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venerdì 27 maggio 2011

VI Domenica di Pasqua: Si inizia a parlare di Spririto

In questa sesta domenica di Pasqua – che apre due settimane davvero intense per la vita della Chiesa, nelle quali celebreremo la festa dell’Ascensione e quella di Pentecoste – la liturgia inizia a proporre letture che in maniera più diretta fanno riferimento al grande protagonista della vita della Chiesa dopo la Risurrezione di Gesù, e cioè lo Spirito Santo.


Non che Egli fosse assente prima, anzi era l’anima (lo spirito!) di tutta la storia della salvezza, ma ora – dopo che nella forma umana Gesù si rende assente ai suoi – la Sua presenza viene come ribadita e sottolineata.

È lui infatti il protagonista della prima lettura… che è molto curiosa, perché in essa si parla di una città della Samaria in cui un apostolo predica il Cristo; una città in cui – peraltro – tale annuncio viene accolto con gioia… una città, i cui abitanti sono anche già stati battezzati nel nome del Signore Gesù… eppure – nonostante la predicazione già avvenuta e già accolta, nonostante il battesimo – è una città nella quale gli altri apostoli sentono la necessità di inviare Pietro e Giovanni perché impongano le mani ai nuovi cristiani e gli permettano così di ricevere lo Spirito Santo…

Qui sta la curiosità… Com’è possibile aver ascoltato e accolto la Parola di Dio, essere addirittura stati battezzati nel nome del Signore Gesù e… non aver ancora ricevuto lo Spirito Santo?

Ma la lettura è tanto più curiosa, perché Luca – scrivendo gli Atti degli apostoli da cui questo brano è tratto – non sente la necessità di spiegare questa prassi…

E tanto meno sente la necessità di spiegare come questo testo stia in relazione a quell’altro – sempre tratto dagli Atti degli apostoli – in cui Pietro vive l’esperienza opposta, quella cioè per cui si ritrova ad avere a che fare con persone – per di più pagane – che ricevono lo Spirito Santo indipendentemente dai suoi gesti rituali: «Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio. Allora Pietro disse: “Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?”. E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo. Quindi lo pregarono di fermarsi alcuni giorni», At 10,44-48.

Ma a noi il problema rimane… Come era vissuta la prassi sacramentale di accesso alla fede nella prima comunità cristiana?

È così importante saperlo perché è ad essa che noi ci rifacciamo come esperienza sorgiva, matrice per la Chiesa di sempre… e soprattutto perché quando diciamo “accesso alla fede”, non facciamo solamente riferimento all’ingresso istituzionale in una comunità ecclesiale (anche questo, ovviamente), ma più radicalmente facciamo riferimento all’accesso alla vita di Gesù, per mezzo dello Spirito santo nel suo corpo che è la Chiesa… In gioco quindi vi è la possibilità di entrare in relazione col Signore!

Dunque: Come è avvenuto questo accesso nella prima comunità cristiana? Cosa si è ritenuto “normativo” in proposito?

È difficile ricostruire oggi l’effettivo snodarsi storico degli eventi per capire quale prassi “sacramentale” sia stata effettivamente seguita… Di certo entrambi i testi mostrano come – nella prima comunità cristiana – l’evento straripasse rispetto all’istituzione e come tra essi ci fosse il corretto rapporto: l’istituzione è a servizio dell’evento; è lei a modellarsi – dunque anche a variare di situazione in situazione – sull’evento… rapporto questo che peraltro la Chiesa – pur nei periodi più faticosi della sua storia – non ha mai del tutto abbandonato e che, forse, anche su certe questioni contemporanee potrebbe maggiormente mettere in campo per provare a guardare le cose da punti di vista diversi…

