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martedì 25 dicembre 2012

Buon Natale!... Forse

 
Forse mai come in questo Natale 2012 ci sentiamo così vicini a Gesù, a Maria, a Giuseppe.

Guardiamo il presepe… molto bello certo, ma quello vero non è mai così bello, così ricco di luci… con la bolletta dell’Enel che non si riesce a pagare…

Forse… oggi capiamo meglio cosa vuol dire restare soli, senza un soldo in tasca, senza un lavoro degno di questo nome…
Forse… oggi capiamo meglio cosa vuol dire essere cacciati da un alloggio caldo e accogliente in cui si cercava rifugio per una sola notte…
Forse… ora capiamo meglio la sensazione di disagio che ha provato Maria… con le doglie imminenti e l’assenza di acqua per potersi lavare.
Forse… ora capiamo meglio l’angoscia di Giuseppe… la sua impotenza davanti all’ostilità degli uomini e della storia. Capiamo meglio l’angoscia di un padre che non riesce a proteggere come vorrebbe le persone che ama…

Forse… capiamo meglio l’ingiustizia patita da Gesù…
In fondo Lui ha sempre vissuto così: “da cacciato via”… da straniero… Ha sempre fatto fatica Gesù a trovare una casa accogliente, Lui che non aveva neanche una pietra dove posare il capo, Lui che non aveva neanche – diversamente dagli animali – una tana dove rifugiarsi… Qualche volta la trovava a Betania, a casa di Lazzaro, ma ha sempre vissuto da rifugiato… anche a Nazareth. In fondo ci era andato per nascondersi dal potente di turno, tanto insignificante era quel posto.

Sta per nascere Gesù... e l’unico posto in cui ha potuto nascere è la nuda roccia di una grotta, di una caverna… la stessa roccia fredda che accoglierà il suo corpo… ciò che restava di una vita consegnata…
Appena madre e ancora ragazza Maria... e già si esercita a compiere quel gesto che trent’anni dopo dovrà fare per custodire le spoglie del figlio amato, avvolgendolo in fasce.

Forse… oggi capiamo meglio cosa vuol dire, non trovare rifugio sicuro e stabile per poter condurre una vita dignitosa.
Forse… oggi capiamo meglio cosa vuol dire vivere al freddo riscaldati dal tepore e fetore degli animali… E da genitori indifesi e infreddoliti, stanchi e affamati…

Forse… oggi capiamo meglio quella solidarietà che Gesù ha voluto vivere con il nostro disagio…
Forse ora comprendiamo che cosa voleva dire quando ci invitava a essere solidali con chi, per una ragione o per l’altra, è emarginato…
Forse… oggi, i disagi di quest’anno e la speranza di un futuro migliore che sembra spegnersi, ci fanno scoprire che abbiamo qualcosa in comune con le persone che fino a ieri incontravamo solo per far loro l’elemosina, “la carità”. Forse ora ci accorgiamo che abbiamo molte cose in comune con loro… Con molte cose da dirci, più che da darci.

Forse oggi, invece di chiedere qualcosa – a Gesù, agli altri – avremo voglia di dire qualcosa: che ci siamo anche noi, solidali come Lui, perché cominciamo a capire che cosa si prova a trovarsi ai margini della storia…
E forse oggi abbiamo voglia di ringraziarlo per questo, perché da stasera, forse, abbiamo capito grazie a Lui, che per vivere felici, senza perdere la propria dignità, non si ha bisogno di molte cose: basta un bue, un asinello, una madre affettuosa anche se inesperta, un padre premuroso anche se spaventato e qualche pastore, qualche povero disprezzato, che venga a farci compagnia.

Buon Natale! Forse…

martedì 18 dicembre 2012

IV Domenica di Avvento

Dal libro del profeta Michèa (Mi 5,1-4a)
Così dice il Signore: «E tu, Betlemme di Èfrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti. Perciò Dio li metterà in potere altrui, fino a quando partorirà colei che deve partorire; e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli d’Israele. Egli si leverà e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore, suo Dio. Abiteranno sicuri, perché egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra. Egli stesso sarà la pace!».

 Dalla lettera agli Ebrei (Eb 10,5-10)
Fratelli, entrando nel mondo, Cristo dice: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: “Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”». Dopo aver detto: «Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato», cose che vengono offerte secondo la Legge, soggiunge: «Ecco, io vengo per fare la tua volontà». Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo. Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre.

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 1,39-45)
In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».

In questa Quarta e ultima Domenica di Avvento la Chiesa ci propone di riflettere sull’episodio del vangelo di Luca, tradizionalmente titolato “La visitazione”: Maria – dopo aver ricevuto, da parte dell’angelo Gabriele, l’annuncio del concepimento di Gesù – parte «in fretta» per andare da Elisabetta, sua parente.

«Per quale motivo Maria si reca da Elisabetta? Secondo un diffuso sentire popolare, e anche secondo diversi esegeti, Maria sarebbe stata spinta dalla carità e dalla volontà di servizio. “Maria poteva aiutare sua cugina nelle sue occupazioni quotidiane, offrendole quei servigi che le donne usano rendersi in tali circostanze” [scrive L. Deiss, ne Elementi fondamentali di Mariologia]. La “Serva del Signore” si fa serva degli uomini, come è nella logica del vangelo, dove l’amore di Dio si dimostra e si verifica nell’amore del prossimo. E. Bianchi annota che l’intenzione caritativa di Maria si trasforma però – nel racconto di Luca – in un viaggio missionario: “Maria va per fare il bene e finisce per portare Cristo” [E. Bianchi, Magnificat].

In realtà da nessuna parte del testo è suggerito che il viaggio di Maria sia stato motivato dal desiderio di aiutare Elisabetta. Tanto più che, come si è visto, Maria ritorna a casa sua prima della nascita del Battista (1,56). E l’espressione “Serva del Signore” (1,38) sottolinea l’obbedienza a Dio, non di per sé il servizio al prossimo. L’unico motivo, che può trovare un appoggio nel testo, è il desiderio di Maria di osservare il segno che l’angelo le ha indicato» [B. Maggioni, Il racconto di Luca, Cittadella Editrice, Assisi 2001, 36-37].

Pochi versetti prima infatti – durante l’annuncio dell’angelo a Maria («Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine», Lc 1,30-33) – Egli aveva aggiunto, quasi a indicare una traccia di attendibilità del suo messaggio: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,35-37).

Maria che «diversamente da Zaccaria [come annota ancora Maggioni], non ha chiesto un segno», individua nelle parole dell’angelo un’indicazione: un’indicazione che «nasconde un invito. Il segno e la sua verifica fanno [infatti] parte della logica delle rivelazioni. Dio mostra [N.B. “mostra” NON “dimostra”] la sua verità e non vuole che l’assenso della fede avvenga al buio»!

Precisamente in queste ultime indicazioni – purtroppo abitualmente soffocate dal continuo rilancio della lettura di questo brano che vede in Maria l’esempio di carità da seguire, accontentandosi ancora una volta di proporre semplicemente i luoghi comuni di una religiosità che troppo disinvoltamente fa “tornare i conti” della drammatica evangelica – sta la straordinarietà e – mi sia permesso – la spregiudicatezza di questo testo.

Esso infatti – precisamente mentre sta descrivendo il paradigma della fede di ogni credente: Maria, appunto – non ha paura di mostrare come la fede – cioè la relazione dell’uomo al suo Dio – non sia assolutamente da intendere come una fede cieca! Questa constatazione – che è un’evidenza che emerge da ogni interstizio evangelico – purtroppo ancora oggi risuona come una prospettiva sospetta: la catechesi neoscolastica degli ultimi secoli ha infatti radicalmente fatto sedimentare nelle nostre menti l’idea che se di fede si tratta, non c’è spazio per l’esercizio della ragione… Essa è “un salto nel buio”, se no che fede è?

“Curiosamente” invece proprio Maria – da sempre cantata come l’esempio della fede di ciascun cristiano – a fronte di una rivelazione di Dio, di un “farlesi” incontro di Dio, di un imbattersi in Dio, si appiglia all’unica “traccia” che l’angelo le ha lasciato per andare a constatare se effettivamente l’esperienza che ha vissuto ha una sua attendibilità. Il problema di Maria è infatti quello di ciascuno: “Questa rivelazione, questa lieta notizia, questo vangelo, – in ultima analisi –, questo Dio, è un Dio affidabile, è un Dio credibile, è un Dio degno di fede, della mia fede? Vale la pena dedicargli la vita, instaurare con Lui una relazione che diventi l’orizzonte di senso in cui comprendere il reale, incarnare la sua logica che conduce al dono della mia vita per amore dei fratelli?”.

L’angelo aveva parlato di Elisabetta… E Maria, «in fretta», va da lei!

Altro che fede cieca (che tra l’altro il Concilio Vaticano I ha stigmatizzato – con la Costituzione dogmatica Dei Filius – come inaccettabile)! La relazione che il Signore propone all’uomo onora fino in fondo la caratura pienamente umana (e dunque anche razionale) dell’uomo! Nessun salto nel buio, ma il paziente riconoscimento del farsi prossimo di Dio, l’intercettazione, nel nostro ordine degli affetti, di una promessa di senso lì contenuta, il credito dato a questa intuizione e il conseguente sbilanciamento verso un approfondimento della conoscenza di questo suo rivelarsi (fatto anche – non solo, ovviamente – di faticosa indagine sui testi, che invece molti cristiani non solo non hanno mai studiato, ma nemmeno mai letto…), la verifica di ciò che attraverso lo studio (Parola di Dio), il dialogo personale (preghiera), la vita ecclesiale (sacramenti), il volto dei fratelli (storia) emerge come volto del Dio di Gesù Cristo… per giungere ad un assenso consapevole… che riapre la circolarità appena descritta, dove infatti il consenso raggiunto, diventa occasione di nuove illuminazioni nell’ordine degli affetti, credito concessogli, ecc…

Ecco perché questo testo è coraggioso, perché non ha paura di mostrare come – per entrare in relazione con Dio – non ci sia affatto bisogno di uscire dalla carne, di censurare i nostri dubbi, di spegnere la nostra razionalità, di rispettare la nostra umana natura che prevede che per “farci” uomini, diventare uomini, ci si immerga nella storicità…

Maria – donna a tutti gli effetti, fatta di carne e sangue, sudore e fatica, gambe per andare in fretta da Elisabetta, “voce forte” per salutarla, entusiasmo e trepidazione per l’annuncio dell’angelo in cui le è capitato di imbattersi, tenerezza per il figlio che porta in grembo, desiderio di dirlo a qualcuno (a qualcuna…) –, l’esempio di fede dei cristiani di ogni generazione, non risulta affatto l’eterea semi-dea a cui spesso purtroppo ancora oggi è spesso ridotta dalla devozione popolare, colpevolmente alimentata da molti funzionari del sacro, ma ci appare – aprendoci ad un sorriso compiaciuto e tenerissimo – la ragazza a cui è capitato di tenere in pancia Dio, colma di paura e trepidazione, sospetti e incomprensioni, che non ha avuto paura di andare a vedere se davvero quell’angelo diceva il vero su Elisabetta!

