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Ci è stato segnalato che alcuni link audio e/o video sono, come si dice in gergo, “morti”. Se insomma cliccate su un file e trovate che non sia più disponibile, vi preghiamo di segnalarcelo nei commenti al post interessato. Capite bene che ripassare tutto il blog per verificarlo, richiederebbe quel (troppo) tempo che non abbiamo… Se ci tenete quindi a riaverli: collaborate! Da parte nostra cercheremo di renderli di nuovo disponibili al più presto. Promesso! Grazie.

mercoledì 28 dicembre 2011

Buon Anno a chi?


C’è chi dice: “L’ho fatto per la squadra”. Intendendo “per la mia squadra”;
C’è chi dice: “L’ho fatto per il partito”. Intendendo “per il mio partito”;
C’è chi dice: “Lo faccio per il bene dell’Italia”. Sottinteso “per la  mia patria”;
C’è chi dice: “L’ho fatto per la chiesa”. Evidentemente intende “per la mia chiesa, parrocchia, congregazione…”;
C’è chi dice: “L’ho fatto per i miei figli”, “per mia moglie”, “per la mia famiglia”!…
C’è chi dice: “Lo faccio per la mia azienda”.
C’è persino chi osa dire che certe cose le fa “per Dio”. Beninteso “per il suo di dio”!...

Mai, mai nessuno che dica: “L’ho fatto per me”!
Decisamente noi italiani siamo persone altruiste.
Purché sia il mio altruismo.
Così mentre ci auguriamo “Buon Anno!”, io comincio a chiedermi “Buon Anno per chi?”.

martedì 27 dicembre 2011

Maria santissima madre di Dio

«Troppe cose insieme, forse, ci vuole dire la liturgia di oggi, nello spazio così piccolo di una giornata di inizio anno: Maria, madre di Dio, la giornata mondiale della pace, il capodanno…

[…] Comunque, nel vangelo scelto, c’è anche per noi, il rimedio che usava Maria, quando troppe cose difficili premevano, dentro e fuori di lei: Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore».

E allora, vorrei fermarmi solo su un aspetto… su questi pastori, che – curiosamente – come Zaccaria – dopo l’incontro con questo bambino – parlano benedicendo Dio.

Mi pare molto interessante infatti questa ripetuta sottolineatura dei vangeli dell’infanzia: chi incontra Gesù, bene-dice, cioè dice-bene di Dio!

Eppure ciò che hanno visto è un segno tutt’altro che “divino”: una donna con suo marito e il loro bambino…

Un segno, anzi, nemmeno così umanamente nobile o strabiliante, dato che questo bambino era «adagiato nella mangiatoia», «perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (Lc 2,7).

Eppure «questa pagina, come tutto il racconto dell’infanzia di Gesù nel vangelo di Luca, ci fa da traccia e insieme dà conforto per capire il processo di umanizzazione nuova a cui il discepolo del Signore è chiamato».

Infatti «allora come ora, il gesto, il segno o l’evento che ci smuove è, in genere, povero e tanto insignificante», un’intuizione, un po’ di bene che qualcuno ci vuole, una carezza insperata… Ma a noi è bastato… perché ha come profuso una luce…

Infatti, «comunque sia la storia di ognuno, fatta sempre di dolore e gioia, speranza e peccato mescolati insieme, una luce ci ha illuminati e attratti tante volte, per un istante…

…ma adesso questa luce non c’è più! I pastori l’avevano accolta con gioia e se ne erano lasciati illuminare e com/muovere… ma non c’è più! Così Maria nella sua vita nascosta! Siamo tornati nella penombra del quotidiano feriale, e ce ne è rimasta solo l’impronta e la memoria.

[…] Ma di questa luce “che rifulge in terra tenebrosa” possiamo avere in qualche momento esperienza, se facciamo attenzione alle sue scintille fioche e molto intermittenti: incontri, sofferenze, gioie… riconoscenza! Esperienze che ci riportano al senso della vita nel riferimento a Gesù e al suo vangelo, nell’attenzione affettuosa alla sua presenza, da accudire e custodire gelosamente, altrimenti le scintille si perdono, e ne rimane solo il dato materiale, non parlano più. Infatti, che un segno sia leggibile in modo positivo e smuova il nostro cuore è solo in rapporto alla luce essenziale della fede [della fiducia che gli accordiamo], rappresentata in noi da queste scintille successive, da queste esperienze profonde, ma incatturabili e indimostrabili e tuttavia vere e sentite nel fondo dell’animo».

Vere, in proporzione ai frutti che portano, «ai frutti dello Spirito: se cioè ci aprono il cuore e la mente a seguire la via del Signore… Possiamo solo riceverle e custodirle, tentare di rendere queste scintille più continue tra loro attraverso atti singoli di fede, operazioni concrete di obbedienza (andate… sono andati! In fretta!). I nostri sforzi di assenso alla fede, piccoli atti di consegna di sé nelle minuscole vicende quotidiane, talora seguono, talora anticipano, con un colpo d’ala interiore, la convinzione. Piccoli gesti concreti che, se moltiplicati in un tessuto continuo, saldano l’una all’altra queste scintille e ci danno, pure nelle tenebre, una certa continuità nell’esperienza di fede, nel cammino della vita. È appunto il riferimento a questa luce, conservata con lucida e intelligente memoria affettuosa, che rende i segni percettibili, se no si vanificano… Quello che rimane e ci trasforma è il momento di fede che avremo vissuto nella nostra vita, la capacità di accumulare e condensare atti di fede, magari piccolissimi, uno dopo l’altro, giorno per giorno, che rendono sempre più vera e conseguente l’esperienza del mistero di Gesù, che abbiamo in cuore…»[1].

Per dire anche noi – come Zaccaria, come i pastori – incontrovertibilmente bene di Dio.

Buon anno.



[1] Tutte le citazioni sono di Giuliano Bettati, OCD.

martedì 20 dicembre 2011

Natale 2011

Ho sempre cercato di “scampare” il dovere di fare la lectio a Natale (la lectio più difficile dell’anno!), con la scusa che il mio impegno era di fare la lectio della domenica e non quella delle altre festività… Ma quest’anno non ho scuse… perché Natale cade proprio di domenica… e quindi… mi tocca…

Però – ci tenevo a dirvelo – è con tanta trepidazione che mi metto a scrivere… perché davvero il rischio di dire cose banali o cose anche belle, ma che volano 3 metri sopra la nostra testa, è grande… soprattutto in questa occasione…

Cerco allora di andare con ordine.

Sapete che a Natale ci sono tante messe (quella della notte, quella dell’aurora, quella del giorno) e ognuna ha le sue letture. Io mi sono “imposta” quelle del giorno, perché sono quelle che la Chiesa ha scelto per la maggior parte dei fedeli che – s’immagina – vadano a messa di giorno!

Se avessi seguito altri criteri, penso che avrei volentieri deviato soprattutto dal Prologo di Giovanni, bellissimo, ma… impegnativissimo…

E invece, eccoci qui, tutti di fronte a questi testi…



Dal libro del profeta Isaìa (Is 52,7-10)

Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio». Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce, insieme esultano, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore a Sion. Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme. Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutte le nazioni; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio.



Il primo testo che la Chiesa sceglie per questo Natale è tratto dal libro del profeta Isaia.

È un testo che dà subito la tonalità alla celebrazione che viviamo: c’è infatti una buona notizia, un messaggio di pace, un annuncio di salvezza, che consiste nel ritorno del Signore, nella consolazione che Egli porta al suo popolo.

È un brano che Israele scrive pensando ai tempi messianici…

La Chiesa lo sceglie per raccontare della nascita di Gesù…

È quindi un brano scritto per il ritorno di Dio, per l’instaurarsi del suo Regno… che però viene attribuito ad un bambino, ad un piccolo d’uomo, fatto di carne, latte, strilli sdentati, cordone ombelicale e pannoloni (o chi per essi)… E se non fosse per l’abitudine, già questo dovrebbe farci sobbalzare… In Gesù, Dio è un bambino!



Dalla lettera agli Ebrei (E 1,1-6)

Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo. Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato. Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato»? e ancora: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio»? Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: «Lo adorino tutti gli angeli di Dio».



È facendosi bambino che – ultimamente, cioè nell’ultimo momento, nel momento finale, decisivo – Dio «ha parlato a noi».

Un bambino che certo diventerà grande, farà tante cose, ne dirà molte altre, vivrà e morirà in un certo modo, risorgerà… Una parola dunque che non si ferma a quel bambino e che tuttavia inizia a pronunciarsi dentro ad un corpicino in fasce.

Se ci pensiamo, noi conosciamo gli altri, li capiamo, cogliamo chi sono, da ciò che fanno, da ciò che dicono, dalle posizioni che prendono (o non prendono), da come si muovono nella storia…

Beh, anche con Dio “funziona” così: lo possiamo conoscere, lo possiamo capire, possiamo capire chi e come Egli sia, guardando a ciò che dice, a ciò che fa, a come si muove nella storia…

Ebbene, sarebbe interessante chiederci cosa dice di Lui il fatto di dirsi in un bambino, che non può parlare!

Ricordo una mia amica – specializzanda in pediatria – che doveva far tirocinio nel reparto di neonatologia e mi diceva: “Ci vado volentieri per questi sei mesi, ma nella vita non voglio certo fare la neonatologa; io voglio avere a che fare con bambini con cui potermi relazionare, che parlino!”.

