in passato – oggi risulta un po’ riduttiva: ciò che infatti all’uomo odierno non risulta chiaro è il perché (o se volete il per chi) di tutti questi moniti e accorgimenti. In una società in cui l’aldilà non è più dato per scontato – come invece avveniva un tempo – la grande preoccupazione dei più infatti è molto più legata al “come tirare a campare nell’aldiqua” piuttosto che al come porsi per l’aldilà.

Questa prospettiva, che forse qualcuno giudicherà di cattivo auspicio, sottolineando come si sia persa la tensione per l’infinito, l’eterno, la cura dell’anima, ecc., in realtà ha la sua buona dose di bontà nella misura in cui arriva forse a cogliere meglio la prospettiva autentica con cui Gesù intendeva la parabola.

La preoccupazione di Gesù infatti – ad una lettura scevra dai nostri preconcetti sul paradiso e sull’inferno – non è affatto quella di delineare un’escatologia: qui Gesù non sta dicendo che c’è l’inferno, che è fatto in un determinato modo, che alcune tipologie di persone sicuramente ci finiranno… La sua preoccupazione è per la vita nell’aldiqua!
Certo usa la cultura del suo tempo – che implica una certa visione del dopo morte – facendo riferimento agli inferi e agli angeli, ma con lo scopo di parlare della storia di questo nostro mondo, non di quell’altro.

È come se, a partire dalla prospettiva finale della vita di ciascuno, provasse a illuminarne il percorso, fissando quindi l’interesse non sulla meta, ma sul cammino da fare: come un atleta che immagina il traguardo, ma per sapere come allenarsi per correre i 100 m che precedono la linea finale; o come un regista, che a partire dall’idea di “lieto fine” che vuol dare al suo film, pensa a come raccontarne la trama…

Questo va detto, perché altrimenti le parole del vangelo di questa domenica (che – come vedremo – non sono per niente scontate rispetto alla nostra idea di aldilà e aldiqua), rischiano di scivolarci via senza nemmeno interpellarci, perché tanto – pensiamo – dell’escatologia cristiana sappiamo già tutto: sappiamo dell’inferno in cui vanno i cattivi, del paradiso in cui vanno i buoni, del purgatorio per i “così così” e di cosa si deve o non si deve fare per arrivarci.

In realtà, a far lo sforzo di lasciar da parte tutto quanto “già sappiamo” e di andare a leggere bene quel che dice Gesù, un primo grosso pregiudizio cade: non si dice che il ricco fosse malvagio, né che il povero Lazzaro fosse buono. Si dice solo che l’uno «indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti» e che l’altro «stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe».

Certo, qualcuno potrebbe obiettare che la colpa del ricco sta nel fatto che durante tutta la sua vita non ha fatto nulla per questo povero (non gli ha fatto l’elemosina!), pur sapendo della sua esistenza (era proprio lì, fuori da casa sua), ma in tutta la parabola non si fa cenno a questa colpa; perfino quando Gesù mette in bocca ad Abramo le parole di spiegazione per il ricco della situazione in cui si viene a trovare dopo morto («Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti») non v’è riferimento alcuno alla “mancata elemosina” o al fatto che il problema stia nel non essersi accorto e preso cura del povero seduto alla sua porta.

Queste spiegazioni – pur legittime – ce le diamo noi, le ha date per decenni l’omiletica, ma in sé la parabola non vi fa cenno: la parabola cioè non moralizza il problema, non si concentra su “che cosa ha sbagliato il ricco per finire all’inferno”, che invece a noi interessa molto, perché – come tentavo di dire prima – la nostra lettura è sempre inficiata da questa prospettiva: nel vangelo c’è scritto cosa fare e non fare per non andare all’inferno; dove a predominare è sempre la logica della paura di Dio (che mi può spedire all’inferno) e la “giusta” ansia di capire come non farlo arrabbiare…

Il vangelo invece non segue questa prospettiva: il cosa fare / cosa non fare per non andare all’inferno non è la sua preoccupazione; la paura di Dio e la relativa ansia sul da farsi per non farlo arrabbiare, non rispecchia l’immagine del Padre che Gesù tratteggia. Il vangelo vuol dire altro, Gesù vuole dire altro! Qualcosa che lascia del tutto in secondo piano il “da farsi” e vuole piuttosto concentrarsi sull’ingenerare in chi lo ascolta una logica diversa, una prospettiva, una mentalità, un volto di Dio e di uomo diversi.

Non a caso – come dicevo – la questione non sembra essere morale. Il ricco è all’inferno non perché è cattivo, ma perché è ricco. E il povero è con gli angeli, non perché era buono (non si sa, stando al testo!), ma perché era povero.