Comunque, al di là di queste digressioni, un’altra evidenza da mettere in campo è che ciascuno di questi testi aveva la sua finalità teologica: il secondo voleva mostrare come – in una Chiesa in cui ancora c’erano tensioni tra cristiani provenienti dal mondo ebraico e cristiani provenienti dal mondo pagano – la forza dello Spirito eccedesse rispetto ai confini posti dagli uomini; il primo invece (quello di questa domenica, importante tra l’altro anche perché è alla base della pratica sacramentale odierna, con la confermazione “staccata” temporalmente dal battesimo) voleva sottolineare la necessità di una “ratifica” ecclesiale, universale (cattolica!), apostolica dell’accesso alla fede; non in senso negativo (come una volontà di mettere il “bollino di qualità” sui “nostri”), ma in senso positivo, quello cioè per cui la Chiesa di Gerusalemme (la Roma di allora), nelle sue figure più rappresentative (gli apostoli e tra essi Pietro e Giovanni), si facesse garante del riconoscimento di questi (che tutti consideravano eretici) come fratelli a tutti gli effetti!

Eppure, nonostante la curiosità della prima lettura, l’apparente inconciliabilità con At 10,44-48 e la diversa finalità teologica di ciascuno, ciò che emerge con chiarezza da questi brani è il fatto che entrambi pongano come centrali, i medesimi elementi: la Parola, lo Spirito santo (mediato o ratificato dai gesti del battesimo con acqua e dell’imposizione delle mani), la prossimità fraterna…

Cioè, la via – che Gesù settimana scorsa diceva di essere –, ora che Egli non è più presente in carne ed ossa, è fatta con un asfalto che ha mescolati insieme inestricabilmente questi tre elementi: la Parola, lo Spirito, i fratelli!

Noi li distinguiamo, per tentare di capirci qualcosa… Ma – come abbiam visto prima con i due testi di Atti – ogni volta che si tenta di snodare questi fili, si va in tilt e si capisce ancora meno…

È infatti non solo inspiegabile, ma addirittura inconcepibile pensare la Parola di Dio senza la prossimità fraterna (qualcuno che l’ha scritta, l’ha imparata, l’ha raccontata, l’ha riscritta, l’ha tradotta, l’ha ritradotta, l’ha stampata, ce l’ha fatta conoscere…) e senza lo Spirito che s’è messo a parlare con lo spirito di ciascuno di questi nostri fratelli…

E così è impossibile pensare lo Spirito senza una carne in cui prendere dimora e Parola…

Infine, è impossibile anche solo pensare un rapporto di prossimità fraterna che non si riferisca ad una paternità condivisa, una non orfanità che coincide esattamente con la promessa di Gesù nel dono dello Spirito: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. Non vi lascerò orfani».

Solo questa creduta non orfanità apre il cuore dell’uomo alla prossimità fraterna che coincide con l’osservare i comandamenti di Gesù: «Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).

Scriveva in proposito Giuliano: «Senza lo Spirito il cristiano è orfano, secondo Gesù! E il cristianesimo diventa solo una religione del culto e del Libro, la dottrina di un Maestro che ha insegnato eccelse quanto irraggiungibili proposte morali, ma non ha trasmesso la “spinta” dinamica vitale che sorregga la miseria umana nell’usura del tempo e dell’evolversi della cultura. Per cui quando scordiamo lo Spirito diventiamo una setta di orfani smarriti o aggressivi. Mentre Gesù, ritornando al Padre, non ci ha abbandonati a noi stessi. La sera di Pasqua "alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito santo" (Gv 20,22). E Luca aggiunge il saluto finale: "Io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso” (Lc 24,49). A Pentecoste riascolteremo la grande effusione dello Spirito che darà coraggio e forza a tutta la Chiesa, proiettandola nella sua missione nel mondo, ma custodita e protetta: "Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre". Nello Spirito, l’apertura del cuore ai comandamenti di Gesù non è una sottomissione ad una legge, ma conseguenza di un innamoramento: la “passione” di Dio è venuta ad abitare dentro di noi come una forza propulsiva, un flusso vitale… ravvivando un intreccio di relazioni che nutrono la vita… Se mi amate osserverete i miei comandamenti... Dunque la realizzazione della proposta di Gesù è esperienza di accoglienza dell’amore in persona: lo Spirito! Non può essere diverso: "Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui". Questo appassionato coinvolgimento ci apre ad una intimità misteriosa e coinvolgente con la Trinità stessa: "In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi". L'opera forte e mite dello Spirito santo è condizionata dalla nostra corresponsabilità accogliente e docile, perché è lui la fonte dell’amore che ci smuove, in una dinamica dove i due amori (il piccolo e fragile amore di cui siamo capaci noi – e il suo braciere eterno) sono fusi insieme nel gemito che ci fa dire “abbà Padre”… gemito che ci risuona in cuore, se impariamo ad ascoltarlo, in ogni passo della vita quotidiana, fino a sperimentare e gustare qualche barlume della sua promessa: Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi... perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me ed io in voi».