Ecco – quando Dio si dice – si dice in un bambino che non può neanche parlare. Per Lui, parla la decisione (muta) di presentarsi così.

Non è immediatamente la sua parola vocale a entrare nella storia, ma il suo linguaggio non verbale.

In Gesù, Dio è un bambino che non sa ancora parlare.



Eppure, proprio Lui è il Verbo, la Parola di Dio!



Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv1,1-18)

In principio era il Verbo,

e il Verbo era presso Dio

e il Verbo era Dio.

Egli era, in principio, presso Dio:

tutto è stato fatto per mezzo di lui

e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.

In lui era la vita

e la vita era la luce degli uomini;

la luce splende nelle tenebre

e le tenebre non l’hanno vinta.

Venne un uomo mandato da Dio:

il suo nome era Giovanni.

Egli venne come testimone

per dare testimonianza alla luce,

perché tutti credessero per mezzo di lui.

Non era lui la luce,

ma doveva dare testimonianza alla luce.

Veniva nel mondo la luce vera,

quella che illumina ogni uomo.

Era nel mondo

e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;

eppure il mondo non lo ha riconosciuto.

Venne fra i suoi,

e i suoi non lo hanno accolto.

A quanti però lo hanno accolto

ha dato potere di diventare figli di Dio:

a quelli che credono nel suo nome,

i quali, non da sangue

né da volere di carne

né da volere di uomo,

ma da Dio sono stati generati.

E il Verbo si fece carne

e venne ad abitare in mezzo a noi;

e noi abbiamo contemplato la sua gloria,

gloria come del Figlio unigenito

che viene dal Padre,

pieno di grazia e di verità.

Giovanni gli dà testimonianza e proclama:

«Era di lui che io dissi:

Colui che viene dopo di me

è avanti a me,

perché era prima di me».

Dalla sua pienezza

noi tutti abbiamo ricevuto:

grazia su grazia.

Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè,

la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.

Dio, nessuno lo ha mai visto:

il Figlio unigenito, che è Dio

ed è nel seno del Padre,

è lui che lo ha rivelato.



È lui che lo ha rivelato, è lui che ci ha raccontato Dio!



A tutti e a ciascuno auguro la passione per il linguaggio verbale e non verbale di questo bambino,

Figlio dell’uomo e Figlio di Dio.


Chiara

domenica 18 dicembre 2011

"Erano simili a mio figlio/E lui era simile a loro" - LA STRAGE DEGLI INNOCENTI

Guido Reni, La strage degli Innocenti, 1611, Bologna, Pinacoteca Nazionale

«Erode mandò a uccidere tutti i bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio e che avevano da due anni in giù» (Mt 2,16).

Poterti smembrare coi denti e le mani,

sapere i tuoi occhi bevuti dai cani,

di morire in croce puoi essere grato

a un brav’uomo di nome Pilato.

Ben più della morte che oggi ti vuole

t’uccide il veleno di queste parole:

le voci dei padri di quei neonati

da Erode per te trucidati.

Nel lugubre scherno degli abiti nuovi

misurano a gocce il dolore che provi;

trent’anni hanno atteso col fegato in mano,

i rantoli di un ciarlatano.

[De Andrè, Via della croce]

«Dovremmo inquietarci davanti a questo passo, alla sua sola presenza nel testo evangelico. Crea una fortissima tensione con quanto detto prima: la promessa di salvezza, la promessa di futuro... Nella storia dell’uomo esiste ed è tragicamente reale il tentativo dell’uomo di arrestare il movimento messo in atto da Dio con la nascita del suo Figlio. È così tragico che l’uomo è persino disposto a sacrificare il suo futuro per esso, cosa che avviene tristemente in ogni epoca. L’idea di espiazione è insufficiente a risolvere la questione: né la vendetta, né l’inferno possono pacificare le domande che il dolore innocente scatena nel cuore dell’uomo. Anzi aggiungono altro male al male già avvenuto. Dunque la domanda sul male diventa la domanda bruciante sul senso del perdono…

Un primo dato evangelico: Dio decide di non scendere dal banco degli imputati.

Un secondo dato: la sua non è una risposta teorica. La sua risposta è la sua vulnerabilità. La sua vulnerabilità è ciò che lo autorizza al perdono, perché ha un’identità tale che si identifica con ogni uomo che ha patito il male. Per questo può perdonare».

[M. Fiorucci]


“Il coacervo di corpi, nel suo insieme da "teatro della crudeltà", sembra giungerci da molto lontano, attraverso pesti, insanguinarsi nei lutti di guerre e invasioni, per passarci accanto e, ahinoi, preannunciarci chissà che stragi e orrori a venire” (G. Testori)

Orrore e santità, scandalo e fede: queste due polarità riescono a convivere nel dipinto del bolognese Guido Reni. I sicari inseguono, svolgono con implacabile precisione il terribile compito loro affidato da Erode: insieme ai neonati, sono vittime anche le madri. L’opera, però, introduce anche il secondo tema iconografico legato a questo episodio, la santità degli Innocenti: in alto angeli porgono le palme del martirio, i corpicini in basso sembrano dormire. Come scrive Testori, l’episodio narrato da Matteo ci porta alla mente altre stragi, altri pianti di madri: non è un caso che la figura della donna urlante sulla sinistra sia stata ripresa da Picasso per il suo Guernica. Solo una madre può capire cosa voglia dire perdere un figlio, nessuno può odiare quanto una madre chi ha causato questa perdita.



martedì 13 dicembre 2011

IV Domenica di Avvento

In questa Quarta Domenica del Tempo di Avvento, la liturgia che la Chiesa ci propone, ci porta vicinissimi al mistero del Natale. Ciò che verrà ri-narrato in quel momento è infatti anticipato dalle letture di questa ultima domenica di attesa, nell’annuncio a Maria dell’evento della nascita di un figlio.

Va sottolineato, che anche a livello letterario, il brano di questa domenica è strettamente legato a quello che leggeremo a Natale. Entrambi infatti appartengono alla stessa sezione narrativa, comprendente i cosiddetti “racconti dell’infanzia”.

Per comprendere bene questi testi, evitando soprattutto di farne una lettura ingenua e semplicistica, è utile perciò dare qualche indicazione sulla loro composizione, sull’obiettivo di chi li ha scritti e sul loro senso.

Innanzitutto è necessario ricordare come solo il Vangelo di Matteo e quello di Luca, contengano questa sezione, chiamata abitualmente “Vangelo dell’infanzia”: Marco e Giovanni iniziano invece i loro Vangeli narrando di Gesù già trentenne.

Ma anche Matteo e Luca – che pure parlano entrambi di Gesù da bambino – non danno lo stesso resoconto dei fatti. Come scrive il biblista don Bruno Maggioni «bisogna – perciò – resistere alla facile tentazione di unificare i dati dei due evangelisti nel tentativo di offrire una successione verosimile degli avvenimenti. Meglio raccontarli rispettando l’originalità di ciascuno» (in “I personaggi della natività”, Ancora 2004).

Altra annotazione preliminare indispensabile è poi quella che ci ricorda che i racconti dell’infanzia non vanno trattati come resoconti storici dell’infanzia di Gesù. Essi non sono, e tanto meno intendono essere, una cronaca delle vicende di Gesù bambino! Essi sono piuttosto testi teologici. Come scrive ancora Maggioni «i racconti dell’infanzia sono testimonianza a Cristo, e non solo (e non tanto) semplici ricordi storici. Gli evangelisti non hanno l’intenzione di raccontare la biografia di Gesù bambino. Attraverso i fatti che raccontano, intendono invece mostrarne già la missione e la vera identità. Sono, appunto, testimonianze, formatesi alla luce della fede e dell’esperienza di Pasqua. Questo non impedisce, sia ben chiaro, che in essi si nascondano diversi ricordi storici».

Lo scopo di questi testi è perciò prefigurare nell’infanzia il destino, l’identità, la vita di Gesù. Non a caso questi “vangeli dell’infanzia” sono stati l’ultima parte dei vangeli ad essere scritta: infatti, come anche per la letteratura non religiosa, «non è mai l’infanzia degli eroi ad attrarre, in un primo tempo, l’attenzione dei biografi, ma la loro vita da adulti, le imprese che li imposero all’ammirazione di tutti; e se, in un secondo tempo, lo sguardo si spinge sino all’infanzia, è quasi sempre per il desiderio di trovarvi già i segni prefiguratori del loro destino».

In questa cornice letteraria – non bisogna mai dimenticarlo! – va dunque inserito anche il testo evangelico odierno.


Esso è tratto dal Vangelo di Luca e pur avendo dati comuni a quello di Matteo (fidanzamento fra Maria e Giuseppe, l’adozione legale di Gesù da parte di Giuseppe e quindi l’appartenenza di Gesù alla stirpe di Davide, Nazareth e Betlemme, la verginità di Maria e la nascita di Gesù per opera dello Spirito), ha però rispetto ad esso anche molte differenze. In particolare e soprattutto è la prospettiva ad essere differente: Matteo infatti racconta gli eventi dal punto di vista di Giuseppe, Luca dal punto di vista di Maria. In più Luca ha una modalità di organizzazione del materiale (proveniente dalla tradizione) davvero originale e geniale: egli porta avanti come un confronto tra Gesù e il Battista. Dopo la breve introduzione (Lc 1,1-4) infatti egli presenta gli eventi dell’infanzia dei due fanciulli in parallelo: l’annuncio a Zaccaria della nascita del Battista (Lc 1,5-25) – l’annuncio a Maria della nascita di Gesù (Lc 1,26-38); il confronto fra le due madri (Lc 1,39-56); la nascita di Giovanni Battista (Lc 1,57- 80) – la nascita di Gesù (Lc 2,1-21).