Perché forse – se diceva il vero su Elisabetta – diceva il vero anche a lei…

E così Luca ci regala l’indimenticabile pagina della rivelazione del Signore (Elisabetta è la prima che chiama Gesù con questo titolo nel vangelo di Luca), chiusa fra le quattro mura di una casa normalissima, con protagoniste due donne – una ragazza madre e una donna sfiorita – e le loro pance (con i rispettivi abitanti) che si parlano di una gioia incontenibile: è il Signore che viene, nel mondo laico delle donne, nella quotidianità di quelli che non contano, nel cuore dell’umanità. «Perché Dio entra nella storia dalla porta di servizio, dove mai l’avremmo aspettato, perché da lì entrano i servi e i domestici…o, di soppiatto, i ladri. Noi eravamo e siamo sempre in attesa sul portone principale della religione, dell’intelligenza, della morale ascetica. Ma lui è entrato e continua a battere nella storia dal punto più basso, da dove noi cerchiamo faticosamente e inutilmente di allontanarci, dalla nascita alla morte: il ventre di una donna!

[Ma] Perché mai le donne sono protagoniste dell’incontro con il Signore? Persino in queste storie antiche, quando non era pensabile potessero neanche fare da testimoni affidabili di incontri umani? Perché la tentazione monofisita, (la tentazione più subdola e diabolica contro l’incarnazione) non le tocca. Cioè il corpo, la carne, pure sporca e malata, perfino il cadavere dell’amato… per loro ha sempre senso. E’ sempre il luogo della vita possibile, della comunicazione vera, l’unico luogo dove si trasmette la vita. Sono quindi più vicine all’accudire che al razionalizzare; a comprendere invece che proporre, a servire invece che pretendere. Anche loro sono intrise della congenita debolezza umana (e biblicamente sono state la prime a volerne uscire a tutti i costi) ma il circuito culturale non le chiude mai del tutto. La vita vale più dell’idea della vita!» [Giuliano].

martedì 11 dicembre 2012

III Domenica di Avvento


Dal libro del profeta Sofonìa (Sof 3,14-18)

Rallègrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele, esulta e acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme! Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico. Re d’Israele è il Signore in mezzo a te, tu non temerai più alcuna sventura. In quel giorno si dirà a Gerusalemme: «Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente. Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési (Fil 4,4-7)

Fratelli, siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 3,10-18)

In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe». Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile». Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.

 

Le letture che la Chiesa ci propone per questa Terza Domenica di Avvento, sembrano in qualche modo ricalcare la prospettiva che si voleva delineare già una settimana fa: lettura profetica di esultanza per la salvezza imminente (là Baruc 5,1-9 qua Sofonìa 3,14-18), scritto paolino che incoraggia la crescita nell’amore della comunità a cui si rivolge (in entrambi i casi, i cristiani di Filippi – là Fil 1,4-6.8-11, qua Fil 4,4-7), figura del Battista tratta in entrambi i casi dal capitolo 3 del Vangelo di Luca (là i versetti 1-6, qua i versetti 10-18).

La ripetizione di questa matrice dell’annuncio della Parola, che la Chiesa decide di proporre in questo tempo di Avvento (anno C), seppur crea qualche difficoltà di commento – perché il rischio di ripetersi diventa reale… –, in realtà è molto significativa: ancora una volta è ribadita (addirittura in maniera ridondante) l’impossibilità di avvicinarsi al Natale – e dunque di parlare dell’inizio dell’avventura storica di Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio, la sua piena Rivelazione – senza “passare” da Giovanni Battista.

I versetti del cap. 3 di Luca che la liturgia non ci fa leggere (quelli dal 7 al 9), indicano infatti questo necessario affluire delle folle (allora) e nostro (oggi) a Giovanni, nel deserto: «Le folle andavano a farsi battezzare da lui».

Perché questo bisogno di “passare” dal Battista? Cosa muoveva le folle di allora? E in che senso anche oggi, per noi, è imprescindibile il passaggio da Giovanni?

Un’intuizione si può avere dalla domanda che più volte gli viene rivolta: «Che cosa dobbiamo fare?», «Maestro, che cosa dobbiamo fare?», «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Questa domanda infatti rimanda al problema dei problemi, al risveglio della coscienza (dovuto ad un annuncio – in questo caso –, o ad un evento tragico o bellissimo, o alla noia di vivere, ecc…), per cui ci si rende conto che quotidianamente – anzi istante per istante – si ha a che fare con un abisso, con l’assoluto, con la scelta radicale di chi essere e chi diventare, col pericolo mortale di non risvegliarsi la mattina dopo e con la domanda inevitabile sul senso, che questa coscienza pone. Giovanni dice: «Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri», perché sta per arrivare l’atteso dai secoli, sta per succedere qualcosa di travolgente e che porta con sé una definitività; e la gente è immediatamente rimandata a se stessa. Di fronte ad un evento che sembra sconvolgere la storia, il problema di ciascuno diventa: “E io? Che cosa devo fare?”. Di fronte al Signore che viene, di fronte ad un mondo che finisce, di fronte alla mia vita che finisce, di fronte ad un figlio che mi nasce, di fronte ad un fratello che mi tradisce, che mi abbandona, che mi muore, che suda lacrime e sangue ogni giorno per i mille e mille motivi per cui nel mondo oggi si sudano lacrime e sangue, ioche cosa devo fare? Come mi devo porre? Chi devo/voglio scegliere di essere?

È la domanda delle domande… ecco perché vanno da Giovanni: da uno che in quel momento sembrava poter dare delle risposte, sembrava poter indicare una via, dire qualcosa… Ecco perché anche la Chiesa, continuamente, ci invita a “passare” da Giovanni. Perché “Che cosa dobbiamo fare?” è la domanda che deve salire in petto a tutti: il problema – anche solo sul fronte umano – del senso non può essere eluso: Cosa dobbiamo fare? Cosa dobbiamo fare per vivere una vita buona? E come facciamo a capire cosa è una vita buona? E poi, “buona” per chi? Verso cosa corriamo? Verso dove andiamo? Verso chi? E perché? Qualcuno lungo la storia ha parlato di premi, di aldilà, di vita dopo la morte… Era vero? E come si fa per guadagnarseli? Quali prove, quali sforzi, quali sacrifici? E se non è vero, cosa sono qui a fare? Ha senso ciò che faccio, se è destinato al niente? E se decido di sfruttare comunque questa cosa – che è la vita – che mi sono ritrovato a vivere, cosa devo fare perché non sia un’occasione sciupata?

Giovanni – dicevamo già la scorsa volta – è – a detta di Gesù stesso – il più grande frutto della religiosità umana, che – nel suo senso autentico – è precisamente questo inevitabile imbattersi nella domanda del senso… Giovanni è come l’emblema di quella tensione umana per cui non ci si sente mai “risolti”, “finiti”, “arrivati”; per cui è sempre in atto (anzi: deve essere sempre in atto) un necessario migliorarsi, un cercare altrove, oltre; un con-vertirsi, per dirla con le sue parole…

In sostanza Giovanni rappresenta tutto lo sforzo dell’umanità e del singolo a trovare e a perseguire una risposta alla domanda “Cosa siamo qui a fare?”.

Ecco Giovanni! Ecco la necessità di “passare” da lui: perché senza questa tensione per la ricerca di un senso (del senso!), semplicemente essa non si dà. Non c’è vita senza senso, senza tensione – almeno – per un senso. E non c’è possibilità di trovarlo – o meglio di farsi trovare dal senso – se esso non è contemplato come possibile. Ecco perché – forse più che mai – per la nostra generazione contemporanea è indispensabile “passare” da Giovanni…

Anche perché poi – a ben guardare – Giovanni qualche risposta la dà… «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto», «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato», «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe»… Giovanni cioè sembra indicare, come possibile risposta al “Cosa dobbiamo fare?”, la via della solidarietà, intesa in senso forte, non in quello della carità “a distanza” della nostra società occidentale, per cui il povero – se lo si aiuta – lo si fa da lontano, lo si fa “lasciandolo a casa sua”: l’importante è che non venga da noi… No, qua Giovanni parla piuttosto di quella disposizione interiore – fondata, perché scavata nell’“anima” – che guarda all’altro – sempre e comunque – come ad un fratello, ad “uno dei nostri”, “uno dei miei”, per questo mi diventa caro e me ne prendo cura…

Precisamente in questa scia si porrà Gesù!

Eppure…

Gesù non è Giovanni! Anzi, a detta di Giovanni stesso, «viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali».

Infatti – a ben guardare – se è vero che Gesù si inserisce sulla scia della risposta giovannea alla domanda “Che cosa dobbiamo fare?”, proseguendo e radicalizzando l’amore al prossimo come criterio per “pesare”, “misurare”, giudicare la propria vita, è anche vero che Gesù non sarà esattamente come Giovanni se lo aspettava: «Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».

