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martedì 24 aprile 2012

IV Domenica di Pasqua


In questa Quarta Domenica di Pasqua, la Chiesa ci propone il testo evangelico di Gv 10,11-18, in cui Gesù dice di sé “Io sono il buon pastore”.

È una dichiarazione identitaria molto forte, ricca di tanti echi, che – come tutte le dichiarazioni identitarie – funge come da posizionamento o riposizionamento di chi parla e di chi ascolta. Una posizionamento, una ricollocazione, che trova conferme anche nelle altre due letture, in particolare:

-          quando Pietro, nel suo discorso riportato da Atti 4, dice: «Questo Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo. In  nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati»;

-          e quando Giovanni nella sua Prima Lettera, afferma: «Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente. Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio».

Testi, questi, in cui i paradigmi del ricollocamento sono il suo essere pastore/ pietra e il conseguente fare di noi dei salvati / sue pecore / figli di Dio.

Sono tutte parole ben note, già molte volte sentite, ricche di rimandi e riferimenti che la nostra testa e il nostro cuore, in maniera immediata (cioè non mediata da uno sforzo riflessivo) produce, automaticamente.

Ma – dato che l’automatismo, per noi popolo di dura cervice e cuori di pietra, è sempre pericoloso, perché rischia di partire non da ciò che la Scrittura dice di Dio e del suo Figlio Gesù, e quindi di noi, ma dall’idea deformata di dio che abbiamo in testa – è forse necessario soffermarsi un attimo su cosa intenda Gesù autodichiarandosi in questi termini.

Dicevamo, Egli dice di sé: “Io sono il buon pastore”, attingendo in questo modo a quell’immaginario campestre, che gli forniva una potenza metaforica fortissima: Egli è colui che conduce le pecore. E che le conduce in maniera buona: non è solo un pastore e nemmeno semplicemente il pastore, ma “Io sono il buonpastore”.

E che cosa fa di un pastore un buon pastore? «Il buon pastore dà la propria vita per le pecore».

Dunque ciò su cui l’affermazione identitaria di Gesù vuol far cadere l’attenzione è questo: il pastore è buono perché è affidabile, a costo di dare la vita.

E per sottolineare maggiormente quanto qui stia il centro del suo auotaffermarsi, ecco il paragone (in negativo) col “pastore” mercenario: «Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è mercenario e non gli importa delle pecore».

Il “pastore” mercenario è quello che controlla le pecore, le cura, ma non se ne prende cura… perché non gli appartengono e – dunque – al sopraggiungere del pericolo (il lupo) pensa a salvare la propria pelle, non quella delle pecore, di cui «non gli importa».

Sarebbe interessante rileggere la storia di chi si fa pastore (nei vari ambiti che costituiscono il nostro umano vivere) da questo punto di vista… Chi è / è stato buon pastore e chi è / è stato “pastore” mercenario…?

Sarebbe ancora più interessante guardare alla nostra vita personale, a quando noi ci facciamo pastori, e rileggerci in questa prospettiva… Quando siamo / siamo stati buoni pastori e quando siamo o siamo stati “pastori” mercenari? Dove? Con chi? Perché?

Ma ci porterebbe troppo lontano… e forse è bene che ognuno maceri tra sé e sé questa riflessione…

Anche perché – nel testo – la figura del “pastore” mercenario, funge semplicemente da contrasto a quella del pastore buono: è lì per dire cosa Gesù non è! Non è uno a cui le pecore non appartengono (dunque è uno che sente sue le pecore: con loro ha legato i destini per sempre, qualunque cosa succeda, senza che da questa scelta si possa tornare indietro); non è uno che quando vede venire il lupo abbandona le pecore e fugge (dunque è uno che non abbandona e non scappa via, mai, qualsiasi sia il pericolo, lo spavento o l’abisso che si presenta, foss’anche morirci); infine non è uno a cui non importa delle pecore (dunque è uno che ha stretto legami profondi con le sue pecore, con loro ha intessuto le viscere, ha scritto la storia, si è scavato l’anima, così che non sia più possibile capire dove comincia l’una e finisce l’altra, sono tessute insieme).

Da cui il senso di quel “conoscere” contenuto nella ripresa finale del discorso: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e dò la mia vita per le pecore».

È una ripresa ribadente (si ripete infatti il “Io sono il buon pastore” e il “dò la vita per le pecore”), che però, come sempre ama fare Giovanni, allarga il diametro del medesimo cerchio, aggiungendo una seconda relazione, quella del buon pastore con il Padre, dove la cosa interessante è il parallelismo che viene instaurato: il rapporto di Gesù col Padre è come quello che Egli ha con le sue pecore… ha la stessa matrice…

Che è una cosa che detta così, sembra una cosettina, ma che invece, se ci pensiamo bene, è di una potenza strepitosa: Gesù ha con me la stessa intenzione relazione che ha col Padre suo!

Che è un ulteriore elemento del suo autodichiararsi…

Allora… per tirare un attimo le somme…

A noi – spaventati grumi di sangue, gettati in una storia che sembra aver perso una qualsiasi idea di rotta, perennemente alla ricerca di due braccia tra cui morire e per cui vivere, che ci assicurino un poco di calore, di casa, di sicurezza, di illusione di durata, che fingiamo di credere affidabili, ma che sappiamo benissimo non esserlo (proprio come le nostre) – il Signore sopraggiunge con questa autodichiarazione: Io sono uno che ti considera mia, che non ti abbandona e non scappa via, perché di te mi importa più che di me e non perché mi sto sbagliando sul tuo conto, ma proprio perché ti conosco, così tanto, quanto il Padre mio.