Non è possibile dunque comprendere il testo di questa Quarta Domenica d’Avvento, se non mettendolo in parallelo con l’annunciazione a Zaccaria della nascita del Battista. È proprio il confronto tra questi due annunci che fa emergere la particolarità della persona di Gesù: sarà infatti interessante notare come, delle due, la storia del Figlio di Dio sarà quella popolare, profana, semplice, non quella religiosa, sacra e grandiosa!

Quando infatti Luca racconta di Zaccaria che riceve l’annuncio della nascita di un figlio, lo fa presentando sostanzialmente un quadro agiografico: la narrazione si apre infatti con la presentazione di Zaccaria ed Elisabetta, descritti come «giusti agli occhi di Dio, osservanti in modo irreprensibile tutti i comandamenti e i precetti del Signore»; tutta questa perfezione religiosa però è sterile, infeconda, «non avevano figli». Mentre però Zaccaria «esercitava le sue funzioni sacerdotali davanti a Dio nel turno della sua classe, gli toccò in sorte, secondo l’usanza del servizio sacerdotale, di entrare nel santuario per offrire l’incenso» e lì «gli apparve l’angelo del Signore» con l’annuncio: «Tua moglie darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Giovanni». Il contesto è perciò grandioso e solenne: nel tempio, durante la solennità liturgica, con protagonista un sacerdote nell’esercizio della sua funzione.

Di Maria invece non è detto nulla di straordinario, né dal punto di vista sociale – è semplicemente una «ragazza promessa sposa di un uomo della casa di Davide di nome Giuseppe» – né dal punto di vista morale – di lei si dice solo che si chiamava Maria. Anche il luogo in cui avviene questo annuncio è – a differenza del tempio – un luogo normalissimo, quotidiano, semplice: «una città della Galilea, chiamata Nazareth» (città che le Scritture neppure conoscono), probabilmente in casa, dato che dell’angelo si dice che «entrò».

Già questo alternarsi di grandezza e piccolezza, solennità e semplicità, sacralità e profanità, lascia intravedere i tratti nuovi e inconfondibili del Dio di cui Gesù è Figlio. Come scrive ancora Maggioni infatti: «Nell’annuncio a Zaccaria il divino si mostra con tratti di grandiosità e solennità, ma proprio per questo si mostra con un volto normale che non sorprende. Nell’annuncio a Maria il divino si mostra nella più assoluta semplicità, nella quotidianità, e proprio per questo svela un volto inatteso e sorprendente. Da una parte, l’uomo entra nella casa di Dio, dall’altra, Dio entra nella casa dell’uomo».

Il confronto tra Zaccaria e Maria prosegue poi con il fatto che, dopo lo sconvolgimento e il turbamento e dopo il rispettivo «Non temere», pongono entrambi all’angelo una domanda; Zaccaria chiede «Come posso conoscere questo? Io sono vecchio e mia moglie è avanti negli anni»; e similmente Maria: «Come è possibile? Non conosco uomo». Le due domande, molto simili nella formulazione, ricevono però due reazioni diverse da parte dell’angelo: Zaccaria è rimproverato come incredulo («non hai creduto alle mie parole»), Maria riceve invece una spiegazione e un segno, il concepimento di Elisabetta, dalla quale non a caso andrà subito dopo la dipartita dell’angelo («L’angelo le rispose: “Lo Spirito santo scenderà su di te... Ecco anche Elisabetta ha concepito un figlio...»), come se in lei si riconoscesse quell’«attimo di smarrimento, come in tutte le epifanie bibliche» che dice «lo sconcerto dell’imprevedibile, che fa irruzione in lei», che «domanda il senso» delle parole dell’angelo, «nella trepidazione di far dire a Dio, forse, ciò che non sta dicendo» [Giuliano].

Fatto sta che è lei ad emergere nel confronto con Zaccaria… Forse per le nostre orecchie è ormai abbastanza scontato sentir dire che il Dio di Gesù predilige i piccoli, i semplici, gli umili... E dunque non ci fa più tanto effetto, non tocca più la nostra capacità di sorprenderci. Ma se provassimo a dire la stessa cosa con gli elementi di questo testo, se ci accorgessimo cioè che il Dio di Gesù non solo predilige i piccoli ai grandi, i semplici ai grandiosi, gli umili ai potenti, ma anche le donne agli uomini, i laici ai sacerdoti, il profano al sacro, i giovani ai vecchi... forse la reazione sarebbe un po’ meno scialba...

Ma torniamo a Maria... Ciò che di lei è infatti stupefacente, non è solo il fatto che sia lei ad emergere nel confronto col Battista, ma ciò che questo dice dell’identità di Dio! Dà il senso di questa novità del Suo volto una poesia di Frances Croake, intitolata “Consacrazione”: Tra gli animali, nell’umido freddo buio di una stalla, / dopo il dolore, il sangue e il nascere; / Maria guardò il bambino che giaceva tra le sue braccia / e disse: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue». / Nelle ombre della brulla collina del Calvario, / dopo il dolore, il sangue e il morire; / Maria guardò il corpo spezzato tra le sue braccia / e disse: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue». / È proprio così che disse a lui allora. / E voi, aridi vecchi uomini, / che contraffate la sterilità in broccati, / ordinate che lei non possa dirlo a lui ora.

È questo impastarsi di Dio nel mondo, nel sangue, nel dolore, nel nascere e nel morire, il volto nuovo di Dio che Gesù rivela! Non è un’umiliazione moralistica (non si fa piccolo nel grembo di una piccola per proclamare il valore della piccolezza), non è un’umiliazione pedagogica (non lo fa per insegnarci ad essere umili), ma è lo scegliere (da parte di Dio) di essere così (un piccolo nella pancia di una piccola!), non per finta, non per un momento, non per prova! È piuttosto la risposta di Dio alla domanda: “Chi sono io?”!

Dio – per rispondere a questa domanda – ha scelto di avere bisogno dell’uomo, anzi di una donna! Senza il sì di Maria, Gesù quella volta non sarebbe nato. Senza Maria Gesù non sarebbe stato Gesù in quel modo (come mostra bene l’interessante film “Io sono con te” di Guido Chiesa). Ma questo non è vero solo per Maria! Dio – in Gesù – ha deciso di essere Colui che non è mai senza l’uomo (non a caso nella Bibbia non si parla mai di Dio in sé, ma sempre di Dio in relazione al suo popolo!), Colui che non è mai senza di me… Perché come diceva Bettazzi in una recente conferenza: “Quando Dio ha pensato il mondo, ha pensato un mondo in cui ci fossi anch’io!”. Ecco che allora anche per noi che siamo nella parte popolare, semplice, normale, piccola della storia, non ci sono più scuse per non entrare in questa relazione con Lui. Perché non solo la nostra non è la parte “sbagliata”, ma è quella privilegiata!

lunedì 12 dicembre 2011

La logica nuova - L'ADORAZIONE DEI MAGI


Albrecht Durer, Adorazione dei Magi, 1504, Firenze, Gall. degli Uffizi


Nella rilettura teologica dell’infanzia di Gesù,

sono gli stranieri, i magi che vengono dall’oriente,

quelli che lo riconoscono...


Sono i lontani, quelli per definizione fuori:

fuori dalla salvezza, fuori dall’amore e dalla custodia di Dio, fuori anche dalla speranza…


Con la narrazione di una breve storia l’evangelista Matteo ci presenta il ribaltamento della mentalità dell’esclusione, tipica di ogni religione!

Quel continuo bisogno di tracciare confini, di delimitare le appartenenze, di segnare il territorio...


È una logica nuova quella che è messa in campo con la nascita di Gesù:

quella dell’amore che attira a sé e agisce per contagio, senza paura…

dell’ultimo nuovo arrivato, del diverso, del lontano.


Gesù ha rivelato il volto di un Dio che sta tutto dalla parte di quelli che noi a vario titolo lasciamo fuori, dalla nostra vita, dalla nostra società, dalla nostra Chiesa…

le vittime della nostra paura...


Per la quale continuiamo a star dentro...

mentre Dio per mezzo di Gesù Cristo, nello Spirito santo... è lì fuori con loro... in una capanna.


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L'opera di Albrecht Dürer, maestro capace di mettere in comunicazione cultura nordica e italiana, è colma di allusioni e significati simbolici. Per una volta, dunque, l'invito è quello di soffermarsi sui tanti piccoli dettagli di un dipinto, che ne arricchiscono il significato. Non solo spesso ignoriamo il significato di molti di questi elementi, ma addirittura non li notiamo neppure, nella frenesia di uno sguardo avido.

