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venerdì 31 dicembre 2010

II Domenica dopo Natale: Ci ha scelti per essere santi e immacolati... nell’amore!

Eccoci giunti alla prima domenica del 2011, la seconda dopo Natale… e oggi, ho deciso di regalarvi una lectio un po’ meno formale del solito… cerco sempre di non esserlo troppo, ma oggi, vorrei proprio non esserlo.


E allora, inizio con una confidenza… sono ormai tre anni che faccio questo “mestiere”, di scrivere tutte le domeniche una riflessione sulle letture che la Chiesa ci offre: e siccome è ricominciato il ciclo liturgico, ogni tanto vado indietro a rivedere cosa avevo scritto tre anni prima e ogni tanto “attingo”… Forse qualcuno se ne sarà accorto, ma è stato così caro da non farmelo notare.

In occasioni come queste, poi, quelle in cui le letture non si ripetono ogni tre anni, ma ogni anno – come è appunto per il Tempo di Natale – il materiale su cui “sbirciare” è ancora maggiore…

Per cui – se qualcuno ha bisogno di una meditazione più sofisticata – vada pure a rivedere i miei scritti degli anni scorsi… Ma oggi mi va di fare così: lasciar perdere tutti gli “spiegoni” belli e necessari che andrebbero fatti e concentrarmi su un punto solo: la frase di Paolo che ci dice che cosa siamo qui a fare: «ci ha scelti per essere santi e immacolati nell’amore».

A scanso di equivoci, lo dico subito: non vuol dire irreprensibili e senza macchia nelle cose del sesso, come mi sono accorta certi pensavano quando io citavo questa frase (una delle mie preferite), ma, anzi, tutto il contrario.

Il bello di questa frase infatti – e il motivo per cui mi piace anche spesso citarla – è quello che – se la dici bene – riesci a creare un effetto scaravoltante nell’interiorità della gente. Noi infatti quando sentiamo che dobbiamo essere santi e immacolati, non ci scuotiamo nemmeno di un millimetro: è la morale che da sempre ci sentiamo ripetere dagli altri e abbiamo noi stessi ripetuto ad altri… che bisogna essere bravi, che bisogna comportarsi bene, che non bisogna fare il male, soprattutto quello che – appunto – ha qualcosa a che vedere col sesso, perché – si sa – lì c’è qualcosa di particolarmente grave… e bisogna fare così o non fare cosà perché poi ci sarà un giudizio, per cui non bisogna “sporcare” l’anima, bisogna arrivare lindi all’appuntamento (da cui l’importanza di confessarsi, almeno prima di morire) e così meritarsi il paradiso, o, per lo meno, riuscire a evitare l’inferno…

E se vi sembra una lettura un po’ canzonatoria o ridicolizzante, avete ragione… ma il dramma è che è quella più diffusa tra la gente normale, anche quella dotta… quando la gente pensa al cristianesimo, pensa a questo: una morale, con le sue leggi, i suoi divieti, le sue sanzioni, i suoi premi, il suo giudice, la sua bilancia, ecc…

E infatti lo si vive così: senza saper rendere ragione del perché non si debba fare il male ma piuttosto il bene e proponendo come unico tentativo di argomentazione quello dell’inferno e il paradiso…

Solo che ormai non ci crede più nessuno (perché, a differenza dei primi 1600 anni dell’epoca cristiana, in cui il problema era andare in paradiso, perché si dava per scontata l’esistenza di Dio, oggi il problema – direi il dramma umano – è se Dio c’è o no) e così viviamo o facendo tutto quello che per i nostri nonni era assolutamente da evitare (perché se poi Dio non c’è non vorremmo aver sprecato l’occasione), o tentando di fare gli equilibristi tra “lo faccio” / “non lo faccio”, perché se poi magari è vera la storia dell’inferno, è meglio andar sul sicuro: per cui “lo faccio, ma con moderazione”…

Un parallelismo interessante: se Dio c’è, dobbiamo castrarci la vita; se non c’è, possiamo godercela… come se Dio fosse il Dio della morti-ficazione della vita e la sua assenza, la possibilità della vita… strana sorte per quello che voleva essere un lieto annuncio…

Ecco… io credo che questo in sintesi renda bene l’idea di ciò che percepiamo quando sentiamo la frase di Paolo, per cui dobbiamo essere santi e immacolati: se Dio c’è, addio Vita…

Ma se – con Paolo – diciamo «santi e immacolati nell’amore»…
ecco lo scaravoltamento! Si apre tutta un’altra prospettiva (che a me pare quella autenticamente evangelica): bisogna essere irreprensibili e senza macchia non nella morale (comunemente intesa) ma nella donazione del nostro amore, nella nostra capacità di custodia, di dedizione, di tenerezza, di cura, di fedeltà… nella determinata determinazione di dare il primato al volto dell’altro, di fare spazio perché l’altro ci stia, di dare la vita per lui, chiunque esso sia… insomma di fare ciò di cui davvero il nostro cuore ha sete (perché questo c’è davvero nelle profondità di ciascuno… amare ed essere amati, tanto da poter offrire/trovare due braccia tra cui morire), ma che spesso soffochiamo per paura, disillusione, ritorsioni, rancori, ferite… dedicandoci ad altro e distraendoci, in altre faccende affaccendati.

Invece, questa è la buona notizia che Gesù è venuto a rivelare («Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato»), che se Dio c’è, non c’è più bisogno di salvarsi la vita da soli (a scapito degli altri) o di spremerla fino in fondo per godersela il più possibile (a scapito degli altri)… perché se c’è Lui, la tiene in mano Lui… abilitandomi a dedicarmi a ciò che c’è di più bello, che è volere bene!

Ecco lo scarto, rispetto all’altra visione… che qui, quando c’è Dio, c’è la Vita («In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini»)… e che il bene (che è sempre il “volere bene”, cioè l’amarsi!) – e non il male – è bello, rende la vita bella, ci fa più uomini/donne dilatati interiormente (che è la nuova morale riscritta da Gesù… un’anti-morale perché non ha nessun principio o paletto che sta sopra alla faccia dell’altro, che proprio per la sua unicità è non-racchiudibile in un codice legale, perché è sempre “una storia a sé”)!



L’anno scorso concludevo la lectio su questi stessi testi (intitolata “Buon anno”), con queste parole: «Il modo di salvarci di questo Dio fatto uomo è quello di farci figli: “Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso, nella porzione del Signore è la mia eredità”, “Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo”, “A quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio”.
Molti sono i modi in cui potremmo arrivare ad immaginare la salvezza che un dio può portare agli uomini e molti sono i modi in cui i cristiani stessi la pensano… ciascuno di essi rispecchia l’immagine del dio che ha in testa… Allo stesso modo, la scelta di salvarci, rendendoci figli, dice molto su chi sia Colui che questa salvezza l’ha pensata (e attuata!).
Purtroppo molto spesso l’uomo tra tutte le cose che pensa di dio, non arriva ad immaginarlo come Padre (molto più frequentate sono infatti le figure del “padrone”, del “dominatore”, del “soggiogatore”, in versioni più o meno evidenti); ma purtroppo molto spesso persino i cristiani, che dovrebbero fondare la loro fede sul vangelo, che non fa altro che ripetere precisamente la buona notizia che Dio è Padre, se la scordano e reintroducano le stesse figure pagane di un dio che semplicemente è altro da quello rivelato da Gesù.
Ma più radicalmente ancora, il problema sembra essere quello per cui anche chi incontra davvero questa buona notizia, fatica a convertirsi ad essa… a mantenerla salda in cuore… a tornare sempre a farci affidamento… La paura di un’orfanità in cui spesso ci sentiamo abbandonati e il gelo che essa fa scorrere per la spina dorsale sembra spesso prevalere… tornando a farci “vivere” da schiavi… imbruttiti dal timore della morte e dalla paura dell’altro che me la può dare…
In questo tetro scenario sentir risuonare la parola del Prologo di Giovanni, «A quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio», diventa come un caldo balsamo che penetra i nostri terrori e apre scenari nuovi, riallarga gli orizzonti, dona ossigeno all’anima: un mondo fatto di figli… fratelli…
Chissà se riusciremo a dargli credito… per quest’anno… è il mio augurio più caro».

Non so se son stata capace di vivere così quest’anno… quest’anno terribile che mi ha portato via mio fratello, provocandomi un’emorragia di umanità che non si arresta mai e che impedisce di percorrere le vie di prima per arrivare a dar credito alla Vita (servirà scavare nuovi pozzi…); ma vorrei finire il 2010 (dato che oggi che scrivo è il 31 dicembre) e iniziare il 2011 (dato che domenica sarà già il 2 gennaio) con le sue parole semplici, che hanno dissotterrato dai cuori di tante persone il lieto annuncio che dove c’è Dio c’è la Vita e che quindi «l’emorragia di umanità si cura con in reinvestimento dell’esistenza», passando in questa vita col deliberato unico scopo «di alzare il tasso d’amore nel mondo», imparando sempre «ad amare di più»… per essere santi e immacolati nell’amore!



Con i suoi auguri di un tempo, che però, proprio per il bene che c’è passato dentro, è sempre:

Carissimi fratelli e sorelle (che nutrite qualche dubbio…)
Adesso vedo, se mai riesco a dire,
almeno per Natale,
quanto vorrei confidarvi tutto l’anno.
Se per caso qualche dubbio vi è venuto,
che io, ormai, vivo lontano,
e forse neanche mi ricordo più di voi,
perché troppo indaffarato in altre faccende,
intrappolato in altre relazioni,
affascinato da altri volti…

beh!… proprio vi sbagliate!

Se pensate invece che, con infinita trepidazione,
vi so affidati ad altre sollecitudini,
collocati in altre mansioni del mondo e della chiesa,
che io guardo da lontano con riconoscenza, il vostro lavoro,
e che solo grazie a voi io posso fare il mio…
beh!… proprio avete ragione

[…]

C’è rimasta una sola parola, forse,
che ci comprende tutti:
e non discrimina mai:
“fraternità”.
Per questo con me ci siete anche voi!

[Giuliano]

venerdì 24 dicembre 2010

Santa famiglia di Gesù, Giuseppe e Maria

La Chiesa in questa prima domenica dopo Natale, celebrando la festa della Santa Famiglia di Gesù, Giuseppe e Maria, ci invita a riflettere sulla narrazione che ne racconta la storia (almeno un pezzettino…). Ma – come testimonia la scelta delle letture, tratte dal Siracide e dalla lettera di Paolo ai Colossesi – l’invito è quello di estendere la riflessione anche alle nostre famiglie…


Partiamo proprio da qui. Infatti mi pare che sia subito da mettere in luce un’indicazione interessante: e cioè il fatto che, sia la prima che la seconda lettura, parlino dei rapporti familiari all’interno di discorsi più ampi, stigmatizzando la vita di coppia o il rapporto con i figli come situazioni emblematiche per la vita. Ne parlano infatti insieme all’altra condizione fondamentale dell’uomo, quella della sua attività (cfr Sir 3,17: «Figlio, nella tua attività sii modesto»), in particolare all’interno del rapporto servo-padrone (cfr Col 3,22: «Voi, servi, siate docili in tutto con i vostri padroni terreni»). Inoltre, in modo esplicito il libro del Siracide introduce il brano dov’è contenuta la lettura di questa domenica con questa frase: «Figli, ascoltatemi, sono vostro padre; agite in modo da essere salvati» (Sir 3,1).