E nemmeno la morte potrà rompere questa promessa di affidabilità, «perché io dò la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la dò da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».



Io credo sia questa la ricollocazione in cui l’autodichiararsi di Gesù in questi termini ci pone. È di questa relazione che il cristiano vive: tutto il resto arriva sempre dopo.

È questo il vangelo da annunciare fino ai confini del mondo (quelli esterni e quelli dell’animo nostro): la prossimità affidabile del Signore…

Che – proprio perché è congegnata così, come una relazione di prossimità – diventa annunciabile solo in una relazione di prossimità.
Ecco che allora, le nostre inaffidabili braccia, le nostre dubbie intenzionalità di cura, i nostri sempre ambigui gesti di amore, trovano la loro verità (anche se rimangono maldestri, un po’ pasticciati, mai univoci), perché hanno dentro l’annuncio della sua affidabilità!


domenica 22 aprile 2012

I segni della vergogna

Graffito di Alessameno

Più leggo e rileggo questi racconti apostolici della resurrezione di Gesù, e più mi convinco che noi troppo presto saltiamo alla verità della resurrezione senza soffermarci adeguatamente sulla paura dei discepoli. Eppure tutti gli evangelisti sono concordi nel testimoniare questa paura dei discepoli.
Vorrà pur dire qualcosa. Perché la saltiamo? Abbiamo paura delle nostre paure?
Abbiamo già visto come le “ragioni” che i diversi racconti danno dà di questa paura non reggono a uno sguardo attento.
Già altre volte gli apostoli hanno assistito alla “resurrezione” dai morti (Lazzaro, la fanciulla morta)… certo non si può parlare propriamente di resurrezione in quanto poi sono (ri)morti.
Ma insomma se un amico che credevo morto poi lo scopro ancora vivo e vegeto… più che la paura mi invaderebbe la gioia.
Abbiamo provato a trovare alcune spiegazioni di questa paura:
L’insistenza nel masso che copriva il sepolcro ci ha fatto riflettere su quale sconvolgimento profondo nella visione religiosa del mondo dei morti questo comportava: la scoperta che il mondo dei morti non esiste perché scoperto vuoto! Il superamento della divisione dell’aldiquà e dell’aldilà con una visione nuova: essere in Dio, o non essere in Dio! Così che in realtà le cose stanno in ben altri termini: è morto anche se vivo chi non è in Dio, è vivo anche se morto chi è in Dio!

Anche il mostrarsi di Gesù a partire dalle mani e dei piedi ci insegna qualcosa. Una persona non la si riconosce che dal volto, dalla corporatura… le mani di un crocifisso assomigliano a quelle di un qualunque crocifisso: perché non poteva essere scambiato per uno dei ladroni? Forse i discepoli che lo avevano tradito, temevano una vendetta? Anche per questo che Gesù mostra le ferite: per mostrare in quelle mani ferite e disarmate la totale assenza del rancore nel dono della pace del perdono totale …
Notavamo però che è anche vero che forse noi siamo le nostre ferite. Accolte senza rancore. Mostrate in perdono. Normalmente noi le nascondiamo, perché ce ne vergogniamo. E viviamo nel rancore di chi ce le ha inflitte. Gesù invece per sempre se ne vanterà, per sempre sarà riconosciuto come “Il Crocifisso”, per queste è venuto. Anche i discepoli col tempo impareranno a vantarsene (Atti 5,41; 2Cor 11,30; 1Cor 1,23). Forse sbagliamo a passare il tempo a rimarginare le nostre ferite. Forse anche le nostre, saranno per l’eternità i segni della nostra identità (cfr 2Cor 11,25-28). Tutto sta allora, sebbene inflitteci dagli altri (o dalla nostra immaturità), di accoglierle come nostre. Come il nostro modo di fare giustizia rompendo la catena del disprezzo. Allora sebbene non rimarginate, non ci abbrutiranno più, ma saranno occasione di un di più di umanizzazione diventando ciò che ci abbelliscono. Per noi e per gli altri.