L'episodio è ambientato in uno scenario di rovine: il vecchio mondo pagano crolla, e su di esso si innesta la novità del cristianesimo; tra le rovine spuntano dettagli di grande realismo, che dimostrano l'interesse di Dürer per la natura. Ma è interessante osservare quale sia il significato attribuito loro dagli studiosi: in primo piano, da una fessura del manufatto, forse una macina, su cui è seduta Maria, spunta un garofano, fiore che viene associato alla Passione per il suo colore rosso e i suoi frutti (i chiodi). Accanto ad esso, una farfalla: poichè essa si libera di un corpo terreno per spiccare il volo, è stata scelta come simbolo dell'anima, che abbandonato il corpo ascende verso Dio. Più a destra, un animale ancor più strano, il cervo volante, che per il suo aspetto inquietante è spesso usato come simbolo del demonio: nella storia del mondo, e anche in quella di Gesù, è sempre presente la tentazione.

Se infine osserviamo i tre magi, noteremo che uno di essi, quello coi capelli lunghi, presenta fattezze simili a quelle di Dürer, la cui immagine conosciamo grazie a numerosi autoritratti. Mi piace pensare che sia un invito a far sì che ognuno di noi diventi come uno dei Magi, si metta in cammino per riconoscere il Dio fatto uomo.

martedì 6 dicembre 2011

III Domenica dei Avvento: Giovanni Battista (2)

In questa Terza Domenica di Avvento, la liturgia della Parola ci ripropone nuovamente la figura del Battista, nella versione – stavolta – dell’evangelista Giovanni.

Io credo che l’insistenza che la Chiesa ponga su questo personaggio – proprio in questo tempo di preparazione al Natale –, sia dovuta al fatto che conoscere Giovanni Battista e rapportarlo, confrontandolo, con Gesù, ci aiuta ad orientare meglio la nostra attesa del Dio che viene.

Settimana scorsa ci siamo soffermati soprattutto su una conoscenza un po’ “didattica” del Battista. Oggi – proprio anche alla luce della presentazione che il Quarto Vangelo fa di lui («Egli confessò e non negò. Confessò: “Io non sono il Cristo”») – mi piacerebbe provare a vedere come Gesù segua le orme del Battista e tuttavia le reindirizzi altrove!

Lo faccio ancora al seguito di J. A. Pagola in Gesù. Un approccio storico.


«La “conversione” di Gesù. In un dato momento, Gesù si avvicino al Battista, ascoltò la sua chiamata alla conversione e si fece battezzare da lui nelle acque del fiume Giordano; il fatto avvenne intorno all’anno 28. […] Per Gesù si tratta di un momento decisivo, perché implica un ribaltamento totale della sua vita. Quel giovane artigiano oriundo di un piccolo villaggio della Galilea non tornerà più a Nazaret; in futuro si dedicherà corpo e anima a un compito di carattere profetico che sorprende i suoi familiari e vicini. […] A quanto sembra [quando va da Giovanni] Gesù non ha ancora un progetto proprio ben definito. Tuttavia, la sua decisione di farsi battezzare da Giovanni lascia intravedere […] che condivide la sua visione circa la situazione disperata d’Israele: il popolo ha bisogno di una conversione radicale per accogliere il perdono di Dio. Ma Gesù condivide anche e soprattutto la speranza del Battista, ed è attratto dall’idea di preparare il popolo all’incontro con il suo Dio; presto tutti conosceranno la sua irruzione salvifica, Israele sarà restaurato, l’Alleanza verrà rinnovata e la gente potrà godere di una vita più degna. Questa speranza, ripresa inizialmente dal Battista, Gesù non la scorderà mai.

Gesù ha assunto il battesimo come segno e impegno di un cambiamento radicale. […] Si svincola dalla famiglia e si dedica al suo popolo; dimentica anche il proprio lavoro; lo attrae soltanto l’idea di collaborare a quel meraviglioso movimento di conversione iniziato da Giovanni.

[Dopo il battesimo] Gesù non torna immediatamente in Galilea, ma si trattiene per qualche tempo nel deserto accanto al Battista, […] approfondendo ulteriormente il suo messaggio e aiutandolo da vicino nel suo lavoro.

Il nuovo progetto di Gesù. Il movimento iniziato dal Battista cominciava a venir notato in tutto Israele; anche i gruppi tacciati di essere indegni e peccatori, come gli esattori di imposte e le prostitute, accolgono il suo messaggio; soltanto le élite religiose e gli erodiani dell’entourage di Antìpa oppongono resistenza. […] Giovanni diventa un profeta pericoloso soprattutto quando Erode ripudia sua moglie per sposare Erodìade, moglie del suo fratellastro Filippo. [La questione non era solo morale:] Antìpa era sposato con la figlia di Areta IV, re di Nabatea; il matrimonio era stato ben accolto, perché sigillava la pace fra la regione della Perea e quel popolo di frontiera, sempre ostile e guerriero. Ora però questo divorzio spezza nuovamente la stabilità; i nabatei lo considerano come un insulto al loro popolo e si preparano a lottare contro Erode Antìpa.

La situazione diventa esplosiva quando il Battista, che predica a meno di venti chilometri dalla frontiera con i nabatei, denuncia pubblicamente l’operato del re. […] Prima che la situazione peggiori, Antìpa ordina di incarcerare il Battista nella fortezza di Macheronte, e, più tardi, ne ordina l’esecuzione.

[…] Gesù reagisce in maniera sorprendente. Non abbandona la speranza che animava il Battista, bensì la radicalizza fino ad estremi insospettati. Non continua a battezzare come fanno altri discepoli di Giovanni; […] dà per conclusa la preparazione che il Battista ha promosso fino ad allora e trasforma il suo progetto in un altro nuovo. […] In Gesù si va destando una convinzione: Dio agirà in questa situazione disperata in un modo inaspettato.

[…] Gesù cominciò a vedere tutto in un orizzonte nuovo. È finito ormai il tempo della preparazione nel deserto; comincia l’irruzione definitiva di Dio; bisogna collocarsi in maniera diversa. Quel che Giovanni attendeva per il futuro comincia già a diventare realtà; cominciano dei tempi che non appartengono alla vecchia epoca della preparazione, bensì a un’era nuova; giunge ormai la salvezza di Dio.

Quel che Gesù contemplava non era soltanto un cambiamento di prospettiva temporale; la sua intuizione credente e la sua totale fiducia nella misericordia di Dio lo portano a trasformare radialmente quanto Giovanni si attendeva.

[…] Gesù cominciava a vedere tutto nella prospettiva della misericordia di Dio. Per questo popolo […] ora comincia […] il grande dono della salvezza. […] Il popolo conoscerà l’incredibile compassione di Dio, non la sua ira distruttrice.

Gesù comincia presto a parlare un linguaggio nuovo: sta giungendo il “regno di Dio”. Non bisogna continuare ancora ad aspettare, bisogna accoglierlo. Quel che a Giovanni sembrava qualcosa di tuttora lontano, sta già facendo irruzione; presto estenderà la sua forza salvifica. Bisogna proclamare a tutti questa “Buona Novella”; il popolo deve convertirsi, ma la conversione non consisterà nel prepararsi a un giudizio, come pensava Giovanni, bensì nell’“entrare” nel “regno di Dio” e nell’accogliere il suo perdono salvifico.

Gesù lo offre a tutti. […] In Gesù l’idea del giudizio non scompare, ma cambia totalmente di prospettiva; Dio viene per tutti come salvatore, non come giudice.

[…] Gesù abbandona il deserto che è stato lo scenario della preparazione e si sposta nella terra abitata da Israele, per proclamare e “mettere in scena” la salvezza che si offre ormai a tutti con l’avvento di Dio. La gente non dovrà più recarsi nel deserto come ai tempi di Giovanni; sarà egli stesso […] a percorrere la terra promessa. Per gli abitanti della Galilea e dei dintorni, la sua vita itinerante sarà il miglior simbolo dell’avvento di Dio, che viene come Padre a istituire una vita più degna per tutti i suoi figli.

Gesù abbandona anche il carattere e la strategia profetica di Giovanni. La vita austera del deserto viene sostituita da uno stile di vita festoso; mette da parte il modo di vestire del Battista; non ha senso neppure continuare a digiunare; è giunto il momento di celebrare pasti aperti a tutti, per accogliere e celebrare la vita nuova che Dio vuole instaurare nel suo popolo. Del banchetto condiviso da tutti, Gesù fa il simbolo più espressivo di un popolo che accoglie la pienezza di vita voluta da Dio.

Neppure il battesimo stesso ha più significato come rito di un nuovo ingresso nella terra promessa. Gesù lo sostituisce con altri segni di perdono e guarigione che esprimono e rendono realtà la liberazione voluta da Dio per il suo popolo. Per ricevere il perdono non è necessario salire al tempio di Gerusalemme per offrire sacrifici di espiazione; non è necessario neppure immergersi nelle acque del Giordano; Gesù lo offre gratis a quanti accolgono il regno di Dio. Per proclamare la sua misericordia in maniera più sensibile e concreta si dedicherà a qualcosa che Giovanni non aveva mai fatto: curare infermi che nessuno curava; alleviare dolore di persone abbandonate; toccare lebbrosi che nessuno toccava; benedire e abbracciare bambini e piccini. Tutti devono sentire la vicinanza salvifica di Dio, anche i più dimenticati e disprezzati: gli esattori, le prostitute, gli indemoniati, i samaritani.