L’orizzonte ampio in cui si collocano le parole sui rapporti genitori-figli è allora quello della salvezza: per essere salvati, sembra dire il Siracide, è necessario che curiate le relazioni di generazione, quelle che toccano l’origine della vostra vita.

Eppure, nonostante l’evocazione di questa pista di riflessione crei notevoli aspettative, di fatto poi, la lettura del testo del Siracide, lascia una certa impressione di delusione... Non tanto per quanto dice... ma soprattutto per quanto non dice:

- si parla di onore al padre e alla madre… indicazione certo inconfutabile, se non fosse che a noi riecheggia subito nelle orecchie quanto cantava De Andrè nel suo Testamento di Tito: «Onora il padre, onora la madre e onora anche il loro bastone, bacia la mano che ruppe il tuo naso perché le chiedevi un boccone: quando a mio padre si fermò il cuore non ho provato dolore». A dire che forse non sempre l’automatismo del comandamento ha una plausibilità storica;

- si parla poi, per chi onora il padre, di esaudimento della preghiera, di gioia dai propri figli, di vita lunga... ma semplicemente noi sappiamo che non è così... basta attraversare un po’ l’umanità e le tragedie che investono la sua storia per rendersene conto: persone che sono state figli esemplari non hanno visto le loro preghiere esaudite, non hanno avuto gioia dai loro figli, non hanno avuto una vita lunga… e chissà cos’altro…;

- si parla di un padre che perde il senno, ma non sono considerate tutte le altre drammatiche situazioni che le nostre famiglie attraversano…

Non credo però ci sia troppo da stupirsi... mi pare infatti che l’intento del Siracide in questi versetti sia semplicemente quello di delineare una buona condotta familiare, contenuta in un testo più generale che vuole dare “consigli per il vivere”, attraversando molti campi esistenziali, senza la pretesa di indagarli nello specifico. E come insegna la buona esegesi, non si può far dire a un testo più di quello che dice.

Da quanto detto quindi mi pare emerga un dato di fatto: se oggi la Chiesa ci chiede di concentrarci sul tema della famiglia, non possiamo farlo limitandoci a proporre banali regole di buon comportamento, abituali pacche sulle spalle che non consolano né incoraggiano più nessuno, aridi discorsi moralistici che non fanno altro che buttare sulle spalle della gente pesi che noi non tocchiamo neanche con un dito (Lc 11,46).

In questo senso è interessante proseguire la nostra riflessione notando che, come il Siracide, che elencava una norma comportamentale per i figli al fine di salvarsi, anche la vicenda del Vangelo parli della necessità di un mettersi in salvo: «I Magi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo”» (Mt 2,13). È ancora più curioso il fatto che, chi deve essere messo in salvo (lui è ancora troppo piccolo per poterlo fare da sé), sia proprio il Salvatore del mondo...

Ma qui, diversamente dal Siracide, in merito alla salvezza non si parla astrattamente di ‘come ci si deve comportare in famiglia’: qui ci è raccontato un pezzetto della storia di una famiglia e del suo ‘immischiamento’ nel fango e nelle fatiche di questo mondo...

Di essa infatti si dice subito che sta tutta dalla parte dei derelitti, di quelli a cui certo non bastano le buone norme comportamentali: questa, di Gesù, Maria e Giuseppe è una famiglia profuga (tra l’altro in Egitto...), povera («non c’era posto per loro nell’albergo»), strana (è infatti una famiglia moralmente incriminabile, come trapela da Mt 1,18-25, che mette in evidenza la tensione di Giuseppe all’idea di avere in moglie una ragazza madre)… è una famiglia che dunque si impone come paradigma non solo per le famiglie “apposto” da un punto di vista giuridico-canonico, ma per tutte le famiglie, anche per quelle che in senso stretto non dovremmo neanche chiamare così: le comunità, le fraternità, le famiglie allargate, le famiglie rimpicciolite, le s-famiglie (per citare un’opera di P. Crepet)… insomma – prendendo il termine in senso lato e ampio – per tutte quelle situazioni umane in cui ci si ritrova almeno in due a tentare di vivere l’accoglienza di Gesù, lasciandosi da lui normare la vita…
Perché seppure le povertà siano diverse, tra miseri, poveri, emarginati, si crea una sorta di solidarietà di base... di sentirsi collocati dalla stessa parte del mondo (quella sbagliata naturalmente)... E allora è davvero consolante leggere che la santa famiglia sta anch’essa da ‘questa parte di qua’: dalla parte delle famiglie profughe, povere, strane... dalla parte delle famiglie che non possono più dirsi famiglie... dalla parte di famiglie in cui manca il padre, la madre, un figlio... dalla parte delle famiglie che preferirebbero non avere quel padre, quella madre, quel figlio... dalla parte di quelle «nuove famiglie che la Chiesa non vede» (come scriveva Aldo Schiavone, sula Repubblica di lunedì 24 dicembre 2007)...

Infatti «… Questa “santa” famiglia è così tanto culturalmente disomogenea ad ogni modello e tanto fuori da ogni misura, proprio per questa divina inabitazione, da contenere ogni famiglia […]. Allora, adesso, ogni luogo d’amore umano che anela ad esser “famigliare”, (ove cioè l’uomo tenta di addestrarsi comunque ad esser uomo), si tratti di famiglia “normale” o incompiuta, legalizzata o emarginata, affranta sotto il peso della condanna ecclesiale o sociale, o da paure e divisioni, peccato o fragilità, sessualità normotipiche o incoative – dentro o al di fuori di ogni frontiera culturale tutte sono abitate “carnalmente, e per questo ancor più “profeticamente” da Dio stesso … Magari pàgano un amaro tributo alla prima radice carnale, ma possono sempre essere redimibili e salvifiche perché aggrappate alla seconda. Nessuno può più a priori condannarle, ma anzi deve accudirle e custodirle e illuminarle, perché dentro le ferite della tormentata storia biologica, culturale o personale che le ha prodotte, il cristiano sa che c’è sempre, almeno un brandello della “buona notizia di carne” – che è questo “bambino”». Ma «… bisogna forse fermarsi un momento a riflettere per capire come questa ‘unica’ irrepetibile famiglia possa essere significativa per le nostre… se dev’essere in qualche modo il modello della famiglia cristiana, proprio perché è la famiglia di Gesù il Cristo. È una ben strana famiglia, questa, che vive un’avventura umana così eccezionale ed irrepetibile… Una continua sorpresa a se stessa! A leggere il racconto di Matteo, Giuseppe desiderava invece una normalissima famiglia, ma ad ogni momento importante ha un sussulto per un cambio di rotta sconvolgente… Non avrebbe mai “sognato” di vivere un’avventura così. Altri sogni invece lo istradano verso progetti impensabili» [Giuliano].

Progetti, sogni, avventura che come dice bene Paolo son fatti… «di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità», ma soprattutto «di carità/amore, che li unisce tutti»…

Accogliere Gesù, infatti, da bambino e poi da grande e poi da crocifisso e poi come Signore della propria vita, vuol dir proprio questo – alla fine – se ci pensiamo… plasmare il nostro cuore (dentro il miracolo – “diluito” lungo tutta la vita – di con-vertirci a Lui) perché si disponga sempre come “capace” di amare… tutti…

Ciò che infatti alla famiglia di Nazareth sarà chiesto lungo la storia – a Giuseppe con Gesù bambino (un bambino non suo) e poi da grande in particolare a Maria – è rompere i confini della generazione carnale, per aprirsi all’universalità del bene (non a caso Maria è madre sua e madre nostra, cioè di tutti): ella infatti – come si vede bene nei testi che parlano di lei (Mt 12,46-50, Lc 2,33-35, Lc 2,48-51, Gv 2,1-5, Gv 2,12) – vive una tensione che man mano la porterà ad essere non più solo la madre di Gesù – vocazione che “istintivamente” le riusciva bene – ma la madre dell’umanità – vocazione che invece le richiede l’accettazione di una spada che trafigge l’anima… per lei infatti, al seguito di suo figlio, la maternità non si esaurirà più nella custodia – fino alla morte – del proprio figlio… Ma diventerà il modo d’essere di sempre, la modalità di esistenza di fronte a chiunque, il nuovo DNA per stare al mondo: in Gesù “essere madre / essere materni” («tenerezza, bontà, umiltà, mansuetudine, magnanimità, carità/amore») diventerà il modo nuovo di accostarsi a ciascun figlio dell’uomo, a qualsiasi grumo di sangue, a qualsiasi pezzetto di carne umana si incontri nella propria vita. È infatti precisamente quello che chiederà a sua madre quando, sotto la croce (Gv 20,25-27), le affiderà Giovanni, un altro figlio, mentre lui, il suo muore… Questa è la maternità riscritta da Gesù – per niente sdolcinata o sentimentale – che chiede la dilatazione del proprio grembo per farci stare non solo i nostri ma chiunque abbia bisogno di un po’ di spazio, di un po’ di accudimento, di un po’ di casa…

In questo senso tutte le “famiglie sbagliate” che abitano il nostro mondo (a vario titolo ‘maledette’… composte da orfani, figli di separati, di omosessuali, di extracomunitari, di prostitute, di pedofili, di violenti, di carcerati, di malati, di psicolabili...) non sono “fuori dai giochi, ma anzi anch’esse abilitate a “provare ad amare così” e addirittura – forse – anche più “predisposte” perché loro l’alterità, la stranezza, la diversità che gli altri leggono come estraneità (facendone dei “non nostri”) ce l’hanno in casa… come Maria e Giuseppe!

In proposito vi metto qui sotto, anche un testo scritto da Giuliano per i monasteri (pensati come cantieri antropologici in cui provare a vivere il vangelo), in cui si delinea – a mio parere – un certo modo “evangelico” (appunto!) di esse famiglia, di qualsiasi tipo sia…



APPUNTI monastici carmelitani

• Con S. Teresa d’Avila inizia un nuovo progetto umanistico, innestato sul tronco antico del monachesimo carmelitano:

Costruire uno spazio esteriore ed interiore ove coinvolgere tutta la persona per sempre, affascinandola al progetto di cambiare la propria vita “spirituale” in amicizia con Dio, attraverso l’umanità di Cristo, entro un gruppo di sorelle amiche!

