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domenica 30 gennaio 2011

Poveri, senza rassegnazione e senza prostituzione

Sofonia
(iconostasis del XVIII secolo, mon. di Kizhi, Russia)
Il profeta Sofonia, che ha vissuto sei secoli prima di Cristo si trova ad esercitare la sua missione in un periodo storico di grande desolazione. La tribù di Giuda scampata all’invasione del re assiro Sennacherib è stata devastata economicamente e la miseria si diffonde ovunque. Ora davanti a questa miseria, sociale, economica, esistenziale, politica, che diventa anche religiosa, il profeta constata alcune cose che possiamo verificare anche noi nella nostra vita.

Davanti alla propria povertà e miseria, anche al solo rischio di diventarlo, una persona, un popolo può reagire in vari modi: O non crede alla possibilità di un cambiamento o cerca di cambiare le cose. Coloro che non credono al cambiamento si lasciano andare rassegnandosi al proprio destino di miseria o maledicendo dio o implorando un intervento dall’alto nella propria vita. Ma queste persone non muovono un dito (non andrebbero neanche a Lourdes!), perché la situazione cambi veramente, perché non ci credono che possa cambiare: miracolismo e fatalismo – ateo o religioso che siano – sono figli della stessa disperazione.

Però anche chi vuole reagire e cambiare le cose può non essere poi così diverso da questo primo gruppo di persone disperate: è colui che, cerca di battere il ricco sul suo stesso terreno adottandone la mentalità, diventandone abile imitatore. Ma in questo modo è già sconfitto, perché per diventare ricco e uscire dalla propria ingiusta miseria, si fa imitatore di colui che è causa di questa ingiustizia. Infatti questa persona, questo popolo, non si cura dell’ingiustizia con cui i suoi concittadini sono mantenuti nella miseria, gli basta di non esserlo lui e le persone della sua casa o nazione. Anche a costo di arrivare a dei compromessi con i propri ideali, con la propria dignità, con la propria fede, con la propria cultura e con il proprio dio e con il proprio corpo. Coinvolgendo in questo persino i propri cari.

Se è vero che la cronaca di questi giorni ce la propone come nauseante realtà, la mia intenzione va piuttosto a un esame spassionato sulla nostra vita, sul nostro modo di relazionarci in questa società e in questo pianeta.

E se riusciamo ancora ad essere schifati di deputati che si vendono e di genitori e figlie e figli che si corrompono e della “folla” che subisce tutto passivamente, allora forse ci è rimasta ancora un po’ di forza per poter ascoltare un’altra parola: Colui che vuole cambiare veramente le cose, togliendo ogni molestia – ci ricorda il Signore per bocca di Sofonia – deve cercare la giustizia, deve cercare non di diventare grande e potente, ma umile, cioè piccolo, perché solo se ciascuno si mette al servizio dell’altro potrà nascere il vero benessere e la vera libertà per tutti e non solo per qualche privilegiato. Ma per fare questo bisogna confidare nel Signore, cioè credere nella verità della sua parola, perché sola può dare compimento al nostro desiderio di una vita di pace e di giustizia. D’altronde comincia a diventare evidente quanto menzognera e fraudolenta appare la proposta che pone nella rassegnazione o nell’amicizia col padrone la soluzione dei problemi della propria vita e della nostra società (cfr quel film “criminale” che è La ricerca della felicità).

Se la smette di lamentarsi o di prostituirsi, allora il povero diventa il vero privilegiato perché unico destinatario della Parola. Non ce lo ricorda soltanto Paolo descrivendoci senza vergogna e quasi con orgoglio la povertà sociale e culturale della sua comunità, ce lo mostra plasticamente anche il Vangelo di oggi.

Dicevo che occorre confidare nel Signore, credere nella verità della sua parola, perché solo lei può senza inganno dare compimento al nostro desiderio di una vita di pace e di giustizia, perché è con quella stessa parola che siamo creati e solo di quella parola ci è possibile vivere. E guardiamola questa Parola! Cerchiamo per un attimo di vederci lì ai piedi di Gesù che parla. È la Parola che parla, senza mediazioni, senza clero, senza nessuno che ce la debba ridire e spiegare, senza bisogno di incenso e di teologi: si sta rivolgendo direttamente a ciascuno di noi.: Gesù laico che parla a dei laici...

Quelle parole che Gesù pronuncia è quella stessa Parola – immagine del Padre – con cui noi siamo stati creati dal Padre a sua immagine. Di quella parola siamo fatti, è nel nostro intimo più intimo (che è lo stesso intimo di Dio) e ora ci parla, si rivolge a noi. È fuori di noi, in Gesù che parla, ma è anche dentro di noi, nel Verbo di cui siamo fatti: la bocca di Gesù ci sta rivelando quello che ignorato abbiamo dentro. Basta ascoltarla, basta accoglierla per scoprirsi nuovi, diversi da come gli altri ci vogliono (infelici), uguali a come il Padre ci ama (felici). Andare verso Gesù allora vuol dire andare verso quella Parola di cui siamo fatti: è abbracciare veramente se stessi, scoprendosi figli. E nello stesso tempo, andare verso Gesù vuol dire andare verso quella Parola che è Dio nel cuore di Dio: è abbracciare veramente un Dio scoprendolo padre. Per questo la povertà, così vissuta, è la “cifra” di Dio in quanto è la “forma” dell’amore che unisce.

E allora di cosa abbiamo paura? Siamo finalmente uomini e donne libere, perché niente ci manca di ciò di cui il nostro cuore vive: il lavoro faticoso di un cambiamento possibile della storia – senza rassegnazione e senza prostituzione – nasce solo da questa pienezza di vita.

sabato 29 gennaio 2011

IV Domenica del Tempo Ordinario: Tra i beati Gesù mette anche quelli che piangono (di afflizione)?!