Quinta Domenica di Pasqua: La certezza di Gesù ci convince?

Il vangelo che la Chiesa ci propone in questa Quinta Domenica del Tempo di Pasqua, è uno di quei testi di fronte ai quali vien da dire: “È stato davvero già detto tutto… con chiarezza, senza possibilità di fraintendimenti… Ma allora perché tutto pare sempre così complicato, anche negli ‘affari’ della fede?”…


Perché se effettivamente guardiamo a quello che Gesù dice in questo testo che Giovanni riporta nel capitolo 14, durante l’ultima cena, non possiamo non rilevare come Egli abbia risposto in maniera inequivocabile all’eterna inquietudine del cuore dell’uomo: «Non sia turbato il vostro cuore» – dice Gesù – «Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via».

Dopo parole di questo tipo dovrebbe immediatamente crollare quella struttura di paura (di morire) che troppo in profondità determina il nostro vivere quotidiano, il nostro pensare al futuro, al nostro destino (alla nostra destinazione), al suo senso…

Eppure, chissà quante altre volte avevamo già incrociato questo vangelo (questa “buona notizia”, è proprio il caso di dirlo) senza che esso avesse poi avuto la forza di radicarsi in noi e abbattere le rigidità interiori che la paura ha pian piano sedimentato e calcificato nei nostri atteggiamenti, nelle nostre reazioni, nei nostri progetti, nelle nostre fughe, nel nostro modo di pensarci…

Ma perché ci succede tutto questo? Perché di fronte a questa incontrovertibile certezza di Gesù di essere Colui che – per noi! – vince la morte, noi fatichiamo a dargli credito e continuiamo a pensare alle sue parole come qualcosa che “sarebbe bello… se fosse vero”, ma “chi lo sa…”? Perché cioè su questo argomento (la vittoria sulla morte!) non riusciamo a dare piena fiducia a Gesù come su altri argomenti (per esempio quello per cui solo donandosi per amore si giunge alla pienezza della vita)?

Per provare a capire meglio, è forse utile provare ad allargare la domanda: Quali sono i motivi per cui togliamo il nostro credito verso ciò che qualcuno ci sta dicendo?

Io credo che i motivi possano essere diversi; ne vorrei sottolineare quattro (quelli che a me paiono più evidenti):

1- Si può non credere a ciò che qualcuno dice perché la persona che sta parlando non ha in sé titoli di credibilità, non è cioè una persona credibile (per tanti motivi…), dunque non lo è nemmeno ciò che dice;

2- Oppure si può non credere a qualcuno perché ci pare che lui stesso non sia troppo convinto di ciò che afferma…

3- Oppure si può non credere a qualcuno perché il messaggio che riferisce pare, appunto, troppo in-credibile (non credibile);

4- Infine si può non credere a qualcun altro perché – al di là di ogni considerazione – crediamo che “fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”… cioè perché non abbiamo costruito in noi (anche qui per mille motivi, non necessariamente colpevoli) una struttura fiduciale capace di affidarsi a qualcun altro…

Nel caso di Gesù, di queste sue parole che il vangelo ci propone e della nostra resistenza nei loro confronti, mi pare di poter dire che i primi due “motivi di sfiducia” citati siano non pertinenti… Il secondo perché è evidente, dal tono del discorso e da tutti gli altri riferimenti neotestamentari alla vittoria di Gesù sulla morte, che Gesù proclami con convinzione la sua Risurrezione e quella – in Lui – di tutti gli uomini!