Ciò che emerge allora pare essere non tanto una (o più) azioni malvagie, una (o più) azioni buone, ma l’ingiustizia radicale dell’essere ricco: «Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti». Una frase che sembra quasi portare a dire: era meglio nascere povero e patire per un po’ (nell’aldiqua), ma godere per sempre (nell’aldilà), che nascere ricco e godere per un po’ (nell’aldiqua) e patire per sempre (nell’aldilà).

Siccome però – come mostrato prima – a Gesù sembra interessare poco in questa circostanza l’aldilà, bisognerebbe quasi arrivare a dire, semplicemente: meglio nascere povero, che nascere ricco nell’aldiqua: non perché si avrà il contraccambio nell’aldilà, ma perché nella visione di Gesù della storia dell’aldiqua (guardata, sì, a partire dalla fine, ma solo per averne il giusto punto prospettico) è meglio essere poveri.

Questa è la paradossalità della parabola. Nessuno di noi infatti direbbe questa cosa così nuda e cruda: noi – appunto – diremmo “è meglio essere poveri nell’aldiqua, per essere ricchi nell’aldilà”; oppure “il problema ricchi-poveri andrebbe risolto non con l’eliminazione dei ricchi, ma con l’eliminazione dei poveri”, e via discorrendo…

Gesù invece “entra a gamba tesa” su questi giri di parole e dice “meglio essere poveri”.

Tra l’altro non lo dice solo qui, di modo che uno possa sempre pensare che magari è stata una svista dell’evangelista, o del copiatore, o del traduttore, o dell’interprete… ma lo ripete continuamente: basti guardare alle beatitudini («Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio», Lc 6,20; tra l’altro – a fugare ogni dubbio – unica beatitudine di Luca al presente, onde evitare che “regno di Dio” voglia dire “paradiso”), al giovane ricco («Il giovane se ne andò, triste; possedeva infatti molte ricchezze», Mt 19,22), o a tutti i passi in cui la ricchezza è identificata come un ostacolo alla bellezza della vita per l’uomo (questo è il regno di Dio!): «Non potete servire Dio e la ricchezza», Mt 6,24; «la seduzione della ricchezza soffoca la Parola ed essa non dà frutto», Mt 13,22; «è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio», Mt 19,24… Senza contare che lui per primo visse da povero…

Come a dire che dentro a questa categoria dell’umano che noi istintivamente rifuggiamo, c’è qualcosa che invece è in sintonia col “mondo come Dio lo pensa”, con l’idea che Lui ha della nostra felicità, della nostra “buona riuscita”, della pienezza della vita. E al di là di tutte le poesie che si possono fare sulla povertà, sulla libertà interiore che essa “regala”, ecc… credo che l’elemento decisivo stia nella restituzione della qualità originaria e autentica della vita dell’uomo cui la povertà fa accedere, a renderla così ben vista agli occhi di Dio.

L’essere ricco infatti è la grande illusione per l’uomo, è il grande inganno sulla sua vera realtà, su chi è lui veramente: cioè povero e dunque inevitabilmente necessitato da un affidamento… cioè figlio. Illudersi di non essere poveri, fa dimenticare di essere figli, che – avendo un Dio che è Padre – vuol dire condannarsi all’infelicità.

«L’uomo è povertà. In quanto oggetto e destinatario dell’agape l’uomo è l’essere-di-bisogno; dove bisogno dice a un tempo la relazione a un insieme di beni da fruire e la problematicità del possesso di quei beni. Nella prima faccia il bisogno dice ricchezza, almeno virtuale, potenzialità di espansione e di felicità; nella seconda, dice che ogni bene conquistato non è mai garantito, che ogni ricchezza acquistata è sempre insicura, ogni espansione precaria, ogni felicità fragile. Non siamo mai le cose che abbiamo, neppure le più intime: il nostro modo di essere è l’avere, in un senso più profondo di quanto dica l’abituale distinzione tra essere e avere. Infatti quella distinzione si istituisce sul piano valutativo, come discriminazione tra beni autentici e beni estranianti; ma sia gli uni che gli altri non diventano mai noi stessi al punto da essere inalienabili, rimangono sempre sotto il segno dell’aleatorietà. Qui non siamo più sul piano della valutazione, ma della struttura dell’esistenza umana, di quella che possiamo chiamare povertà radicale dell’uomo. […] Povertà non è sinonimo di finitezza. Un essere finito potrebbe avere tutto ciò che gli compete, e averlo in maniera così salda e sicura da non correre pericoli per la propria realizzazione: […] parlare di povertà in questo caso avrebbe senso soltanto misurando l’uomo su un metro, a lui estrinseco, di infinito. […] Povertà non è limite del proprio essere; è limite dentro il proprio essere. […] Ma abbiamo detto povertà radicale. E con questo intendiamo porre una distinzione tra le situazioni attuali, effettive, di povertà e quella condizione di base, quella fragilità che permane anche nelle situazioni di opulenza e di esteriore sicurezza, e che nessun possesso o potere può superare. […] È questa crepa che chiamo povertà radicale; quella che una famosa immagine biblica chiama i piedi d’argilla che reggono la statua di metalli preziosi. […] Ma: gloria Dei vivens pauper. Quest’espressione di Oscar Romero, che riprende e precisa quella di Ireneo (gloria Dei vivens homo), costituisce la definizione dell’essere umano alla luce dell’agape divina. Dire che Dio ama l’uomo come altro da sé equivale a dire che nell’uomo egli ama il povero: non ciò che l’uomo ha ed è, ma quell’essere-di-bisogno che è bisogno di avere e di essere. […] Ma proprio questa povertà, che in sé non ha né è nulla di amabile, viene amata da Dio e da lui colmata: e in questo gesto Dio si rivela Dio. Dunque, la volontà di colmare il povero – ogni uomo in quanto povero – è la parola originaria che Dio dice su di sé: è la sua gloria. Quando parliamo della predilezione di Dio per i poveri non tracciamo un limite al suo amore – quasi Dio amasse soltanto coloro che sono attualmente poveri – ma indichiamo il luogo privilegiato in cui riconoscere questo amore. Nella preferenza di Dio per i poveri attuali si testimonia la qualità del suo amore per tutti gli uomini nella loro povertà radicale» [A. RIZZI, Dio in cerca dell’uomo].