In questa quarta domenica del Tempo Ordinario, ecco che puntuale arriva il testo di Matteo 5, che ci propone l’inizio del cosiddetto “Discorso della montagna”, ossia quello che ci narra le beatitudini che Gesù elenca ai suoi discepoli e alle folle sul monte…


È un testo difficile… per tanti motivi… sicuramente per il contenuto, ma prima ancora forse, perché è uno di quei testi che subisce il doppio rischio dei brani “troppo” conosciuti: quello cioè di essere ormai dato per scontato o – viceversa – quello di essere così minuziosamente analizzato (per trovarci qualcosa di nuovo da dire) da risultare snaturato…

Mi pare allora che – forse – il modo migliore, quest’oggi, per approcciarsi al testo sia quello di far emergere con sincerità e trasparenza tutto il disagio che il ritrovarselo – ancora una volta – “tra i piedi”, suscita…

Perché il punto è proprio questo… ritrovarsi ancora una volta di fronte a questo brano e scoprire che ancora non lo si è capito, non lo si è incarnato… Infatti il “contenutisticamente difficile” a cui si faceva riferimento in precedenza, non sta tanto nell’individuazione del significato del testo (che è fin troppo chiaro), ma nell’attuare una conversione alla logica che propone…

Esso, infatti, sostanzialmente non è molto più che un elenco di persone (o gruppi di persone) che Gesù definisce “beate”, dunque felici, contente… Un elenco che chiunque di noi potrebbe stilare… anzi che sarebbe interessantissimo che ciascuno di noi stilasse… Chi è beato? Chi potremmo chiamare “felice”? Di chi potremmo dire che è contento?

E dalle proposte che ne risulterebbero, emergerebbe, per ciascuno, l’idea di felicità che ha in testa… l’idea di “buona riuscita” della vita… l’ideale di contentezza a cui aspira…

E il punto sta proprio qua: Quale idea di beatitudine, di felicità, di buona riuscita della vita, emerge dall’elenco di Gesù? Perché se abbiamo deciso di dargli credito, se abbiamo deciso di porre in Lui (cioè nella Parola di Dio, fatta carne) la nostra fiducia, se siamo alla ricerca di risposte credibili e fondative per orientare il percorso della nostra vita, è proprio questo che dobbiamo chiederci e chiarirci… Qual è il futuro che ci prospetta? Qual è l’ideale verso cui ci conduce? Qual è la vita che pensa, dovremmo condurre per essere felici?

Beh… è quella dei poveri in spirito, di quelli che sono nel pianto, dei miti, di quelli che hanno fame e sete di giustizia, dei misericordiosi, dei puri di cuore, degli operatori di pace, dei perseguitati per la giustizia (e non dalla giustizia! A scanso di equivoci…)…

Un elenco strano… Non tanto perché lontano da quello che formulerebbero i nostri adolescenti (o la parte più visibile e rumorosa dei nostri adolescenti – di tutte le età) – quindi un elenco in cui i beati sono i ricchi, i famosi, i calciatori, quelli che hanno tante donne, ecc… “Strano” dunque, non tanto per questo (perché, credo e spero, un ideale del genere mostri da sé tutta la sua meschinità e bassezza…), quanto piuttosto perché, pur assomigliando – almeno in alcuni aspetti – all’elenco che formuleremmo anche noi alla ricerca di “ideali alti” (la mitezza, la giustizia, la pace, ecc…), in realtà ha in sé un elemento del tutto imprevisto (e che Luca radicalizzerà): quello degli afflitti, che ora la nuova traduzione rende con “quelli che sono nel pianto”…

Mentre infatti tutte le altre beatitudini di Matteo sono in qualche modo riconducibili ad un ideale accettabile e accettato – almeno a parole – da tutti noi e da quella che riconosciamo come la parte “nobile” e “sana” della società, questa degli afflitti (e quelle di Luca: «Beati voi, poveri», « Beati voi, che ora avete fame», « Beati voi, che ora piangete»), ci risulta incompatibile da accostare ad un ideale di felicità…

Ma, come sempre in questi casi, non pare una buona prassi metodologica il mettere tra parentesi ciò che fa problema alla sintesi riflessiva che ci siamo fatti, facendo finta che questo elemento di eterogeneità non ci sia… Molto più serio è rimettere in discussione la sintesi trovata a partire dall’elemento che non fa tornare i conti… perché se non tornano, non tornano… è inutile far finta di niente…

Il punto è allora che – a dispetto di quanto sembrava all’inizio – l’ideale di felicità di Gesù, che in qualche modo non ci sembrava così lontano da quello (almeno teorico) che avremmo evinto anche da un nostro ipotetico elenco di beati, in realtà va ripensato… radicalmente…
Infatti forse l’inganno mentale in cui siamo caduti è stato quello di dare per scontato che cosa fosse la “beatitudine”, la “felicità” e, dunque, semplicemente far variare i percorsi per raggiungerla: perciò una vita bella, riuscita, felice non poteva essere quella dei ricchi, fannulloni, annoiati e soli… bensì quella di persone animate da grandi idealità e impegnate su quei versanti… la pace, la giustizia, la mitezza, ecc… pensando che questo fosse anche ciò che pensava / diceva Gesù…

Invece, la questione è più radicale… Quel “beati gli afflitti” insinua un necessario ripensamento che va a scavare fino al significato stesso di felicità… Detto con uno slogan: per Gesù i felici non sono necessariamente i sorridenti… Tra i beati Lui ci mette infatti anche quelli che piangono (di afflizione!).