Giovanni infatti sembra ancora dell’idea (in questo ancora molto seguito da tanti cristiani) che il “bene” vada fatto (agli altri), per evitare di avere conseguenze negative (noi): evitare di “bruciare come paglia con un fuoco inestinguibile”, detto con le sue parole; “di andare all’inferno”, detto con le nostre… Dove l’oggetto vero di interesse, ancora una volta, siamo noi e la nostra salvezza: gli altri contano e “servono” solo come mezzi per i miei fini, per il mio bene, per i miei interessi (per quanto di interessi “spirituali” si tratti…).

La logica di Gesù è invece tutt’altra! Tant’è che Giovanni – racconta Matteo – all’inizio non era molto persuaso del modo di essere Messia di Gesù, tant’è che – dal carcere – gli manda i suoi discepoli a chiedergli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,3). Perché Gesù stravolge la logica umana (e giovannea) della necessità di salvarsi, del fare il massimo per migliorarsi, dell’essere il “più buoni possibile” per meritarsi il paradiso… La proposta di Gesù infatti non è un itinerario di autosalvezza, non è un percorso ascetico, in cui l’uomo sforzandosi raggiunge la perfezione morale o spirituale o mistica… Questo è ancora Giovanni – il massimo che la ricerca religiosa ex parte hominis può raggiungere…

Ma, come dicevamo anche domenica scorsa… uno sforzo destinato a farci sempre ritrovare seduti per terra: perché tutto parte da noi e arriva a noi; senza possibilità di (con)vincere davvero la nostra radicale consapevolezza di non poterci salvare da soli. Esattamente come non siamo potuti nascere da soli o farci uomini e donne da soli…

Precisamente qui sta il discrimine tra Giovanni e Gesù, tra l’Antico e il Nuovo Testamento, tra un itinerario di autosalvezza e il Vangelo. A differenza di Giovanni, infatti, Gesù non risponde (se non solo in seconda battuta) al “Cosa dobbiamo fare?”, ma al “Chi siamo?” e solo a partire da lì propone anche un “fare” – o meglio un “essere” che si media inevitabilmente in un “fare”.

Gesù infatti ricolloca l’uomo nella giusta posizione che da sempre egli agli occhi di Dio ha tenuto – ma della quale si era scordato (l’uomo, non Dio!) strada facendo: e cioè quella per cui l’uomo è figlio amato, sempre e comunque! Figlio, la cui vita è già sempre tenuta in mano dal Padre, salvata ex parte Dei. Vita – dunque – per la cui salvezza egli non deve dannarsi l’anima, sputare sangue, mortificare il corpo, primeggiare sugli altri… Essa infatti è già “al sicuro”. E se non lo fosse – per opera d’Altri – l’autosalvezza raggiunta sarebbe comunque sempre e solo illusoria, destinata inevitabilmente alla tomba!
Lo scardinamento di Gesù allora sta esattamente a questo livello: proprio perché rivela all’uomo la sua autentica identità filiale (umana in senso pieno), Egli gli consegna anche il “compito/dono” di incarnarla fino in fondo; un “da farsi” dunque, ma che trova senso solo in questa prospettiva, solo in seconda battuta, come risposta (accogliente) ad un regalo arrivato solo per l’incondizionata e inequivoca dedizione dell’Abbà-Dio. Ecco perché il “da farsi” non ha più i contorni dello sforzo, della rinuncia ascetica, del volontarismo, dell’apparire – ultimamente – contrario all’umanizzazione dell’uomo: perché esso diventa circolo d’amore in cui proprio perché inondato di bene, io irraggio sugli altri il bene; proprio perché figlio, divento fratello; proprio perché oggetto di dedizione, divento capace di dare la vita. Ecco in che senso allora Gesù – come concludevamo la scorsa volta – non va cercato, ma semplicemente accolto nell’intimità più intima della nostra interiorità, dove ci «rinnoverà con il suo amore».

martedì 4 dicembre 2012

II Domenica di Avvento


Dal libro del profeta Baruc (Bar 5,1-9)

Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione, rivèstiti dello splendore della gloria che ti viene da Dio per sempre. Avvolgiti nel manto della giustizia di Dio, metti sul tuo capo il diadema di gloria dell’Eterno, perché Dio mostrerà il tuo splendore a ogni creatura sotto il cielo. Sarai chiamata da Dio per sempre: «Pace di giustizia» e «Gloria di pietà». Sorgi, o Gerusalemme, sta’ in piedi sull’altura e guarda verso oriente; vedi i tuoi figli riuniti, dal tramonto del sole fino al suo sorgere, alla parola del Santo, esultanti per il ricordo di Dio. Si sono allontanati da te a piedi, incalzati dai nemici; ora Dio te li riconduce in trionfo come sopra un trono regale. Poiché Dio ha deciso di spianare ogni alta montagna e le rupi perenni, di colmare le valli livellando il terreno, perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio. Anche le selve e ogni albero odoroso hanno fatto ombra a Israele per comando di Dio. Perché Dio ricondurrà Israele con gioia alla luce della sua gloria, con la misericordia e la giustizia che vengono da lui.

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési (Fil 1,4-6.8-11)

Fratelli, sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo, dal primo giorno fino al presente. Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù. Infatti Dio mi è testimone del vivo desiderio che nutro per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù. E perciò prego che la vostra carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento, perché possiate distinguere ciò che è meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi di quel frutto di giustizia che si ottiene per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 3,1-6)

Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetràrca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetràrca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetràrca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Càifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccarìa, nel deserto. Egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaìa: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose diverranno diritte e quelle impervie, spianate. Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!».

 

In questa Seconda Domenica di Avvento, la Chiesa ci introduce – con le sue letture – in un clima di attesa decisamente più luminoso di quello presentato la settimana scorsa da Lc 21:

-          «Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione, rivèstiti dello splendore della gloria che ti viene da Dio per sempre» – proclama il profeta Baruc;

-          «Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!» – gli fa eco Isaia, citato da Luca…

-          E Paolo, nella sua lettera ai Filippesi, non è da meno: «Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù».

Tutta questa effervescenza ovviamente è legata al mistero del Natale di Gesù che – con l’Avvento – ci prepariamo ad accogliere; eppure l’attenzione non è ancora posta precisamente su di Lui: la Chiesa infatti ci invita a concentrarci (e lo farà per due domeniche di seguito) sul Precursore, su Giovanni.

Questo dato è molto interessante: la Chiesa infatti – per parlare della venuta di Gesù – invita sempre a farlo passando da Giovanni Battista.

E questo da sempre, tant’è che tutti e quattro i vangeli attribuiscono grande importanza a questo personaggio e sottolineano come si possa iniziare a parlare di Gesù solo attraverso suo “cugino”…

Diventa indispensabile dunque anche per noi oggi, ripercorrere l’esperienza storica di quest’uomo (storica al 100%, data la puntigliosità di Luca nel collocarla nel quadro dei grandi avvenimenti storico-politici dell’epoca: «Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetràrca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetràrca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetràrca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Càifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccarìa, nel deserto»).

Lo facciamo lasciandoci guidare dalle preziose indicazioni contenute nel capitolo 1 del libro Con Marco in cammino verso il Regno del Monastero delle Carmelitane scalze di Legnano.

L’autore – p. Giuliano Bettati – scrive infatti: «Anche oggi è necessario, per avvicinare Gesù e riscoprire la possibilità e – se volete – l’approfondimento di una nuova autenticità del nostro personale incontro con Gesù, incontrare prima Giovanni Battista». Egli è infatti la sintesi più riuscita del tentativo umano – prima di Gesù – di arrivare a Dio.

Gesù stesso infatti di lui, dirà: «In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista», Mt 11,11.

Ma questo non è vero solo storicamente – per cui per tutti quelli che sono venuti cronologicamente prima di Gesù, la massima aspirazione religiosa è rappresentata da Giovanni –, ma è vero soprattutto esistenzialmente: anche per chi è nato dopo Gesù e anche per chi già l’ha conosciuto nella sua storia personale, l’esperienza del Battista rimane paradigmatica; dal punto di vista dell’uomo la sua rimane infatti l’esperienza emblematica della nostra ricerca religiosa. Giovanni Battista infatti è il «profeta penitente».

Nella Bibbia questo termine ha un significato un po’ diverso rispetto a quello con cui lo utilizziamo noi oggi, come sinonimo di “mortificazione”, che risulta infatti un senso un po’ parziale. «Penitenza invece è il tentativo umano – che nasce dalla coscienza di peccato, di inadeguatezza, di distanza da Dio – per riprendere coscienza del luogo del vero obiettivo: Dio, la sua giustizia, la sua pace, la sua fraternità. E di girarsi verso di Lui. Per questo il termine greco dice piuttosto convertirsi, girarsi cioè, verso un altro obiettivo che sia alieno da noi e che abbiamo scoperto. Per questo la prima reazione è – e in Giovanni si vede benissimo – far violenza su di sé e sugli altri e dire: “No. Stiamo sbagliando: adesso basta! Bisogna girarsi verso un’altra realtà e quindi mettere in crisi, strappare un po’ di involucro, un po’ di strutture per prendere coscienza che bisogna andare da un’altra parte”. […] Pensate a tutti i Giovanni Battista della storia e a quello che è necessario per ognuno di noi: le leggi, le pene, i castighi, le minacce, i ricatti a livello istituzionale e personale, a livello di comunità. Sono tutti Giovanni Battista: il tentativo, dall’esterno, di convincere noi stessi e la gente con questi grandi strumenti antropologici che l’uomo si è inventato lungo la storia [penitenza, digiuno, silenzio, celibato, ecc…] per scuotere uno e dirgli: “Guarda che sei lontano da Dio, bisogna cercare di arrivarci”».

Eppure…

«La coscienza che c’è dentro è che tutto ciò che l’uomo può fare e che questo istinto di conversione suggerisce, anche violento, è sterile, è inutile», «non converte il cuore. Potete fare tutto quello che volete: digiuni, penitenze ecc.; ma […] il cuore rimane tale e quale». Di questo «Giovanni Battista aveva coscienza acuta. Per questo finisce col dire: “Io battezzo solo con acqua”; ma questa è solo una purificazione esterna, il cuore non cambia: “Dopo di me verrà uno che battezzerà in Spirito Santo e fuoco».