Gesù abbandona anche il linguaggio duro del deserto. Il popolo deve ora ascoltare una Buona Notizia. La sua parola diventa poesia. Invita la gente a guardare la vita in maniera nuova; comincia a raccontare parabole che il Battista non avrebbe mai immaginato. Il popolo rimane conquistato. Tutto comincia a parlare loro della vicinanza di Dio: il seme che seminano e il pane che cuociono, gli uccelli del cielo e le messi dei campi, le nozze in famiglia e i pasti intorno a Gesù.

Con Gesù, tutto comincia a essere diverso. Il timore del giudizio lascia il passo alla gioia di accogliere Dio, amico della vita; nessuno parla più della sua “ira” imminente; Gesù invita alla fiducia totale in un Dio Padre. Non cambia soltanto l’esperienza religiosa del popolo: l’immagine stessa di Gesù si trasforma; nessuno lo vede ora come un discepolo o collaboratore del Battista, bensì come il profeta che proclama con passione l’avvento del regno di Dio. È lui quel personaggio che Giovanni chiamava “il più forte”».

Le lacrime e le parole


di Barbara Spinelli su Repubblica.it

Tendiamo a dimenticare che in tutti i monoteismi, il cuore non è la sede di passioni o sentimenti sconnessi dalla ragione. Nelle tre Scritture, compresa la musulmana, il cuore è l’organo dove alloggiano la mente, la conoscenza, il distinguo.

Se il cuore di una persona trema, se quello del buon Samaritano addirittura si spacca alla vista del dolore altrui, vuol dire che alla radice delle emozioni forti, vere, c’è un sapere tecnico del mondo. Per questo il pianto del ministro Fornero, domenica quando Monti ha presentato alla stampa la manovra, ha qualcosa che scuote nel profondo.

Perché dietro le lacrime e il non riuscire più a sillabare, c’è una persona che sa quello di cui parla: in pochi attimi, abbiamo visto come il tecnico abbia più cuore (sempre in senso biblico) di tanti politici che oggi faticano a rinnovarsi. Pascal avrebbe detto probabilmente: il ministro non ha solo lo spirito geometrico, che analizza scientificamente, ma anche lo spirito di finezza, che valuta le conseguenze esistenziali di calcoli razionalmente esatti. Balbettavano anche i profeti, per esprit de finesse.

È significativo che il ministro si sia bloccato, domenica, su una precisa parola: sacrificio. La diciamo spesso, la pronunciano tanti politici, quasi non accorgendosi che il vocabolo non ha nulla di anodino ma è colmo di gravità, possiede una forza atavica e terribile, è il fondamento stesso delle civiltà: l’atto sacrificale può esser sanguinoso, nei miti o nelle tragedie greche, oppure quando la comunità s’incivilisce è il piccolo sacrificio di sé cui ciascuno consente per ottenere una convivenza solidale tra diversi.

Non saper proferire il verbo senza che il cuore ti si spacchi è come una rinascita, dopo un persistente disordine dei vocabolari. È come se il verbo si riprendesse lo spazio che era suo. Nella quarta sura del Corano è un peccato, “alterare le parole dai loro luoghi”. Credo che l’incessante alterazione di concetti come sacrificio, riforma, bene comune, etica pubblica, abbia impedito al ministro del Lavoro – un segno dei tempi, quasi – di compitare una locuzione sistematicamente banalizzata, ridivenuta d’un colpo pietra incandescente. Riformare le pensioni e colpire privilegi travestiti da diritti è giusto, ma fa soffrire pur sempre.

Di qui forse la paralisi momentanea del verbo: al solo balenare della sacra parola, risorge la dimensione mitica del sacrificio, il terrore di vittimizzare qualcuno, la tragedia di dover – per salvare la pòlis – sgozzare il capro espiatorio, l’innocente.

Medicare le parole presuppone che si dica la verità ai cittadini, e anche questo sembra la missione che Monti dà a sé e ai partiti. Riportare nel loro luogo le parole significa molto più che usare correttamente i dizionari: significa rimettere al centro concetti come il tempo lungo, il bene comune, il patto fra generazioni.

Significa, non per ultimo: rendere evidente il doppio spazio – nazionale, europeo – che è oggi nostra cosmo-poli e più vasta res publica. Il presidente del Consiglio lo sa e con cura schiva il lessico localistico, pigro, in cui la politica s’è accomodata come in poltrona. Stupefacente è stato quando ha detto, il 17 novembre al Senato: “Se dovete fare una scelta – mi permetto di rivolgermi a tutti – ascoltate! non applaudite!”.

L’applauso, il peana ipnotico (meno male che Silvio c’è), le grida da linciaggio: da decenni ci inondavano. Era la lingua delle tv commerciali, del mondo liscio che esse pubblicizzavano, confondendo réclame e realtà: illudendo la povera gente, rassicurando la fortunata o ricca. Erano grida di linciaggio perché anch’esse hanno come dispositivo centrale il sacrificio: ma sacrificio tribale, che esige il capro espiatorio su cui vien trasferita la colpa della collettività.

Erano capri gli immigrati, i fuggitivi che giungevano o morivano sui barconi. E anche, se si va più in profondità: erano i malati terminali che reclamano una morte senza interferenze dello Stato e di lobby religiose. La nostra scena pubblica è stata dominata, per decenni, dalla logica del sacrificio: solo che esso non coinvolgeva tutti, proprio perché nel lessico del potere svaniva l’idea di un bene disponibile per diversi interessi, credenze. Solo contava il diritto del più forte, che soppiantava la forza del diritto.

Ascoltare quello che effettivamente vien detto e fatto non ci apparteneva più. Anche il ministro Giarda si è presentato domenica come medico delle parole: “Son qui solo per correggere errori”. Non ha esitato a correggere i colleghi, e ha avuto l’umiltà di dire: “Se avessimo più tempo, certo la nostra manovra sarebbe migliore”.

Monti ha fatto capire che questa, “anche se siamo tecnici”, è però politica piena: “L’esperienza è nuova per il sistema politico italiano. A noi piace esser cavie da questo punto di vista”. Singolare frase, in un Paese dove a far da cavie sono di solito i cittadini. Ma frase coerente alla politica alta: dotata di una veduta lunga, indifferente alla popolarità breve.

Pensare i sacrifici non è semplice, perché gli italiani e gli europei da tempo si sacrificano, e tuttavia constatano disuguaglianze scandalose. Perché sacrificandosi deprimono oltre l’economia. Lo stesso Sarkozy, che campeggiò come Presidente che poteva abbassare le tasse ai ricchi visto che le cose andavano così bene, è oggi costretto ad ammettere che i francesi “stringono la cinghia da trent’anni”.

Quel che è mancato, nel sacrificio cui i popoli hanno già consentito, è l’equità, l’abolizione della miseria, delle disuguaglianze. Forse – l’emozione dei potenti resta misteriosa – Elsa Fornero ha pianto perché le misure sono dure per chi ha pensioni grame. Se solo le pensioni sotto 936 euro saranno indicizzate all’inflazione, tante pensioni basse rattrappiranno come pelle di zigrino.

Si poteva fare diversamente forse, e non tutte le misure sono ardite. La lotta all’evasione fiscale iniziata dall’ultimo governo Prodi ricomincia, ma più blanda. La cruciale tracciabilità introdotta da Vincenzo Visco (1000 euro come soglia, da far scendere in due anni a 100) è fissata durevolmente a 1000. Oltre tale cifra è vietato accettare pagamenti in contanti, che sfuggono al fisco: una draconiana stretta anti-evasione è evitata. Né si può dire che tutto sia equo, e la crescita veramente garantita.

Il fatto è che si parla di decreto salva-Italia, ma si manca di chiarire come il decreto sia anche salva-Europa. Non è un’omissione irrilevante, perché il doppio compito spiega certe durezze del piano. Speriamo sia superata. Ogni azione italiana, infatti, è urgentissimo accompagnarla simultaneamente ad azioni in Europa: per smuovere anche lì incrostazioni, privilegi, dogmi.