Privilegiando la via dell’esperienza, rispetto alla via intellettuale o pastorale o devozionale o sacrale:

o Dunque una via accessibile alle donne – monache (del tempo! : cioè accessibile ai laici – anche non colti!)

o Compatibile con il lavoro manuale (alla portata di gente immersa nelle faccende quotidiane – non chierici)

In un laboratorio di libertà: ove poter dedicarsi totalmente (in uno spazio preservato dall’autonomia monastica anche canonica) ad una dinamica evangelica ovviamente disomogenea al contesto circostante – di cui la clausura è la custodia (come presa di distanza in ogni campo: culturale, ecclesiale, fraterna, monastica, economica...) – e il filtro (che lascia entrare solo ciò che serve a questa scelta radicale).

Ove tutte le risorse e la passione della persona e della comunità siano rivolte al primato della relazione / dilatazione dell’amore

Agevolando l’esperienza ricettiva, la potenza della passività, la significatività della relazione accolta sia nella solitudine e nel silenzio, come nell’intensità della relazione – sonora e amabile, non affatto isolata nè ombrosa:

“l’orazione infatti altro non è che coltivare una relazione di amicizia intrattenendoci frequentemente in solitudine con chi sappiamo che ci ama. E se voi ancora non lo amate (in quanto, affinché l’amore sia vero e l’amicizia durevole, occorrono condizioni di parità,e invece è notorio che la natura di Dio va immune da qualsiasi difetto, mentre la nostra è viziosa sensuale ingrata) - ossia se non riuscite ad amarlo abbastanza, perché lui non è alla pari di voi, per lo meno, constatando quanto vantaggio vi apporti godere la sua amicizia e quanto egli vi ami, ce la farete a sopportare la pena di intrattenervi a lungo con Chi pure è tanto diverso da voi”

[ S. Teresa V,8, 5]

Si tratta di imparare a dirsi di no (!) per uscire dalla condizione infantile della paura di perdere l’io: quella che ci impedisce di seguire il Signore:e non ci lascia mai passare da ciò che si è a ciò che non si è (ancora!); infatti:

o sei ancora lì (stanca) – nel luogo da dove non sei mai partita (purtroppo)

o vivi (senza gioia) quello che non hai voluto morire

o sei affamata (senza pace) di quello che non hai voluto mangiare

non bastava “congedarsi” da casa – ma bisognava rinchiudersi in una casa – ove:

o il non / io è accolto in te: tu non vai via, né lo chiudi fuori: lasci lui venire a te

o sorridi all’intrusione del diverso, all’irruzione del disagio, al protagonismo dell’altro

o contieni la tracimazione dell’insofferenza (è solo l’io che... ha messo i suoi confini)

lasciando invece scavare, dentro di te, il fondo dell’interiorità, per farci stare ognuno e ogni cosa che chiederà uno spazio – è terreno tuo che offri alla dilatazione del Regno:

o per ospitare l’oltranza, e fare dell’altruità un’attitudine del cuore

o per uscire da sé – alterarsi o alienarsi un poco

o rovinare dolcemente i gusti e i significati per simpatizzare con le diversità e le antipatie

o imparando a gustare le non/esperienze/ il dentro che viene da “fuori”

giovedì 16 dicembre 2010

IV Domenica di Avvento: Giuseppe, simbolo del dramma umano-divino

Ed eccoci giunti all’ultima domenica prima di Natale… Ormai ci siamo… il mistero tanto atteso inizia ad essere intravisto, tant’è che il brano del Vangelo di Matteo che la Chiesa ci propone incomincia con la dichiarazione esplicita di che cos’è ciò che stavamo aspettando: «la nascita di Gesù Cristo». Ma ci vien detto di più… infatti non solo è detto il fatto, ma anche il desiderio di volercelo narrare: «Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo». È un incipit davvero promettente… anche liturgicamente parlando: dopo queste settimane di attesa (di Avvento – appunto –), finalmente siamo arrivati a leggere e celebrare la Parola che delinea chiaramente cosa c’era da aspettare… E dunque? Ormai è chiaro che quanto dovevamo aspettare era una nascita…


Ma… leggendo fino in fondo il testo proposto dalla liturgia di questa quarta domenica di Avvento ci rendiamo conto con un sorriso che non è raccontata proprio nessuna nascita… Essa infatti nel Vangelo di Matteo è sì al cap. 1, ma al versetto 25… mentre il testo proclamato in chiesa si ferma al v. 24… Curioso, no? No… il fatto è che siamo vicini… ma non ci siamo ancora… è ancora tempo di attesa (di Avvento – appunto –)… un’attesa che però si fa sempre più carica di aspettativa perché ormai le fila principali del discorso iniziano a snodarsi… ed oggi ci è dato di fare non un passettino qualunque verso il mistero che celebreremo sabato, ma quello decisivo… l’ultimo: ben sapendo che “quando si fanno 10 passi verso qualcuno, 9 sono solo la metà”…

Ma allora di cosa è fatto quest’ultimo avvicinamento a Natale, se non c’è la nascita di Gesù, come ci avevano detto (cfr Mt 1,18a)?

Beh… parla di un uomo a cui è successa una cosa strana… una cosa che potremmo delineare con queste parole: a quest’uomo, che si chiamava Giuseppe, è successo di passare dal “rannicchia mento” sui suoi pensieri agli orizzonti ampi apertigli da un incontro speciale…

Si sa, Matteo racconta i fatti dell’infanzia di Gesù dal punto di vista di Giuseppe… a quest’ultimo era stata data in sposa Maria. La procedura matrimoniale ebraica prevedeva 2 fasi: lo scambio del consenso e il trasferimento della sposa nella casa del marito… Ecco… Maria e Giuseppe nel momento che l’evangelista sta descrivendo erano promessi, ma non abitavano ancora insieme.

La sorpresa è che Maria si ritrova incinta… letteralmente «si trovò avente in ventre»… Forse a noi questo ventre riempito, che si ritrova con dentro qualcosa non fa più tanto problema… noi sappiamo già tutto il proseguimento della storia e la sua spiegazione: sappiamo che lì dentro c’è Gesù, che è il Figlio di Dio, che Maria l’ha concepito verginalmente, che c’ha pensato lo Spirito santo… ma proviamo a metterci un po’ nei panni dei protagonisti… nei panni di Giuseppe… forse le cose ci appariranno sotto un altro punto di vista… una prospettiva nuova che potrà aiutare anche la nostra (quella di quelli che sanno già tutto…) a farsi nuovamente istruire… Insomma… Giuseppe si ritrova con un ventre riempito… e il problema c’è… tant’è che sa che Maria potrebbe incorrere nel «pubblico ludibrio», potrebbe essere additata come una donna scandalosa, come una di quelle che ha concepito un figlio fuori dal matrimonio… (e che peccato che i cristiani nel guardare a queste donne non abbiano imparato dalla tenerezza e giustezza di Giuseppe verso la sua Maria)…

Ad ogni modo… Il versetto 19 e la prima parte del 20 ci descrivono quest’uomo contorto nei suoi pensieri, nella preoccupazione sul da farsi, nei giramenti di viscere tra incredulità di fronte all’accaduto, rabbia per un tradimento subito, amore per la sua Maria a cui comunque non vuol far del male: «Giuseppe poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò». Potremmo immaginarlo seduto, con la testa fra le mani, incapace di star fermo, col cervello che gli fuma e il cuore che gli sanguina («mentre stava considerando queste cose»)… ed è facile immaginarselo così… perché è così simile alle tante volte in cui noi ci ritroviamo così… raggomitolati su noi stessi alla ricerca di una via che non troviamo… con quella sensazione di impotenza, incapacità, sfiducia che ci ridona la consapevolezza di essere caduti, ancora una volta, nel circolo vizioso del cane che si morde la coda… E Giuseppe, proprio come noi, alla fine di tutto il suo ragionare, partorisce la sua risoluzione… come l’elefante che partorisce il topolino… infatti la sua è una risoluzione che non può che apparire ed apparirgli come il male minore, il meno peggio… come ogni uomo, nei contorcimenti della vita, non può che trovare espedienti, escogitare risposte in seconda battuta, tamponare la falla… «pensò di ripudiarla in segreto».

Eppure gli rimane, come rimane a noi d’altra parte, la terribile sensazione che era altro quello che dovevamo fare, che la vita aveva promesso altro a noi e a chi ci stava intorno… ma d’altronde che potevamo fare d’altro? Che poteva fare Giuseppe d’altro? «Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”. […] Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa».

Avviene qualcosa… finalmente per Giuseppe arriva l’unica risoluzione che dà gioia, l’unica che aveva sempre sperato di poter realizzare, ma che nel giro di un momento gli era morta in mano: prender con sé la sua sposa! È successo qualcosa in quest’uomo che avevamo lasciato poco fa incurvato sotto il peso dei suoi pensieri e che ritroviamo determinato e quasi felice (il testo non lo dice, ma l’incalzare dei verbi indica che lo scenario – anche interiore – è mutato: c’è dell’aria fresca da respirare ora…).

È successo che mentre sognava gli si è fatto vicino Dio (“un angelo del Signore” nella Bibbia è l’espressione per dire la presenza di Dio) e gli ha sciolto il nodo che aveva in gola «non temere di prendere con te Maria, tua sposa». Gli ha detto di non avere paura a prendere in casa una ragazza madre, gli ha ricordato un’appartenenza promessa e da mantenere (quella ragazza madre è «Maria, tua sposa»), lo ha coinvolto nella vicenda di sua moglie, del figlio di lei, del figlio di Dio… l’ha coinvolto nella vicenda di Dio… che mai infatti – ci insegnerà lo stesso Gesù – si svolge senza l’uomo («ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù»).