Da un lato dunque il fatto che «le penitenze non mettono in contatto la nostra storia di oggi con la salvezza del Signore», dall’altro il fatto che «la necessità di conversione, di senso della propria lontananza da Dio, di coscienza della propria inadeguatezza sono contemporanee».

Oltre Giovanni Battista dunque, ma mai senza Giovanni Battista…

Infatti: certo che «un battesimo di conversione per il perdono dei peccati» dice qualcosa dell’esperienza umana, anzi forse addirittura, come si diceva prima, è il massimo che l’uomo di per sé può fare (accorgersi del male che fa o del bene che non fa e cambiare strada), ma Gesù è un’altra cosa.

Infatti «il dolore, la sofferenza del mondo, quindi la penitenza, vanno tenuti in conto; però non sono la chiave interpretativa della storia, come invece per Giovanni Battista. Tutta questa realtà non è più la chiave d’interpretazione del mondo. È a motivo di ciò che il Battista è valido, è contemporaneo, è profeta, è precursore; ma è prima di Gesù Cristo e “Non è degno di sciogliergli i legacci dei sandali” (Mc 1,7).

Perché? Perché il Signore ha portato un’altra parola che riavvolge tutta questa difficile, contraddittoria realtà della storia, nella paternità di Dio».

«C’è [infatti] come un crinale che divide, attraversa i popoli, la storia, la Chiesa, i gruppi, le famiglie e il cuore dell’uomo e che separa e unisce – il crinale fa questo – il mondo della necessità e il mondo della grazia, il Vecchio e il Nuovo Testamento. […] Gesù si è inserito nel tessuto di tutta l’umanità nel paesino di Nazareth, vivendo storicamente, accettando i ritmi biologici, l’economia, la religione, la politica del suo paese; in questa realtà necessaria, dove le cose vanno avanti perché sono sempre andate avanti così o poco diversamente, con la possibilità nuova che noi chiamiamo grazia. Si chiama grazia perché è gratis. Non è la conseguenza del meccanismo delle cose, non è la conseguenza dell’economia, né della santità di sua madre, né della bravura del maestro che gli ha insegnato la Bibbia; non è la conseguenza del Tempio, dove si prega Dio nell’ombra, nel cuore, ecc… Non è la conseguenza di tutte queste cose, neanche le più alte. Neanche di Giovanni Battista. È un puro regalo».

«Se uno non capisce il salto di qualità, allora ritiene che Gesù Cristo sia un grande profeta, un grande fondatore di religione, sia quello che mette l’uomo nella situazione di poter qualche volta incontrare Dio. No, non è niente di tutto questo! Altrimenti lo si confonde con un Giovanni Battista, con un Budda, con un Confucio, con un grande uomo, con Marx, con Freud, con chi ognuno ritiene sia stato un grosso sconvolgimento, un grosso orizzonte nella propria vita», un “uomo normativo” lo chiamano le scienze umane…

«Gesù [invece] è un’altra cosa! È quello che dà la possibilità all’uomo di vivere veramente da uomo; con una grazia di cui l’uomo non è capace (grazia vuol dire questo!) e viene dal di fuori. Ecco: questa è appunto l’esperienza ricevuta in regalo [gratis] dopo che l’uomo ha riscontrato che anche con tutta la dedizione possibile [Giovanni Battista] si ritrova seduto per terra. Allora è possibile la venuta di Gesù», che infatti non è da cercare, ma da accogliere!

Il Natale che viene, allora, e questo tempo di avvento che ci prepara ad esso non sia l’esperienza del nostro sforzo per arrivare a Dio, ma piuttosto la seria presa di coscienza del nostro ritrovarci – di nuovo e sempre (esistenzialmente!) – seduti per terra, ma raggiunti da un Signore, che proprio a noi, si mette in braccio nei panni di un neonato.

domenica 2 dicembre 2012

Cammino di perfezione



Incontro tenuto il 24 novembre 2011, presso la "Comunità Missionarie Laiche" PIME a Legnano.

(unico "refuso" quando dice "perfezione perfetta ma non compiuta" intedeva - come mi ha confermato a voce - "creazione perfetta ma non compiuta")

Ringraziamo Silvano Petrosino per aver concesso l'autorizzazione alla publicazione.

martedì 27 novembre 2012

I Domenica di Avvento


Dal libro del profeta Geremìa (Ger 33,14-16)
Ecco, verranno giorni - oràcolo del Signore - nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa d’Israele e alla casa di Giuda. In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra. In quei giorni Giuda sarà salvato e Gerusalemme vivrà tranquilla, e sarà chiamata: Signore-nostra-giustizia.

 Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési (1Ts 3,12-4,2)
Fratelli, il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi. Per il resto, fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù affinché, come avete imparato da noi il modo di comportarvi e di piacere a Dio – e così già vi comportate –, possiate progredire ancora di più. Voi conoscete quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù.

 Dal Vangelo secondo Luca (Lc 21,25-28.34-36)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina. State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».

 Il vangelo che la Chiesa ci propone in questa Prima Domenica di Avvento (C) è tratto dal capitolo 21 di Luca, l’evangelista che accompagnerà l’Anno Liturgico che proprio oggi si inaugura.

Commentare questo testo però risulta assai difficile:
1)                 Innanzitutto per l’intrinseca difficoltà legata al linguaggio apocalittico che lo caratterizza;
2)                 Inoltre per il fatto che esso appare del tutto simile al vangelo commentato solo quindici fa, nella Trentatreesima Domenica del Tempo Ordinario (B), dove era presentata precisamente la versione parallela al nostro brano, secondo l’evangelista Marco…
3)                 Infine, perché questo testo fa chiaramente riferimento all’attesa del ritorno del Signore (la II venuta di Gesù), mentre noi lo leggiamo inaugurando l’attesa del Natale, cioè la festa che fa memoria della I venuta di Gesù…

Ma forse queste medesime difficoltà, invece che bloccare ogni parola, possono diventare l’occasione per intavolare qualche riflessione…

1)                 Il linguaggio apocalittico: così lontano dal nostro sentire odierno, può aprire lo spazio per conoscerlo meglio… Essere costretti a ritornarci sopra a così breve distanza, può rendercelo meno ostico e ostile (due parole che contengono la radice dell’inimicizia)… meno nemico dunque, meno spaventoso (perché è questa l’immediata sensazione che rilancia), per scoprire che in realtà si tratta – appunto – solo di un linguaggio, all’interno del quale il messaggio veicolato non è diverso da quello delle altre pagine evangeliche. “Apocalisse” infatti vuol dire “rivelazione” (non cataclisma finale)… si tratta dunque della medesima rivelazione del volto paterno di Dio, proposta da Gesù, che non censura, ma anzi si fa carico della drammaticità della vita (raccontata attraverso quelle immagini da fine del mondo che ci fanno storcere il naso). È dunque l’assunzione seria da parte del Signore del dramma iscritto nella vita e mai saltato o censurato per proporre uno slogan irenico (“Tanto Dio ci ama”), incapace di immischiarsi anima e sangue con le tragicità che ci accompagnano giorno per giorno. È cioè la dichiarazione che il venire di Dio non annulla la nostra storia, non la salta, non la censura, ma la prende sul serio, la assume (nella sua assurdità), se la incarna addosso… se ne fa scavare le viscere e su di essa (e mai a prescindere da essa) dice la sua Parola: «Verranno giorni nei quali realizzerò le promesse di bene che ho fatto», «In quel tempo farò germogliare un germoglio giusto, che eserciterà la giustizia sulla terra».

Il linguaggio apocalittico è dunque un modo per dire che la drammaticità che viviamo non è abbandonata a se stessa, ma è abitata dalla presenza crocifissa del Signore, che in essa vuole realizzare (non i nostri desideri), ma le sue promesse: promesse di giustizia…

La sua giustizia, non la nostra (retributiva – come se davvero si potessero fare i conti in tasca alla complessità dell’animo umano – e sempre alla ricerca di colpevoli – in modo da censurare il problema del senso)… Ma la sua giustizia, quella che dentro ai pasticci di una vita, di un’umanità intera, riesce sempre, in ciascuno a vedere i germoglietti di bene e ad accudirli.

2)                 In questo senso anche l’avere a che fare con un testo così simile a quello di appena quindici giorni fa, ci permette di non lasciarci scivolare troppo addosso l’invito a concentrarci sul nostro oggi, su ciò che siamo, ciò che avremmo voluto essere, su ciò che vorremmo ancora essere… alla luce del Figlio che viene ad abitare la nostra storia. Perché io credo che tutti, sotto lo strato di cinismo, freddezza e durezza di cui pare inevitabile coprirsi per stare al mondo, per sopravvivere in questo mondo, abbiano un lumicino che si scalda al sentire Paolo che dice: «Fratelli, il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti»… Tutti credo, sotto a questa scorza incrostata di paure, risentimenti, dolori, abbiamo la consapevolezza che davvero solo per amore valga la pena tornare ogni mattina a immergersi in questo mondo… amore per gli uomini e le donne, tutti figli e figlie (e in qualche modo vittime) di questa terra.

Ecco perché suonano forti le parole di Gesù: «State attenti a voi stessi che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita»; non perché esse stiano lì a sottolineare un richiamo morale (perché distorciamo sempre così le parole del Signore?) a guardarci dal sesso, dall’alcool, dalle droghe, ecc… ma perché davvero «rischiamo troppe volte, come persone e comunità, di esorcizzare l’ansia e la paura annegandole in falsi obiettivi che dis/perdono l’amore e intristiscono il cuore e abbandonano i poveri» [Giuliano].

La paura ostruisce i canaletti da cui potrebbe sgorgare l’amore… Qui sta il nodo cruciale del linguaggio apocalittico: la drammaticità della vita può farci decidere di essere schiavi della paura, mentre la presenza del Signore – che pure non toglie tale drammaticità – ci permette di vincerla.