Il primo – magari possibile per qualche ateo in fase adolescenziale che crede che Gesù sia stato solo un illuso – non è invece sostenibile, né sostenuto da chiunque (anche ateo) percorra la storia della vita di questo Uomo fino in fondo. Gli atei possono dire che Gesù era solo un uomo, ma di certo non possono dire che non si trattasse di una persona credibile… Se non altro per il fatto della coerenza – fino alla morte – delle sue idee!

Ci restano il terzo e il quarto motivo, quelli che forse – effettivamente – hanno più a che fare con noi – cristiani post moderni – così sempre “in ritardo” riguardo alla fede nella Risurrezione: è il messaggio ad essere troppo incredibile e siamo noi ad essere troppo disincantati!

A ben guardare, in entrambi i casi, si tratta di motivi di sfiducia (o di incredulità) non attribuibili a chi proclama il messaggio… Nemmeno al messaggio stesso… Piuttosto essi fanno entrambi riferimento alla qualità del “ricevente” il messaggio: è a lui che quest’ultimo risulta troppo in-credibile ed è lui che fatica a dar credito a qualcuno che non sia lui stesso…

Non voglio ora certo addentrarmi sulle innumerevoli cause e concause che possono portare o aver portato ciascuno di noi a nutrire delle resistenze in proposito, ma mi piacerebbe che ciascuno si soffermasse a ricercare le sue…

Perché rintracciarle, analizzarle, custodirle in cuore e – infine – rappacificarle, può davvero pian piano correggere quell’istintiva rigidità che proviamo nei confronti della speranza della risurrezione, quasi che essa fosse una cosa da illusi, una cosa su cui non contare, una cosa da non considerare nel momento in cui si pensa alla propria vita: non a caso noi diciamo “viviamo questa vita, poi si vedrà… se c’è qualcosa, tanto meglio; se non c’è, pace…”.

Io invece credo che la questione che poneva Gesù, in tutto ciò che diceva e faceva, avesse proprio nella Risurrezione il suo centro. Non arrivare fino a questo punto nella comprensione e nell’adesione al vangelo di Gesù (alla sua buona notizia) vuol dire – in una versione aggiornata e post-moderna (appunto) – ricadere nel riduzionismo del vangelo che, in varie forme, le generazioni del passato sono incappate, quando hanno fatto del vangelo un mero codice morale, o un libro di definizioni su Dio, o un itinerario ascetico riservato a chi aveva il coraggio della fuga mundi

Bisognerebbe invece provare davvero a rispondere alla domanda: Sto costruendo con Dio – in Gesù, via, verità e vita – la mia esistenza? Mi sto pensando in relazione a Lui e alla sua inequivoca paternità ogni volta che devo determinarmi come individuo (cioè ad ogni secondo, ad ogni reazione a ciò che mi accade, ad ogni pensiero, progetto, ecc…)?

Per meno di questo, anche il vangelo e l’appello ad esso non sarà altro che l’ennesimo riferimento da sottomettere alla nostra autoreferenzialità che – sapendo di avere scritta la scadenza nel DNA – non fa altro che tentare di “scampare il più possibile” a scapito di chiunque si metta come intralcio…

sabato 14 maggio 2011

Quarta Domenica di Pasqua: Gesù pastore e porta

Il vangelo che la Chiesa ci propone in questa quarta domenica del Tempo di Pasqua, è il primo – di questo periodo – che non parla di un’apparizione del risorto, ma che, anzi, è tratto da un discorso che Gesù fa, nel vangelo di Giovanni, quando ancora non ha incontrato la sua passione, morte e risurrezione.


Ugualmente però la liturgia ha ritenuto adatto – e io credo a ragione – questo testo per continuare a riflettere in questo tempo liturgico particolare sul tema della Pasqua di Gesù. Come nota infatti M. Laconi: «Col c. 10 Giovanni regala al lettore un altro dei suoi passi più meditati e riusciti. Dove però l’eleganza, la grazia e l’efficacia non sono affidati a spunti narrativi carichi di suggestione, ma al puro scorrere delle parole di Gesù e della sua divina autorivelazione» [M. LACONI, il racconto di Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi 1989, 197]. Siamo infatti di fronte ad uno di quei testi, in cui Gesù con autorevolezza si presenta con la grande pretesa sulla sua identità: «a livelli sublimi si mantiene l’autorivelazione cristologica (col ritorno insistente del divino “Io Sono”: vv. 7.9)» [Ivi, 198].