Cosa vuol dire questo? Che la buona riuscita della vita per Gesù ha come elemento fondamentale qualcosa d’altro rispetto alla sensazione/emozione/condizione di ben-essere, di allegria, contentezza, soddisfazione, ecc… Per Lui infatti – e lo si evince da tutto il vangelo, da come vive e da come muore – una vita è beata se ha come unica preoccupazione quella di alzare il tasso d’amore nel mondo, testimoniando così l’inequivoca paternità di Dio. A quel punto non importa se le prendi, se ti perseguitano, se ti ritrovi nel pianto… non importa neanche se rimani da solo (come don Primo Mazzolari davanti allo specchio con un bicchiere di vino a dire: “Però c’abbiamo ragione noi!”)… la tua vita – a quel punto – è una vita “riuscita” secondo le logiche del Regno! E la felicità starà nel guardare alla consistenza della persona (amante) che si è diventati o si è tentato di diventare… il resto conterà… ma molto poco…

È per questo che dicevo all’inizio che è brutto ritrovarsi “tra i piedi” un’altra volta questo testo… Perché è su di esso che continuamente dovremmo fare la verifica della nostra vita, delle nostre giornate, dei criteri che guidano le nostre scelte, i nostri umori, le nostre reazioni… la nostra felicità… e la verifica non dà grandi esiti: ci ritroviamo infatti, guardandoci, a vedere quello che Paolo vedeva nelle prime comunità, «dove d’istinto emergeva l’affermazione mondana della forza, della cultura, del potere, come criteri di valore e d’importanza in comunità» [Giuliano]… dove cioè, ancora una volta, è la pienezza dell’io a determinare la felicità… e non la pienezza del tu…

Forse allora, all’inizio di questo nuovo anno liturgico, è bene ripartire da questa necessità di convertirci noi al vangelo e non di convertire lui a noi… Partendo proprio dal chiederci: Che cosa è per me la beatitudine? E che cosa invece mi suggerisce il Signore per arrivare alla fine e, guardandomi indietro, non dire “che schifo di vita ho vissuto, che brutta persona sono diventata”, ma piuttosto “ho voluto bene più che ho potuto”?

«Magari sono piccolissimi assaggi o (minuscole beatitudini!), soltanto squarci di un cielo e di una prospettiva che di solito vediamo e desideriamo da lontano, ed invece già adesso, ci è promessa e seminata in cuore, anche se rimane sempre ingovernabile e imprendibile…come ogni dono dello Spirito. E si annebbia presto, lungo la giornata, nei ritmi alterni dei nostri umori. Però è vera, e ne rimane la memoria e l’attenzione premurosa, perché le troppe distrazioni ed urgenze del nostro vivere non ci allontanino dall’essenziale!

… e così imparare, o almeno cominciare a tentare qualche gesto, arrischiare di rispondere alle asprezze della vita e degli uomini con qualche sbilanciamento di amore, di tenerezza, di assorbimento del male, invece che di ritorsione:

• quando la desolazione ci devasta il cuore e vorremmo anche noi consolazione, e siamo tentati di amarezza

• quando la reazione violenta ci preme dentro come l’unica soluzione, e vorremo esser capaci di seminare mitezza

• quando la rabbia triste per l’ingiustizia ci rode l’anima e la vorremo subito eliminata… a costo di altra violenza

• quando la miseria è cosi grande che bisognerebbe contenerla e accudirla con ancor più grande misericordia

• quando ci si offuscano gli occhi del cuore e non vediamo più la benevolenza del Padre in chi ci fa del male

… portando sempre pace e perdono dove c’è conflitto e odio, perché questo è il mestiere di Dio e dei suoi figli» [Giuliano].

Un'ulteriore fronte di riflessione

Carissimi lettori della lectio,
mi permetto di raggiungervi con un paio di letture significative riguardanti quanto sta succedendo in queste settimane in italia.
I contributi vengono da amiche di questo stesso giro e mi è parso doveroso allargare il loro invito a riflettere insieme su un problema che ci interpella tutti.

E' forse davvero ora di chiedersi cosa fare per far sentire che c'è un'altra Italia, altre donne, altri uomini... ma come fare!?!

E' la domanda che vi lascio
un caro saluto
chia


Concita De Gregorio, Le altre donne

Esistono anche altre donne. Esiste San Suu Kyi, che dice: «Un’esistenza significativa va al di là della mera gratificazione di necessità materiali. Non tutto si può comprare col denaro, non tutti sono disposti ad essere comprati. Quando penso a un paese più ricco non penso alla ricchezza in denaro, penso alle minori sofferenze per le persone, al rispetto delle leggi, alla sicurezza di ciascuno, all’istruzione incoraggiata e capace di ampliare gli orizzonti. Questo è il sollievo di un popolo».

Osservo le ragazze che entrano ed escono dalla Questura, in questi giorni: portano borse firmate grandi come valige, scarpe di Manolo Blanick, occhiali giganti che costano quanto un appartamento in affitto. È per avere questo che passano le notti travestite da infermiere a fingere di fare iniezioni e farsele fare da un vecchio miliardario ossessionato dalla sua virilità. E’ perché pensano che avere fortuna sia questo: una valigia di Luis Vuitton al braccio e un autista come Lele Mora. Lo pensano perché questo hanno visto e sentito, questo propone l’esempio al potere, la sua tv e le sue leader, le politiche fatte eleggere per le loro doti di maitresse, le starlette televisive che diventano titolari di ministeri.

Ancora una volta, il baratro non è politico: è culturale. E’ l’assenza di istruzione, di cultura, di consapevolezza, di dignità. L’assenza di un’alternativa altrettanto convincente. E’ questo il danno prodotto dal quindicennio che abbiamo attraversato, è questo il delitto politico compiuto: il vuoto, il volo in caduta libera verso il medioevo catodico, infine l’Italia ridotta a un bordello.

Sono sicura, so con certezza che la maggior parte delle donne italiane non è in fila per il bunga bunga. Sono certa che la prostituzione consapevole come forma di emancipazione dal bisogno e persino come strumento di accesso ai desideri effimeri sia la scelta, se scelta a queste condizioni si può chiamare, di una minima minoranza. È dunque alle altre, a tutte le altre donne che mi rivolgo. Sono due anni che lo faccio, ma oggi è il momento di rispondere forte: dove siete, ragazze? Madri, nonne, figlie, nipoti, dove siete. Di destra o di sinistra che siate, povere o ricche, del Nord o del Sud, donne figlie di un tempo che altre donne prima di voi hanno reso ricco di possibilità uguale e libero, dove siete? Davvero pensate di poter alzare le spalle, di poter dire non mi riguarda? Il grande interrogativo che grava sull’Italia, oggi, non è cosa faccia Silvio B. e perché.