Sempre il vangelo dice: «Molti moriranno per la paura»… è ottimista… a me verrebbe da dire “Tutti moriamo di paura”… questo è lo “stato normale” dell’uomo, spaventato dalla morte, dall’altro uomo, dalla natura, dalla fatalità… tutti elementi che prendono le forme di una fragorosa bomba atomica o di un silenzioso tarlo che mina le piccole costruzioni lavorative, affettive, familiari, amicali, sociali, che avevamo tentato…

Ma dentro a tutto questo il linguaggio apocalittico continua a ripetere: «vedranno il Figlio»; a lui si può attaccare la fiducia, che è l’antidoto della paura, e attua dinamiche opposte: dall’incrostazione otturante, alla liberazione dei canali dell’amore; dal ripiegamento meschino e omicida su di sé, all’apertura all’altro; dalla cupezza dello sguardo, alla limpidità…

3)                 Ecco perché ha senso leggere questi testi anche in preparazione al Natale. Perché la vita dell’uomo è troppo breve per essere presente contemporaneamente alla nascita storica di Gesù e al suo ritorno alla fine dei tempi. Anzi, la maggior parte di noi non ha visto né vedrà né l’uno né l’altro di questi avvenimenti… Eppure nella vita di ciascuno c’è una venuta (anzi una doppia venuta) del Signore… La dinamica dell’attesa è perciò sempre la stessa, ovunque ci collochiamo nel panorama delle generazioni umane: sempre a metà strada tra un Signore già incontrato e un Signore da reincontrare.

Parlano dunque a noi questi testi: siamo noi i molti che muoiono di paura e che però hanno avuto notizia di un Dio Padre di cui ci si può fidare.

Ecco perché la presenza su questa terra va vissuta (sempre) in quel moto circolare tra attesa (di un incontro che deve ancora avvenire) e incontro (già avvenuto), nella forma del vegliare: «“Vegliate” non è più il verbo di prima (34:vigilate - state attenti) ma Agrupnèite, strano verbo: come dire “dormite nel campo”, “vegliate dormendo”… in costante implorazione o perché (se traduciamo letteralmente): “bisognosi di avere la forza di scansare ciò che vi viene addosso per travolgervi, e stare “in piedi” davanti al Figlio dell’uomo. Dunque il discepolo non deve fuggire dal mondo e dagli altri uomini (tentazione apocalittica). Neanche deve credere di dominare il mondo (tentazione teocratica). Nell’attesa terrena, talora drammatica, siamo tentati di disperderci o ubriacarci … Ma “«Guardate il fico e tutte le piante; (30) quando già germogliano, guardandoli capite da voi stessi che ormai l'estate è vicina…”. Dobbiamo  discernere i germogli (il Regno che viene), per non schiacciarli o trascurarli, ma accudirli. Il futuro che ci è promesso non è immaginario, non è fuori della storia, anzi fermenta già il presente, già sta radicandosi come un germoglio ‑ come l’attesa o il timore dell’arrivo di una persona può salvare o rovinare il presente di chi l’attende. È la certezza di questo arrivo che provoca la tenerezza appassionata per l’uomo: […] la premura affettuosa per l’uomo è l’espressione più autentica della fede cristiana. Una fede ormai disincantata da ogni fascino di potere: umile (siamo fatti di terra, come tutti …); laica (senza particolari ricette o poteri sacrali – se non la parola che ci è stata affidata – e l’eucaristia che la rinnova in sua memoria; solidale (noi siamo solo primizie simboliche della salvezza di tutti); fedele (al Signore, al suo Vangelo e ai poveri in cui egli vive … pregando sempre, perché ci trovi intenti ad accudire la sua “piccola” presenza e preparare la sua futura grande venuta)» [Giuliano].

domenica 25 novembre 2012

Oltre la separazione dei “Mondi”

 
 Siamo al momento finale dell’anno liturgico e come tale la liturgia di oggi ha uno scopo in qualche modo sintetico, ricapitolativo, del cammino fatto fin qui durante tutto l’anno.
Siamo sul Vangelo di Giovanni, ma non possiamo ignorare il guadagno che c’è stato durante tutto questo anno della comprensione del mistero cristiano, attraverso la meditazione del Vangelo di Marco. Leggiamo quindi Giovanni certamente secondo la logica e la prospettiva di Giovanni ma senza ignorare quello che abbiamo nel frattempo acquisito col vangelo di Marco. D’altronde i quattro vangeli hanno proprio lo scopo di integrarsi a vicenda e se trovassimo contraddizioni teologiche tra di loro, l’errore è certamente nella nostra comprensione e non nei vangeli.

E cominciamo subito con un problema che l’ascolto del vangelo di Giovanni mi ha posto e che subito mi ha insospettito.
Gesù a un certo punto dice a Pilato “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”. Ora, in realtà la traduzione è sbagliata e la frase così tradotta è fortemente esposta a contraddizioni che non hanno soluzione. Infatti apparirebbe legittima la domanda che fu di Giovanni il Battista prima e di Filippo poi, ricordate? “Signore, sei tu il Messia o dobbiamo aspettarne un altro? Se il tuo regno non è di questo mondo, allora, dobbiamo aspettarne un altro! E ancora, se il tuo regno non è di questo mondo, che ti sei incarnato a fare? Se il tuo regno non è di questo mondo, allora hanno ragione gli eretici che sostengono che non ti sei veramente incarnato, ma la tua è stata una “apparizione” del divino: tu non hai veramente calpestato questo suolo, ma sei solo apparso quasi come un fantasma… E per finire – senza concludere – se il tuo regno non è di questo mondo, come fai a dire che il tuo Regno è vicino? Si capisce bene che con una traduzione siffatta crolla tutto l’impianto evangelico: di tutti i vangeli e dello stesso annuncio dei suoi discepoli e quindi della Chiesa.
Ciò che fa problema è quel “di” in riferimento al mondo. E ci insegna subito quanto attento deve essere il nostro sguardo sulla bibbia dove anche le virgole possono cambiare tutto il senso di una frase e decidere del nostro atteggiamento in un senso o nell’altro.
L’espressione che la CEI traduce in “di” è la particella greca “ek” che non può essere tradotta in “di” (per il quale si usa invece perì) ma va tradotta semmai in “da”. Sembra una sciocchezza ma tutta la prospettiva cambia e finalmente ogni parte dei 4 vangeli si armonizzano nell’insieme. L’espressione corretta è dunque: “Il mio regno non è da questo mondo; se il mio regno fosse da questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è da qui [anche qui abbiamo enteuthen: tutte le volte che nei vangeli è usato, può essere sostituito meglio con “da qui”, in italiano nel brano in esame stonerebbe ma il senso dell’avverbio è questo: moto da luogo. Qui il senso è chiaro: non è da questo punto che io traggo potere. C’è un’ironia – tipica di Giovanni – sul luogo da cui Pilato prende potere: il pretorio. Come si vede l’espressione “quaggiù” usata dai traduttori se la sono proprio sognata! cfr Lc 4,9; 13,31; Gv 2,16; 7,3; 14,31]”.
Tirando le somme…
Il regno di Gesù è di questo mondo, perché non esistono altri mondi… come ha detto il Papa, Gesù “ascendendo al cielo, non è andato a vivere su un’altra galassia”… il mondo di Dio non può essere che il mondo dei suoi figli… dove volete infatti che abiti un padre o una madre se non accanto ai propri figli?… O pensiamo che Dio Padre se ne vada a vivere su un altro universo aspettando che i suo figli lo raggiungano? A suo modo già santa Teresina l’aveva capito! Diceva a una consorella: Cosa volete che faccia in cielo? Passerò il mio cielo sulla terra a fare del bene… ora pensate che santa Teresina sia qui sola e Dio stia ad aspettarla altrove?
Prima conclusione: Non riusciremo mai a capire il vangelo se non gli permetteremo di cambiare il nostro immaginario simbolico… Dobbiamo smetterla di immaginarci il mondo come un insieme di mondi… noi qua e Dio là… e i morti chissà dove…
L’incarnazione ha proprio questo di significato primo: la fine dei due mondi, la fine dell’aldiquà e dell’aldilà per essere tutti e tutto in Dio, nell’unico mondo possibile quello di Dio. Da cui, ho detto “da”!... cui, ogni figlio riceve vita, dignità, missione, regalità, libertà, giustizia, pace, salvezza. In una parola: diventa uomo. E ciò a partire da Gesù che come noi è di questo mondo, ma non riceve da questo mondo la sua Signoria. Non è questo mondo – ci sta dicendo Giovanni – che ci fa uomini. Non a caso metterà sulle labbra di Pilato: Ecco l’uomo! Essere uomini significa essere signori che – parafrasando Eliseo lo zio di Guido in “La vita è bella” – sanno farsi servi ma non servili perché solo così si può essere servi liberi senza diventarne schiavi. Essere uomini significa essere re e non paggi del padrone di turno (per questo davanti a Erode, Gesù tace rifiutandosi di fargli da giullare).