sabato 18 settembre 2010

XXV Domenica del Tempo Ordinario: Fatevi degli amici con la disonesta ricchezza

Il vangelo che la Chiesa ci propone in questa venticinquesima domenica del Tempo Ordinario, è uno di quei testi che va letto diverse volte, prima che riesca a convincere di essere davvero tratto dal Nuovo Testamento – «fatevi degli amici con la ricchezza disonesta» (?!?) – e prima che si colga bene quel che vuole arrivare a dire: la spiegazione della parabola sembra infatti continuamente correggersi… in principio c’è una lode per l’amministratore disonesto («Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza»), ma subito sembra che egli sia da far rientrare nella categoria dei “figli di questo mondo” in opposizione ai “figli della luce” («I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce»); vi è poi l’invito sconcertante «fatevi degli amici con la ricchezza disonesta», seguito però subito da un’affermazione che pare screditare la disonestà: «Chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».


Dunque bisogna essere disonesti o no?!?

In altre parole… Cosa sta dicendo il Signore in queste sue parole che Luca riporta?

Io credo che innanzitutto sia necessario chiarirsi le idee riguardo alla “disonestà” chiamata in causa, perché i diversi accenti che si possono dare a questa parola sono quelli che fanno oscillare in un verso o nell’altro il senso del nostro brano.

Noi infatti immediatamente attribuiamo alla locuzione “disonesta ricchezza” tutta una gamma di riferimenti alla criminalità che quotidianamente giunge alle nostre orecchie: furti, corruzioni, affari illeciti, mafie, lobby, ecc… ecc… ecc… E l’obiezione che ci nasce istintiva è quella per cui ci vien da dire: Ma il Signore sta elogiando questi signori, questi modi di stare al mondo? Con una certa trepidazione nel rispondere perché, da un lato è ovvio che “Così non può essere”, ma dall’altro non si sa bene come collocare le parole di Gesù («fatevi degli amici con la ricchezza disonesta»), che sembrano piuttosto evidenti e “smontabili” sono attraverso dei gran giri di parole che però ci lasciano con un pugno di mosche in mano e tanta confusione…

Ciò che, però, potrebbe indirizzare la nostra riflessione è, come si accennava, il tentativo di comprendere un po’ più in profondità l’espressione “disonesta ricchezza”, soprattutto trovandole un senso che sia coerente anche con il prosieguo del discorso, quando addirittura si invita alla fedeltà nella ricchezza disonesta («Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera?»), che sembra un’insensata antitesi – come si fa ad essere fedeli (dunque in qualche modo “onesti”) nella disonestà? – ma che lascia già trasparire che la nostra immediata associazione alle attività criminali non è forse quella più corretta…

Ciò che infatti emerge soprattutto da quest’ultima menzione della “disonesta ricchezza” è il suo essere in antitesi non con quella “onesta”, ma con quella “vera”; a dire che in gioco non vi è la legalità o meno di un certo atto, ma l’intero impianto dei rapporti umani: la “disonesta ricchezza” non è qui il frutto di un furto (comunque esso sia inteso), ma la logica mondana dell’impostazione relazionale tra gli uomini e le cose e tra gli uomini tra di loro. La “disonesta ricchezza” è l’ingiusta economia umana, dove “economia” ha il respiro ampio che proviene dalla sua etimologia.