Per dire che non si fa prima “ordine in casa” e poi l’Europa, come nella dottrina tedesca, ma che le due cose o le fai insieme, con un nuovo Trattato europeo più solidale e democratico, o ambedue naufragheranno.

domenica 4 dicembre 2011

Solo la comunione di Dio, cambia il nostro cuore

Nel fallimento che nasce dall’impossibilità di vivere le esigenze della conversione, la necessità di un’altra Via
Nella seconda settimana dell’Avvento continuiamo ad approfondire la riflessione sul senso vero e profondo dell’attesa di una venuta che si annuncia rivoluzionaria per la storia dell’umanità. Lo facciamo a partire dal Vangelo di oggi, che introduce la “venuta pubblica” di Gesù: Qual è il senso del presentarsi di Giovanni Battista? Perché Gesù ha dovuto essere annunciato e annunciato da un uomo così? In che senso cioè è necessario un precursore?
Facciamo un passo indietro. Quando leggiamo il vangelo ci capita alcune volte di identificarci con i personaggi che agiscono. Spesso ci rendiamo conto insomma che in noi c’è un po’ di quel personaggio. Davanti a un san Tommaso che prima di credere vuole toccare con mano, non facciamo fatica ad ammettere che anche noi siamo un po’ come san Tommaso… Siamo anche un po’ come san Pietro, pronti a giurare fedeltà… e allo stesso tempo constatiamo che invece fuggiamo spaventati davanti alle nostre responsabilità. Come constatiamo che ci è molto facile in certe situazioni “lavarci le mani” come Pilato… Insomma non facciamo fatica a capire che c’è un Tommaso, un Giuda, un Pilato, un Pietro in ciascuno di noi.
Più inusuale forse è rendersi conto che in noi c’è anche un Giovanni Battista!
Per accorgercene dobbiamo comprendere chi è Giovanni Battista.
Giovanni Battista, per come il Vangelo lo descrive e per come ne scrive, è la quintessenza di tutto ciò che è l’Antico Testamento. Gesù dirà che è il più grande profeta, il più grande tra i nati da donna (Lc 7,20)… Giovanni Battista, riassume in sé, nel suo stile di vita, nel suo orientamento esistenziale, nella sua religiosità, nella sua missione, nella sua predicazione, tutto quanto dalla Genesi fino a lui, il pio israelita ha compreso e vissuto di sé e del suo rapporto con Dio e con gli uomini. In altre parole riassume tutto quello che la religione e l’etica ebraica insegnano. E cioè che l’uomo – suo malgrado! – è stato liberato da Dio (Esodo) e che ora deve impegnarsi (Es 20,1ss; Dt 5,16) a vivere da uomo libero “raddrizzando i suoi sentieri” per costruire un mondo di pace, giustizia, fratellanza, comunione con Dio e con i fratelli: Tutta la Torah e i Profeti predicano questo!

Solo che, come testimonia la Bibbia stessa e la storia, tutti questi appelli, non solo non sono serviti a niente e sono caduti nel vuoto, ma hanno peggiorato le cose in quanto gli stessi profeti sono stati tutti uccisi o esiliati o ignorati… Tutti! Come anche Gesù farà notare accusandoli di ipocrisia perché solo dopo averli ammazzati li veneravano costruendo loro sontuose tombe e meditando i loro scritti – per i quali li avevano perseguitati! – come sacri e ispirati da Dio (cfr Mt 23,29).
Come è possibile? Dove sta il problema? Il problema è che la religiosità proclamata da san! Giovanni Battista e di cui egli è il culmine, è fondamentalmente incapace di dare risposta adeguata al desiderio dell’uomo di fare del bene, di vivere in pace, di costruire un mondo di relazioni giuste! In una parola di salvarsi e di salvare! Non a caso questa si traduce in ogni religione in una moltiplicazione compulsiva di opere (di preghiere e di penitenze, ecc.) da compiere…
 
Su questo gli evangelisti sono lucidissimi e direi – passatemi il termine – spietati e senza appello…
Ad esempio nel quadretto dell’annunciazione di Giovanni Battista, suo padre Zaccaria sacerdote (!), viene descritto da san Luca, pio e giusto, ma di una giustizia che – a differenza del buon vino – invecchia sterilmente per approdare nell’incredulità acida e quindi è sostanzialmente una religiosità atea: e si noti che tutta la scena si volge nel cuore del tempio!… che non a caso si squarcerà alla morte di Gesù per indicarne il superamento. Tutt’altra cosa invece, se lo paragoniamo al racconto che segue dell’annunciazione di Gesù a Maria, con la freschezza giovanile e feconda della fede di Maria (donna e laica e in casa!)… E questo contrasto è ovviamente voluto e accentuato dai parallelismi culturalmente antitetici: uomo-maschio/adulto/sacerdote/tempio/sterile/incredulità cinica, da un lato e donna-femmina/ragazza/laica/casa/fede semplice/fecondità, dall’altro. Come dire la quintessenza del prototipo credente in un confronto perdente con la quintessenza dell’insignificanza storica e religiosa!
 
Come mai questo esito della fede del Vecchio Testamento?… Mi sembra di poter cogliere il punto nodale sul fatto che esso tace su verità radicali sull’uomo e quindi – prospetticamente – su Dio. E non ne tace per scelleratezza ma perché esso ne è strutturalmente incapace. Vediamo in che senso.
 
La predicazione di Giovanni, abbiamo detto è la sintesi di ogni predicazione di ogni profezia di ogni tempo, di ogni pretesa religiosa. Ora questa impostazione religiosa ha il torto di affermare implicitamente che la conversione è possibile a ogni uomo, basta che lo voglia, purché naturalmente si sforzi un po’ mettendoci della “buona volontà” (espressione spesso usata anche nei documenti del magistero).
 
Da questo consegue che se l’uomo non si converte la colpa è tutta sua… Non è questo anche il nostro parere? Ebbene, questo è il Giovanni che è in noi!
 
Questa impostazione religiosa ed etica e profetica, ha però come conseguenza la “criminalizzazione” di ogni peccatore, la sua emarginazione religiosa e sociale, il puntare su di lui il dito accusatorio – proprio come spesso facciamo anche noi –. “Dito” o chiacchiera – direbbe Gesù – più assassini di ogni lapidazione: infatti con la sua predicazione Gesù è proprio questa impostazione culturale che stigmatizza contestando quell’atteggiamento religioso che ne è all’origine e di cui Giovanni, san Giovanni!, è l’ultimo e supremo rappresentante.
 
E anche questo spiega perché non bastava più inviare profeti ma occorresse veramente che venisse Dio stesso nel suo Figlio a dircelo.
 
Infatti quando Giovanni chiede all’uomo di convertirsi, nasconde la verità che l’uomo è “strutturalmente” incapace di convertirsi da sé, se convertirsi vuol dire, come vuol dire, cambiare il proprio cuore (cfr Mc 7,6)! Perché questo male è così radicato nell’uomo, che per quanto egli cerchi di convertirsi non può allontanare da sé l’inclinazione al male, al dubbio, alla diffidenza, alla vendetta, al piacere sfrenato di godere e possedere…
 
Pensare che l’uomo possa convertirsi da sé o perché qualcuno gli urla dietro di farlo come fa Giovani Battista, magari su minaccia di chissà quali sofferenze future (Lc 3,7-10!), rasenta il ridicolo se non fosse così tragico per la nostra vita… Infatti cambiare comportamento per paura, non è conversione, perché nel cuore ci resta la convinzione che sarebbe stato bello poter continuare a fare quello che si faceva, tant’è vero che se cessasse la minaccia (o ci fosse una minaccia più forte o imminente cfr il tradimento di Pietro) si ritornerebbe sui propri passi. Sono cose che ciascuno di noi può attingere dalla propria esperienza…
 
Non secondaria a questa impostazione è l’immagine deleteria che ne consegue di un Dio (tiranno) che perdona solo dopo che l’uomo si è convertito e a patto che faccia ampia penitenza e “purgato” il male che ha fatto. Ma questa sembra più una proiezione del nostro concetto di perdono: Ci è infatti impossibile perdonare se l’altro per lo meno non si pente e riconosce di aver sbagliato…
 
In che senso allora il Battista – quello biblico e quello che ritroviamo in noi – annuncia e prepara l’avvenuta di Cristo nella storia e nella nostra vita? La risposta a questo punto non può che essere ovvia: Nel suo e nostro fallimento! La sua funzione o se volete la sua “missione” (come quella di tutto l’AT) è proprio quella di far emergere – nell’impossibilità di vivere le esigenze della conversione nell’esperienza concreta della vita – il bisogno di un’altra Via (Atti 9,2!; Mc 6,11 e ||; Gv 14,6), di un’altra antropologia, di un altro approccio alla santità, a Dio, alla preghiera… Di un altro modo di vivere la fede nella vita e nelle sue manifestazioni anche religiose ed etiche.
 
Solo se abbiamo il coraggio di andare fino in fondo nella nostra vita alla logica etico-religiosa (e quindi antropologica e teologica) di Giovanni Battista, ci accorgiamo che essa non basta più e avvertiamo la necessità di una nuova impostazione, di un incontro con un uomo nuovo che ci insegni un modo nuovo di essere uomo dando risposte vere alla nostra domanda di salvezza da noi stessi. Che insomma ci apra veramente la strada a un fecondo e non sterile processo di umanizzazione.
 
Lo constatiamo ogni giorno: Vogliamo veramente convertirci e fare del bene, ma proprio non ci riusciamo e non sappiamo neanche perché… Questo è anche il grido di Paolo che vede il bene ma si sente portato al male (formidabile la sua analisi in Rm 7,14-25). Ed è l’esperienza dei santi di ogni ordine e grado. Siamo quindi in buona compagnia… È come se la radice del male fosse in noi e, a volte, sembra che proprio noi siamo quel male che è in noi. E avvertiamo che per quanto ci si converta resta sempre ancora qualcosa da convertire, da purificare. E il bene che facciamo, quando riusciamo a farlo, non basta più a compensare quello che non riusciamo a fare. Ora se questo è vero per me perché non può essere vero anche per gli altri? Quello che constatiamo insomma, proprio grazie a tentativo di obbedire all’appello di conversione che ci viene da Dio, è la universale impotenza di ogni uomo a diventare buono, a convertirsi, a salvarsi… Paradossale, ma vero! 
 