Chi riceve potere da questo mondo sappiamo a quali condizioni diventa un “grande”, una persona di successo, un vincitore, un’eccellenza nella vita e nel lavoro e nella missione, a cui aspiravano anche gli Apostoli: una grandezza disumanizzante ci ricorda Daniele che – poco prima del brano di oggi – descrive “bestiale”, mostruosa, rapace, violenta, distruttiva, cannibalesca…

I segni della presenza del Regno di Dio, allora non sono la forza, non sono il miracolo, non sono nemmeno le qualità umane e morali che ciascuno di noi può avere, perché anche i pagani hanno doti, qualità e sanno fare miracoli fin dai tempi di Mosè. I segni della presenza del regno di Dio in questo mondo sono esattamente la presenza di uomini e donne che hanno capito la logica attivamente non violenta della croce. Croce che storicamente li rende agli occhi del mondo zoppi, ciechi, sordi, prigionieri, persino pazzi e bestemmiatori, ma che in realtà sono quelli che veramente camminano, veramente vedono, veramente sanno ascoltare, veramente sono liberi, veramente sono saggi, veramente glorificano Dio, perché hanno capito che esiste una sola vera giustizia, una sola verità e di questa insieme a Gesù danno testimonianza: il proprio perdono fino alla morte e alla morte infame. E proprio mentre vive fino in fondo la logica del regno del Padre, fino al rifiuto estremo di usare il potere della forza contro i suoi fratelli fattisi nemici – compreso il potere della forza degli amici che vorrebbero e potrebbero sottrarlo da un’ingiusta condanna (con Gesù ci hanno provato gli apostoli all’inizio, Nicodemo, e persino sua madre) – e proprio mentre vive fino in fondo questa logica fino alla morte, vive ed esperimenta (dolorosamente) il regno che il Padre da sempre crea: il regno di un mondo fondato da relazioni nuove intessute di perdono. Perché è sull’amore che si regge tutta la storia (l’alfa e l’omega della seconda lettura). E così, facendo propria la misericordia di Dio, si rendono/sono resi perfetti come il Padre, e sono resi simili a Lui. Per questo un tale potere di consegnare la propria vita è eterno: perché solo ciò che è umano e non bestiale è eterno, perché solo l’umano veramente tale vive della stessa proprietà di Dio. E lo fa facendo proprio il perdono di Dio. Non a caso in Giovanni più che altri, il trono di Gesù è proprio la Croce, quella croce, , che vissuta così – in ciò che essa rappresenta come rifiuto della logica disumanizzante di questo mondo – diventa il segno e il luogo della propria e altrui (anche degli aguzzini) glorificazione, come ci ricorda san Paolo: ciò che il Padre ha perdonato ha anche giustificato, ciò che ha giustificato ha anche glorificato!

Tutto questo non è un esercizio accademico ma ha conseguenze pratiche nella missione della Chiesa e quindi nella nostra missione nel mondo. Perché da una errata comprensione e traduzione di questo vangelo nascono contraddizioni insolubili dell’essere chiesa. Affermazioni contraddittorie di cui spesso ci si riempie la voce come “la chiesa è in questo mondo ma non è di questo mondo” contraddicono il messaggio evangelico. Una realtà qualunque essa sia che non è di questo mondo, non esiste neanche nel mondo. La teorizzazione di una “separatezza” della Chiesa dal mondo, così cara a una parte del mondo cristiano – che comprende anche una parte della gerarchia cattolica – nasconde una mentalità pagana che niente ha a che fare con la solidarietà storica di Dio Padre in Gesù Cristo.
Siamo chiamati anche qui a rifondare il nostro pensiero, il nostro immaginario perché la salvezza di Dio in Gesù Cristo si manifesti come autentica misericordia e non come enunciazione di principi filosofico-teologici che niente dicono all’uomo prigioniero nell’ingiustizia del mondo.

Il forte sospetto che una errata traduzione del testo evangelico che abbiamo analizzato, venga proprio da una siffatta ideologia di pensiero.

martedì 20 novembre 2012

Cristo re


Dal libro del profeta Daniele (Dn 7,13-14)
Guardando nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto.

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (Ap 1,5-8)
Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra. A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen. Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto. Sì, Amen! Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!

 Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 18,33b-37)
In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».
 

In questa Trentaquattresima Domenica del Tempo ordinario, ultima dell’anno B, la Chiesa celebra la festa di Cristo, re dell’universo. Questo titolo, “re”, pur avendo una storia assai articolata, risulta però essere – associato a quelli di “profeta” e “sacerdote” – un’espressione fondamentale e sintetica dell’interpretazione che la Chiesa ha fatto lungo i secoli della funzione salvifica di Gesù: Cristo è il mediatore della salvezza in quanto profeta, re e sacerdote.

Evidentemente la panoramica dei titoli attribuibili a Gesù è assai più vasta, ma precisamente questi tre, soprattutto a partire dal XVI secolo in poi, sono stati privilegiati come elementi di sintesi della missione/identità di Gesù, tecnicamente, definiti i tria munera, i tre “uffici” di Cristo.

Ma cosa vuol dire che Gesù è re? E soprattutto: In che senso è re?

Innanzitutto è utile ricordare che l’applicazione della qualifica “regale” a Gesù, ha evidenti provenienze neotestamentarie: Egli infatti, per un verso, è descritto come colui che porta a compimento la figura del re di Israele e il suo significato nella storia dell’alleanza tra Dio e il suo popolo (sia la genealogia riportata dal vangelo di Matteo che quella riportata dal vangelo di Luca, per esempio, presentano Gesù come discendente di Davide); per l’altro, è colui che annuncia e insieme incarna il Regno di Dio che viene («Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo», Mc 1,15)…

Come mette in luce il mai sufficientemente compianto G. Moioli nella sua Cristologia, la domanda inevitabile che sorge diventa allora: «Quale sarà la ragione ultima per cui Gesù è la verità del “re” israelitico, in quanto presenza, attualizzazione reale del “regno” di Dio?». Ed evidentemente la risposta non può che essere: il fatto che «Gesù è il Figlio»!

Questa è precisamente la ragione per cui in Gesù si ritiene compiuta, o meglio, compiutamente rivelata la regalità, la signoria di Dio sul mondo. Ma appunto, precisamente per questo, la qualità di questo “dominio” non può essere semplicemente evinto dalla categoria linguistica di “re” – come a volte purtroppo anche la teologia o il Magistero hanno fatto: piuttosto dire che in Gesù si rivela compiutamente la signoria divina sull’universo, vuol dire che per sapere in quale modo Dio è re, devo guardare a come questa regalità è stata esercitata da suo Figlio, dal determinarsi storico dell’uomo Gesù, nei trent’anni di vita trascorsi su questa terra. In altre parole non devo partire da ciò che penso sia un re per poi applicare quest’idea a Gesù… ma devo partire da come ha vissuto Gesù e chiamare quel suo modo di essere lì regale, convertendo in me l’idea di regalità che la mia cultura mi ha introiettato!

In questo senso, come già accennato, sono soprattutto due le modalità in cui nel NT, ci si riferisce a Gesù in chiave regale: o in quanto compimento della regalità israelitica; o in associazione alla venuta del Regno di Dio. E ciò che in entrambi i casi i testi evangelici (ma anche paolini) trasmettono, è letteralmente un rovesciamento di quello che le nostre orecchie abitualmente associano al termine “re”, quando lo sentono: per quanto riguarda l’annuncio del Regno infatti ciò che salta subito all’occhio è la continua dialettica tra regalità e servizio («Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi però non sia così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti», Mt 20,25-28); mentre per quanto riguarda il compimento della regalità in Israele, il ribaltamento avviene sulla qualificazione della crocifissione, come intronizzazione-esaltazione di Gesù («Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: “Gesù il Nazareno, il re dei Giudei”. Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco. I capi dei sacerdoti dissero allora a Pilato: “Non scrivere: ‘Il re dei Giudei’, ma: ‘Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei’”. Rispose Pilato: “quel che ho scritto, ho scritto”», Gv 19,19-22).

Uno strano re, dunque: un re che serve, un re che ha il suo trono su una croce… un re inedito, un re diverso… un re di cui non si è invidiosi… Come dice il brano di Giovanni, un re, il cui regno «non è di questo mondo»…

Ma appunto… non nel senso che il suo Regno è identico a quelli del mondo, solo che sta “in un altro mondo”, quello celeste, quello venturo, quello “dell’alto dei cieli”… Come se la distanza tra regni umani e Regno di Dio fosse solo temporale, cronologica… ma di fatto incarnasse le stesse modalità di dominio delle potenze terrestri (come a qualcuno piacerebbe…) e semplicemente – per ora – le stesse rimandando al giorno del giudizio universale…

L’essere di “un altro mondo” indica piuttosto l’obbedienza ad un’altra logica, ad un’altra prospettiva, ad un’altra mentalità («perché sono Dio e non uomo», Os 11,9)… la mentalità di Dio appunto… per indicare la quale si usa la medesima parola “regno”, ma precisamente per rovesciarne dall’interno il significato, proprio come con un calzino!

«Di fronte a lui tutto si rovescia: i vari personaggi assumono e recitano la propria parte in un gioco tragico di rovesciamento di ruoli e intenzioni, che ne rivela la debolezza, l’inconsistenza e la paura… e l’aggressività.

Chi lo vuole uccidere (i capi dei sacerdoti, per gelosia) non possono, e chi lo può uccidere non vuole, ma finisce per fare il volere, suo malgrado e per paura, di chi non ne avrebbe il potere. Pilato è costretto a sentirsi imporre che deve osservare la legge di Cesare da coloro che non possono sopportare il potere romano e lo odiano… e lui dovrà sottomettersi a loro, e loro rinnegarsi come ebrei e divenire “devoti romani!”.

Tutti (falsi coscienti) si sentono giudicati da quel “condannato” innocente – la cui regalità non è “da questo mondo”… la cui unica forza è la verità (che morde anche dentro di loro – che per questo vogliono oscurarla).

Ma perfino Pietro nega di essere quello che una portinaia ha riconosciuto bene in lui: un seguace di Gesù.

I soldati lo incoronano re per burla, senza sapere che incoronano di sofferenza l’unico vero re, Signore dell’universo, proprio per la sua consegna inerme al male, per il suo perdono ai suoi torturatori.

Il delinquente assassino è liberato e l’innocente è condannato… quando tutti sanno che è innocente.

Pilato non risponde mai: rimbecca sempre con altre domande. Il potere è “irresponsabile”, domanda ed esige soltanto, senza dialogo, se no, se guardasse in volto e rispondesse a chi l’interpella o protesta, diventerebbe umano e perderebbe potere…

E’ il racconto del dramma finale tra il nostro modo di vivere / e quello di Gesù - Il suo ideale ci affascina. Il suo sogno di pace e di riconciliazione universale di tutte le cose e perfino le beatitudini e le direttive di condivisione dei beni e delle risorse, di predilezione per i poveri e bisognosi sono ormai nelle utopie di tutti. Ma appena rientriamo nella tenaglia del quotidiano, il realismo della ragione ci sottomette alla necessità della competizione e della coazione, della aggressività armata di violenza verso gli oppositori. E presto… l’andamento della nostra storia ridiventa, come sempre, assurdamente oppressivo e divisorio (quando non insanguinato…!)