Ora però in questo racconto di Luca che la liturgia ci propone, i discepoli lo scambiano addirittura per un fantasma… Ma non c’erano anche i discepoli di Emmaus che lo avevano riconosciuto allo spezzare del pane?…
Poco credibile anche questa esposizione di Luca… È evidente che tutto il suo racconto ha come scopo principale di far capire ai pagani greci convertiti al cristianesimo che credevano ai fantasmi, che la resurrezione di Gesù non aveva niente a che vedere con le visite degli ectoplasma come la credenza popolare anche italiana immagina: i morti non hanno messaggi “divini” da darci diversi da quelli che già sappiamo (cfr Il racconto del ricco e del povero Lazzaro in Lc 16,19-31). Infatti mangia e beve: i fantasmi non mangiano e bevono! È una argomentazione rischiosa quella che Luca utilizza: perché non fa cogliere la differenza che pure c’è sebbene nella continuità della stessa persona, tra il corpo risorto di Cristo e il corpo di Gesù di Nazareth! Evidentemente a lui premeva semmai sottolineare l’identità… Più prudentemente san Paolo usa la metafora del seme (1Cor 15,13): perché come è il nostro ferito corpo alla sua completa risurrezione non ci è dato sapere, certamente però non può essere più soggetto alla logica “corruttibile” della chimica e della fisica, della fame e della sete…
Vorrei però ancora una volta soffermarmi sul fatto della “paura” dei discepoli testimoniata da Luca (tra l’altro anche qui come abbiamo visto in Giovanni, sebbene divisi in tre gruppi – discepoli di Emmaus, gli Undici, e gli altri – tutto il discorso si riferisce alla totalità della comunità credente e non solo agli Undici).
Credo infatti che per noi uomini dell’oggi, non abbiamo considerato a sufficienza il dramma e la vergogna dei discepoli davanti non tanto alla morte di Gesù, ma a quel tipo di morte!
Infatti non basta dire che Gesù è morto per i nostri peccati, perché Gesù non è semplicemente stato torturato e ucciso.
Spesso nelle nostre meditazioni sulla Passione ci soffermiamo sull’ingiustizia subita da Gesù e sulla sua sofferenza. Questo è certamente vero, buono e giusto… Forse però sarebbe più proficuo soffermarci di più sul tipo di morte che Gesù ha accettato di subire. Anche perché si potrebbe obiettare che un ragionamento del genere rischia di pensare che quel tipo di morte sarebbe stato giusto se Gesù fosse stato colpevole. Come rischia ancora una volta di far comprendere Lc 23,41: in realtà l’ingiustizia di una tale morte non la subisce solo Gesù ma anche i cosiddetti ladroni. Di ieri e di sempre.

Infatti il problema per i romani, per i giudei, per i greci e per i… giapponesi e per noi non è tanto morire, ma morire dignitosamente! Ci sono molti casi nella storia in cui un giusto si dà la morte pur di non sottomettersi ai voleri di un tiranno. I monaci buddisti pur di salvaguardare la loro dignità non esitano a darsi pubblicamente fuoco! Sono immolazioni a cui va tutto il nostro deferente rispetto, solidarietà e orante silenzio.
Ma per Gesù siamo davanti a un altro tipo di morte: Gesù non fa harakiri! Non beve la cicuta come Socrate, o come qualche nobile senatore romano, non muore martire come i Maccabei… Gesù muore peggio di un lapidato: neanche per mano giudea, ma per mano pagana, crocifisso!

La sua morte in croce, è la più disumana morte possibile per quell’epoca. E per quel che rappresentava, di ogni epoca! Non è un caso che una delle prime testimonianze del simbolo della croce in ambito cristiano sia proprio un graffito blasfemo: indica veramente il senso di profonda ripulsa per quel tipo di morte, persino considerato indegno dagli schivi (cfr immagine).
Noi oggi non abbiamo la minima possibilità di capire il ribrezzo e il dramma davanti a quella morte. Noi ci soffermiamo sull’atrocità delle sofferenze inflitte. Ma a quei tempi quella morte era la morte di un non-uomo, la morte di un “maledetto da Dio”. Era la punizione estrema riservata agli schiavi. Nessun uomo libero – gli unici considerati “uomini” – poteva essere crocifisso. Nemmeno gli animali venivano crocifissi. Sgozzati, ma non crocifissi!

«Reietto!» Lo pronunciamo e ne conosciamo il significato, ma in realtà non riusciamo a capire la profondità del disprezzo che questa parola esprime in un crocifisso. Gesù è morto veramente della morte tipica di un uomo “dannato”, ripudiato da Dio e dagli uomini!
Se così è, come è, perché questo rappresentava la croce, dobbiamo ora porci la domanda che certamente i primi discepoli si sono posti: “Come è possibile che ora Dio lo risusciti?”.
C’è da diventar pazzi… altro che fantasma!
La resurrezione di Gesù da parte di Dio, fa saltare tutti gli schemi di giusto/ingiusto, benedetto/maledetto, del puro/impuro, valore/disvalore…
Che Dio è un Dio che resuscita un maledetto, un dannato, un reietto? Ma Gesù non è stato condannato secondo la Legge, secondo i precetti del Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe e Mosè?… Risuscitandolo Dio rimette tutto in discussione: fin dalle fondamenta.

I segni della croce che Gesù mostra sono i segni della maledizione storica non solo degli uomini ma anche di Dio! E ora Vive?!
Vive perché era giusto noi subito diciamo, perché era innocente…
Non ne sono così sicuro! In ogni caso questo esige una riflessione ulteriore se vogliamo prendere seriamente la Croce! La nostra risposta (apparentemente identica a quella degli apostoli che erano semmai interessati a mostrare la “continuità” di Gesù col Dio di Israele) censura il fatto che Gesù nel suo morire così è veramente morto “assumendosi i peccati di tutta l’umanità! È veramente morto da “dannato” Gesù. Anche per Dio Padre, il cui silenzio deve farci pensare…
Gesù è in quella morte, identificato a ogni peccatore, a ogni possibili inimmaginabile peccato. Gesù non è morto da giusto è morto da ingiusto, assumendosi colpe da lui mai commesse. Questa è la sua giustizia! E quella di Dio.