E questo incontro speciale ha trasformato Giuseppe… Troppo spesso lo immaginiamo come una figura presto da dimenticare: non fa niente, gli tocca tenere e crescere un figlio non suo, con questa storia dello Spirito santo che fa sorridere i malpensanti, non può stare con sua moglie (che per la Chiesa è vergine prima durante e dopo), a un certo punto della storia sparisce, senza che si sappia più niente di lui… insomma… non pare avere una grande parte nella scena della vita di Gesù…

E invece no! Invece Giuseppe è uno di quegli «amati da Dio e santi per chiamata» di cui parla Paolo nella sua lettera ai Romani: è uno di quelli che attraverso il richiamo a non avere paura (di amare), la fedeltà ad una storia (d’amore) e il coinvolgimento da parte di Dio in una Storia (d’Amore) esce trasformato, convertito, trasfigurato… Giuseppe fa l’esperienza di passare, nell’incontro con Dio, dalla vita mortifera alla Vita vitale. E il suo sollevarsi dal raggomitolamento all’azione («Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa») è rivelazione che quel Dio lì che ha incontrato è il Dio della Vita… Giuseppe è testimone, nella sua carne, che con Gesù si ha a che fare con il Dio che dà vita, che fa fare esperienza di vita…

È interessante che la Chiesa proponga proprio questo testo l’ultima domenica prima di Natale: forse vuole dirci che la disposizione per accogliere questa nascita è il non avere paura di amare, essere fedeli alla storia e lasciarci coinvolgere nella dinamica vitale di Dio? Di quel Dio-con-noi che curiosamente è detto a noi, ma non a Giuseppe…? Matteo infatti mette la citazione di Isaia come suo commento al discorso dell’angelo… le parole «Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi”» non fanno parte del discorso che l’angelo fa a Giuseppe… Giuseppe sa che il figlio che ha in pancia Maria «viene dallo Spirito Santo» e che «egli salverà il suo popolo dai suoi peccati», ma non sa che è l’Emmanuele, cioè non sa che è un Dio che sta dalla parte dell’uomo…

Ma secondo me a lui non l’hanno detto, perché non c’era bisogno: l’aveva già scoperto nella sua carne…
Eppure… non va dimenticato… che anche questa esperienza di Giuseppe non va troppo facilmente risolta nel suo “lieto fine”… anch’esso è testimonianza in piccolo di una dinamica più grande e pervasiva di tutto il vangelo: c’è sempre una drammatica con cui scontrarsi…

Per Giuseppe è la sottrazione della generazione di suo figlio, di cui infatti sarà “solo” il padre legale («Per un momento, nella normale costruzione di un essere umano, è sospeso l’intervento dell’uomo: la donna è invitata a rinunciare al suo umano progetto, e diventa il luogo della parola parlata da Dio», I volti di Eva a cura del Monastero delle carmelitane scalze di Legnano)… dramma simbolico del fatto che quel bimbo porta in sé la drammaticità che cambierà la storia («Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: “Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori”»Lc 2,33-35; «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada», Mt 10,34): anche Maria – che in tutto il racconto di Matteo non dice una parola – dovrà «continuare a cercare tra la gente, nelle strade e nelle contrade, nel tempio o sulle colline… il figlio dell’uomo, senza padre, che annunciava il Padre di tutti… anche a lei, al di là di ogni generazione carnale. In questa ricerca, “serbava nel suo cuore tutte queste cose, confrontandole tra loro”. Per domandarsi ancora una volta che senso avessero. Sotto la croce ha capito! Perché sotto la croce Dio le ha restituito – morto – il figlio comune (umano e divino). Mettere al mondo, dunque, non voleva dire soltanto far nascere, ma rendere mondano, cioè mortale, Dio. Mettere al mondo vuol dire mettere a morte. Seminare la morte all’interno di Dio. E Dio venne ad abitare nell’unico luogo dove non avrebbe mai potuto abitare. Ma siccome Dio è troppo grande, è la mondanità che è diventata interna a Dio. Di questa malattia umana, trasmessa da Maria, Dio è morto. Poiché questa unione di Dio con la sua carne di donna, dentro il suo corpo (questo è il mio corpo! Questo è il mio sangue!) è indivisibile. Il figlio morente ha fatto delle due cose incompossibili, una cosa sola, per sempre. Il matrimonio tra Dio e mondo, in Maria, diventa indissolubile, anche se una spada a due tagli cerca di separarli. La terra (l’umanità) si santifica stando impotente ai piedi della croce, col cuore trafitto dalla spada a doppio taglio. Doppiamente lacerati, dunque, dall’abbandono nel quale Dio lascia il figlio e la nostra storia nel suo abisso di impotenza e di morte – e dalla solidarietà con gli uomini nostri fratelli, incapaci di fraternità e perdono. Senza potere fare nulla»… [I volti di Eva]

… se non… re-investire esistenza – che è il contrario che l’emorragia di umanità (di cui siamo affetti quando muore qualcuno che amiamo); che vuol dire re-investire la nostra affettività, le nostre ‘molle’, le nostre dedizioni, la nostra voglia, le nostre chiacchiere, le nostre rabbie, i nostri perdoni… in un tessuto di volti… che è l’unica cosa che può portarci a perdonare Dio, o la vita, o la storia, o noi stessi, o chiunque individuiamo come sfogo del nostro “non doveva andare così”… perché soltanto il tornare a credere nell’amore (fino ad investirci la vita) ci fa fare pace con la drammaticità che la nostra storia – e il nostro Dio anch’egli passato in mezzo ad essa – ci consegna… [cfr. Elaborare la dipartita, a cura del Monastero della carmelitane scalze di Legnano].

sabato 11 dicembre 2010

Cristianesimo da “spam”


La mia casella postale, come accade oramai a tutti, è spesso invasa dallo spam (email indesiderate). Normalmente le cancello senza leggerle… Oggi mi si è illuminata una lampadina e ho provato a guardarle… Ho trovato interessante l’evoluzione del loro contenuto, che mi permette, in qualche modo, di vedere il “mondo” (nel senso giovanneo) dal punto di vista dei massaggi (No! Non è un errore di stampa!) dei suoi adepti.
Agli inizi arrivavano spam inviate dalla dea Venere.
Ora sempre più spesso arrivano spam direttamente dal dio Mammona che propone di trasformati in un novello re Mida.

Ecco alcune interessanti contenuti che mostrano, come dire, l’evoluzione filosofico-teologica della proposta (Mammona, si sa, è un gran teologo!).

Intanto al Casino si è aggiunto un accento trasformandolo in Casinò… questo se “fisicamente” non ha richiesto grande sforzo, oggettivamente bisogna riconoscere che c’è stato un gran salto di “qualità”. Infatti da banali distributori di piacere immediato si è passati a dei distributori che ti promettono un futuro di piacere…

Non è un’evoluzione di poco conto, perché passa dalla soddisfazione immediata del desiderio (che proprio per questo patisce la “curva della frustrazione”) alla soddisfazione come “promessa mai compiuta” che ha i confini infiniti del desiderio non appagato. In questo modo il desiderio non patisce la frustrazione che nasce dalla propria soddisfazione immediata, ma si lancia oltre se stesso verso un futuro solo promesso e solo parzialmente “anticipato” dalle calcolate vincite.

Per chi ha un minimo di conoscenze teologiche e bibliche non farà fatica a scoprire che siamo davanti a una proposta strutturalmente “cristiana” (non semplicemente “religiosa”), con dinamiche interne simili a quelle della speranza che proietta l’uomo e il suo cuore (teleologia) verso la promessa escatologica.
Cristianesimo senza Cristo, al cui posto – nel tempio umano – regna, come l’abominio biblico, trionfante il denaro agognato.

Non a caso il linguaggio di queste spam è prettamente “biblico”, nel senso che attingono alle figure tipiche del mondo genesiaco  cercando di riproporre quelle idealizzazioni da “paradiso terrestre”, nostalgicamente ancora ben vivo nella ancestrale memoria culturale di ciascuno.

Ed ecco alcune proposte allettanti, testuali, testuali: «entra nel mondo dei ricchi» e un’altra «clicca qui, potresti non dover lavorare in vita tua».

Se questo è lo spam oggi, possiamo fermarci un attimo a pensare ad eventuali analogie… gli insegnamenti che ne ricavo mi istruiscono non poco: scelgo un filone, tra i tanti che mi si mostrano.

Intanto noto che queste spam non si distanziano da molte proposte politiche.
Naturalmente, quando parlo di politica intendo anche politica economica.
Sindacati e imprenditori non sono esclusi dalla categoria. Anzi!
Marchionne e le sue proposte di un’Italia migliore (sic!) si iscrive a pieno titolo all’interno della logica religiosa di queste spam: un sacrificio oggi per avere il paradiso domani. Naturalmente lui si prende per il dio al quale dobbiamo il nostro fiat!

Altrettanto dicasi dell’accertato e documentato slittamento della cosiddetta “classe operaia” (e sue successive evoluzioni con o senza “colletto bianco”), dall’eresia comunista all’eresia leghista.
Infatti, molte scelte politiche (votare questo o quel partito, aderire a questa o quella azione sindacale…) si ispirano a questa nostalgia paradisiaca, di un benessere a cui gli altri continuamente attentano. Qui la proposta religiosa, oltre ad arricchirsi di ulteriori riti, si fa più raffinata: il sacrifico lo si fa fare agli altri (ieri erano i padroni, oggi, visto che siamo diventati padroncini, sono stranieri, Rom, terroni, musulmani, ecc.) e il paradiso ce lo teniamo noi!

Non sto a descrivere l’ovvio e quindi è inutile affermare ciò che è evidente a tutti e cioè che eletti e elettori del Pdl (almeno quelli che io ho conosciuto direttamente o indirettamente) si ispirano agli stessi valori “cristiani” delle spam sopra descritte, al punto che potrebbe essere definito letteralmente un “partito spam” (o «spam di partito», vedete voi). Sarà per questo che si crede cristiano?

Ma anche certe affermazioni di altri personaggi “insospettabili” sono inconsciamente rivelatrici che lo spam oramai ci ha raggiunto l’anima. Durante l’allora trasmissione di confronto all’americana per la campagna elettorale tra Berlusconi e Prodi ad un certo punto il giornalista, evidentemente a corto di domande, ha la bella pensata di chiedere a Prodi che cosa prospetta nel futuro degli italiani. Alche, il grande Prodi, non trova di meglio che augurarsi e quindi promettere in un rotondo e per nulla imbarazzato sorriso, «Più di felicità!». Ditemi se non è una promessa “religiosa”, da spam!

Conclusione? Non basta essere cristiani (su questo giudichi Iddio!) per esserlo anche politicamente (questo dobbiamo farlo tutti!): Infatti la separazione del potere politico dal potere religioso, implica, tra le altre cose, che il potere politico rinunci a delle promesse “religiose”, e si faccia fattore di una società semplicemente più vivibile per tutti: vivibile il lavoro, vivibile la scuola, vivibile la sanità, ecc.

Mi attendo una politica vivibile che rinunciando a linguaggi e promesse messianiche sia più attenta alle dinamiche proprie della “secolarità”: diritto, lavoro, equità, giustizia, democrazia, ecologia… Altrimenti il nostro sogno di un mondo migliore si tradurrà in fuga alienante dalla realtà concreta che lascia irrisolti i suoi problemi. E “le cose” non potranno che andare peggio. Il “paradiso”… lasciamolo a Dio!

Chissà se Bertone, tra una cena e l’altra, ci ha mai pensato.

venerdì 10 dicembre 2010

III Domenica di Avvento: Giovanni e Gesù, l’antico e il nuovo

Il vangelo che la Chiesa ci offre in questa terza domenica di Avvento, fa nuovamente riferimento alla figura di Giovanni Battista, anche se – ovviamente – tratta un episodio diverso rispetto a quello narrato settimana scorsa.


In quell’occasione, volutamente, ho preferito non concentrarmi sul precursore, per poter oggi – grazie a questo secondo brano che affianca quello (Mt 3,1-12) – affrontare il discorso con una completezza maggiore.