Dobbiamo lasciarci smascherare anche noi: nelle nostre contorsioni interiori dei deliri di onnipotenza, con relative aggressività e paure, nelle tensioni guerreggiate che viviamo in famiglia o in comunità, nel lavoro, nelle relazioni varie degli affetti e, nella politica. Il nostro modo di partecipazione personale al mistero di Cristo ha le sue radici e le sue sorti in questo dramma di ambiguità della nostra fede nella sua “regalità”.

Gesù non ha mezzi adeguati per trasformare il mondo e la storia. E questo ci delude profondamente! Il dramma di Gesù, nostro Signore, Re dell’universo, il dramma che ci ha lasciato in eredità è proprio questo Avendo rinunciato alla gestione del potere, degli eserciti, del danaro, della cultura … al ricatto degli affetti, perché sono tutti mezzi coercitivi, oppressivi e discriminanti, non ha altri mezzi efficaci, cioè omogenei alla logica della storia dell’umanità. Non riesce ad “imporsi” nella storia.

Avendo fondato tutto il suo progetto sul consenso delle coscienze, cioè dell’adesione libera dell’amore, non potrà mai fare concordati con il potere, cui scopo è il monopolio del potere stesso. Perché il potere non può lasciarsi negare senza morire, e chi lo abbandona per amore di Gesù non ce l’ha più. Gesù sa che non poteva dunque che venire crocifisso al suo sogno: “Re dei giudei”. Un cartello terribile, visto che sotto la croce i giudei lo sbeffeggiavano: “scendi dalla croce, se sei Figlio di Dio”. Ucciso dalla contraddizione dalla quale non vuole uscire, che l’amore si può testimoniare fino al sangue, ma non si può imporre. Quindi essere “re” di fronte alla violenza vuol dire essere inermi e vinti! La sua è una regalità “non da questo mondo”, cioè non nata dalla logica della competizione e della coazione, ma da un altro mondo alternativo, da lui seminato dentro questo. Con al centro questo statuto: testimoniare la verità con la vita» [Giuliano].

 

Il problema però non è solo ribadire questa diversa qualità dell’inaudita logica regale di Gesù (l’amore incondizionato per l’altro come criterio unico e definitivo per porsi nella vita), di cui spesso – penso e spero – abbiamo sentito parlare… Il problema infatti è anche come vincere quel meccanismo inconscio per cui noi di tutte queste cose, semplicemente, non ci ricordiamo… Sentir parlare di “Cristo re”, per esempio, ci rimanda istintivamente col pensiero a immagini ben diverse da quelle del servizio o della croce; sentir parlare della signoria di Dio, suscita immediatamente una reazione di timore e tremore, piuttosto che una consolazione viscerale per la qualità amorosa di quella signoria…

Il problema cioè diventa quello del perché, pur sapendo molte cose e avendo sentito molte parole sull’identità inequivoca di Dio come Padre, automaticamente la prima immagine che abbiamo in cuore di lui è quella di un padrone, di un tiranno, di un re al modo umano, appunto… Perché questa e non l’immagine evangelica che Gesù, senza alcuna ambiguità, traccia del volto del Padre, è quella che più di tutte ci è penetrata nella carne, nelle fibre, nelle congiunture del nostro essere? Perché negli sprazzi di immediatezza, di inconscio, di istintività, vince sempre la paura di dio e non l’affidamento al Padre?

Certo, secoli di discutibile educazione cristiana hanno sicuramente fatto la loro parte (come anche il senso dell’istituzione della festa odierna, sta lì a mostrare… è stata istituita infatti nel 1925 dall’enciclica Quas primas di Pio XI, che auspicava la regalità sociale di Cristo sul mondo, quindi il ritorno al cosiddetto “Stato cattolico”, come tanti siti conservatori reperibili su internet ci spiegano…), ma forse in gioco c’è anche la nostra radicale fatica a sbilanciarci verso una relazione personale col Signore, con la sua Parola, che – senza ombra di dubbio – ci rimanderebbe all’incondizionata paterna dedizione di Dio per noi, ma che invece evitiamo per la fatica di superare lo scoglio dell’affidamento, del lasciare davvero la signoria della nostra vita ad un altro, del rimetterci alle sue mani…

Ma io credo che questo sbilanciarsi in una fiducia, in un darGli credito, in un intraprendere finalmente una relazione dove darsi del “Tu”, sia davvero l’unico modo perché pian piano la Sua verità (che coincide con la vita di Gesù) penetri nei meandri profondi della nostra intimità e – goccia dopo goccia – arrivi a corrodere le paure e le durezze, le rigidità e le intransigenze, i timori ed i tremori… che l’immagine falsa che ci siamo fatti o che ci hanno dato di lui, continuamente rilancia, avvelenandoci il sangue e riversandosi sulle persone che compongono la nostra vita…

Perché solo questo è il criterio per sapere se il Dio che abbiamo in testa (in cuore) è quello di Gesù: se ci apre alla dedizione incondizionata per la vita degli altri (fino a saper donare la nostra per loro), o se ci chiude in uno sguardo gretto e impaurito (le cose sono sempre connesse) sugli altri.

domenica 18 novembre 2012

«Memoria e Profezia» del Vaticano II

LA LITURGIA
L’incontro svoltosi sabato 17 novembre, ha inteso aiutare a comprendere la storia e il senso del rinnovamento liturgico avviato dal Concilio Vaticano II.
Relatore: fr. Luca Fallica (Superiore della Comunità Benedettina di Dumenza)

(Relazione, Seconda parte)

«Memoria e Profezia» del Vaticano II.

LA LITURGIA
 
L’incontro svoltosi sabato 17 novembre, ha inteso aiutare a comprendere la storia e il senso del rinnovamento liturgico avviato dal Concilio Vaticano II.
Relatore: fr. Luca Fallica (Superiore della Comunità Benedettina di Dumenza)
 


(Relazione, Prima parte)

martedì 13 novembre 2012

XXXIII Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Daniele (Dn 12,1-3)

In quel tempo, sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo. Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro. Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre.

 

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 10,11-14.18)

Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati. Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi. Infatti, con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati. Ora, dove c’è il perdono di queste cose, non c’è più offerta per il peccato.

 

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 13,24-32)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo. Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».

 

In questa Trentatreesima Domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa – attraverso la liturgia della Parola – ci invita a riflettere sul tema delle “cose ultime”, dell’escatologia, di ciò che deve accadere. Tema arduo, tanto che «J. Schmidt – come ricorda don Bruno Maggioni ne Il racconto di Marco –, commentando il c. 13 di Marco scrive: “quello che viene chiamato il discorso della parusia, l’apocalisse sinottica, figura tra i passi più incomprensibili del Nuovo Testamento e, di conseguenza, tra i più contestati di tutta la tradizione sinottica” [J. Schmidt, L’evangelo secondo Marco, Brescia 1956]. J. Schmidt ha ragione – prosegue Maggioni –: non è facile comprendere il genere letterario a cui il discorso appartiene (il genere apocalittico) e non è facile ricostruire le situazioni che sembra supporre. […] Non possiamo [quindi] fare a meno di una premessa teologica e letteraria riguardante l’escatologia e l’apocalittica: il discorso s’inserisce infatti in questo filone teologico e letterario. Il significato più ovvio di “escatologia” è quello di discorso sulle ultime e definitive realtà. Certo si tratta – anche se questa convinzione è maturata lentamente e faticosamente – di realtà che vanno oltre la storia, ma ciò non significa che esse non si preparino dentro la storia. In effetti l’escatologia biblica è un discorso sulla storia, un modo di leggerla e di assumerla».

Questa indicazione è molto interessante, libera infatti il campo da quelle interpretazioni banali e infondate che leggono nei testi biblici di genere apocalittico un tentativo di penetrare i segreti di Dio o di cedere alle curiosità “del quando e del come”. Interpretazioni che nascono dal fatto che «noi non siamo abituati a questo linguaggio apocalittico, che nella complessità della storia e nella caducità del cosmo sembra enfatizzare i germi negativi, che pur ci sono, ed estremamente gravi. Ma che vanno appunto evangelizzati, perché non paralizzino la speranza. Questo vuol dire che il Vangelo li disinquina dalla loro radice sacrificale e moralistica, che legge i fatti storici come punizione incombente di un Dio irato. Anche oggi perdura questa antica tentazione di sollevare il velo sul destino di consunzione del mondo con ambigue “rivelazioni punitive” … Sono predizioni tristi, annunci di angoscia e paura, che sfruttando in chiave religiosa o filosofica il complesso di colpa originato nell’uomo dalla sua invincibile inadeguatezza, lo schiacciano dentro la sua paura, corrodendone la speranza di salvezza. Sono letture antievangeliche» [Giuliano].

Niente di tutto questo, perciò! Anzi, fondamentale per la corretta interpretazione di questi brani, è un’ulteriore annotazione teologico-letteraria: sempre Maggioni infatti ci ricorda che «il linguaggio di questa letteratura è tipico: descrive gli ultimi tempi come tempi di guerre e di divisioni, di terremoti e carestie, di catastrofi cosmiche, e tutto questo nel segno di una grande subitaneità. Questo linguaggio è ampiamente presente nel discorso di Marco: non è il messaggio, ma semplicemente un mezzo espressivo che tenta di comunicarcelo. In nessun modo queste espressioni devono essere intese alla lettera».

Ma, dunque, se sono vere le annotazioni preliminari cha abbiamo fatto (se cioè l’escatologia biblica è un discorso sulla storia, un modo di leggerla e di assumerla e se il linguaggio apocalittico non coincide con il messaggio, tanto che in nessun modo queste espressioni devono essere intese alla lettera), sorge immediata la domanda riguardo a quale sia allora il messaggio sulla storia che – attraverso questo linguaggio sulle cose ultime – Marco sta proponendo…

In questo senso due paiono le certezze che emergono dal testo: innanzitutto il fatto che Gesù prevede tempi difficili e disorientanti per i suoi discepoli; ma, d’altro canto, che essi saranno accompagnati dalla venuta del Figlio dell’uomo.