Ecco perché questo brano rimane un testo decisamente adeguato per il tempo liturgico che viviamo – seppure non pronunciato da Gesù risorto: perché in esso traspare con chiarezza la consapevolezza di Gesù riguardo al mistero della sua identità e il suo tentativo di rivelarla ai suoi.
Essendo però un discorso essenzialmente costituito – almeno nella sua prima parte – da una parabola (anche se Giovanni, per essere precisi, parla di “similitudine”) – una parabola, tra l’altro che nemmeno i suoi capirono («Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro») – è forse utile, prima di qualsiasi considerazione, provare a ripercorrerla s-piegandola: «La scenetta descritta è limpida. Vi si parla di un ovile, letteralmente di un “cortile”, probabilmente circondato da un muretto; altrimenti non si capirebbe bene la funzione della “porta”, e nemmeno la scalata truffaldina (“vi sale da un’altra parte”) del ladro. Durante la notte in questo ambiente vengono custodite le pecore. A quanto pare si pensa a diversi padroni (“pastori”) che vi mettono assieme piccoli gruppi di animali; infatti il “pastore” protagonista porta fuori “le sue” (vv. 3.4). La custodia delle pecore è affidata a un “guardiano” notturno, chiamato letteralmente “portiere”, perché sarà lui, il mattino dopo, ad aprire (dall’interno) la porta ai vari padroni che vengono per portare al pascolo i propri animali. La scenetta dunque che forma la sostanza della paraboletta si svolge al mattino. “Il pastore” (uno dei tanti padroni) arriva, bussa alla porta e si fa riconoscere dal guardiano che gli apre; le “sue” pecore hanno già riconosciuto la sua voce e cominciano già a muoversi. Ma tutto deve compiersi con ordine, perché l’ovile è pieno di animali; allora il pastore chiama le sue a una a una per nome (dare un nome descrittivo agli animali è prassi antichissima), perché le conosce bene e non le confonde con le altre. E così possono cominciare a uscire. L’operazione non è semplice, e tocca al pastore aiutarle spingendo e gridando (significativo il verbo usato all’inizio del v. 4; qualcosa come “buttar fuori”); ma finalmente il piccolo gregge è al completo, e può cominciare la marcia, forse anche lunga, verso i luoghi del pascolo. Il pastore cammina davanti perché lui sa la strada e conosce le svolte; le pecore “lo seguono” guidate dalla sua voce, che “conoscono” molto bene, e non confondono con quella di nessun altro. Però la parabola di pascolo non parla; tutto l’accento è sul cammino del piccolo gregge che “segue” i passi del pastore.

A questa scenetta se ne contrappone un’altra, negativa, con intento chiaramente polemico. Questa volta non si svolge più al mattino, ma di notte; e non si tratta del “pastore” proprietario, ma di un “ladro” o di un “brigante”. Non potendo passare dalla porta, ben custodita dal guardiano, tenta una scalata dal muricciolo non molto alto. Un’impresa non difficile. Difficile invece farsi seguire dalle pecore che sentono in lui un estraneo, ne hanno paura, e lo sfuggono; “non lo seguiranno di sicuro” (l’accentuazione è nel greco), perché “non conoscono” la sua voce.

L’impiego di alcuni vocaboli, oltre il grande contesto giovanneo, rendono trasparente il senso di questo doppio raccontino. Il “pastore” è Gesù, le “pecore” i suoi discepoli. Fra loro c’è intesa: il pastore conosce “per nome” ogni pecora del gregge, le pecore “conoscono” bene la voce di Gesù. E lo seguono. [Invece] i falsi capi di Israele, quelli che erano intervenuti con una serie di dure intimidazioni per scoraggiare fra il popolo qualsiasi parvenza di assenso a Gesù, che gli si erano opposti con durezza ostinata, che lo respingevano e si preparavano a condannarlo e a ucciderlo, non sono che usurpatori e ladri. I capi storici di Israele dunque vengono severamente valutati e idealmente deposti dalla loro funzione. Gesù rivendica così a se stesso, come il Messia inviato da Dio, la funzione di pastore» [Ivi, 199-201].