La vera domanda è perché gli italiani e le italiane gli consentano di rappresentarli. Il problema non è lui, siete voi. Quel che il mondo ci domanda è: perché lo votate? Non può essere un’inchiesta della magistratura a decretare la fine del berlusconismo, dobbiamo essere noi. E non può essere la censura dei suoi vizi senili a condannarlo, né l’accertamento dei reati che ha commesso: dei reati lasciate che si occupi la magistratura, i vizi lasciate che restino miserie private.

Quel che non possiamo, che non potete consentire è che questo delirio senile di impotenza declinato da un uomo che ha i soldi – e come li ha fatti, a danno di chi, non ve lo domandate mai? - per pagare e per comprare cose e persone, prestazioni e silenzi, isole e leggi, deputati e puttane portate a domicilio come pizze continui ad essere il primo fra gli italiani, il modello, l’esempio, la guida, il padrone.

Lo sconcerto, lo sgomento non sono le carte che mostrano – al di là dei reati, oltre i vizi – un potere decadente fatto di una corte bolsa e ottuagenaria di lacchè che lucrano alle spalle del despota malato. Lo sgomento sono i padri, i fratelli che rispondono, alla domanda è sua figlia, sua sorella la fidanzata del presidente: «Magari». Un popolo di mantenuti, che manda le sue donne a fare sesso con un vecchio perché portino i soldi a casa, magari li portassero. Siete questo, tutti? Non penso, non credo che la maggioranza lo sia. Allora, però, è il momento di dirlo.
18 gennaio 2011


Vi segnalo questo lancio di MISSIONLINE.org dedicato al "caso Ruby"
Confidando in un sussulto di indignazione.

http://www.missionline.org/index.php?l=it&art=3257
GEROLAMO FAZZINI
direttore di Mondo e Missione e MissiOnLine

domenica 23 gennaio 2011

III Domenica del Tempo Ordinario: Una luce è sorta

In questa terza domenica del Tempo Ordinario, il brano di vangelo che la Chiesa ci propone, tratto dal testo di Matteo, è quello dell’inizio concreto del ministero pubblico di Gesù. Dopo il vangelo dell’infanzia (Mt 1-2) e dopo il cosiddetto trittico sinottico (e cioè quei tre episodi che inaugurano la vita da adulto di Gesù in tutti i vangeli sinottici: predicazione di Giovanni Battista, Battesimo di Gesù, tentazioni nel deserto – Mt 3,1-4,11), eccoci infatti ai primi atti, alle prime parole e ai primi spostamenti di Gesù tra la gente.


È un’attività che viene collocata in un momento preciso, «Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato»; un momento che in qualche modo muove la coscienza di Gesù a prendere il posto che gli compete sulla scena (aveva detto infatti Giovanni: «Lui deve crescere; io, invece, diminuire», Gv 3,30), ad assumersi la responsabilità pubblica della sua identità e della sua missione.

Ecco quindi i primi movimenti («lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao») le prime parole dell’annuncio («Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino»), le prime chiamate (Pietro e Andrea; Giacomo e Giovanni), i primi gesti di liberazione dal male («Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo»)… quasi un concentrato sintetico di tutta la sua attività in Galilea: come un condensato che poi le pagine successive del vangelo srotoleranno, narrandoci gli episodi, gli incontri, i gesti, le parole… ma che già qui si propone nel suo sguardo d’insieme.

Ciò su cui però vorrei innanzitutto focalizzare la nostra attenzione, è la luce sotto cui l’evangelista pone la sintesi di tutta questa attività gesuana. All’inizio infatti Matteo – citando il profeta Isaia (precisamente il passo che la liturgia pone questa domenica come prima lettura) – mette come una chiave di lettura a tutto quanto sta per dire: «Terra di Zàbulon e terra di Nèftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta».

L’evangelista cioè, appena prima di iniziare a raccontare le vicende della vita di Gesù, ci dice già come guardare a quell’uomo di cui sta per raccontare la storia: è lui la luce (grande) che arriva per il popolo che abita nelle tenebre; è lui la luce per quelli che abitano in regione e ombra di morte!

E per comprendere bene questa “anticipazione del senso” che Matteo ci fornisce all’inizio, dobbiamo far riferimento soprattutto a due elementi: il primo è la questione del “genere letterario vangelo”; il secondo è il significato che quelle parole, messe come incipit, hanno per il lettore di oggi (e di sempre).

Innanzitutto la questione del genere letterario: mentre leggiamo il vangelo, non dobbiamo mai dimenticare che non siamo di fronte ad una biografia di Gesù. Cioè non siamo davanti alla cronaca della sua vita, al racconto “minuto per minuto” di tutto ciò che Gesù ha fatto e ha detto. Non siamo nemmeno di fronte ad una “presa diretta”. Non è che Matteo (o chi per lui) era lì col taccuino degli appunti a prendere nota (“in diretta” appunto) i vari atti di Gesù… appunti che poi risistemati avrebbero costituito il vangelo!

Siamo piuttosto di fronte alla ricostruzione teologica della vicenda di Gesù, quand’essa aveva già esaurito la sua parabola storica. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che chi scrive lo fa quando Gesù ha già vissuto tutta la sua vita, è già morto ed è già risorto; dunque a partire da un punto di vista che tiene in mano la totalità dell’esperienza storica di Gesù (e non mentre questa esperienza è ancora in divenire). In più dal punto di vista di chi, a partire dallo svolgersi completo di questa vicenda, ha già deciso di sbilanciarsi verso una fede/fiducia in essa: chi scrive, lo fa a partire dal riconoscimento che quella vicenda storica è la vicenda del Figlio di Dio, del Salvatore del mondo. E – proprio per questo – lo scopo di chi scrive è quello di portare altri al medesimo sbilanciamento.

Dentro questo quadro allora, forse, è più facile capire perché Matteo senta la necessità di porre già subito – in apertura del suo vangelo – un’indicazione riguardo allo sguardo da usare per leggere ciò che seguirà: perché la sua intenzione è quella di far sapere e convincere che la luce del mondo attesa dalle genti, loro l’hanno trovata, è quel Gesù di cui sta per raccontare la storia!