E qui sta l’ulteriore paradosso: come possiamo fare esperienza della nostra impotenza se non mettiamo in atto tutte le nostre forze per cercare di compiere quel bene, di cui solo allora ci scopriremmo per esperienza concreta, fisica, incapaci? Insomma il nostro sforzo seppur inutile è necessario, non per dimostrare la nostra buona volontà, ma per riuscire finalmente a fare esperienza della nostra impotenza a salvarci. Solo a partire dal fallimento dei nostri sforzi potremo, non smettere di impegnarci, ma certamente smettere di disprezzarci sforzandoci inutilmente e poter tornare così ad essere quei bambini tra le braccia di Dio che riconoscono con gratitudine in Colui che viene, l’unico che può compiere ciò che con tutte le nostre forze e in tutta la nostra vita non siamo riusciti a compiere. È interessante notare come Paolo, nel testo su citato,  termini il suo grido disperato in una lode, o come Zaccaria, finalmente “ceda” all’evidenza del suo fallimento e si converta alla storia di Dio lodandolo. Questa è anche l’esperienza dei santi e di san Paolo, quando scoprono che la Grazia basta a vivere le fatiche della vita senza soccombervi. A sintesi di questa riflessione basterebbe ricordare quanto Paolo scopre – e noi con lui – in 2Cor 12,9!
 
Davanti alla impossibilità di uscire dal fallimento ci possono però essere altri due atteggiamenti, solo apparentemente contrapposti. Uno è quello di rinunciarci, non credendo più alla possibilità di cambiamento nella nostra vita. L’altro è continuare ad ammazzarsi torturandosi anima e corpo nel tentativo di riuscirci. L’esito in entrambi è lo stesso: la morte spirituale dell’uomo che preclude ogni possibilità di vita, presente e futura.
 
L’attesa, di un Salvatore invece, l’attesa in Colui che solo può cambiarci il cuore perché ne ha assunto le ferite guarendole in sé, è l’unica possibilità concreta che ci resta di salvezza. Ed è credo il confine, il momento discriminante nel quale avviene il passaggio del testimone nella nostra vita da Giovanni Battista a Gesù Cristo. È il punto in cui finalmente diventiamo veramente cristiani al modo il Cristo e non cristiani al modo del  Battista (espressione in sé prima di senso in quanto è ovvio che non saremmo effettivamente cristiani! Ma serve a rendere l’idea della nostra illusione…).
 
Ecco perché il Battista può dire, che il suo battesimo è semplicemente acqua… e solo quello di Gesù è quello vero. Non tanto perché viene da Dio, ma perché ci immerge in Dio innestando in noi il cuore della relazione d’amore tra il Figlio e il Padre, lo Spirito d’amore. Ma questo è possibile solo se Dio non aspetta la nostra conversione per entrare in comunione con noi, per perdonarci: il perdono non arriverebbe mai perché abbiamo visto che il cambiamento del cuore non è in nostro potere! Ma, capovolgendo le pretese su di noi di Giovanni Battista (come di ogni struttura religiosa), subito si dona a noi nella comunione col Padre – perché questo è il perdono – che ci cambia profondamente le dinamiche del cuore da consentirci di vivere fin da ora quella dimensione d’amore, di pace, di giustizia, di salvezza che da sempre Lui sperimenta. Purché accettiamo di cambiare mentalità passando dallo “sforzo” all’affidamento… Solo allora il giogo sarà leggero (Mt 11,30).
 
Nascere dall’alto, essere battezzati nello Spirito, vuol dire questo: essere rinnovati dal di dentro perché il nostro agire, non sia più finalizzato a convertirci, ma a gustare e far gustare quanto è bello riconoscersi salvati, convertiti da Dio. Così ciò che a Maria è dato fin dall’inizio a noi è offerto ogni giorno.
 
Solo così saremo in grado di consegnarci, magari sfiniti da inutili sforzi, a Colui che solo può cambiare il nostro cuore e il nostro modo di vivere. Prepararsi al Natale, prepararsi all’incontro offertoci ogni giorno da Gesù, vuol dire prendere consapevolezza di questa nostra impotenza per accogliere nel deserto della nostra religiosità sterile una dinamica nuova, quella dello Spirito che è stata all’origine della nostra stessa gioiosa conversione (cfr Lc 1,28: “Rallegrati Maria”).

sabato 3 dicembre 2011

I miei occhi hanno visto la tua salvezza - LA PRESENTAZIONE AL TEMPIO

Rembrandt, Il cantico di Simeone, 1668-1669, Stoccolma, Nationalmuseum

E' curioso come la pittura, arte visiva per eccellenza, abbia saputo talvolta interpretare e rendere in modo efficace il tema della cecità. Rembrandt, pittore olandese del Seicento, uno dei maestri assoluti della pittura sacra, vi è addirittura riuscito in due quadri che sembrano integrarsi alla perfezione tra loro. Nel Cantico di Simeone, l'uomo riconosce Dio in quel bambino che sorregge, raffigurato come un neonato dell'epoca dell'autore, mentre le mani e la bocca già si atteggiano alla preghiera, intonando il cantico che ancora recitiamo alla fine del giorno. La pittura è scabra, intrisa di luce, e non lascia spazio a compiacimenti o divagazioni decorative: ciò che conta è l'evento narrato.

In un altro, celeberrimo dipinto dello stesso autore, ad essere cieco è il padre che accoglie di nuovo il Figliol prodigo: Dio riconosce l'uomo, o meglio, gli rivela il suo vero volto, quello di padre misericordioso che si dona incondizionatamente ai suoi figli.


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«Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù» (Lc 2,21)

Gesù è un ebreo, figlio di ebrei… Da subito inserito nella storia e nella legislazione del suo popolo, un popolo eletto!

«Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore » (Lc 2,22)

Si riteneva infatti che il primogenito maschio fosse proprietà di Dio e dovesse essere riacquistato… o con un agnello, oppure – se la famiglia non aveva i mezzi per offrire un agnello – con due tortore o due colombi… La famiglia di Gesù offrì quest’ultima offerta, quella dei poveri.

«A Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone. […] Egli accolse Gesù tra le sue braccia e benedisse Dio, dicendo: “Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele» (Lc 2,25.28-32)


E fu così che la Chiesa ebbe una delle sue preghiere più belle, il cantico di Simeone, che ci ricorda che il volto di Dio non ci è ignoto, ma coincide con la vita di Gesù.


martedì 29 novembre 2011

Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso?(Lc 6,39)

Un Audit[1]del debito di Guido Vitale, 29/11/11 su «Il Manifesto».


Agli storici del futuro (se il genere umano sopravviverà alla crisi climatica e la civiltà al disastro economico) il trentennio appena trascorso apparirà finalmente per quello che è stato: un periodo di obnubilamento, di dittatura dell’ignoranza, di egemonia di un pensiero unico liberista sintetizzato dai detti dei due suoi principali esponenti: «La società non esiste. Esistono solo gli individui», cioè i soggetti dello scambio, cioè il mercato (Margaret Thatcher); e «Il governo non è la soluzione ma il problema», cioè, comandi il mercato! (Ronald Reagan). Il liberismo ha di fatto esonerato dall’onere del pensiero e dell’azione la generalità dei suoi adepti, consapevoli o inconsapevoli che siano; perché a governare economia e convivenza, al più con qualche correzione, provvede già il mercato. Anzi, “i mercati”; questo recente slittamento semantico dal singolare al plurale non rispecchia certo un’attenzione per le distinzioni settoriali o geografiche (metti, tra il mercato dell’auto e quello dei cereali; o tra il mercato mondiale del petrolio e quello di frutta e verdura della strada accanto); bensì un’inconscia percezione del fatto che a regolare o sregolare le nostra vite ci sono diversi (pochi) soggetti molto concreti, alcuni con nome e cognome, altri con marchi di banche, fondi e assicurazioni, ma tutti inarrivabili e capricciosi come dèi dell’Olimpo (Marco Bersani); ai quali sono state consegnate le chiavi della vita economica, e non solo economica, del pianeta Terra. Questa delega ai “mercati” ha significato la rinuncia a un’idea, a qualsiasi idea, di governo e, a maggior ragione, di autogoverno: la morte della politica. La crisi della sinistra novecentesca, europea e mondiale, ma anche della destra    quella “vera”, come la vorrebbero quelli di sinistra    è tutta qui.