A riprova di quanto dicevamo in precedenza, sull’attualità dell’annuncio escatologico (che parla del presente e non del futuro!), non possiamo negare che quella che il vangelo descrive come situazione “che deve avvenire”, “che accadrà in quei giorni”, in verità è la realtà della Chiesa di sempre, del presente di sempre della Chiesa, dell’umanità, di ciascuno: tempi difficili che mettono in discussione il senso dell’esistere – ma contemporaneo e cooriginario affidamento a un senso creduto certo! Quella che dunque immediatamente sembrava una riflessione per i tempi del dopo morte, diventa inaspettatamente un discorso sull’oggi, sulla struttura stessa della coscienza umana, del suo modo di stare al mondo… Essa infatti si trova sempre già ad avere a che fare con i “tempi difficili” e drammaticamente interrogata da essi sul senso del suo esserci, giocarsi, spendersi.

Questa è la trama di tutta la vita umana… l’aver intravisto una promessa di Vita a cui si è attaccato il cuore e l’imbattersi in continue e ripetute smentite di tale Vita… anche per Gesù è stato così. Non a caso Marco inserisce questo testo appena prima della passione di Gesù: lì infatti in maniera paradigmatica per tutta la storia della chiesa successiva, i tempi difficili si fanno intrinsecamente portatori del radicale interrogativo sul senso della vita, della vita di Dio!

Anche per la Chiesa sarà così – annuncia Gesù – anche per ciascun uomo che verrà dopo di Lui: la trama è la medesima…

Eppure in questo dramma, l’altro elemento che Gesù, con altrettanta forza, annuncia è la certezza della venuta del Figlio, la certezza dunque di un senso, di una verità, di una giustizia! «Questo è il tempo ultimo, non ne aspettiamo un altro, se non come compimento della “recente” venuta del Figlio dell’uomo… Nel nostro linguaggio ciò vuol dire che la salvezza avviene non per via di distruzione punitiva di questo mondo caduco, in vista di un altro mondo purificato di eletti , ma piuttosto che la salvezza è già avvenuta per via di un’incarnazionesalvifica - ove la corporeità debole ed effimera del mondo è accolta e assunta dal Figlio dell’uomo, per fermentarla e trasfigurarla dal di dentro» [Giuliano].

Precisamente questo annuncio – che coincide con tutta la vita di Gesù – è ciò che dischiude nuovamente – e nonostante tutte le disillusioni e i fallimenti della nostra Vita – la possibilità di un affidamento al senso, la possibilità del credere, la possibilità della fede… di quel dar credito che permette di guardare ai “tempi difficili” come a sequenze di un film, di cui non diventano mai l’anima. Esse possono far temere, trepidare, scoraggiare… ma non saranno mai la chiave interpretativa dell’interezza della vita, il cui polo gravitazionale – il senso – sta altrove… e cioè precisamente in quegli sprazzi di umanità amante e amata che si sono sperimentati («siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo», 2Cor 4,8-10).

In questo senso assume ancor maggior chiarezza l’indicazione preliminare che ponevamo rispetto al genere letterario apocalittico che caratterizza il vangelo di questa domenica: «L’escatologia biblica è un discorso sulla storia, un modo di leggerla e di assumerla. Questa è la sorprendente prospettiva biblica, interessante e concreta. Lo sguardo al futuro (cioè la rivelazione di ciò che sarà) rende importante il “presente” e offre un criterio di scelta e di valutazione. L’attenzione è, tutto sommato, rivolta al presente: il futuro offre un criterio di orientamento nel presente, ma è in questo presente che il futuro si gioca». Lo sguardo al futuro, è dunque solo un modo per parlare del presente, del mio decidere odierno di me stessa. Ma anche: per imparare a leggere il mio oggi, lo devo guardare come se lo guardassi dal domani; in qualche modo come se guardassi l’attuale scena del mio film, a partire dal finale, così come mirabilmente ha mostrato Henry David Thoreau, ripreso poi dal film “L’attimo fuggente”: Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza e in profondità e succhiare tutto il midollo della vita, sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire in punto di morte che non ero vissuto.

E cos’è che alla fine, in punto di morte, ci eviterà di scoprire che non abbiamo vissuto? Io credo: che ci sia “lì” qualcuno che ci vuole bene… Tanto che forse, addirittura a pensarci bene, tutta la vita è la ricerca di due braccia che ci amano tra cui morire…

Chi ha vissuto in maniera esemplare questa intuizione di vivere guardandosi dalla fine, è Etty Hillesum:

[Prima che Spier morisse] «Delle cose ultime, essenziali della vita e del dolore non si può parlare, la voce non ce la fa. Io comprendo tutto di te e tutto ciò che ti riguarda io lo porto con me ed ho ringraziato di nuovo Dio per il fatto che nella mia vita esista un uomo come te. Devi occuparti della tua salute; è il tuo primo sacro dovere se vuoi aiutare Dio. Un uomo come te, uno dei pochi ad essere una dimora autentica per un po’ di vita, un po’ di dolore, un po’ di Dio – i più infatti hanno tradito da tempo sia la vita che il dolore e Dio, per essi sono ormai soltanto suoni vuoti – ha il sacro dovere di mantenere, nel migliore dei modi possibili, il suo corpo, la sua “dimora terrena” in buono stato, per poter offrire a Dio ospitalità il più a lungo possibile. Manca ancora molto tempo alla fine. Anch’io mi occuperò di te. Ho così tanta forza, che tu puoi prendertela tutta e in me nasceranno nuove energie. Ti ho così infinitamente caro, la tua anima è così infinitamente cara alla mia. La mia anima di quando in quando vorrebbe giacere accanto alla tua, e questo a poco a poco non ha più nulla a che vedere col desiderio che una donna può provare per un uomo. A volte vorrei distendere il mio corpo nudo, così come Dio l’ha creato accanto al tuo corpo nudo, così come Dio ti ha creato, e ho soltanto la sensazione che la mia anima voglia coricarsi accanto alla tua. Se in questo periodo non si scoppia di tristezza, né dall’altro lato per autodifesa ci si indurisce e si diventa cinici o rassegnati, allora si diventa più dolci, più miti, più disperati, più comprensivi, più innamorati. Io so come tutto questo stia accadendo dentro di te e tu mi hai portata con te sul tuo cammino, ed io vivo insieme con te la stessa strada fino alla fine. La mia autenticità ed il mio amore hanno mille anni ed ogni giorno invecchiano di mille anni. Quest’epoca, come noi oggi la esperiamo, posso sopportarla, posso anche perdonare Dio per il fatto che vada come deve andare – il fatto è che si ha in sé tanto amore da riuscire a perdonare Dio!! E tu devi occuparti della tua salute e riposarti e riposarti, ora io non posso star molto vicina a te – col pensiero però sono sempre vicina a te – ma promettimi che avrai buona cura di te».

 

[Alla morte di Spier] «Ho scritto un giorno che volevo leggere la tua vita fino all’ultima pagina. È cosa fatta. L’ho letta fino in fondo. Mi sento colma di una gioia profonda: tutto ciò che è stato era sicuramente giusto, altrimenti non avrei dentro di me questa forza, questa gioia, questa certezza. Eccoti dunque coricato in questo piccolo bilocale, caro grande e buon amico. Ti ho scritto un giorno: il mio cuore volerà sempre verso di te come un uccello libero, ovunque io sia sulla terra, e ti troverà sempre. E c’è questo, che ho scritto sul diario di Tide: tu sei diventato un pezzo di cielo, nella mia vita, che si incurva sopra di me, e non devo far altro che alzare gli occhi al cielo per essere vicina a te. E anche se dovessi essere rinchiusa in una cella sotterranea, questo pezzo di cielo si dispiegherebbe in me, e il mio cuore, come un uccello, spiccherebbe il suo volo libero verso di lui, ecco perché tutto è così semplice, sai, terribilmente semplice, bello e ricco di significato». «Avevo ancora mille cose da chiederti e da imparare dalla tua bocca. Ormai dovrò cavarmela da sola. Sai, mi sento forte, sono persuasa di riuscire nella vita. Sei tu che hai liberato in me le forze di cui dispongo. Mi hai insegnato a pronunciare senza reticenza il nome di Dio. Hai fatto da mediatore tra Dio e me, ma adesso tu, il mediatore, ti sei ritirato, e il mio cammino porta ormai direttamente a Dio».

 
[Quando inizia a stringersi la morsa sulla comunità ebraica] «Sono accadute molte cose dentro di me, in questi ultimi giorni, ma esse hanno finito col cristallizzarsi attorno a un’idea: la nostra fine. L’ho guardata in faccia la nostra fine, probabilmente deplorevole, che si prospetta fin d’ora nelle piccole cose della vita ordinaria, e le ho fatto posto nel mio senso della vita, senza che questo ne sia uscito sminuito. Non sono né amara né ribelle, ho trionfato sul mio abbattimento e ignoro la rassegnazione. Continuo a progredire di giorno in giorno, senza più tanti ostacoli come una volta, pur considerando la prospettiva della nostra eliminazione… Affermo spesso di aver saldato i miei conti con la vita, perché l’eventualità della morte si è integrata nella mia vita. Guardare in faccia la morte e accettarla come parte integrante della vita, significa allargare questa vita. Al contrario, sacrificare fin d’ora, anche solo un pezzetto di questa vita alla morte, perché si ha paura e ci si rifiuta di accettarla, è il modo migliore per non conservare altro che un povero pezzettino di vita mutilata, che meriterebbe a malapena il nome di vita. Questo può sembrare paradossale: escludendo la morte dalla propria vita non si vive in pienezza, e accogliendo la morte, al centro della propria vita, si allarga e si arricchisce la propria esistenza».
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