Noi tendiamo a separare troppo Gesù in croce, dalle dannazioni quotidiane in cui il nostro e altrui peccato ci inchioda!
Ebbene il problema che fa saltare i nostri schemi di giustizia è che proprio questo “mostro di peccato” che è Gesù in croce, riceve nella risurrezione il perdono del Padre.
Ecco perché è così importante il mostrare “i segni della vergogna”: mani e piedi crocifissi!
Ed ecco perché nell’assoluzione che Dio dà al Cristo risuscitandolo (H. U. von Balthasar) c’è l’assoluzione di ogni peccatore e la liberazione da ogni dannazione umana o presunta divina! La cancellazione definitiva di ogni possibile debito. Producendo nel cuore di ognuno la Pace del perdono pasquale!

Tutte e tre le letture hanno proprio questo punto centrale: l’uomo non può più utilizzare la maledizione di Dio come scusante della propria e altrui inanità. L’uomo ora è un uomo libero da ogni possibile senso di colpa; schiodato da ogni permanente rimorso; assolto da ogni immaginabile pena…

Ecco perché è così importante – ce lo mostrano sempre i testi – ricominciare a rileggere proprio a partire da questa “assoluzione generale” che è la risurrezione di Cristo, la propria storia anche di peccato attraverso questo definitivo abbraccio del Padre: per riscoprirla sacra!

Come gli apostoli, sentono l’esigenza di rileggersi a partire dalla storia di Cristo, tutta la propria storia fin dalle origini, così ogni uomo e donna deve imparare a specchiare la propria storia in quella che il Padre ha realizzato in Cristo come compimento di quella del popolo ebraico.
Perché la Pasqua diventi anche “nostra pasqua” c’è bisogno di rielaborare il racconto della propria storia personale, familiare e comunitaria, ad imitazione quel processo narrativo che gli apostoli fanno sulla loro storia: Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture.

Lasciamoci aprire la mente perché attraverso la comprensione della storia scritta da Dio col popolo di Israele fino a Gesù, noi possiamo cominciare a comprendere la storia scritta da Dio insieme a noi in Gesù.

martedì 17 aprile 2012

III Domenica di Pasqua

Le letture che la Chiesa ci propone per questa Terza Domenica di Pasqua, sono tutte molto pregnanti e ciascuna di esse meriterebbe una contestualizzazione ed un approfondimento specifici.

Ma, dato che – come sanno le persone che si aggirano più da vicino nei pressi dell’anima mia – questi sono giorni segnati da un po’ di fisiologica stanchezza, preferisco rinunciare all’impresa e concentrarmi su un unico aspetto, quello cioè per cui in tutte e tre le letture si fa esplicito riferimento al campo semantico del peccato e del perdono:

o   La prima lettura, infatti, – tratta dagli Atti degli Apostoli – riportando il discorso in cui Pietro, dopo la guarigione dello storpio al Tempio, rinarra i fatti della morte e risurrezione di Gesù, contiene al v. 19 quest’affermazione: «Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati».

o   La seconda – tratta dalla Prima Lettera di San Giovanni apostolo – dice: «Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo».

  • Infine, il Vangelo di Luca, dopo la narrazione apologetico-didattica della risurrezione «agli Undici e a quelli che erano con loro» (apologetica, perché è un testo costruito con l’evidente intenzione di dire “La Risurrezione è reale!” – «Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho», «Disse: “Avete qui qualche cosa da mangiare?”. Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro»;

didattica, perché istruisce sull’identità tra il Risorto e il Crocifisso – «Guardate le mie manie e i miei piedi: sono proprio io!» – e contemporaneamente sul fatto che però Egli non è semplicemente tornato in vita come Lazzaro, ma ha avuto accesso ad una condizione/Vita nuova, in cui la morte è vinta – «credevano di vedere un fantasma»)… Dopo tutto questo, il brano si conclude con l’affermazione di Gesù: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni», dove ancora una volta ritorna esplicitamente il campo semantico del peccato e del perdono.



Dunque… il peccato; il perdono; la conversione; il cambiare vita; il cancellare i peccati; l’avere come avvocato presso il Padre, Gesù in persona; Lui, che è la vittima di espiazione per i peccati di tutto il mondo… l’annuncio di tutto questo…

Un ambito semantico vasto… di cui – onestamente – mi spaventa un po’ parlare… perché – mi pare – uno dei più facilmente fraintendibili e effettivamente fraintesi nella storia e nella vita della Chiesa, che troppo spesso, faticando a convincere sulla bellezza del bene, ha preferito orientare la sua predicazione sulla paura del male; quasi a dire: “certo il male è più bello, questo lo sappiamo tutti, però va evitato, perché può avere conseguenze spiacevoli, soprattutto nell’aldilà”. Ne è nata così una religiosità fondata sullo spavento, che ha distorto il volto di Dio e che ha introiettato nelle nostre coscienze la logica del “meritarsi il paradiso” e quindi di pensare e pensarsi, agire e rinunciare in base alla bilancia che ci troveremo davanti (???) quando moriremo.