Ma, dopo la lunga notte seguita al tramonto dei movimenti degli anni sessanta e settanta, il caos in cui ci ha gettato quella delega sta aprendo gli occhi a molti: indignados, gioventù araba in rivolta, e i tanti Occupy. Poco importa che non abbiano ancora “un vero programma” (come gli rinfacciano tanti politici spocchiosi): sanno che cosa vogliono.
Mentre i politici spocchiosi non lo sanno: vogliono solo quello che “i mercati” gli ingiungono di volere. È il mondo, e sono le nostre vite, a dover essere ripensati dalle fondamenta. Negli anni il liberismo    risposta vincente alle lotte, ai movimenti e alle conquiste di quattro decenni fa    ha prodotto un immane trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale: mediamente, si calcola, del 10 per cento dei Pil (il che, per un salario al fondo alla scala dei redditi può voler dire un dimezzamento; come negli Usa, dove il potere di acquisto di una famiglia con due stipendi di oggi equivale a quello di una famiglia monoreddito degli anni sessanta). Questo trasferimento è stato favorito dalle tecnologie informatiche, dalla precarizzazione e dalle delocalizzazioni che quelle tecnologie hanno reso possibili; ma è stato soprattutto il frutto della deregolamentazione della finanza e della libera circolazione dei capitali. Tutto quel denaro passato dal lavoro al capitale non è stato infatti investito, se non in minima parte, in attività produttive; è andato ad alimentare i mercati finanziari, dove si è moltiplicato e ha trovato, grazie alla soppressione di ogni regola, il modo per riprodursi per partenogenesi. Si calcola che i valori finanziari in circolazione siano da dieci a venti volte maggiori del Pil mondiale (cioè di tutte le merci prodotte nel mondo in un anno, che si stima valgano circa 75 mila miliardi di dollari). Ma non sono state certo le banche centrali a creare e mettere in circolazione quella montagna di denaro; e meno che mai è stata la Banca centrale europea (Bce), che per statuto non può farlo (anche se in effetti un po’ lo ha fatto e continua a farlo, per così dire, “di nascosto”). Se la Bceè oggi impotente di fronte alla speculazione sui titoli di stato (i cosiddetti debiti sovrani) è perché lo statuto che le vieta di “creare moneta” è stato adottato per fare da argine in tutto il continente alle rivendicazioni salariali e alle spese per il welfare. Una scelta consapevole quanto miope, che forse oggi, di fronte al disastro imminente, sono in molti a rimpiangere di aver fatto. A creare quella montagna di denaro è stato invece il capitale finanziario che si è autoriprodotto; i “mercati”. E lo hanno fatto perché tutti i governi glielo hanno permesso. Certo, in gran parte si tratta di “denaro virtuale”: se tutto insieme precipitasse dal cielo sulla terra, non troverebbe di fronte a sé una quantità altrettanto grande di merci da comprare. Ciò non toglie che ogni tanto    anzi molto spesso    una parte di quel denaro virtuale abbandoni la sfera celeste e si materializzi nell’acquisto di un’azienda, una banca, un albergo, un’isola; o di ville, tenute, gioielli, auto e vacanze di lusso. A quel punto non è più denaro virtuale, bensì potere reale sulla vita, sul lavoro e sulla sicurezza di migliaia e migliaia di esseri umani: un crimine contro l’umanità.

È un meccanismo complicato, ma facile da capire: in ultima analisi, quel denaro “fittizio”    che fittizio non è    si crea con il debito e si moltiplica pagando il debito con altro debito: in questa spirale sono stati coinvolti famiglie (con i famigerati mutui subprime; ma anche con carte di credito, vendite a rate e “prestiti d’onore”), imprese, banche, assicurazioni, Stati; e, una volta messi in moto, quei debiti rimbalzano dagli uni agli altri: dai mutui alle banche, da queste ai circuiti finanziari, e poi di nuovo alle banche, e poi ai governi accorsi in aiuto delle banche, e dalle banche di nuovo agli Stati. E non se ne esce, se non    probabilmente    con una generale bancarotta.

In termini tecnici, l’idea di pagare il debito con altro debito si chiama “schema Ponzi”, dal nome di un finanziere che l’aveva messa in pratica negli anni ‘30 del secolo scorso (al giorno d’oggi quell’idea l’hanno riportata in vita il finanziere newyorchese Bernard Madoff e, probabilmente, molti altri); ma è una pratica vecchia come il mondo, tanto che in Italia ha anche un santo protettore: si chiama “catena di Sant’Antonio”. In realtà, tutta la bolla finanziaria che ci sovrasta non è che un immane schema Ponzi. E anche i debiti degli Stati lo sono. Il vero problema è sgonfiare quella bolla in modo drastico, prima che esploda tra le mani degli apprendisti stregoni dei governi che ne hanno permesso la creazione. Nell’immediato, un maggiore impegno del fondo salvastati, o del Fmi, o gli eurobond, o il coinvolgimento della Bce nell’acquisto di una parte dei debiti pubblici europei potrebbero allentare le tensioni. Ma sul lungo periodo è l’intera bolla che va in qualche modo sgonfiata.

Prendiamo l’Italia: paghiamo quest’anno 70 miliardi di interessi sul debito pubblico (che è di circa 1900 miliardi). L’anno prossimo saranno di più, perché gli interessi da pagare aumentano con lo spread. Negli anni passati a volte erano meno, ma a volte, in proporzione, anche di più. Quasi mai sono stati pagati con le entrate fiscali dell’anno (il cosiddetto avanzo primario); quasi sempre con un aumento del debito. Basta mettere in fila questi interessi per una trentina di anni    da quando hanno cominciato a correre   e abbiamo una buona metà, e anche più, di quel debito che mette alle corde l’economia del paese e impedisce a tutti noi di decidere come e da chi essere governati. Perché a deciderlo è ormai la Bce. Ma la vera origine del debito italiano è ancora più semplice: l’evasione fiscale. Ogni anno è di 120 miliardi o cifre equivalenti: così, senza neanche scomodare i costi di “politica”, della corruzione o della malavita organizzata, bastano quindici anni di evasione fiscale    e ci stanno    per spiegare i 1900 miliardi del debito italiano. Aggiungi che coloro che hanno evaso le tasse sono in buona parte    non tutti    gli stessi che hanno incassato gli interessi sul debito e il cerchio si chiude. La spesa pubblica in deficit ha la sua utilità se rimette in moto “risorse inutilizzate”: lavoratori disoccupati e impianti fermi. Ma se alimenta evasione fiscale e “risparmi” che vanno solo ad accrescere la bolla finanziaria, è una sciagura.

Altro che pensioni da tagliare (anche se le ingiustizie da correggere in questo campo sono molte)! E altro che scuola, e università, e sanità, e assistenza troppo “generose”! Siamo di fronte a cifre incomparabili: per distruggere scuola e Università è bastato tagliare pochi miliardi di euro all’anno. E da una “riforma” anche molto severa delle pensioni si può ricavare solo qualche miliardo di euro all’anno. Dalla svendita degli immobili dello Stato e dei servizi pubblici locali non si ricava molto di più. Dalla liquidazione di Eni, Enel, Ferrovie, Finmeccanica, Fincantieri e quant’altro, come improvvidamente suggerito nel luglio scorso dai bocconiani Perotti e Zingales (l’economista di riferimento, quest’ultimo, di Matteo Renzi; ma anche di Sarah Palin!), si ricaverebbe non più di qualche decina di miliardi una volta per sempre, trasferendo in mani ignote (ma potrebbero benissimo essere quelle della mafia) le leve dell’economia di un intero paese.

Mentre interessi ed evasione fiscale ammontano a decine di miliardi ogni anno e il debito da “saldare” si conta in migliaia di miliardi. Per questo il rigore promesso dal governopotrà fare male ai molti che non se lo meritano, ma non ha grandi prospettive di successo: affrontare con queste armi il deficit pubblico, o addirittura il debito, è un’impresa votata al fallimento. O una truffa. Per questo è urgente effettuare un audit (un inventario) del debito italiano, perché tutti possano capire come si è formato, chi ne ha beneficiato e chi lo detiene(anche per poter prospettare trattamenti diversi alle diverse categorie di prestatori).

L’altro inganno che domina il delirio pubblico promosso dagli economisti mainstream    e in primis dai bocconiani    è la “crescita”. A consentire il pareggio del bilancio imposto dalla Bce e tra breve “costituzionalizzato”, cioè il pagamento degli interessi sul debito con il solo prelievo fiscale, e addirittura una graduale riduzione, cioè restituzione, del debito dovrebbe essere la “crescita” del Pil messa in moto dalle misure liberiste che i precedenti governi non avrebbero saputo o voluto adottare: liberalizzazioni, privatizzazioni, riforma del mercato del lavoro (alla Marchionne), eliminazioni delle pratiche amministrative inutili (ben vengano, ma bisognerà riparlarne) e le “grandi opere” (in primis il Tav). Ma per raggiungere con l’aumento del Pil obiettivi del genere ci vorrebbero tassi di crescita “cinesi”; in un periodo in cui l’Italia viene ufficialmente dichiarata in recessione, tutta l’Europa sta per entrarci, l’euro traballa, gli Stati Uniti sono fermi e l’economia dei paesi emergenti sta ripiegando. È il mondo intero a essere in balia di una crisi finanziaria che va ad aggiungersi a quella ambientale    di cui nessuno vuole più parlare    e allo sconvolgimento dei mercati delle materie prime (risorse alimentari in primo luogo) su cui si riversano i capitali speculativi che stanno ritirandosi dai titoli di stato (e non solo da quelli italiani). Interrogati in separata sede, sono pochi gli economisti che credono che nei prossimi anni possa esserci una qualche crescita. Molti prevedono esattamente il contrario; ma nessuno osa dirlo. Questa farsa deve finire. È ora di pensare    e progettare seriamente    un mondo capace di soddisfare i bisogni di tutti e di consentire a ciascuno una vita dignitosa anche senza “crescita”. Semplicemente valorizzando le risorse umane, il patrimonio dei saperi, le fonti energetiche e le risorse materiali rinnovabili, gli impianti e le attrezzature che già ci sono; e rinnovandoli e modificandoli solo per fare meglio con meno. Non c’è niente di utopistico in tutto questo; basta    ma non è poco    l’impegno di tutti gli uomini e le donne di buon senso e di buona volontà.
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