Siamo al capitolo 11 del vangelo di Matteo; sono quindi “passati” 8 capitoli rispetto al battesimo di Gesù: 8 capitoli nei quali i due cugini hanno avuto destini diversi. Giovanni è finito in carcere a causa della sua predicazione, che creava problemi al potere costituito; mentre Gesù ha iniziato la sua vita pubblica (a questo punto del vangelo ha infatti già annunciato l’approssimarsi del Regno, chiamato i discepoli, compiuto guarigioni, fatto il famoso discorso della montagna e quello missionario… ha già avuto le prime discussioni…); addirittura – per l’evangelista Marco – il momento dell’arresto dell’uno, ha coinciso con l’inizio dell’attività dell’altro («Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio», Mc 1,14), tanto che secondo Giovanni – l’evangelista –, Giovanni – il Battezzatore – avrebbe detto: «Lui deve crescere; io, invece, diminuire», Gv 3,30.

È proprio dopo questi 8 capitoli, che hanno segnato, per i due, una storia così diversa, che sulla scena irrompe la domanda di Giovanni Battista che manda a Gesù i suoi discepoli per chiedergli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?».

La domanda non è banale… In Israele al tempo di Gesù c’era una forte attesa messianica e Giovanni da subito aveva individuato in Gesù il compimento di questa attesa (Mt 3 e paralleli)… Eppure ora, dopo 8 capitoli, è un po’ dubbioso… Perché? In che cosa Gesù non lo convince molto come messia?

Per intuirlo è interessante andare a rileggersi l’idea di Dio (e quindi di messia) che ha in testa Giovanni, quella che si può trovare nella II parte del vangelo di settimana scorsa – la “predica” di Giovanni (Mt 3,7-12: «Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: “Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: “Abbiamo Abramo per padre!”. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile») e confrontarla con la vita di Gesù narrata nei primi 10 capitoli del vangelo di Matteo… dei quali, basti un assaggio: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste», Mt 5,43-48.

È interessante, perché si vede subito che l’idea di Dio dei due cugini non è precisamente la stessa… anzi…
Per quanto Giovanni aspetti il messia e lo riconosca in Gesù, quest’ultimo nel suo proporsi è sempre sorprendente… non prevedibile, inedito! E questo a volte mette in crisi, perché rompe gli schemi… ed è così per tutti… «Qui, [infatti] il problema del Messia non è più quello del popolo che si converte, alla voce di Giovanni, mentre i maestri e i capi lo rifiutano, ed Erode, prima affascinato, è poi travolto nella logica di morte dalla quale non riesce a togliersi… Il problema è di Giovanni stesso. Proprio lui, il più preparato ad accoglierlo, la cui missione è di preparatore degli altri. Ma anche per Giovanni, quando il Messia s’avvicina, la sua vera identità è sorprendente, inaspettata – anche per lui, come poi per Maria, come per tutti i discepoli, Gesù è il messia, il figlio del Dio vivente, dirà Pietro… ma non come l’aspettavano! E questa è la vera fonte dei nostri guai di fede! Il Signore non è ovvio, non è prevedibile coi criteri miracolosi che ci hanno detto: è sempre inaspettato – sempre, per tutti! Giovanni aveva atteso e predicato, sulla scia di antiche profezie, un Potente che battezza con Spirito e fuoco…una scure incombente alle radici dell’umanità in attesa. Occorre convertirsi subito, o sarà la fine! Ma arriva un Mite, che si mischia coi poveri e i peccatori, li perdona senza castigo, si autoinvita a casa loro…» [Giuliano].

Giovanni si aspettava il Dio della potenza, il Dio giudice, il Dio armato che premierà i buoni e distruggerà i cattivi e dunque vedeva la realizzazione dell’uomo nello sforzo volontaristico di essere gradito a Dio…

Gesù, invece, parla di un Dio che è Padre, che fa sorgere il sole su tutti, sui buoni e sui cattivi, sui giusti e sugli ingiusti… e vede la realizzazione dell’uomo nella sua capacità di imparare ad amare tutti, anche i nemici…

Non a caso la risposta di Gesù ai discepoli di Giovanni va proprio in questo senso… Stanno mettendo in discussione la sua identità messianica e lui risponde dicendo di riferire a Giovanni ciò che vedono e odono, cioè che dove passa lui la morte è trasformata in vita, la tristezza in gioia, l’aridità in fertilità… Per Gesù infatti il Regno di Dio, dunque, il mondo come Dio lo vuole, sono gambe storte che si raddrizzano, occhi ciechi che ci vedono, orecchie sorde che ci sentono, cuori induriti che si sciolgono… insomma l’umanizzazione della dis-umanizzazione in tutte le sue forme. Sia nel macrocosmo (poveri – prigionieri – ciechi – oppressi), sia nel microcosmo (noi, nelle nostre povertà – prigionie – cecità – oppressioni). La prospettiva di Gesù è infatti sempre quella di restituire all’uomo la sua specifica caratura umana (non a caso i suoi miracoli non sono mai segni di potenza, ma sempre di liberazione dal male!).

Questo è Gesù, questo è ciò che lui stesso dice di sé… questo è il suo modo di essere messia, quello per cui «Oramai guarire [non punire] l’uomo è un criterio di riconoscimento» [Giuliano] di Dio.

Il confronto, però, non termina qui, ma prosegue nella scena in cui Gesù – dopo aver congedato i discepoli di Giovanni – parla, alle folle, del Battista stesso… definendolo “il più grande fra i nati da donna”, ma sottolineando anche come il più piccolo nel regno dei cieli sia più grande di lui…

Come a dire che con Giovanni si chiude – seppur in maniera degnissima – un certo modo di interpretare Dio e quindi l’uomo e con Gesù irrompe nella storia qualcosa di qualitativamente diverso: con Giovanni finisce un’epoca, che in lui ha avuto il suo apice, ma che si esaurisce in Gesù, il quale inaugura una possibilità totalmente nuova di stare al mondo, che rivela un volto di Dio inaudito, che mostra una via per l’uomo mai percorsa…

Con Giovanni si chiude l’Antico Testamento (l’antica alleanza, l’antico volto di Dio, l’antico volto dell’uomo) e con Gesù si apre il Nuovo (la nuova e definitiva alleanza, il nuovo e definitivo volto di Dio, l’uomo nuovo…).

Ecco perché Giovanni è definito “quell’Elia che deve venire” (gli ebrei infatti credevano che prima dell’avvento del messia, ci sarebbe stato il ritorno di Elia, del quale la Bibbia non racconta la morte, ma il rapimento su un carro di fuoco, 2 Re 2): Giovanni è l’Elia che deve venire, è l’ultimo atto prima che si inauguri la nuova storia del popolo di Dio, è il precursore… è il massimo che il modello precedente poteva offrire, ma minuscolo di fronte al Regno di Dio che con Gesù arriva: «Giovanni è la nostra verità umana più umile, perciò più vera e più autentica. Tra i nati di donna non c’è nessuno più grande di lui: è la soglia, dunque! Più in là non siam capaci di andare. È presentato da Gesù stesso come il culmine del Primo Testamento, il grande profeta severo e ardentemente impaziente di preparaci per l’arrivo del Signore. Ma, almeno come anelito, Giovanni segna l’avventura intima di ogni uomo» [Giuliano]. Quella per cui il rapporto con Dio è basato sulla paura: l’uomo che teme la morte e sa che Dio lo può salvare, fa di tutto per ingraziarselo (osserva le sue leggi, gli fa dei sacrifici, teme il suo castigo, spera nel suo premio) e guarda a chi gli sta intorno come un mezzo per raggiungere lo scopo (i poveri come mezzi per la nostra santificazione) o come rivale (se il premio è per pochi, deve essere per me, non per te…).

La novità di Gesù sta invece nel fatto che egli pone come base per ogni ragionamento o scelta o modo di stare al mondo, la benevolenza immeritata ma sovrabbondante: l’uomo che teme la morte scopre che Dio è un Padre che gli vuole bene e che lo invita ad entrare in un circolo di benevolenza che passa di mano in mano e umanizza chi lo riceve (e chi lo dà). Per questo guarda agli altri come a fratelli fatti della stessa carne / pasta umana sua… e perciò si dedica alla loro custodia (fino a dare la vita), perché gli altri, chiunque altro, è dei suoi…

Questa seconda impostazione – quella di Gesù – è quella che coincide con il vangelo, con la buona notizia, e che è proposta a chiunque voglia essere discepolo di Gesù… è la buona notizia che con lui prende carne, nel Natale che aspettiamo.

giovedì 9 dicembre 2010

Non il «fare», ma il «fare in memoria» conta!


Ho letto ultimamente qualcosa del sindaco di Firenze, Matteo Renzi.

L’occasione, più per curiosità che per altro, è stata la sua visita ad Arcore, che ha scatenato… la sua fervida fantasia in propria difesa. Non che il fatto di Arcore, mi abbia infastidito, i nostri politici ci hanno abituato a ben altro. Quello che mi ha incuriosito è il “personaggio” e le sue argomentazioni. Il che mi ha fatto riflettere andando ben oltre la sua persona.

Dunque seguendo la logica di Renzi: Se avessi da sbrigare personalmente qualche pratica improcrastinabile con il mio Sindaco e visto che lui è molto occupato (non ammalato!), ed io pure (magari con l’agenda piena di apparizioni TV e convegni), posso benissimo accettare un appuntamento a casa sua! e io – sempre secondo il Renzi-pensiero – per amor di Patria, dovrei andarci! A pelle mi vien da dire: Tipicamente italiano! Ma ve lo immaginate una cosa del genere altrove? Cose che accadono solo nella Repubblica delle banane! E se mi seguite, capirete pure perché queste cose accadono solo lì!

Come giustamente ha notato Bersani, forse, secondo alcuni, non accorgendosi di dire una cosa intelligente, il Sig. Renzi doveva esigere un incontro nelle sedi istituzionali… ed eventualmente rendere pubblico un eventuale diniego.
La controcritica di Renzi a chi lo critica si può sintetizzare più o meno così: chi lo critica, è un formalista, fa del bieco antiberlusconismo, ha un atteggiamento ideologico…

Noto che è certamente possibile che qualcuno possa farne una questione ideologica, formalistica, ecc.… D’altronde è anche vero che spesso accade di arrivare alla stesse conclusioni pur partendo da presupposti completamente diversi, magari da discutibili intenzioni e motivazioni. Proviamo però a non liquidare queste critiche al suo operato così sbrigativamente come egli fa. Non è detto cioè che l’affermazione di Bersani, non abbia in sé un fondamento più vero e autentico di quel che appare a una prima superficiale lettura. E questo rivela che forse Bersani è una persona più intelligente di quel che ne pensa lo stesso Renzi. Certamente di una intelligenza diversa dalla sua: quella che nasce più che dal ragionamento, dall’integrità della persona. Si chiamava una volta “saggezza”, ma ci accontenteremo di chiamarla “buon senso”.

Ma andiamo con ordine. Spesso mi è da guida, in quest’Italia, una frase del compianto cardinale Pappalardo, vescovo di Palermo, che affermava (non so se citava, ho saputo poi che anche Falcone diceva la stessa cosa) che la mafia, prima di essere una associazione a delinquere, è un modo di pensare.