Nelle nuove generazioni questa mentalità sembra diradarsi – il loro dramma non è non andare all’inferno, ma il dubbio sistematico sull’esistenza di Dio e dunque sul nulla in cui finiremmo, morendo –, eppure anche loro mantengono un’inquietudine sulla “peccaminosità”, così come culturalmente per secoli è stata intesa; magari abbracciandola, sfidandola, sfidandoci, ma rivelando di non avere poi un presupposto molto diverso dal nostro…

La questione allora si fa radicale, va ripensata in radice… per questo è sempre un po’ faticoso parlarne… perché non si tratta dei peccati, da evitare o da confessare, perché saranno da mettere là sul bilancino… ma si tratta dell’avere a che fare col problema serissimo del male che faccio, passando in questa storia; della dinamica di morte che eredito, ma anche rilancio attraversando questo mondo. Il problema è la messa in discussione della mia identità (e quindi delle mie relazioni) che il male che faccio attua: “Chi sono io per aver fatto questo?” – “Se ho fatto questo, chi sono io?”.

Io credo che attaccare il problema da questo versante (l’unico che a me pare autentico e per il quale valga la pena fare la scalata) aiuti molto anche a collocare come si sia posto Gesù nella sua vita di fronte a questo problema e a comprendere i passi neotestamentari che ci attestano questa sua collocazione.

Anche qui… Il discorso è molto vasto, ma dato che i vari aspetti che lo compongono sono tutti intersecati l’uno all’altro, lascio a voi la fatica di pensarci su e rivedere il quadro d’insieme; io suggerisco solo un punto di osservazione: Chi è Gesù, nella storia, di fronte al problema del male che io faccio e della mia identità alla luce del male commesso? Egli è – citando il Salmo 42,6 – «salvezza del mio volto e mio Dio». È cioè colui che custodisce la mia identità, anche quando io stessa la perdo, quando io stessa la comprometto e non la riconosco più per il male che ho fatto.

Ecco cosa vuol dire che Gesù ha cancellato i nostri peccati: che – morendo così, cioè fedele fino alla morte alla vera identità di se stesso e del Padre suo – si è attestato per sempre come colui che custodisce il vero volto di ciascuno, cosicché quando – di fronte al male che faccio – mi dico “Io non sono quella donna”, Egli mi garantisce sempre e per sempre la possibilità di ri-accedere all’autenticità di me… che non è “sono un cacca” o “una puttana” o “una traditrice”, ecc… ecc… ecc… (come giustamente ciascuno di noi concluderebbe guardando al male che fa), ma sentirsi dire “Sei mia figlia”.

Allora… capite quanto è importante (ed è già la seconda domenica di fila che la Chiesa ce lo ripropone dei testi della Liturgia della Parola) il mandato di Gesù «predicate a tutti i popoli il perdono dei peccati»?

È il mandato a tutti i suoi discepoli e le sue discepole (non solo gli Undici, ma anche «quelli che erano con loro») a essere – almeno un pochino – custodi dell’autentica identità di figli di ciascun uomo. E – come abbiamo sperimentato per primi noi sulla nostra pelle – non si è convincenti in questo, se non intrecciando davvero le nostre storie con le loro, legando i destini, mischiandosi col loro impasto di sudore e sangue e lacrime e paura.

[Allora mi piace concludere, ricordando Giuliano, di cui proprio stanotte ricorrerà il secondo anniversario della morte, perché lui è proprio stato uno di questi appassionati custodi dell’identità umana e filiale di ciascuna persona che ha incontrato. Ma lo faccio in piccolo, perché a lui non piacevano questo cose, perché – diceva – “Sono timido!”]





lunedì 16 aprile 2012

Il dito in ciò che fa paura. Ovverossia quando la Croce si fa Pace.


Ecco un Vangelo (Gv 20,19-31) che i secolari strati di precomprensione ideologica ci hanno impedito di gustare in tutta la sua freschezza originaria. Erasmo da Rotterdam ha scritto l’“Elogio della follia” forse sarebbe bene che qualcuno pensi a scrivere l’“Elogio della polemica”. Davanti al testo biblico, la lettura “passiva” ci impedisce di coglierne il significato autentico. Col testo biblico bisogna litigarci, contestandone spesso le affermazioni, rifiutando un lettura secondo i luoghi comuni. E spesso non credere al significato immediato che cogliamo alla prima lettura. In una parola “polemizzare”. Chi non polemizza vuol dire che non ha cervello da usare, idee da mostrare, verità da comunicare, vita da donare…

Per questo pretendiamo di chinarci sul testo… torturandolo!
E così leggiamo proprio all’inizio qualcosa che non quadra: “…mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei…”. Immediatamente pensiamo che i giudei dessero la caccia agli apostoli… e gli apostoli per paura si fossero barricati in casa! Sbagliato!