Gesù è dunque il pastore, colui che “conduce fuori” il suo popolo e “cammina davanti”… Due espressioni non nuove, per chi ha nelle orecchie l’Antico Testamento: «All’Antico Testamento risale [infatti] la metafora di Dio come pastore. […] La vera novità è che Gesù la applica a se stesso, introducendola con la formula di rivelazione: “Io sono…”; e questo avviene nel contesto della festa di Sukkôt [la festa delle Capanne], nella quale gli ebrei celebravano la guida divina nel tempo dell’Esodo. Ed è proprio sullo sfondo dell’Esodo che va letto il nostro brano; in esso non è difficile infatti scoprire i tre temi classici del cammino esodico, riassumibili nei tre verbi; uscire (v. 3: “condurre fuori”), camminare (v.4), entrare (v. 7: “la porta”)» [P. PEZZOLI, La testimonianza del discepolo amato, in Scuola della Parola, Litostampa Istituto Grafico, Bergamo 1997, 217].

Dei primi due s’è già detto, mentre sul terzo verbo è forse utile soffermarsi: “entrare”, il riferimento cioè che troviamo nella seconda parte del vangelo odierno all’espressione di Gesù: «io sono la porta delle pecore». «Gesù è la porta attraverso la quale passano le pecore. Egli insomma è la mediazione di salvezza (v. 9: sarà salvo); bisogna entrare passando per lui. Ma allora si entra attraverso di lui per stabilirsi dove? Si passa attraverso di lui per abitare in lui stesso. Gesù è porta d’ingresso ma è anche il recinto, il nuovo recinto delle pecore. […] Quindi Gesù è lo stesso nuovo recinto, non c’è più il recinto vecchio, Gesù è il tempio nuovo. E così egli è la Via, ma anche la Vita. Si capisce bene qui come sia importante per Giovanni la ‘escatologia presente’: la vita, o la vita eterna si ha nella comunione con Gesù. Quando si è in lui si è già nella Vita. […] Chi passa attraverso Cristo-porta, potrà “entrare e uscire e trovare pascolo” (Gv 10,9): “entrare-uscire”: i due estremi per indicare, nel linguaggio biblico, tutta la vita. Perciò chi si lascia liberare da Cristo, cammina con lui e passa attraverso la porta che è lui, avrà come risultato una vita piena, che si espande in tutti i suoi aspetti» [Ivi, 216-220].

Ma al di là della polemica coi capi religiosi di Israele, rispetto ai quali Gesù si propone come il vero pastore di Israele e anche al di là di questa ‘escatologia presente’ tanto cara a Giovanni, io credo che la Chiesa ci abbia proposto questo testo nel tempo pasquale, perché in esso si può rintracciare anche un ulteriore “pastoralità” di Gesù: «Il Cristo è il pastore che si pone in modo antagonistico rispetto al pastore dell’umanità, quello che nella concreta situazione storica ha il potere sulla umanità di cui si può dire che l’umanità è il suo gregge, cioè la morte. E si pone così antagonisticamente rispetto a questo modello che la sua pastoralità assume una connotazione drammatica, perché si definisce fin dal principio come un pastorato che si deve opporre al pastorato della morte, che deve riuscire a vincere il sovrano che domina l’umanità. E questo sovrano è così duro che oscura anche la visione, la percezione di quello che originariamente dovrebbe essere l’ultimo ed eminentissimo pastore dell’umanità e, in particolare, del popolo d’Israele: Dio.

Affermando che la morte è il pastore dell’umanità, non facciamo altro che constatare che la condizione esistenziale dell’umanità è così dura che la signoria della morte oscura persino la percezione di Dio. È talmente dura questa signoria che sembra che l’uomo non possa aspirare ad ascendere a Dio. Un dubbio tremendo, un oscuramento spaventoso.