Da questo punto di vista nella “disonesta economia” non si può decidere di entrare con un atto della propria volontà che deliberatamente si esprime per la scelta di commettere azioni illecite e criminose… più radicalmente nella “disonesta economia” ci troviamo immersi… la ereditiamo e contemporaneamente la rilanciamo: «La ricchezza infatti è, per definizione, sperequazione. Ogni bene che hai in più dell’altro, gli è tolto, e diventa indigesto! Questa ingiustizia non è rimediabile neanche con il crisma cristiano. […] Nessuno può sfuggire alla necessità di gestire i suoi beni, piccoli o grandi che siano. Beni economici, ma non solo, forse soprattutto beni di mente e di cuore… che sono un immenso privilegio, visto che tanta gente ne patisce la mancanza. Il profeta ha parole terribili contro chi compra i poveri come merce e li calpesta… E nella Parola di Dio ci sono le risposte migliori che l’uomo ha scoperto nella sua storia e possono illuminare la sua “amministrazione”. Ma non risolvono il problema della scadenza del nostro impegno, che arriverà, quando non avremo ancora finito di “aggiustare” l’ingiustizia in cui siamo immersi. La sofferenza, la miseria, la fame, ci saranno ancora, dopo i nostri irrinunciabili tentativi di bene!» [Giuliano].

È dentro qui, dentro a questo scenario che l’amministratore della parabola viene lodato, per la sua saggezza («è la stessa parola usata per il comportamento “saggio” di chi mette fondamenta solide alla sua casa – Mt 7,24 –, per le vergini “sagge” che si premuniscono di olio – Mt 25,2ss… Per chi capisce, dunque, il cuore del messaggio evangelico e cerca di “adeguarsi” alla situazione completamente nuova che Gesù è venuto a portare» [Giuliano]): egli, infatti, dentro ad una situazione in qualche modo irrisolvibile (che per lui era la perdita dell’amministrazione – «Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare» – e per noi è la “disonesta ricchezza” in cui siamo immersi come singoli, come Chiesa, come umanità) adopera l’unico criterio d’azione “vero” (in linea cioè con la “ricchezza vera” che il Signore, parlando, metteva in antitesi con quella “disonesta” degli uomini), che è l’amicizia: «L’amministratore adesso ha l’obiettivo di far felici i lavoratori. Finalmente si occupa del loro bisogno(dei loro debiti impagabili) e non della loro più o meno insufficiente produzione. Il fattore sa che la dinamica del dono è contagiosa e inizia un circuito di benevolenza nel quale dovrà per forza essere coinvolto anche lui, e troverà così anche lui la casa e la sicurezza che ha perduto. Questo amministratore è saggio. Ha capito bene, al di là dell’apparente imbroglio, le vere intenzioni del suo Padrone. Sa che, alla fine, sarà “elogiato”. Ha trasformato il suo mestiere e tutta la sua vita sulla misura e sulla forma della vita del suo Signore: ha messo tutto il suo piccolo potere, la sua creatività e il suo impegno …a farsi degli amici, perché l’amicizia e la solidarietà sono gli unici strumenti validi che non patiscono la scadenza del mestiere di vivere quaggiù. […] Solo così si capisce chi è veramente il nostro Padrone definitivo e quale strana logica antieconomica hanno praticato, tra lui e suo Padre. Questi, rimproverato, perché coccolava troppo il figlio scappato di casa. Rimbrottato, perché pagava uguale gli operai dell’ultima ora e quelli della prima. Gesù poi lasciava sprecare un balsamo che valeva centinaia di euro. Prevedeva una gerarchia in paradiso con in testa le prostitute e i pubblicani…, sosteneva che la roba si accumula e centuplica a darla via, non a tenerla per sé … Ecco l’antidoto, il fermento evangelico, il vino nuovo… Che non ci è dato per sostituire il nostro impegno di giustizia, ma per trasformare il mondo sempre relativamente ingiusto, in un luogo in cui l’amore e la misericordia, senza calcoli, siano l’estrema misura di tutti i rapporti» [Giuliano].

lunedì 13 settembre 2010

Sole Nero



La notizia è alluccinante... mi chiedo cosa aspettano i cristiani a mandare nei bassifondi della storia tanta demenziale arroganza!
Di cosa parlo? Cliccate qui!

domenica 12 settembre 2010

XXIV Domenica del Tempo Ordinario: Il bisogno di sicurezza

Le letture che la Chiesa ci offre per questa ventiquattresima domenica del Tempo Ordinario, oltre ad essere molto lunghe, hanno anche un contenuto talmente denso, che su di esse bisognerebbe stare molto più che una settimana. Molte infatti sono le piste di indagine che esse dischiudono e su cui sarebbe bello avventurarsi, ma inevitabilmente, a me, qui, è possibile percorrerne solo una, quella che subito mi ha fatto sussultare, leggendo: e cioè l’umano bisogno di sicurezza che fa da sottofondo a tutti i testi proposti.