Intanto notare il lapsus: ho scritto apostoli… quando il testo invece usa un termine discepoli, che indica una platea più ampia dei Dodici, oramai Undici! Tutto il doppio racconto quindi non parla del gruppo ristretto degli apostoli ma di tutta la comunità credente. E infatti non solo agli apostoli ma a tutta la comunità credente si rivolgerà nel prosieguo Gesù stesso! Ci ritorneremo.
Poi la storia dei giudei che cercano i discepoli non è credibile! Da quando in qua i giudei davano la caccia ai discepoli di Gesù? In tutti i vangeli non ce traccia alcuna. E cominciano ora che hanno – mi si perdoni l’espressione –tagliato la testa al gruppo? Suvvia! A loro interessava solo Gesù. La paura degli apostoli quindi era infondata. Immaginaria. Sostanzialmente irrazionale, quindi stupida! Ma quel che è scritto è scritto e il testo non si può cancellare a nostro piacimento. Allora la domanda si approfondisce: quale senso dare all’affermazione dell’evangelista? Non certo quello immediato perché privo di logica. Certo la paura spesso è irrazionale… ma se l’annotazione ci volesse dare un indizio di ciò che la comunità dei discepoli e discepole stava vivendo? La risposta che dobbiamo cercare deve anche accordarsi col resto del racconto, che segue e che precede… Vediamo.

Un discepolo, e che discepolo, uno dei Dodici, aveva consegnato Gesù. Gli altri lo avevano abbandonato (tranne le donne!)… spergiurato di non conoscerlo… Immagino allora questi discepoli che si accusano l’un l’altro di avere tradito il Maestro. Di essere in fin dei conti la causa della sua morte. E che morte, da schiavo! Immagino il loro sguardo impaurito nel guardarsi reciprocamente: tra di loro c’era un nemico e non lo sapevano! E forse altri come Giuda potevano trovarsi in mezzo a loro? Una domanda sola li attanagliava: tra i discepoli c’erano degli “infiltrati”? Ecco di quali “giudei” avevano paura, non di quelli fuori, ma di quelli dentro al gruppo. Ancor più stupido allora era chiudersi dentro… ma si sa la paura è cattiva consigliera! E se anche non avevano paura degli altri discepoli, c’erano sufficienti ragioni per non fidarsi nemmeno più di se stessi: se la paura aveva addirittura spinto Pietro a tradire il Signore… cosa non avrebbe fatto contro gli altri discepoli? Come lo stesso Pietro, poteva fidarsi di Pietro? Aveva giurato fedeltà e si era ritrovato a spergiurare tradimento!
Questa paura era così forte che il “vedere e credere” di Giovanni e Pietro al mattino non era stato sufficiente a sciogliere quella morsa che li attanagliava alla bocca dello stomaco. La testimonianza di Maria Maddalena non era stata di maggior aiuto a sciogliere il cuore. E in questo stato arrivano a sera. Come sempre in Giovanni, il buio di fuori, mostrava un buio ancor più fitto dei cuori. Il buio ancestrale (cfr Gn 1,2) della paura.
E mentre sono riuniti, uniti come potrebbero esserlo due che si accapigliano, “venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!»”. Gesù arriva, sta, in mezzo, e dice. L’evangelista non dice “appare”, perché è un arrivare, un stare, un stare in mezzo e un dire, che appartiene all’ordine della fede. Mai in tutto il vangelo (e nella bibbia) c’è qualcosa che esula dalla fede. Lo stesso Gesù vive nella fede il suo rapporto col Padre. Non diversamente i suoi discepoli di ieri e di oggi. Anche la resurrezione non sfugge alla stessa logica. Se vedono, “vedono” solo nella fede. Quella dei discepoli è e sarà sempre una esperienza di fede, non tangibile e dimostrabile. Gesù è presente in mezzo ai suoi… la morte non lo ha separato da loro. Per questo “sta”. E non a fianco, ma “in mezzo” come ponte che li unisce dentro ogni conflitto, divergenza, sospetto… E dice, cioè dona facendola, l’unica cosa che quel gruppo (ogni gruppo) ha veramente bisogno: la Pace! Il dissolvimento di ogni paura non basta, perché sotto forme diverse ritornerebbe. Occorre di più, occorre la Pace (cfr Gn 1,3). E come fa a donarla? Mostra i segni che i discepoli – indirettamente, ma non meno responsabilmente – gli hanno inflitto! Forse temevano che Gesù tornasse per vendicarsi? Se anche l’avessero pensato, con questo gesto Gesù dissolve ogni dubbio. E ogni paura. E finalmente i discepoli gioiscono nella pace.

Curioso questo presentarsi di Gesù. Ma forse è vero, che noi siamo le nostre ferite. Accolte senza rancore. Mostrate in perdono. Normalmente noi le nascondiamo, perché ce ne vergogniamo. E viviamo nel rancore di chi ce le ha inflitte. Gesù invece per sempre se ne vanterà, per sempre sarà riconosciuto come “Il Crocifisso”, per queste è venuto. Anche i discepoli col tempo impareranno a vantarsene (Atti 5,41; 2Cor 11,30; 1Cor 1,23). Forse sbagliamo a passare il tempo a rimarginare le nostre ferite. Forse anche le nostre, saranno per l’eternità i segni della nostra identità (cfr 2Cor 11,25-28; ). Tutto sta allora, sebbene inflitteci dagli altri (o dalla nostra immaturità), di accoglierle come nostre. Come il nostro modo di fare giustizia rompendo la catena del disprezzo. Allora sebbene non rimarginate, non ci abbrutiranno più, ma saranno occasione di un di più di umanizzazione diventando ciò che ci abbelliscono. Per noi e per gli altri.