Il “come” Gesù sia questa luce grande lo si scoprirà strada facendo, leggendo tutto il prosieguo del vangelo, ma già adesso – ed è il secondo elemento che citavamo – è necessario dirne una parola…

Il problema è cioè chiarire fin da subito quali aspettative, quale senso, Matteo metta in campo di fronte al suo lettore: Cosa vuol dire quando esordisce dicendo «Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta» riferendo tutto ciò a Gesù?

Innanzitutto vediamo che senso avevano in origine quelle parole. Abbiamo già detto che sono una citazione del profeta Isaia. Il professor Patrizio Rota Scalabrini, la commenta così: «La struttura di questi versetti è abbastanza semplice: si presentano i giorni oscuri che si abbatteranno sulle tribù del Nord (Zabulon, Neftali, Galilea), che verosimilmente possono alludere alla seconda discesa di Tiglatpileser, che occupa i territori delle tribù del Nord. Successivamente si annuncia la salvezza che sarà basata sulla nascita (o intronizzazione?) di un Re liberatore, discendente della casa di Davide. In ogni caso ciò che è descritto è un momento in cui non c’è più speranza alcuna, né nella terra, né nell'autorità, né nella fede; ma ecco che la situazione si modifica radicalmente, proprio col tono esultante dei vv. 9,1-6 («Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce…»). Il brano esprime quindi la speranza di un superamento radicale di una tragica situazione, caratterizzata da guerra, oppressione e fame. Questa speranza è riposta in un personaggio storico e concreto, non in una figura mitica o escatologica. Si tratta, probabilmente di un erede al trono. Il contenuto di questa speranza è in parte politico, ma la contrapposizione di termini come “oscurità” e “luce-pace”, fa pensare a una modificazione più sostanziale della vita del popolo. Il mutamento riguarda innanzitutto chi è maggiormente nel buio e nella confusione: così i primi destinatari sono Zabulon e Neftali, le due tribù più settentrionali, più distanti dal centro, Gerusalemme, che è solitamente la beneficiaria delle promesse. In questo territorio passa la famosa “via maris”, la strada che in quei tempi collegava le due regioni più importanti della mezzaluna fertile: l’Egitto con la Mesopotamia e la Persia. Proprio per la presenza di questa strada le regioni del Nord ed in particolare la Galilea erano spesso oggetto di passaggio di eserciti, che vi compivano scorribande e saccheggi frequenti (come solitamente succedeva al passaggio di un esercito, anche non nemico). Era questo un distretto di periferia, nel quale vivevano numerosi gruppi di popolazioni non ebree; gli Ebrei stessi la chiamavano la “regione delle Genti”. Questa terra viveva pertanto nella confusione sociale, politica, militare e anche religiosa. La condizione difficile di tale regione è paragonata dal profeta ad una zona avvolta da tenebre perenni, e sottoposta a continua umiliazione. Ma l’arrivo del Signore, il compimento delle sue promesse attraverso la nascita (o intronizzazione) di quel misterioso personaggio regale, strapperà tale regione dalla tenebra, simbolo di caos e immagine di morte. L’intervento divino, reso manifesto dalla nascita del bambino regale, sarà come luce repentina, come l’inizio di una nuova creazione, come qualcosa di non spiegabile e di miracoloso. All’umiliazione subentrerà la gloria, alla tristezza una gioia piena e una letizia immensa. Tale gioia è espressa dal profeta attraverso l’immagine di un esercito vittorioso che si spartisce il bottino. Per una terra, oggetto di scorrerie e di prevaricazioni, l’annuncio di una vittoria con bottino costituisce la promessa di un radicale cambiamento. La terra del nord, terra di guerre e di sangue, diventerà terra di pace e di libertà. Nella “notte” di queste regioni lontane e apparentemente maledette, Dio interverrà, sconfiggendo il nemico: la sua vittoria non sarà su un popolo, contro un gruppo di uomini, ma su una condizione umana, contro una mancanza di senso e di gioia, nel superamento di un’umiliazione che rende buie tutte le giornate».

Dopo queste note esplicative, forse, è più chiaro anche il senso che Matteo vuole dare alla sua citazione: ai suoi lettori, di ieri e di oggi, infatti l’evangelista sta dicendo: “Guardate che è arrivato quello che ci può tirar fuori dalle tenebre e dall’ombra della morte. Se anche voi, se anche tu, ti senti come la terra di Zabulon e di Neftali (e chi non si sente come la terra di Zabulon e di Neftali? Chi non si sente campo di battaglia? ‘Botte vuota in cui si sciacqua la storia del mondo’ [Etty]? Chi di fronte a un mondo che pare andare a rotoli (quello grande, di tutti; ma anche quello piccolo, nostro) – a volte – non pensa che non ci sia più speranza alcuna? Chi non si sente nel buio e nella confusione? Lontano dai beneficiari della promessa, che son sempre gli altri? Chi non si sente in tenebre perenni, sottoposto a continua umiliazione – foss’anche solo per il fatto che prima o poi lui e i suoi cari dovranno morire?)… bene, se anche tu ti senti come la terra di Zabulon e di Neftali guarda che – sembra dire Matteo – io ho trovato uno che illumina tutto! Io ho trovato uno che fa nuove tutte le cose, che ri-crea l’uomo («Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo»), che riempie il cuore di gioia e di letizia immensa, che trasforma terra di guerre e sangue (come è la nostra interiorità) in terra di pace e di libertà! Vuoi andargli dietro?”.