Leggendo il brano dell’Esodo infatti – un brano già chissà quante altre volte ripercorso – per la prima volta mi è venuto da guardare le cose non dal punto di vista di Dio – col quale così facilmente e impropriamente ci sentiamo solidali nell’indignazione per il peccato altrui –; non dal punto di vista di Mosè – col quale altrettanto facilmente e altrettanto impropriamente ci sentiamo solidali nell’eroismo da “salvatori della patria” o dell’anima altrui –; ma dal punto di vista di chi stava giù dal monte, del popolo peccatore ed idolatra. E mi è venuto da dire: “Io questi qui li capisco proprio!”.

Sono nel deserto (metafora fin troppo chiara di tanti dei momenti della nostra vita), Mosè è salito sul monte a colloquio col Signore, ma tarda a scendere (quindi anche chi fino a quel momento gli aveva suscitato – in maniera più o meno convincente – un po’ di sicurezza, non c’è)… è normale che si spaventino e cerchino – in un terreno che gli frana inesorabilmente sotto i piedi – di trovare qualcosa che “tenga”, che sia (o almeno sembri) solido… qualcosa che dia sicurezza… qualcosa a cui attaccare la vita, la propria vita, che altrimenti pare dissolversi nel niente. Ecco perché il vitello! Ed ecco perché io li capisco così tanto…

Noi forse non facciamo più idoli d’oro, ma il bisogno di sicurezza e di trovare qualcosa a cui attaccare la vita, che altrimenti – ci pare – si sfalda, è il medesimo di allora: da questo punto di vista i millenni non hanno scalfito l’animo dell’uomo, e – ora come allora – attraversiamo questa storia con un crescente senso di inquietudine e paura, che ci porta a mietere vittime tra le cose che ci circondano, le persone, Dio stesso. Tutto diventa una possibile stampella per il mio incedere zoppicante, ferito originariamente dalla consapevolezza che un giorno finiremo stesi e immobili in una cassa; tutto diventa possibile cibo, da assumere voracemente per calmare almeno un po’ quello stomaco affamato di infinito, di assoluto, di totale, che ci hanno dato purtroppo con un difetto di fabbrica (ha dentro un buchino, che – come per i palloncini di plastica – non gli permette mai di essere pieno); tutto diventa mezzo per il mio bene, la mia sicurezza, la mia pace, la mia salvezza… perfino Dio…

Esattamente come per quel fratello maggiore della parabola, che non era diverso – nella struttura di fondo – da quell’altro che tanto biasimava: mentre il più giovane infatti, aveva messo la sua sicurezza nella sua spavalderia “da giovane”, appunto – quindi nell’avventura di prendere i suoi soldi, di uscire di casa e andare sulla sua strada – lui aveva perseguito lo stesso scopo – di possedere una sicurezza esistenziale – nel seguire a puntino la legge paterna, sperando così – come si evince bene dalle sue rimostranze («Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici») – di averne qualcosa in contraccambio, qualcosa su cui – appunto – appoggiarsi, sostenersi… qualcosa di sicuro da avere.

Ciò che distingue i due fratelli e che istintivamente ci rende più simpatico quello scapestrato, è che la ricerca di sicurezza di quest’ultimo, anzi la sua certezza di trovarla fondandosi solo su se stesso, fallisce (come la nostra)… mentre il primo vive ancora nell’illusione di bastare a se stesso… nell’illusione che i suoi calcoli alla fine si riveleranno giusti…

Anche noi in alcune fasi della vita ci siamo sentiti (o ci sentiamo) “giusti” come il maggiore, coi “calcoli che tornano”, che devono tornare, altrimenti ce la prendiamo sul serio anche noi (!) con gli altri; in altre invece ci siamo sentiti come il piccolo, sperimentando davvero di non farcela e comprendendo come la sicurezza fondata su noi stessi (per mezzo degli altri, cioè che ha gli altri come mezzi) non tiene. È come il vitello d’oro. È un’illusione: promette vita, ma porta alla morte.