Noi continuiamo a dire: Dio è il mio pastore. Ma non è tanto semplice dire che c’è un pastore al di sopra del pastore della morte: non dobbiamo farla facile, perché ci vuole la fede per poterlo dire. Altrimenti non si arriva a dirlo con pienezza, con convinzione, con stabilità, a dirlo con rassegnazione e con pace, a percepirlo in modo esistenziale, vero. Senza la fede, senza una luce che venga dalla rivelazione è molto difficile dire: sì, io sono soggetto a questo pastore, ma al di sopra di questo pastore ce n’è un altro che guida le sorti dell’umanità verso un mistero di vita. Non è facile» [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 190].

E proprio perché non è facile, io credo che sia utile in questo Tempo di Pasqua provare a soffermarsi su chi sia il pastore Gesù – alla luce della sua risurrezione… su chi sia stato, in vita, in morte e “in risurrezione”… su cosa ciò voglia dire per noi, per il nostro rapporto con lui, per il nostro rapporto con la vita, con la morte, con gli altri…

Perché se non si arriva fino a qui ad interrogarsi, il rischio è quello di far riprecipitare il vangelo di Gesù in un libro di morale, di buone prassi, di consigli pii, che però non vanno a ridiscutere in radice il nostro essere.

venerdì 6 maggio 2011

III Domenica di Pasqua: I discepoli di Emmaus

In questa terza domenica di Pasqua, la Chiesa, nella liturgia, ci presenta un altro episodio di incontro col Risorto. Un episodio molto articolato (sia dal punto di vista narrativo che da quello emotivo) e che – vedremo – ha avuto ed ha una valenza particolare all’interno dell’annuncio evangelico della Rivelazione di Dio.


Qualcuno però potrebbe iniziare a borbottare… “Ancora una riflessione sulla risurrezione!?!??”…

In effetti non si può non rilevare un’insistenza della Chiesa nel riproporre – in questo tempo pasquale – una sorta di “bagnomaria” nel mistero della Risurrezione di Gesù… Eppure tale insistenza non deve stupirci (né tanto meno annoiarci) perché quest’evento, che è il centro sorgivo di tutto il fermento cristiano, si presenta tanto inaudito e smisurato, da risultare inesauribile nella sua com-prensione.

Infatti, per come ne parlano i testi neotestamentari e per come è stata vissuta dalla comunità credente, la Risurrezione di Cristo è un evento che ha in sé un tale novum da risultare scardinante le stesse fondamenta della vita umana, per cui i consueti schemi interpretativi della realtà (anche quelli religiosi) risultano inadeguati.

E di fatti, per esempio, non si può parlare per Gesù di una semplice ri-vitalizzazione del suo corpo. La sua non è l’esperienza di Lazzaro, che richiamato in vita, dovrà poi però di nuovo incontrarsi con la morte.

In proposito un modo chiaro per spiegare questa differenza è il cosiddetto “schema delle stanze”. Esso mostra come l’uomo abbia sempre conosciuto solo due “stanze”, due mondi, quello dei vivi e quello dei morti, senza ulteriori possibilità: chi vive è destinato a finire nella tomba e a restarci. La soglia tra la prima stanza (la vita) e la seconda (la tomba) è naturalmente la morte fisica. Lazzaro in questa prospettiva, morendo, passerebbe dalla prima stanza alla seconda, ma poi, attraverso la nuova chiamata alla vita da parte di Gesù («Lazzaro, vieni fuori!», Gv 11,43), farebbe il percorso inverso: dalla seconda “stanza” (regno dei morti) alla prima (mondo della vita).

Non altrettanto si può dire invece per Gesù: Egli non torna indietro nella prima “stanza”, ma per Lui è come se si spalancasse una terza e nuova “stanza”, inaudita per l’uomo: il mondo di Dio. Egli, morendo, passa dalla prima alla seconda “stanza”, ma, risorgendo, fa un ulteriore avanzamento! Passa infatti dalle braccia della morte a quelle della nuova Vita, la vita di Dio, attraverso la nuova soglia della Risurrezione.