Corruzione della mente, prima che dell’agire e… dei soldi! Dove il pensiero si fa sostanzialmente clientelare, e non tiene conto dei diritti e dei doveri di ciascuno e dei rispettivi ruoli. In questo senso per dirla tutta, al di là delle sue buone intenzioni che gli concediamo senza fatica, quella di Renzi è una caduta di mentalità, più che di stile. Di mentalità “mafiosa” e “clientelare”, molto “berlusconiana” nel senso del “ghe pensi mi”: frutto di puro solipsismo narcisista...

A proposito di narcisismo… Ho sentito e seguito qualche sua intervista: non so… ma mi dà un'impressione di uno eccessivamente sicuro di sé, fino alla tracotanza e direi “insensibilità” nel liquidare atteggiamenti altrui.

“L'uomo del fare” quale è e si autodefinisce (d'altronde come dargli torto: a cosa serve un Sindaco se non per “fare”?) ha in sé questo rischio: il credere, perché ne è capace (e pare che lui ne sia capace!), di dover insegnare a tutti cosa bisogna fare. E passi. Il problema è che Renzi vuole insegnare a tutti anche il come!

In fondo questo, uno può dire, è un problema suo! Già, solo che la cosa mi sembra oramai un problema generale. Vediamo di approfondire.

Quello che manca alla politica di oggi è una visione, come dire,  più “ecclesiale”. Bersani forse manca di “carisma” e su questo possiamo convenire, forse non piace neanche d’Alema (un altro narcisista come Renzi e Berlusconi: dio quanto si “com-piacciono”!) ma a meno che non si voglia fondare un altro partito (vedi Fini), fin che si sta insieme (insieme!), è meglio che le cose si facciano assieme. Anzi. Meglio non farle o dirle proprio certe cose, se per farle si creano continue rotture (vedi Veltroni): a meno che non si voglia fare le “primedonne” (vedi quasi tutti)! Ma la politica non è cabaret (qui meglio non vedere!). Perché ciò che conta, non è vincere (le elezioni) ma stare insieme. E questo non, come si dice, perché “si vince solo se si sta insieme”, ma perché lo stare insieme è già vincere, è la vera vittoria, da cui nascono le altre (non dimentichiamo che la politica è comunque fare! Ma non fare comunque!). Questo è possibile però solo se, se ne abbraccia la storia. Storia invece che Renzi vuole rottamare, semplicemente perche “datata”.
Dimenticando che non si rottamano mai i valori, tantomeno  le persone, ma gli ostacoli alla loro valorizzazione! Renzi – ma non è il solo – non si rende conto che proprio questa sua “forma mentale” testé descritta è il cuore del suo (e nostro, in quanto umano) problema. Problema che anche in lui, ascoltandolo, non sembra solo politico, ma esistenziale, perché è il suo modo di esserci (il dasein) nell’incontro col reale: Il rifiuto, della storia (nel bene e nel male) che l’ha preceduto. Il suo agire è un agitarsi senza “memoria” che non lo porterà lontano perché non ha radici… al massimo ad Arcore (nel senso che dirò più avanti)!

In fondo, delle sue (o altrui) idee e trovate per quanto geniali ed efficaci, non ce ne importa un fico secco, quello che servirebbe agli italiani, tipici geni solipsisti, invece è che si trovasse qualche idea e azione normale per compattare non solo il Pd ma anche la Politica e il Paese.
Questo esige, il rispetto dei ruoli di ciascuno, anche in casa propria! Ma vedo che gli è più facile parlare col Presidente del Consiglio, che col Segretario del suo partito!

Misteri della politica italiana? No! Smemoratezza! Che rivela non tanto il livello ma la qualità del problema. Manifesta a quale profondità antropologica si è inceppato il meccanismo del cuore. Palesa cioè il tipo di “sfascio” dell’uomo d’oggi e quindi del politico e della consecutiva politica. In Italia e nel mondo.

Prova ne è, che a sua difesa il Renzi pensa di donarci questa chicca del suo megapensiero, che è la quadratura del cerchio dell’analisi fatta sopra. Il Nostro, indirizzato a coloro che nel suo partito lo criticano, dice: «Capisco la critica sul luogo simbolo. Ma se il premier mi dà appuntamento ad Arcore, vado ad Arcore. Penso che il Pd dovrebbe lavorare per cambiare il premier, non per cambiare il luogo degli incontri». Se avesse memoria (anche solo biblica, visto che è cattolico), saprebbe che da sempre nella storia umana, ogni re si è costruito una reggia. E il loro numero e magnificenza simboleggiano la potenza del loro potere. Versailles non è nata per capriccio. E nemmeno Arcore…
Da sempre l’esercizio del potere è indicato con i nomi dei luoghi dove si esercita (Il Quirinale, Palazzo Madama, La Casa Bianca, Il Cremlino, ecc.). E la casa, ogni casa, è sempre il luogo simbolico di chi la abita.

E, per converso, la presa del potere ha sempre coinciso con l’occupazione o la distruzione dei luoghi dove si esercita. Quindi sempre è accaduto – come persino il cosiddetto popolino sa – che per cambiare il premier occorre cambiare il luogo degli incontri! Perché anche la Politica, cioè l’arte della convivenza reciproca, si nutre di simbolica e di riti (vedi, la bandiera, ma anche un semplice doveroso “buongiorno!”).
Eppure Renzi se ne esce con una frase ad effetto dicendo di capire ciò che invece non ha veramente capito, in quanto lui (ma anche chi lo critica) allude alle cene e ai festini che invece qui proprio non c’entrano, perché ben altro e alto dovrebbe essere il discorso!
Ma si sa la “memoria” oggi non va oltre la cronaca … Certo che se queste sono le nuove leve della politica, poveri noi!

Per fortuna la memoria del Natale mi ha aperto il cuore alla speranza portandomi, quasi per associazione di idee, a fare una constatazione che non avevo mai fatto prima: Quando Dio ha voluto abbattere ogni potere oppressivo e liberare l’umanità, si è dato un corpo ma non una casa (Luca 9,58)!
Una ragione ci sarà! Forse oggi lo capisco meglio.

E se anche la politica imparasse a ripartire da qui? Dopotutto compito della Parola di Dio è “ricostruire” la memoria dell’uomo. E l’uomo biblico, è per definizione «l’uomo che fa “memoria”».

lunedì 6 dicembre 2010

To the President of US


Egregio Signor Presidente Obama,
mi scuserà se le scrivo in italiano, ma non conoscendo l’inglese, preferisco scrivere nella lingua che conosco meglio. Certamente non le mancheranno chi potrà tradurle questa lettera – casomai capitassero su queste pagine. Da parte mia cercherò di scrivere in un italiano semplice anche a costo di ignorare lo stile.
Vorrei porre qualche domanda a lei che ritengo una persona capace di comunicare con tutti. Ovviamente se lo ritiene opportuno può consultarsi anche con il suo Segretario di Stato, la Signora Hillary Clinton o con chi vuole del suo staff.

Tutti sanno che gli Stati Uniti sono una grande democrazia. Che ha a cuore la democrazia non solo al proprio interno, ma nel mondo intero. Proprio per questa passione democratica, gli USA si sono impegnati anche militarmente ed economicamente in tutto il Pianeta.

Le rivelazione di WikiLeaks evidenziano però alcune contraddizioni di un governo come il suo che vuole definirsi amante della democrazia e della giustizia. Spero che questo non la faccia sobbalzare sulla poltrona e non venga preso come un atteggiamento ostile verso gli USA, cosa che sarebbe contraria alla mia indole.

Eccole le domande:

  1. Come si concilia con l’anelito democratico, il sostenere (politicamente, economicamente, logisticamente, militarmente…), Capi di Stato e di Governo che dai vostri stessi funzionari sono giudicati incapaci di governare, professionalmente, democraticamente e onestamente una Nazione? La lista è lunga e va da Berlusconi a Karzai passando per Mubarak e comprende quell’«imperatore nudo» di Sarkozy.
  2. Gli Stati Uniti si oppongono a politiche di Capi di Stato e di Governo come quello nord-coreano e iraniano: questo non è in contraddizione con il sostegno dato a governi e Capi di Stato altrettanto antidemocratici come quelli descritti sopra? Trova esagerato il mio accostamento? Non nella sostanza però: perché come può essere democratico un presidente arrogante e che si comporta da imperatore? Non crede che ci siano infiniti modi per essere antidemocratici e nemici della libertà?
  3. Non crede che il vostro comportamento verso questi Capi di Stato e di Governo offenda l’azione di milioni di loro concittadini onesti che credono negli stessi valori democratici e morali del Popolo americano e che quindi non possono non sentirsi traditi e ridicolizzati dalle vostre relazioni amichevoli con i loro governanti su cui condividete (qui sta il problema!) lo stesso giudizio negativo?
  4. Per essere democratici non basta essere eletti democraticamente, occorre anche governare democraticamente: a) Non crede che questo vostro modo di comportarvi sia una offesa allo stesso Popolo americano che l’ha eletta per difendere veramente e non solo a parole questi valori? b) Non crede che questo debba essere anche il criterio per definire “democrazia” ogni sistema politico? c) Non crede che dei cittadini abbiano il dovere di potere verificare sempre e comunque tutti gli aspetti della azione politica dei propri governanti? d) E non crede che da questo dovere morale ne scaturisca anche un diritto politico inalienabile?
  5. Il bene autentico di una Nazione non può che essere un bene per tutti gli abitanti della Terra e quindi per tutti gli Stati: a) Non crede che questa verità dovrebbe essere un principio fondamentale di ogni azione diplomatica? b) Non crede che sia negli interessi autentici degli USA, la difesa degli interessi autentici di ogni Nazione o Popolo? c) Come crede che questo bene possa essere custodito sostenendo Capi di Stato o di Governo incapaci o disonesti?
  6. Non crede che sia necessario rifondare un nuovo modo di costruire le relazioni diplomatiche delle Nazioni?
  7. Non crede che anche nelle relazioni diplomatiche, la verità e solo la verità può costruire la pace tra gli uomini e con Dio, rendendoci autenticamente liberi?
  8. Come crede che possa nascere un mondo migliore se le relazioni internazionali sono fondate sull’ipocrisia?
  9. Come può pensare che Capi di Stato e di Governo anche solo bugiardi, possano costruire un mondo migliore?
  10. Per bugia intendo anche nascondere la verità a coloro verso i quali si ha un debito di verità. Debito che nasce anche semplicemente perché ci hanno eletto a un posto di responsabilità: Non crede quindi che tra questi bugiardi ci sia anche lei e il suo Segretario di Stato?
  11. Io non chiedo come Julian Assange, le sue dimissioni, anche perché dovrei chiederlo a tutti i Capi di Stato e di Governo del mondo, compresi quei loro rappresentanti che siedono alle Nazioni Unite e che sono la cinghia di trasmissione delle ipocrisie dei propri rispettivi governi. E per questo trovo “logico” che lei e il suo governo li abbia fatti spiare nonostante accordi diplomatici che sappiamo ipocriti. Immorale ma perfettamente logico in un mondo dove l’immoralità politica ed economica e la menzogna regnano sovrane. Logico ma perverso. Ora invece di entrare nella logica dell’ipocrisia cadendo nel sospetto e nella diffidenza reciproca, non era meglio che un Grande Uomo come lei, stimato da tutti e che è a capo di una grande Nazione, spezzasse questo cerchio che si fonda sul principio anticristiano e antidemocratico che le nazioni e i popoli non possano essere veramente amici?
  12. Il peccato, il crimine di Julian Assange, è stato quello di aver fatto lui quello che avrebbe dovuto fare lei, Signor Presidente. Questo era il sogno degli americani, questo era il sogno di coloro che hanno gioito per la Sua vittoria nel mondo intero. Questo, Signor Presidente, è il sogno che lei ha infranto. Davanti a questo crimine (uccidere il sogno di democrazia e libertà e verità di interi popoli), non c’è pena sufficiente per poterla espiare. Non basterebbero mille inferni… A meno che… Lei dia finalmente un calcio a ciò che fino ad oggi è stato tra gli Stati e cominci anche nelle relazioni internazionali a creare uno stile nuovo di incontrarsi. Ora non crede che l’accanimento con cui date la caccia ad Assange sia la dimostrazione pratica che non avete nessuna intenzione di cambiare?
Grazie, Signor Presidente per avermi letto fin qui,
aspetto da Lei una prova concreta di cambiamento.
Cordialmente Mario