Sono come due anime entrambe presenti in ciascuno e come sempre poste in circolarità l’una con l’altra… prima del “fallimento” delle nostre illusioni di bastare a noi stessi, credevamo davvero in esse… e – purtroppo – anche dopo aver sperimentato il loro “fallimento” torniamo a crederci, quando – ricomposta un po’ la ferita della “rovina” precedente – ci rimettiamo a costruire qualcosa in cui ritorniamo sempre ad essere noi i protagonisti… fino al prossimo rovinare per terra come un castello di carte…

La parabola mostra come ciò che può arrivare a rompere questa circolarità sia la presa di coscienza (mai definitiva e sempre da riportare a consapevolezza) che l’esperienza del non bastare a se stessi non è contingente, non è “perché stavolta mi è andata male, ma la prossima volta faccio meglio i calcoli”… ma è la condizione esistenziale della nostra vita, che difatti ha la sua chiave di volta nell’affidamento ad un altro: «Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre». Dove la differenza sta appunto nel riconoscimento dell’impossibilità di darsi una sicurezza da sé – foss’anche usando gli altri, le altre cose, Dio come mezzi per sé – e nel consegnarsi nelle mani di un Altro.

È sottile la differenza tra consegna e utilizzo dell’altro per fondare la propria sicurezza (anche linguisticamente parlando), soprattutto nella relazione con Dio, ma la questione sta tutta qua, come ben dice Paolo nella seconda lettura di questa domenica: «Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti (la vecchia traduzione diceva: sicura!): Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io»; ma chi la accoglie – chi dunque vince la paura di non tenersi in mano – stando al Vangelo, non trova l’abisso del dissolvimento nel niente, ma un padre che «Quando era ancora lontano, lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. […] disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciano a far festa».

giovedì 9 settembre 2010

L'eletto

di Giovanni Sartori in Il Corriere della Sera

Lo spettacolo della politica italiana è caotico e disperante. In tanto caos l’unico punto fermo che ci resta è la Costituzione. Ma anche la nostra Costituzione viene sempre più «forzata» da letture che la distorcono.

Cominciamo da un dato incontestabile: le democrazie moderne non sono democrazie dirette. Tali furono la democrazia ateniese (che già Aristotele riteneva una forma cattiva del «governo dei molti »), nonché le piccole democrazie fiorite, e presto sfiorite, nel Medioevo; e tali restano le democrazie cittadine di piccole comunità. Ma la democrazia «in grande» degli Stati territoriali non sono mai state, né possono essere, democrazie dirette. Sono invece democrazie indirette fondate sul principio della rappresentanza, e perciò democrazie rappresentative. Il loro meccanismo è che il demos, il popolo, elegge in quanto titolare del potere assemblee di rappresentanti che a loro volta esercitano il potere tra una elezione e l’altra. E la rappresentanza in questione viene configurata, in tutte le costituzioni liberal-democratiche, così: che l’eletto rappresenta la nazione (non i suoi elettori) «senza vincolo di mandato ». Questa formula risale alla rivoluzione francese del 1789 e stabilisce la differenza tra rappresentanza di diritto privato (per esempio, il rapporto tra me e l’avvocato che mi rappresenta) e rappresentanza di diritto pubblico, e cioè la rappresentanza politica.

I vari parlamenti medievali e delle monarchie assolute erano, appunto, parlamenti di delegati che trattavano con il sovrano sulla imposizione fiscale. Il noto principio no taxation without representation, niente tasse senza rappresentanza, si fondava ancora sulla rappresentanza di diritto privato e non prefigurava in nessun modo una democrazia rappresentativa.

Eppure oggi Berlusconi, Bossi e tanti altri ancora invocano un mandato che la Costituzione espressamente vieta. Perché? A monte la colpa è del Presidente Ciampi che lasciò passare, senza fiatare e senza capire il problema, l’indicazione del nome del candidato premier sulla scheda elettorale. Il che è servito soprattutto a Berlusconi per rivendicare di essere scelto direttamente dall’elettorato. Questa rivendicazione non è comprovata dalla contabilità elettorale, visto che i voti per il suo partito ammontano, più o meno, a un terzo dell’elettorato. Ma il punto è soprattutto che la cosiddetta «scelta» del premier non è, assolutamente non è, una scelta. Una scelta presuppone che l’elettore abbia una alternativa, e quindi richiede che il nome del candidato premier stampato sulla scheda possa essere approvato oppure disapprovato (prevedendo due caselle del Sì o del No), dal votante. Il che non è.

L’idea del mandato si trasforma poi nella tesi che il governo e la maggioranza di governo sono stabiliti dagli elettori, e pertanto che il parlamento non possa creare o sostenere governi diversi da quello indicato dagli elettori. Ma allora a cosa serve il sistema parlamentare? La sua forza risiede proprio nella sua flessibilità, nella sua capacità di auto-correzione. È vero che questa flessibilità può essere abusata; ma questo abuso può essere impedito, per esempio, dal voto di sfiducia costruttivo del sistema tedesco. Altrimenti si cade in un sistema di «rivotismo continuo » che è il peggiore di tutti. E che nemmeno è consentito — sia chiaro — dai sistemi presidenziali o semipresidenziali di tipo francese. Dicevo che l’unico punto fermo che ancora ci resta è la Costituzione e un sistema costituzionale. Che oggi è insidiato da un infantile populismo costituzionale e da un «direttismo» sconfitto da duemilacinquecento anni di esperienza. Sarebbe l’ultima sciagura.