E allora Gesù può dare di nuovo la Pace: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Se accogliere le ferite (le Sue e le nostre), sono il primo passo della pace, il secondo è “spalancare le porte” che avevamo sbarrato! Già altre volte i discepoli erano stati inviati in missione (cfr Mt 10,15; Lc 9.1ss; 10,1ss). Non è qui che il Signore “dà il mandato” anche se così appare nella struttura del vangelo di Giovanni. Semmai ora c’è bisogno di ribadirlo (come in Mt 28,19s; cfr anche Mc 16,20 e Lc 24,47), perché la paura glielo aveva fatto dimenticare. Non sono stati chiamati a seguire Gesù per stare al chiuso. Il mondo ha bisogno di pace. E non è lasciandoci vincere dalle sue paure che potremo donarla. Dei discepoli che hanno paura del “mondo”, sono già stati vinti dal “mondo”. La paura non appartiene al cristiano, appartiene a coloro che sono sotto il potere di satana (Eb 2,15 )! Ecco chi è satana, è la paura che ci abita. Ma c’è chi ha vinto satana: “Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo»”. Lo Spirito del Risorto è Colui che ha vinto ogni paura. Anche di Dio! perché ce lo ha mostrato Padre misericordioso. Figuriamoci del resto!

Il cristiano è colui che non ho paura di Dio, perché Dio è suo amico; non ha paura del diavolo, perché Dio l’ha sconfitto; non ha paura del peccato perché in Cristo è stato perdonato; non ha paura della morte perché ora non può che dargli la vita; non ha paura di niente, perché niente può essergli tolto. (cfr Rm 8,31ss)

Finché vive nel perdono, accolto e donato, la paura non lo possederà: “A coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”. Ecco qui un’altra bella espressione che per secoli abbiamo travisato. Qui Gesù non sta dando nessun potere ai preti. Il sacramento della confessione qui non c’entra niente. Infatti si rivolge a tutti i discepoli, uomini e donne, e non a una categoria ben precisa. D’altronde a pensarci bene che me ne faccio del perdono di Dio o del sacerdote, se quando torno a casa, le persone che amo, con cui vivo, con cui lavoro, sono incapaci di perdonarmi? È del loro perdono che ho bisogno! Vero sacramento di quello di Dio (Mt 5,23ss). Abbiamo relegato il perdono negli angoli bui delle nostre chiese, e abbiamo dimenticato che se quel sacramento esiste il suo scopo è trasformare tutta la nostra vita in una continua riconciliazione.
Per questo l’evangelista ci avverte della responsabilità che i cristiani hanno nel “vanificare” storicamente la passione di Cristo. Gesù sta dicendo: aprite quella benedetta porta, andate ad annunciare al mondo la pace della riconciliazione degli uomini tra di loro e con Dio. Se questo non accadrà (non saranno perdonati), questa sarà la vostra responsabilità perché non siete stati capaci di perdonare (a coloro a cui non perdonerete). Può un discepolo non perdonare quando il Cristo nel mostrare le sue ferite e nel dono dello Spirito di Dio, rivela il perdono senza limiti del Padre? Assolutamente no! Se non perdona è perché si lascia vincere dalla paura (del mondo). In tal modo cesserà di essere testimone della gioia pasquale. Se il mondo non ha pace – e il mondo in quanto “mondo” non può darsi pace – è perché i cristiani non si lasciano guidare dalla gioia pasquale. Una chiesa che passa il tempo a stilare nuovi elenchi di peccati è una chiesa che rinuncia ad annunciare nuovi modi di accoglienza e perdono. È una chiesa non più pasquale.
Se c’è un “peccato contro lo Spirito Santo” (cfr Mc 3,28s) che non può essere perdonato è proprio questo: colui che non perdona, non può essere perdonato. Lo proclamiamo anche nel “Padre Nostro”. La chiesa riceve lo Spirito per donarlo, se non lo dona per paura, tradisce la propria missione!
Insomma la pace nel mondo dipende dalla nostra capacità di perdonare, e se il mondo non troverà pace è e sarà colpa di coloro che non sanno comunicarla perdonando sempre e comunque. Credere nella Risurrezione è creare sempre e comunque cammini di riconciliazione.

Ma Tommaso non c’era… simpatico questo Tommaso. Intanto subito una qualità: lui non aveva paura! E lo dimostra anche con le sue pretese. Ovvio che se i discepoli erano rinchiusi per paura e Tommaso non c’era, Tommaso era “fuori”. In mezzo a quei giudei che gli altri temevano. Una fatto in più che giustifica quanto dicevamo sopra: la paura degli altri discepoli era immaginaria. Tommaso infatti va e viene. Passa una settimana a discutere (gli dicevano). Ma la fede non si trasmette con ragionate parole, ma mostrando il cuore cambiato dalla gioia della pace. Ed è quella che Tommaso doveva cercare di vedere negli altri discepoli: le paure che si erano trasformate in gioia. Ammesso che perdurasse! Perché stranamente otto giorni dopo, ancora le porte erano chiuse… Forse i dubbi di Tommaso rendevano meno salda la gioia degli altri? Possibile! Nessuna nostra certezza è così insensata da essere priva di dubbi, se poi qualcuno ce li mostra, allora le nostre certezze sono incapaci di testimoniare gioia, ma solo ostinate convinzioni. Che non convincono nessuno. E allora anche qui come prima, all’apoteosi del diverbio, quando sembra di non poterne venire a capo, col rischio di perdere altri discepoli e sfaldare ulteriormente la già indebolita comunità, Gesù si presenta “in mezzo”. E tutta la comunità credente, nelle mani di Tommaso, può finalmente infilare le dita nelle piaghe che facevano tanto paura e che ora invece donano la pace della fede nel perdono.