domenica 5 dicembre 2010

L'Arco esistenziale

Dice san Paolo nella lettera ai Romani: tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione. E qual è lo scopo di questa istruzione? Affinché – spiega – non muoia la nostra speranza anzi cresca ancor di più in una “speranza viva” e vivificante…

Ora però nessuno libro, nessuno scritto, nessuna opera artistica per quanto sublime, dà speranza, anzi più è sublime e più grande è la nostra disillusione. Finito di leggere o di visionare un bel film e tornati alla cruda realtà, il nostro sconforto diventa ancor più grande: quello che abbiamo visto, quello che abbiamo letto non ha cambiato la realtà che viviamo anzi ne evidenzia ancor di più la negatività e ci rivela i nostri limiti a modificarla!
Tempo fa, lessi un articolo che spiegava come alcuni spettatori finita la visione del film che mostrava un “mondo fantastico”, uscendo dalla sala si sono sentiti assalire da un sentimento di rifiuto della realtà, fino ad avere pensieri suicidi… Esperienze limite certo… ma che possono insegnarci qualcosa sul modo con cui dobbiamo comprendere queste parole della lettera ai Romani (e quelle analoghe nella Bibbia).

Come è normale che sia, spesso noi leggiamo a partire dalla nostra esperienza, ma altrettanto spesso ci rendiamo conto che è necessario fare uno sforzo ulteriore per capire l’esperienza dell’altro anche se usa le nostre stesse parole, altrimenti – come in questo caso – le sue parole sono prive di senso o peggio suonerebbero non solo false ma radicalmente “omicide” perché illusorie… Quindi come comprendere le parole di San Paolo? Che cosa vuol veramente dire? Sappiamo che san Paolo non poteva avere in mente il nostro sistema scolastico. Ai suoi tempi non si insegnava nei banchi di scuola su libri scolastici. Né aveva in mente le scuole filosofiche di Atene…

Quando Paolo parla di istruzione (didaschalian) intendeva ben altro rispetto al nostro concetto di istruzione. Quello che lui intendeva con “istruzione” era leducazione pratico-esistenziale (cfr la Didaché). Proprio quel tipo di insegnamento che intercorre tra un maestro di vita e un suo discepolo: un insegnamento che nasce da una comunione di vita, da una vita in comune, da uno scambio di vite. Lo si vede bene nei Vangeli quando applicano questa espressione a Gesù dicendo – ad esempio – che “insegnava in parabole” e ancora che chiamava a sé – nota bene dice: chiamava/chiamò “a sé” – i suoi discepoli e li istruiva. Un esempio concreto a tutti noto è certamente la lavanda dei piedi descritta nel vangelo di Giovanni: come Gesù insegna? Prima fa un gesto – si toglie la veste e si china a lavare i piedi ai discepoli – e poi con una domanda che sollecita attenzione e introspezione ne spiega il significato. Letteralmente lo dispiega, toglie le grinze del nostro cuore e della nostra mente, per portare il discepolo non alla semplice comprensione del gesto ma all’accoglienza e all’imitazione cambiandone il cuore (e quindi non è imitazione volontaristica pur essendo coinvolta la volontà)… Tutto il comportamento di Gesù è all’interno di questa logica.

Se questo è l’insegnamento-istruzione che Paolo intende (e così anche gli autori biblici) è chiaro che gli scritti a cui sempre Paolo fa riferimento, non sono semplicemente dei fogli di carta o di pergamena o antichi papiri… ma sono qualcosa di più di testi scritti: sono gesti, opere concrete, azioni di Dio nella storia a cui questi scritti rimandano, proprio come i racconti dei Vangeli non sono altro che un memoriale dell’agire stesso di Dio in Gesù Cristo nella storia concreta dell’umanità! E non a caso erano scritti che vengono letti nel contesto di una azione liturgica (sinagogale o ecclesiale). Se questo è l’insegnamento e se questi sono gli scritti (e solo se sono questo), allora si può affermare che “danno”, suscitano e nutrono speranza. E di speranza autentica e non illusoria!

Cioè la speranza a cui Paolo – e i cristiani e gli ebrei – fanno riferimento, non è il frutto del desiderio di cambiamento dell’uomo, che per quanto nobile è incapace di portare “il peso” della propria e altrui storia e si scopre nei fatti sterile perché inadatto a farsi concretezza duratura (perseveranza). La speranza cristiana è invece frutto della promessa di Dio che si fa concretezza storica in chi la accoglie appagando il desiderio dell’uomo orientandolo verso un compimento fecondo e concreto oltre se stesso. Ben oltre persino i confini del proprio desiderio. Orientamento che include proprio per questo anche maturazione e quindi “crisi” purificatrici.

Ho letto di autori – soprattutto di cultura marxista – che parlano di “ottimismo della volontà nonostante il pessimismo della ragione”! Un ottimismo così – sia detto senza offesa – nel migliore dei modi è volontarismo ebete. Come arrivare allora ad avere – per usare lo stesso linguaggio – l’«ottimismo della ragione»? Non limitandosi a guardare il buio della notte ma imparando a guardare e a lasciarsi guidare dalla luce delle stelle! Che proprio perché è buio si vedono. Basterebbe anche una sola cometa… La speranza si manifesta così come la capacità data all’uomo che la accoglie, di vedere la luce dell’agire di Dio nel buio della vita dell’uomo (che proprio per questo non è mai totalmente buia e proprio perché buia – debole – consente di vedere la luce – grazia). Questo fondamento sull’agire di Dio è – mi si passi il termine – l’«ottimismo della ragione». È la ragione che spera e fonda la propria speranza sulla promessa fattuale di Dio. Ecco perché la speranza è infallibilmente certa e ci rende storicamente efficaci! E può cantare con Maria il Magnificat, «per le grandi cose che il Signore ha fatto», fa e farà in me e nella storia di ogni vivente, dispiegando «il suo braccio potente». Quello che dobbiamo fare è allora affidarci ai segni storici della sua promessa. Promessa che infatti come tutta la scrittura ci insegna, non è mai fatta di parole ma di azioni concrete di Dio: tutto sta nel “fissare lo sguardo” e nel “tendere l’orecchio” e “muovere i piedi”. Ecco perché le Scritture, cioè la memoria storica dell’agire di Dio nella storia umana, ci consolano e di con-fortano sostenendoci nel perseverare nell’opera di giustizia-pace che Dio ci ha affidato. La nostra fede, la nostra speranza nell’essere messa alla prova da una storia che sembra – dico sembra – smentirla, diventa sempre più forte nel radicarsi sul fondamento della fattiva promessa di Dio. Perché proprio qui nasce la speranza non illusoria: nel paradosso di una tensione storica tra una realtà di liberazione incompiuta e una promessa divina di compiutezza (ri-conosciuta) già in atto.

La speranza è come la corda di un arco. Tesa tra i due estremi, li tiene uniti lasciandosi “tendere” dalla loro contrapposizione. Sapendo che solo grazie a ciò essa acquista forza per penetrare nel vero significato del proprio vissuto. Un estremo che ti ricorda che la tua storia è piena di fallimenti, di sogni non realizzati, di una arsura di giustizia che continuamente ti divora nella ricerca del suo appagamento… e l’altro estremo dell’arco che ti dice invece che la promessa di Dio si trova proprio in quello che stai patendo. Questo vuol dire sperare contro ogni speranza. È la tensione dinamica che nasce dall’at-tesa del compimento.

L’immagine che il profeta Isaia ci propone nel sostenere la nostra speranza, tiene proprio conto di questi due poli della speranza: è dal tronco di Iesse che nasce il virgulto che realizzerà definitivamente le promesse di Dio. Ora l’immagine non è così idilliaca come sembra a prima vista, basta leggere cosa dice poco prima. Quel tronco a cui fa riferimento Isaia è la devastazione a cui è ridotto per la persecuzione e l’invasione il frondoso albero della tribù di Giuda, il popolo di Israele. È ciò che resta dopo il passaggio degli invasori che come cavallette desertificano i raccolti e le foreste… è ciò che resta di un popolo, dove ingiustizia e corruzione la fanno da padrone, dissolvendo la pace in un carrierismo ruffiano e strutturalmente corporativo e mafioso. Ebbene, ci ricorda Isaia, quando oramai tutto è perduto – non, “sembra perduto” ma è effettivamente “tutto perduto”, perché resta solo il tronco di un albero oramai secco e senza vita – ecco che la vita nuova rinasce – per dono di Dio – dalla morte del vecchio…

Ma attenzione, l’albero vecchio (il tronco di Iesse) è veramente morto! Ed è necessario che ogni albero che non produce frutto muoia perché solo così noi possiamo farne concreta esperienza smascherando come false le sue promesse di grandezza e benessere e convertirci dalla sua logica fallimentare (cfr Vangelo)! E vano sarebbe volerlo riportare in vita, anche perché riportare in vita il vecchio albero – il vecchio modo di vivere, fatto di ingiustizie generatrici di guerre – sarebbe ripetere il ciclo della devastazioni reciproche. La vita che rinasce dall’albero morto non è la riedizione della vita dell’albero (si riaprirebbe – dicevamo – il cammino che l’ha portato alla “devastazione”) ma è veramente nuova vita, un altro modo di vivere e quindi di essere: un modesto indifeso germoglio che ci rende capaci (“vi conceda” dice Paolo) “di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti… di Cristo Gesù”. È quindi veramente una nuova creazione, in cui il modus vivendi di Dio, diventa il modus vivendi dell’uomo. E quindi Dio e l’uomo diventano uno: Per questo è duratura anche nell’uomo.