venerdì 3 settembre 2010

European Discalced Carmelites Students Meet in Malta

Raduno Carmelitani Scalzi - Studenti europei - Malta 28 agosto-2settembre 2010






Conferenza Padre Generale

XXIII Domenica del Tempo Ordinario: «Non può essere suo discepolo» chi non decide (di sé) di essere suo discepolo

Le letture che la Chiesa ci offre in questa ventitreesima domenica del Tempo ordinario, sono tutte molto interessanti e – ciascuna a suo modo – davvero capaci di smuovere le viscere della nostra pancia, anche se ad un prima scorsa non appare immediato il filo conduttore che le lega.


Soprattutto, un po’ slegato dai brani della Sapienza e del vangelo, appare il testo di Paolo a Filèmone – come è giusto che sia, dato che la prassi liturgica tende sempre ad associare la prima lettura col vangelo e proporre altri spunti di riflessione attraverso le lettere paoline e non. Eppure su queste poche righe – che fanno sì che questa lettera propriamente non sia nemmeno ricordata come una lettera, ma come un “biglietto” – non si può soprassedere a cuor leggero, perché – forse proprio per il suo contesto così particolare («Il biglietto indirizzato da Paolo a Filèmone è sostanzialmente una lettera di raccomandazione. Uno schiavo di nome Onèsimo, fuggito dal padrone Filèmone, incontra Paolo che sta in prigione; l’apostolo gli annuncia il Vangelo e lo rimanda al suo padrone con un breve scritto», La sacra Bibbia, nuova traduzione CEI) – lascia emergere un tratto della personalità di Paolo che in altri scritti resta più in ombra: frasi come «Ti prego per Onèsimo, figlio mio», «lui che mi sta tanto a cuore», «Avrei voluto tenerlo con me», «come fratello carissimo, in primo luogo per me», insieme al fatto che decida di non “scavalcare” Filèmone, avendone pure in qualche modo il diritto come apostolo, ma dicendogli addirittura «non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario», lasciano trasparire il modo in cui Paolo intendeva il rapporto fra fratelli (fra cristiani, cioè fra discepoli – seppur della seconda ora – di Gesù) e alcuni dei pilastri su cui esso si fondava: l’amore, inteso nel suo senso forte di farsi carico del destino altrui; la corresponsabilità… “pilastri” che – forse – anche noi, come singoli e come Chiesa, dovremmo una volta per tutte deciderci a scegliere come elementi fondanti le nostre relazioni, ancora spesso così incastrate invece in inutili pacche sulle spalle o in un “ricordiamoci nella preghiera”, cui non fa seguito il coinvolgersi nella sorte dell’altro, l’abitare la sua solitudine, il considerare i “suoi” problemi come i “nostri” problemi… per non parlare della corresponsabilità…

E credo che proprio a questo livello (quello cioè del chiedersi “Che cosa nella nostra vita di singoli e di Chiesa abbiamo deciso di scegliere?” – dunque: “Chi abbiamo deciso di essere?”), possiamo lasciarci interrogare dalla riflessione che il libro della Sapienza e il vangelo di Luca istituiscono.

La prima lettura, infatti, in termini incredibilmente vicini alla sensibilità dei nostri giorni, va a toccare proprio il nocciolo duro del pensare umano: «Quale, uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore? […] A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo?»; che – in termini più laici – potremmo forse tradurre così: “Quale uomo può afferrare la verità della vita? Il suo senso? Io, come posso afferrarla? Cosa devo fare? Come voglio spendermi? Per cosa vale la pena farlo? Per cosa, che non mi si sgretoli in mano come un castello di carte sul letto di morte? Chi devo essere? Chi voglio essere?”…

Ecco il punto centrale… di Paolo, della Sapienza, di Gesù… “Chi abbiamo deciso di essere?” E: “Su quale base?” – domanda forse ancora più importante, perché invera o falsifica la prima… “Su quale base?” se è così evidente che «Questa sapienza, sempre ambita dall’uomo, è biblicamente irraggiungibile se non è lo stesso spirito di Dio dall’alto, a spiegarci cosa Dio stesso (non le nostre proiezioni su di lui) vuole veramente» [Giuliano]: «Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?». Nessuno! Appunto… perché non c’è progetto umano (su sé, sugli altri, sul mondo, su dio…) che tenga, se costruito a partire da sé, perché «i ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni»… perché l’uomo non è assoluto… “ab-solutus”, sciolto da tutto: dalla storia, dalla carne, dalla «faticosa e fragilissima elaborazione del pensiero nella refrattarietà della materia», dalle «cornici culturali di lettura e interpretazione della realtà, che incapsulano il pensiero in una tenda invalicabile, più che le pareti di argilla di un vaso» [Giuliano].