Ed è questa novità inaudita, questo accesso mai percorso prima, questa possibilità solo da lui abilitata ad essere vissuta, ciò che rende così sproporzionato l’evento di Risurrezione rispetto all’abituale comprensione che l’uomo ha delle dinamiche del vivere e del morire.

È quello che i Vangeli a modo loro cercano di mostrare nella forma del racconto. Essi infatti parlando di Gesù risorto, sebbene ne mettano in luce per un verso una continuità con il Gesù in carne ed ossa che percorreva le strade della Palestina prima di finire appeso ad una croce (il crocifisso è il risorto), ne mostrano però allo stesso tempo anche una diversità sorprendente.

Per esempio si parla di Gesù che «Venne a porte chiuse» dai suoi discepoli (Gv 20,26), ma che allo stesso tempo mangiò con loro (Gv 21). Soprattutto si parla di quello strano fenomeno che si ripeté diverse volte e che fu il mancato riconoscimento di Gesù stesso. Maria di Magdala, vedendolo, lo scambiò per il custode del giardino («Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: “Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo”», Gv 20,15); i discepoli non si accorsero che chi gli si faceva vicino sulle rive del Lago di Tiberiade era proprio Lui («Quando già era l'alba Gesù si presentò sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù», Gv 21,4); e infine, in modo ancora più clamoroso, perché prolungato, i discepoli di Emmaus non si accorsero che era Lui che camminava con loro («Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo», Lc 24,15-16).

Ed ecco che alla luce di questo problema, sentito davvero come significativo dalla prima comunità cristiana – Come riconoscere il Cristo risorto? – si fanno strada le prime risposte; si vogliono cioè indicare quali siano per i discepoli di qualsiasi epoca, le vie di accesso per il riconoscimento, e dunque l’incontro col Signore risorto.

È questa la portata strepitosa dei vangeli di risurrezione, che a noi magari risultano un po’ ripetitivi, perché in essi siamo abituati solo a sentir riecheggiare l’annuncio della risurrezione di Gesù, che – pensiamo – sentita una volta, sentita per sempre… In realtà nella configurazione che gli evangelisti danno a questi racconti, vi è in gioco qualcosa di più: non solo arrivare al dato finale “Gesù è risorto”, ma mostrare quale sia stato, per i discepoli della prima ora, il percorso che li ha portati a questa presa di coscienza (non è bastato infatti che Egli gli apparisse, infatti nessuno lo riconobbe, nemmeno i nostri due di Emmaus!). E il fatto che i primi cristiani, nel momento in cui consegnano alla storia la testimonianza della risurrezione di Gesù, decidano di consegnare insieme anche la chiave di accesso che ha permesso loro l’incontro con Lui, significa che ritenevano quel percorso essenziale anche per i discepoli della seconda e terza e millesima generazione… Cioè è come se avessero sentito l’esigenza non solo di consegnare l’annuncio dell’incontro col Risorto, ma anche il come ciascuno – a qualsiasi epoca appartenga – possa ripercorrere quella strada per arrivare di persona a quel medesimo incontro.

E la portata del problema non deve sfuggire, soprattutto a noi, discepoli di 2000 anni dopo: Com’è possibile per me oggi incontrare il Signore in persona? È possibile, visto che io non c’ero allora? È possibile per me che non l’ho mai visto in carne ed ossa? Oppure, dopo la sua risurrezione, è possibile solo un ricordo di Lui?

No, rispondono i Vangeli: non è possibile solo un ricordo di ciò che è stato, ma si danno alcune vie reali e attuali di accesso al Signore. E il Vangelo di Luca nel capitolo 24 (quello appunto che racconta dei discepoli di Emmaus) è stato scritto proprio per indicarle:

1- Le Scritture: «“Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”. E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui».

2- L’accoglienza dell’altro, l’ospitalità dello straniero (tale infatti consideravano Gesù, data la sua ignoranza sui recenti fatti accaduti a Gerusalemme: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?»): «egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: “Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto”».

3- Lo spezzare del pane, il gesto anticipatore del senso della sua morte per noi: «Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro».



«Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero»!
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