È la domanda che Matteo – tranchant – mette lì all’inizio. È la domanda che la Chiesa – all’inizio di un nuovo anno liturgico – ripropone a tutti i discepoli del Signore… è la domanda a cui noi – terre di Zabulon e Neftali – siamo chiamati a rispondere, sapendo che «ogni suo seguace diventa discepolo quando sperimenta di essere a sua volta pescatore dei suoi fratelli: testimone della gioia dello spirito quando qualche piccolo, malato, ferito, soggiogato dalla paura, è preservato dal male, davanti ai nostri occhi, perché questa è la forza propulsiva, umile ma incoercibile, del minuscolo seme di amore che il Padre in Gesù ha seminato nel mondo…» [Giuliano]. Questa è la luce che Lui ha fatto sorgere.

giovedì 13 gennaio 2011

II Domenica del Tempo Ordinario: “Ecco l’agnello di Dio”

Dopo i tempi forti dell’Avvento e del Natale, che hanno inaugurato questo nuovo anno liturgico all’insegna della lettura e dell’approfondimento del vangelo di Matteo, domenica incomincia il Tempo Ordinario… Così – dopo aver pensato e celebrato il mistero dell’avvento dell’incarnazione e i momenti iniziali della drammatica storica del Figlio di Dio, nonché Figlio dell’Uomo – oggi iniziamo ad inoltrarci nel racconto della cosiddetta “vita pubblica” di Gesù, dunque nel mistero della sua identità.


Già domenica scorsa con la festa del Battesimo del Signore, il nostro sguardo si era staccato da Gesù fanciullo, per concentrarsi su Gesù trentenne, precisamente nel momento inaugurale del suo ministero pubblico, cioè l’incontro al Giordano con Giovanni Battista. Oggi – nuovamente – ci è riproposta la stessa scena, stavolta però secondo il racconto dell’evangelista Giovanni; una scena che dunque mostra tutta la sua rilevanza e che, proprio per la sua funzione logica di “gancio” tra i primi trent’anni della vita di Gesù (quelli da “sconosciuto” a Nazareth) e gli anni della manifestazione pubblica della sua identità/missione, chiude il Tempo di Natale e apre quello Ordinario, invitandoci ad una raddoppiata riflessione.

Fortunatamente l’evangelista Matteo e l’evangelista Giovanni – pur facendo riferimento al medesimo episodio della vita di Gesù – ne parlano a partire da punti di vista teologico-narrativi diversi, permettendo così anche a noi – cambiando punto di osservazione – di intercettare una nuova luce che illumina quel volto che entrambi vogliono tratteggiare.

Innanzitutto, va detto che l’evangelista Giovanni – a differenza di Matteo e Luca – non ha i vangeli dell’infanzia, per cui questo nostro brano, ha sì qualcosa che lo precede (il prologo poetico: «In principio era il Verbo…»; e l’episodio in cui il Battista è interrogato dai sacerdoti e dai leviti riguardo alla sua identità: «Io non sono il Cristo», «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaia»), ma mai, prima d’ora, in questo Quarto Vangelo, Gesù era entrato sulla scena: è infatti precisamente nel nostro brano che egli fa la sua comparsa: «Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse…».

È come se – scenograficamente – l’occhio di bue per la prima volta si posasse su di lui… Eppure – nuovamente – senza che egli dica niente. Qualcun altro parla di lui: il Battista, appunto… Questo è il modo in cui l’evangelista Giovanni sceglie di presentare il suo protagonista: è Lui, è illuminato, ma – per ora – non si presenta da sé… altri dicono di lui… e sarà solo alla fine di tutta la narrazione evangelica, che il lettore/spettatore potrà dire chi è colui che viene introdotto in questo modo…

«Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele», «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».
… Una presentazione densissima… di questo personaggio/protagonista di cui Giovanni (evangelista) ci vuol raccontare la storia e che ha fatto entrare – illuminandolo – sulla scena… infatti di lui, la prima volta che i lettori/spettatori lo vedono viene detto che è l’agnello/servo di Dio, che toglie il peccato del mondo, che “era prima di me”, che lo Spirito è sceso e rimasto su di lui, che battezza/immerge nello Spirito Santo e che è Figlio di Dio!

Forse non subito cogliamo il senso di cosa vogliano dire questi titoli con cui viene indicato, forse non capiamo nemmeno fino in fondo il significato delle espressioni che si usano per indicare la sua identità/missione (e ci vorrà la lettura di tutto il vangelo per riempire queste parole del significato giusto – evangelico – che hanno e soprattutto per disinquinarle dai significati che abbiamo in testa noi… e poi tutta una vita per masticare, digerire essi miliare – almeno un po’ – l’identità/missione di questo agnello di Dio), ma, certo, già in prima battuta – anche senza capire tutto – di fronte ad una presentazione così c’è da rimanere spiazzati… Giovanni ottiene il suo scopo, affascinare e conquistare il lettore/spettatore… instillargli un’aspettativa promettente, che lo faccia decidere a mettersi in cammino dietro a quell’agnello di Dio, proprio come avverrà il giorno dopo per i discepoli di Giovanni (Battista): «Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: “Ecco l’agnello di Dio!”. E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù».

Così «il Vangelo ci aiuta a leggere in filigrana, sul percorso del Battista, le tappe di conversione di chiunque voglia accettare le sue indicazioni profetiche, per diventare o ridiventare discepolo di Gesù.



colui che viene dopo di te è più importante di te, anzi è l’unica cosa importante. Dunque colui che Giovanni (noi) andavamo cercando da una vita, non è “il mio compimento”. Noi, piuttosto, siamo il “suo” compimento! Perché era prima di noi e ci è passato avanti, perché viene dall’eternità del Padre… Se non s’illumina questo barlume, se non ti accorgi di questa stella nelle tenebre; se non ti morde dentro questo presagio che la tua ricerca e i tuoi affanni, la tua missione e le tue presunzioni, il compito o il senso su cui hai puntato la vita sono labili e transitori, e proprio perché impastati del tuo io, ti si sfaldano tra le mani, non si fa spazio dentro di te, per cercare davvero… E comunque non si può censurare troppo a lungo il senso di incompiutezza che ci cova dentro, per il troppo poco che siamo. Non si può far tacere la chiamata interiore ad una dislocazione da fare, che se non altro, diventa umiltà e implorazione. Perché è a questo livello che riconosciamo cosa voglia dire davvero il primo avviso pregiudiziale di Gesù : chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso…Giovanni l’ha fatto fino a scoprirvi il senso definitivo e compiuto della sua missione…