Ecco perché quel modo di Gesù di vivere la morte, uccide l’odio che crea la morte e dona la vita a chi fa propria la logica del Regno che è la misericordia del Padre. Misericordia che si scaglia contro la radice del male, contro il buio nel cuore dell’uomo e mai contro gli uomini che sono sempre da lui considerati e trattati come figli. Per questo «brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile» e brucia di impazienza (“già”) e « già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene [già adesso] tagliato e gettato nel fuoco», per far rinascere nuovi polloni sugli agli alberi secchi e sterili – ridotti a concime – della vita di ogni uomo.
Ecco perché la speranza esige questa conversione che prepara «la via del Signore» e raddrizza «i suoi sentieri» che apre al dono di una vita nuova in quanto diventa una domanda-preghiera di “ri-creazione”. Conversione necessaria ma non sufficiente a dare speranza, come riconosce anche il Battista: «Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Ogni giorno della nostra vita è questo Avvento, questo “Adesso”, che ci è dato (il “tempo opportuno”), perché questo “fuoco” divampi nella nostra vita e diventi il nostro “futuro”. «Futuro di Dio dato all’uomo», che è un altro modo di dire «Speranza».

venerdì 3 dicembre 2010

II Domenica di Avvento: La speranza che ci abilita a Vivere

Le letture di questa II domenica di Avvento hanno proprio il sapore di un’introduzione al mistero del Natale… Siamo ancora sulla soglia, ma già si intravede che ciò che ci aspetta è qualcosa di decisivo… La Chiesa ci accompagna in questa attesa, “incuriosendoci” sulla portata dell’evento… Pone infatti in campo parole che attraggono le orecchie e il cuore di ciascuno… Chi infatti non si sente stuzzicato da frasi come «In quel giorno avverrà...», «Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione», «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino»…?


Se anche facessimo finta che non fossero parole bibliche, esse rimarrebbero comunque cariche del loro fascino:

- Chi, infatti, non ha almeno qualche volta sognato di sapere cosa «In quel giorno avverrà...»; che si trattasse del giorno della nostra morte, della venuta del Messia, dell’appuntamento con chi si spera di conquistare, di un colloquio di lavoro, di un incontro dopo tanti anni…?

- Chi, sommerso dal disorientamento e dalla confusione nel maneggiare questa vita, non ha desiderato almeno ogni tanto di avere per le mani un manuale d’istruzioni, in modo da poter dire che «Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione»?

- E infine chi, esausto per la fatica di vivere e di dar credito al fatto che ne valga la pena, non ha sperato che «il regno dei cieli» – qualsiasi cosa esso volesse dire – fosse «vicino»?

Ma ri-collocate nel contesto biblico, che è il loro, che cosa vogliono dire queste parole così cariche di aspettative, aspirazioni, sogni, speranze, attese?

La prospettiva di Isaia è – ancora una volta – decisamente luminosa… sta parlando di qualcuno che arriverà: qualcuno fortemente attaccato alla storia dell’umanità, come un germoglio al suo tronco e un virgulto alle sue radici, e nello stesso tempo altrettanto fortemente inondato di profumo divino… qualcuno che contro i violenti e gli empi, starà dalla parte degli umili e dei miseri… Quando arriverà le leggi naturali della vittoria del più forte, della selezione naturale, della paura come anima del mondo, saranno stravolte, per lasciare il posto alla giustizia, alla fedeltà, al dimorare insieme, allo sdraiarsi accanto, al trastullarsi…

Eppure Isaia non sta scrivendo in un momento facile per il suo popolo: niente fa prevedere un lieto fine della situazione, tanto meno un lieto fine cosmico, che coinvolga il mondo nel suo insieme; dilagano corruzione, dispotismo, idolatria, pressione straniera, ingiustizia sociale, povertà, indigenza…

Ma allora perché Isaia interviene con queste parole promettenti? Interessante quanto risponde H. Simian Yofre, mettendo in luce le idee che da questo brano emergono con forza: «Anzitutto la convinzione che davanti ad ogni crisi, non soltanto personale, ma anche e soprattutto sociale, istituzionale, nazionale, perfino internazionale, la fede non è ridotta al silenzio, ma ha una parola importante da dire. Essa genera una parola critica circa la situazione concreta; così il pensiero escatologico, nel momento stesso in cui prospetta un mondo nuovo, non consente una fuga dal presente, ma fa maturare una visione obiettiva e critica a riguardo del presente, e specificamente dell’ingiustizia, del caos istituzionale, dell’ambiguità di certi rapporti politici, della perdita d’identità profonda del popolo. Il pensiero escatologico profetico non si accontenta di proporre una soluzione “spirituale”, ma comincia da un’analisi lucida dei mali presenti nella società!».

Ecco che a noi, allora, a noi che almeno qualche volta abbiamo sognato di sapere cosa «In quel giorno avverrà...», viene rimesso in mano il nostro oggi, il nostro presente, la situazione concreta.

Ma… non eravamo partiti da un oggi, un presente, una situazione concreta inospitale, inabitabile, mortifera? E allora che senso ha il ricollocarci del profeta in essa? Se non eravamo capaci prima, non lo saremo neanche ora…

E allora? Allora… la chiave di volta è proprio il fatto che né una fuga spiritualistica da una storia avvelenata, né uno sforzo volontaristico e solipsistico per resistere nel viverla, sono le vie indicate dal profeta. Egli ha una prospettiva diversa: la vita può tornare ad essere vivibile perché è abitata dalla speranza in una promessa: che questa storia è inondata da Dio («la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare»). Che è la medesima speranza di cui parla Paolo quando afferma: «teniamo viva la speranza»! «Paolo – infatti – raccoglie l’eredità di una processione interminabile di antichi padri e profeti, grandi e piccoli, uomini e donne del popolo, che per millenni si sono lasciati impregnare, plasmare e confortare dalla trasmissione di una “speranza”, prima raccontata e poi scritta, in innumerevoli testimonianze, che di generazione in generazione, si intersecano, si riprendono, si illuminano a vicenda. Dio interverrà a salvare il suo popolo, e attraverso di questo tutte le genti, per mostrare finalmente il suo volto. Il peregrinare dei patriarchi, l’esodo, l’esilio, la decadenza della fede e lo sfaldamento del popolo, non riescono a spegnere, anche se ridotta talora a un lucignolo fumigante, la fede di chi ancora attende» [Giuliano].

Ma come vivere il nostro oggi alla luce di questa speranza? Cosa «è stato scritto per la nostra istruzione»?
Purtroppo o per fortuna, non si tratta di un manuale di istruzioni… piuttosto di un invito: «Accoglietevi gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi». Non è un modello a cui tentare di assomigliare, ma una persona (Vivente!) con cui entrare in relazione: in una relazione talmente intima da essere conformante! Questa relazione è la speranza realizzata della presenza del Signore nel nostro oggi.

L’attesa trepidante a cui ci invita la Chiesa è allora quella di Uno che amandoci per primo introduce una nuova logica nel mondo: quella dell’accoglienza, dell’«avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù». È ancora una volta la proposta di una vita che si fa vivibile perché com-passionevole, perché com-patita, perché abitata da una solidarietà che rende parte di un popolo in cammino, dell’umanità tutta… che geme, spera, ama, soffre, muore, sorride… come me.

In questo senso, essendo dalla parte di chi ha già letto fino in fondo i Vangeli, a noi fanno un po’ sorridere alcune aspettative di Giovanni Battista: «Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco». Egli è il precursore e realmente è «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!». Ma Gesù… sorprenderà anche lui: davvero è un novum nella storia dell’uomo: lui, infatti, in una parabola, di fronte ad un albero che non porta frutto, dirà di lasciarlo ancora per un anno e di prendersene cura perché diventi fecondo (Lc 13,6-9), non di tagliarlo!

Su una cosa però Giovanni non si sbaglia: l’evento atteso e annunciato è decisivo; di fronte ad esso non si possono raffazzonare conversioni posticce, false illusioni, ristrutturazioni di facciata: «Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: “Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: ‘Abbiamo Abramo per padre!’. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo”».

Fa sorridere e tremare che i destinatari di questo ammonimento fossero proprio i più religiosi (sacerdoti e “laici impegnati”)… Proprio loro rischiano di non accogliere la logica di Dio, che sopra ad ogni norma, istituzione, interesse, ragione politica, economica, sociale, religiosa, pone il volto dell’altro, che sempre è fratello!

Ma è proprio questa logica che plasma anche la nostra sete di regno dei cieli. Essa – qualunque cosa voglia dire –, sorta spesso sull’onda di un essere esausti per la fatica di vivere e di dar credito al fatto che ne valga la pena, prende la forma di un’attesa non più vaga e qualunquistica, ma cristicamente centrata, perché solo il suo immergerci nello Spirito santo («vi battezzerà in Spirito Santo»), nel suo Spirito, nella sua logica, nel suo amore, ci salva, ci libera, ci abilita a Vivere.

Non a caso «La carica portante del messaggio del Battezzatore è quella dell'imminenza di Dio nella nostra vita, poiché Egli è venuto e sempre viene, a trasformare il nostro presente, a rincuorare l’uomo entrando nella sua stessa dimensione storica e assumendo la debolezza della sua carne, per apportarvi finalmente la novità della pace, della giustizia, della rettitudine e della gioia, in modo compiuto. Ma è un compimento profetico…
Le promesse di Dio [infatti] ci spingono verso un mondo di pacificazione e tenerezza che ci entusiasma il cuore e dilata la mente… e rimane scritto per nostra consolazione. Ma non è subito qui! Subito scopri che nella storia concreta di questo mondo è proprio sulla sua pelle e con la sua mitezza insanguinata che l’agnello addomestica il lupo, è lasciandosi morsicare la vita infinite volte che il bambino mette la mano nella tana delle vipere e le svelenisce… Cioè: se non si è disposti a fare la fine dell’“Agnello portato al macello”, le profezie non si avvereranno… i conflitti, il dolore e la morte non vengono disinquinate se non attraverso la nostra partecipazione alle sofferenze di Dio nel mondo. Nella forza dello Spirito di Gesù, Giovanni ha capito che le promesse escatologiche hanno una lunga gestazione, nella quale trasformano la storia e la liberano dalle catene del male, secondo tempi e modi che solo il Padre conosce».
Per questo «L’unione al Messia Crocifisso e risorto, che riprende con ciascuno di noi e con la sua chiesa il cammino della storia, è il nome della nostra fede. Riuscire a trasformare con lui la nostra storia è la speranza. Donare con lui la nostra vita è l’amore» [Giuliano].
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