“Per fortuna”, “ad un certo punto”… a Dio è venuto in mente di farsi conoscere lui, di rivelarci lui la sua identità (di Padre) che contemporaneamente svelava la nostra (di figli)… così che – come recita la mai troppo citata DV2 – «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2 Pt 1,4). Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto. La profonda verità, poi, che questa Rivelazione manifesta su Dio e sulla salvezza degli uomini, risplende per noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione».

Da allora la “base”, su cui decidere chi essere, non può essere che quella «misurata e collaudata sull’avventura umana di Gesù» [Giuliano]!

Da questo punto di vista, il brano di vangelo di Luca che la Chiesa ci propone questa domenica, è davvero emblematico, perché tratta esplicitamente del «criterio evangelico di maturazione del discepolo (“se uno viene dietro di me!”): Nel suo viaggio verso Gerusalemme, Gesù è seguito da “molte folle” di aspiranti discepoli, ancora inconsapevoli del senso e della meta del viaggio. In questo percorso verso la sua fine, ha già spiegato in vari modi la sua identità. Ora si gira verso la gente, e proclama in modo estremamente crudo e sintetico in cosa consiste questa sapienza dall’alto! Non è una dottrina, ma un atteggiamento globale verso la vita, che si può imparare perseguendo, nel contesto della propria storia, la presenza del Padre, divenuta visibile in Gesù. In lui, infatti, finalmente, “possiamo immaginare cosa vuole il Signore”, “possiamo conoscere la sua volontà”, perché Dio si è reso visibile in Gesù di Nazareth» [Giuliano].

«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo»… «chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo»…

Ecco qual è per Gesù il criterio “crudo e sintetico” dell’essere discepoli, cioè del decidere chi essere: andare dietro a lui, cioè incarnare la sua logica, tenere il suo sguardo (sulle cose, sulla gente, su se stessi, su Dio), vivere la sua dedizione… anche quando questo vuol dire incontrarsi o scontrarsi con prospettive di altro tipo – fossero anche quelle di chi amiamo di più (padre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle e perfino la nostra vita; quest’ultima sicuramente la più dura da “contra-stare”) – anche quando questo vuol dire rimanere soli…

È in questi “momenti topici” della nostra vita – quando appunto siamo soli, quando non ci sentiamo capiti, quando siamo ritenuti “folli” dai “nostri” – che radicalmente ci è chiesto di scegliere chi essere (per lui o contro di lui), ma non perché la nostra vita sia segnata da gesti eroici, ma perché quei momenti misurano quanto la nostra quotidianità sia stata istruente per fronteggiare anche momenti così decisivi. È la quotidianità della dedizione infatti che ci insegna «per progressiva modifica dell’atteggiamento profondo di fronte alla vita» [Giuliano] ad avere una tenuta (che “tiene” appunto) anche nei momenti dove il nostro dramma storico si fa più tagliente.

È stato così anche per Gesù, che non è sfuggito dal Getzemani, ma è salito in croce, non perché lì si è “improvvisato eroe”, ma perché per tutta la vita che ha preceduto quel momento, aveva abilitato se stesso alla dinamica della consegna.

Oppure – prendendo la questione per un altro verso, non alternativo, ma in circolarità con questo: le “situazioni limite” in cui amare di più lui, di tutto il resto, non sono “situazioni limite” perché disomogenee alla quotidianità, ma perché segnalano in maniera evidente quello che è sempre all’opera nella quotidianità, e cioè che c’è una scelta su chi vogliamo essere perennemente presente nelle piccole e apparentemente insignificanti decisioni e modi di essere quotidiani… sono come punti luce che illuminano il prima e il dopo: ogni attimo della vita ha infatti in sé la caratura pregnante del custodire la decisione su di sé. In ogni scelta, modo di essere, di reagire, di sentire c’è in gioco il “chi stiamo decidendo di essere”… così che se è vero che nella riflessione decidiamo chi essere e nella quotidianità lo attuiamo (o tentiamo di farlo) è anche vero che vivendo l’ordinarietà della vita costruiamo il “chi vogliamo essere”, a cui poi nei momenti di riflessione diamo un contorno più consapevolizzato.

Per questo non c’è preghiera senza vita e non c’è vita senza preghiera, perché è in questa circolarità di azione e riflessione, di pratica e di teoria, di atto e di consapevolizzazione dell’atto, che costruiamo il “chi vogliamo essere”, in un processo che – inevitabilmente – è storico, cioè si fa, facendolo… dietro a lui.
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