 “Egli deve crescere ed io diminuire” (3,30). Anche per noi… i passi fatti, le fatiche del cammino, le persone che ci accompagnano, le ideologie con cui abbiamo interpretato e razionalizzato il suo vangelo e le nostre scelte (e che comunque dovevamo fare: sono il nostro battesimo penitente!), indicano con la loro fragilità e ambiguità dov’è il futuro, a cosa ci preparavano, verso dove ci spingevano. E ormai hanno realizzato il loro compito, devono ritrarsi per lasciare posto all’incontro, diversissimo per ognuno dei discepoli, ma passaggio assolutamente necessario per uscire dall’adolescenza … vocazionale cristiana, e diventare umilmente “responsabili” della propria fede. Per incontrare così la domanda nuda che Gesù ci rivolge, quando siamo fermi su questa soglia, incerti sul passo decisivo per la nostra vita: Chi cercate? (38)



L'uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è lui che battezza in Spirito Santo. Questa era la promessa e garanzia che l’aveva sostenuto e aveva dato il respiro all’impegno di tutta la sua vita, la forza alla sua voce inascoltata nel deserto, il coraggio della verità pagata di persona, il senso al suo battesimo di penitenza… Colui che sembrava uno dei tanti devoti nella fila dei suoi battezzandi… era il vero Battezzatore e salvatore dell’umanità, smarrita e ferita come pecore senza pastore… Al principio ognuno, man mano che si immerge nelle funzioni, nelle scelte, negli impegni della sua vita cristiana e si spende nella faticosa ricerca di fedeltà e dedizione, crede di conoscere bene Colui per il quale ha dato la vita… Quanto più è grande la (piccola) dedizione di cui siamo capaci, e passano i giorni e gli anni, tanto più è la distanza che scopriamo da lui. Per questo l’insistenza accorata del Battista, diventa propria di chiunque ha provato a seguire Gesù, ed ha imparato a proprie spese a sottoscrivere, presto o tardi la sua dichiarazione perentoria: io non lo conoscevo!…



Ecco l’agnello di Dio!

Il giorno dopo, l’anno dopo, o il decennio dopo… arriva il momento che ti trovi seduto per terra come Pietro o Paolo, o smarrito nel viaggio come i due di Emmaus, in forme tanto diverse quanto le storie personali di ognuno. E allora scopri che la fede, così com’era, non ti serve più. Ma non per questo perdi lui: anzi rimane solo lui – e gli sparuti fratelli o sorelle che ti legano a lui! Rimangono questi segni o presagi profetici che Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli… che li ha spinti ad iniziare l’avventura con Gesù, andando a conoscerlo “a casa sua”. Dunque, a non sfuggire, a non cercare capri espiatori, ma ad assumere la propria vita, e a prendere atto di dover iniziare di nuovo…. A livello liturgico e teologico la consapevolezza di questa destinazione cristiana è collaudata nella chiesa. Ad ogni Eucaristia si rinnova sacramentalmente agli invitati alla cena pasquale l’indicazione del Battista "Ecco l'Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo". Gesù infatti non ha voluto salvarci con la parola, con i miracoli, con le grandi conversioni di popoli, ma con la sua fine innocente e mite sul Calvario, all’ora dell’immolazione degli agnelli pasquali… Dopo aver condiviso con i discepoli l’ultima cena e dopo aver “spiegato” tutto il suo amore ai loro cuori induriti, allora come oggi: li amò sino alla fine!» [Giuliano].

giovedì 6 gennaio 2011

È credibile un salvatore in fila coi peccatori per farsi battezzare?

Domenica – a conclusione del Tempo di Natale e come inaugurazione del Tempo Ordinario, nel quale saremo invitati a riflettere sulla vita pubblica di Gesù – la Chiesa celebra la festa del Battesimo del Signore.


Ritroviamo così Gesù, ormai trentenne, che come primo atto – dopo gli anni della sua infanzia e giovinezza (di cui sappiamo pochissimo) – va a farsi battezzare da Giovanni, il Precursore: figura sulla quale la liturgia ci ha già fatto riflettere durante l’Avvento, raccontandoci chi è quest’uomo («In quei giorni venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!”. […] Portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico »), quale ruolo ha nell’economia della salvezza («Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!») e qual è la sua teologia, cioè la sua visione su Dio, sull’uomo, sulla vita («Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione…»).

Da Giovanni, da questo Giovanni, dicevamo, Gesù va a farsi battezzare e dato che il vangelo è il racconto scritto della fede dei discepoli in Lui, e dato che siamo all’inizio del suo ministero pubblico, questo brano del battesimo rappresenta come la presentazione della sua storia… della storia di questo uomo, riconosciuto come il Messia, il Figlio di Dio.

Certo ci sono già stati due capitoli (il cosiddetto “vangelo dell’infanzia”) che hanno in qualche modo voluto fungere da prologo al racconto della vita di quest’uomo, ma qui siamo al racconto inaugurale degli anni decisivi della sua vita – quelli, appunto, che l’hanno svelato nella sua identità/missione.

E la prima cosa che emerge, all’interno di questo momento inaugurale, è la sua stranezza… Da un lato infatti abbiamo un momento epifanico molto significativo (i cieli che per Gesù si aprono, permettendogli di vedere lo Spirito Santo discendere su di lui, e dai quali gli giunge una voce che lo dichiara l’eletto) e, dall’altro, il fatto che tutto ciò avviene in una situazione davvero inusuale per un personaggio importante di cui si sta per raccontare la vita: è in fila coi peccatori, per ricevere un battesimo di conversione.

Una strana presentazione per colui del quale – scrivendo – si vuole testimoniare la messianicità… Ma come insegna la critica storico-letteraria, se un fatto così disomogeneo rispetto alla finalità dello scrivere (che è: convincere della propria fede), è comunque riportato, ciò vuol dire che era inevitabile farlo… come a dire… nessuno si sarebbe inventato questo episodio della vita di Gesù se non fosse realmente accaduto, perché a nessuno – nel momento in cui veniva tracciato l’itinerario per la fede in Lui – sarebbe venuto in mente di scrivere qualcosa che potesse metterne in discussione la messianicità (Come fa a essere il Messia se si mette in fila coi peccatori? Come può pretendere di essere colui che rimette i peccati del mondo, se lui per primo si fa battezzare per la conversione?).
Tutto questo per dire che ciò che è problematico non è il fatto, ritenuto autentico da tutta la critica storico-letteraria, ma la sua interpretazione: cioè il problema diventa il rendere ragione di questa stranezza… Mitigata, certo, dallo Spirito Santo e dalla voce dal cielo… Ma… a ben guardare, fino a un certo punto, perché questa specie di “investitura dall’alto” poteva avvenire anche in un contesto diverso… Dopo un miracolo inaugurale, o dopo un discorso particolarmente significativo… Invece la teofania sta a commento del paradossale essersi messo in fila coi peccatori da parte del Messia…

Un problema che non va troppo in fretta superato con presupposti piani divini a noi sconosciuti (come pare fare in parte lo stesso Matteo quando – a differenza degli altri evangelisti – fa dire a Gesù «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia»; segno questo che anche per i primi cristiani il problema c’era ed era vissuto con una certa perplessità e fatica), ma che va “preso di petto”: Perché mai Gesù, come primo atto della sua vita da adulto va a mettersi in fila coi peccatori? E perché proprio in questo atto il cielo lo riconosce l’amato in cui ha posto il suo compiacimento? Al di là, infatti, di ogni nostro tentativo di girare e rigirare le cose, è proprio questo che il testo evangelico ci consegna…

Forse per provare a rispondere a queste domande, senza appiccicarci addosso risposte estemporanee, può essere utile chiederci perché tutto questo ci faccia così problema… o perché lo faceva ai primi cristiani… Dove sta l’anomalia che ci fa storcere il naso?

Beh… qualcosa l’abbiamo già accennato… Colui che si arrogherà il potere di perdonare i peccati (Mt 9,6) può lui stesso essere in fila coi peccatori? Colui che verrà creduto il Figlio di Dio, può essere lì, solo per farsi aiutare da Giovanni a capire la sua identità/missione? In altre parole: il Figlio di Dio, colui che pretende di salvarci perché anch’egli Dio, può essere veramente un uomo? Non deve avere qualche scarto incommensurabile, qualche cosa che lo preserva dal male, qualche prescienza che lo rende qualitativamente diverso da noi? Se è uno di noi può davvero salvarci?

Ecco il punto… Quello che precisamente pungeva la carne dei primi cristiani: intorno a loro tutti dicevano: era solo un uomo e dunque uno che non può salvare! Ecco il problema: se è Dio, ci salva; se è un uomo, no. Ma quello che noi abbiamo visto era solo un uomo…

Il problema radicale allora è quello – ancora una volta – dell’incarnazione, del modo di essere Dio di Gesù (e del modo di essere Dio del Padre), perché noi, non siamo mai persuasi fino in fondo che egli fosse pienamente uomo… Non ci va bene un Dio così, non ci convince… saremmo un po’ più tranquilli di un Dio che – dall’alto dei suoi cieli, dall’alto della sua separatezza, dall’alto della sua alterità – intervenisse (dal di fuori, appunto) con una sorta di “bacchetta magica” più o meno coreografica (a seconda dei gusti) per toglierci dai guai (terreni ed ultraterreni): il male subito, il male fatto, la morte, l’inferno…

Sarebbe anche tutto più facile da capire (e purtroppo tante volte la chiesa ha ceduto a questo desiderio di semplificare le cose per renderle comprensibili, perdendo però l’esplosività di ciò che annunciava: la sua disomogeneità, appunto; la sua impossibilità ad essere immediatamente compreso…)… Ma forse sarebbe più facile da capire, proprio perché “a misura di uomo”, perché riclassificabile all’interno delle nostre categorie di pensiero, perché più rassomigliante alle nostre aspettative… un Dio che in fin dei conti è un uomo plenipotenziario, un “Uomone”…

Invece, le disomogeneità di Gesù ci costringono a sbattere il muso contro le nostre ovvietà… e ancora una volta a dire: l’immagine di Dio che avevo in testa, non era Lui… ero io…

In questo senso, davvero Dio è totalmente altro dall’uomo, i suoi pensieri non sono i nostri pensieri…

Ma non perché è grandissimo, infinito, eterno, lontanissimo… e può fare tutto… soprattutto quello che noi non possiamo fare… sarebbe un “Uomone”… Ma perché nell’alterità del suo essere, si fa più intimo all’uomo dell’uomo stesso… che – a pensarci bene – è l’unica salvezza credibile!

Cerco di spiegarmi con le parole di p. Massimo Fiorucci, OCD: di fronte al dramma del male radicale ed insolubile (che è il problema dell’uomo, ciò da cui l’uomo chiede a Dio di essere salvato), «un primo dato evangelico è questo: Dio non si sottrae alla domanda, ma si confronta e si scontra con l’assurdità del male storico. Decide di non scendere dal banco degli imputati. Il vangelo quindi non ci racconta una fiaba [quella dell’Uomone/di un supereroe], ma la storia di un Dio che assume una forma tale (quella del bimbo, quella dell’uomo in crescita, dell’uomo storico) tale per cui anch’Egli si confronta col male che minaccia la bontà della vita umana.

Un secondo dato: la sua non è una risposta teorica. Egli non risponderà ai nostri perché. Cristo è la risposta all’uomo non ai suoi perché. La sua risposta è la sua vulnerabilità, la sua vulnerabilità è ciò che lo autorizza al perdono. Egli infatti ha un’identità tale che si identifica con ogni uomo che ha patito il male. Per questo – e solo per questo – è autorizzato ad un perdono, che altrimenti non sarebbe neanche in suo potere, perché le decisioni dell’uomo hanno un carattere di irreversibilità: non si può tornare indietro e perciò nulla può bilanciare il male fatto o subito, tanto meno quello subito ingiustamente. Né la vendetta, né l’inferno possono pacificare le domande che il dolore innocente scatena nel cuore dell’uomo. Anzi aggiungono altro male al male già avvenuto.

In Gesù invece la precarietà non è assunta come obiezione, ma come condizione e solo così il suo perdono ha spessore di verità».
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