Il grido di Tommaso deve diventare il nostro grido, se solo osassimo fare altrettanto! Eh sì! Perché anche questo episodio mi sembra sia stato travisato non poco. Intanto senza vedere non si può credere (cfr Gv 20,8)… i segni del quarto vangelo sono tutti lì a ricordarcelo. E non bastano! Il problema allora non è tanto cosa vedere, ma soprattutto come guardare!
E allora mi sembra che tutto il racconto sia una pedagogia alla fede. Si illude di poter credere colui che pensa di poterlo fare senza guardare le “piaghe” del Signore. Si illude di poter credere colui che passa oltre le piaghe del fratello (Lc 10,33ss). Si illude di arrivare alla fede colui che non infila le dita e le mani nelle ferite della storia. Guardare non basta: è bastato poco per spazzare via la gioia che i discepoli avevano sperimentato (la porta era ancora chiusa!). Occorre infilare le dita, tendere la mano sulle ferite. Solo quel gesto ci fa capire il senso della sofferenza che abbiamo inflitto all’altro ed è stata inflitta a noi. E chiedere e offrire il perdono. Non abbiamo bisogno di uscire dalla storia per credere (Perché mi hai veduto, tu hai creduto… beati quelli che non [mi] hanno visto…). Per fare esperienza della gioia pasquale (beati) è necessario chinarsi sulle piaghe con cui Gesù si è identificato: beati quelli che non hanno preteso di vedermi per credermi presente in mezzo a loro nelle piaghe del fratello ferito! Beato colui che non si scandalizza della fragilità di una comunità (credente o non credente) per scoprire la mia presenza in mezzo alle ferite di questa stessa comunità.

L’itinerario della fede comincia dalla capacità (ricevuta!) di vedere attraverso le ferite del fratello, le ferite stesse del Dio di Gesù Cristo. Che mi liberano.
Colui che passa il tempo a recriminare contro le ingiustizie del mondo, dimentica che Dio ha mandato proprio lui per rimuoverle. In attesa che lui si decida a scegliere l’impotenza del proprio agire (questa è la Croce!), Dio ha scelto di condividere l’avventura della vittima (anche per questo Gesù mostra le piaghe: solo quelle sono vincenti!). Per salvare anche il carnefice. Se si vuole che Dio per noi risorga (Mio Signore e mio Dio!), lo si liberi dalla morte liberando il fratello da ciò che lo uccide…
Questa esperienza è l’unico modo di conoscere il Risorto.

martedì 10 aprile 2012

II Domenica di Pasqua

Le letture che la liturgia ci propone per questa seconda Domenica del Tempo di Pasqua, ci costringono a fare la fatica, per un verso, di rimanere ancorati ai misteri appena celebrati durante la settimana santa e contemporaneamente di alzare lo sguardo verso il proseguimento della vita “ordinaria”. Non a caso il brano di vangelo proposto è come diviso in due parti, delineate da una duplicità temporale, segnalata con due indicazioni cronologiche: «La sera di quel giorno, il primo della settimana» (dunque la domenica della risurrezione) e «Otto giorni dopo», quindi con un lasso di tempo (il primo) che inizia a scandirsi dopo l’evento di Pasqua.

Ma questi due momenti non sono distinti solo cronologicamente, anzi l’indicazione temporale sembra essere posta per segnalare una distinzione ben più radicale e decisiva, quella della caratterizzazione antropologica dei due episodi: mentre infatti gli eventi della domenica di risurrezione (la scoperta del sepolcro vuoto – Gv 20,1-10 – che era il vangelo di Pasqua; l’incontro della Maddalena con Gesù e il suo annuncio ai discepoli – Gv 20,11-18 – tristemente e significativamente omesso dal calendario liturgico nelle domeniche di Pasqua; l’apparizione ai discepoli – Gv 20,19-23 – cioè la prima parte del vangelo di oggi) sono caratterizzati dallo stupore gioioso e commosso per il rincontro e il riconoscimento del Signore risorto («entrò anche l’altro discepolo e vide e credette», Gv 20,8; «Ella si voltò e gli disse in ebraico “Rabbunì!” – che significa: “Maestro!”. […] Maria di Magdala andò ad annunciare ai discepoli: “Ho visto il Signore!”», Gv 20,16; «I discepoli gioirono nel vedere il Signore», Gv 20,20), l’episodio dei giorni seguenti di Tommaso introduce un elemento nuovo: il problema dell’incredulità («Tommaso non era con loro. […] Disse: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo», Gv 20,24-25).

Come si accennava all’inizio, è come se i fatti del giorno di risurrezione – e quindi anche la prima parte del vangelo di questa nostra II Domenica di Pasqua – fossero ancora perfettamente incastonati nella vita terrena di Gesù, nella parabola della rivelazione cristica in senso stretto (l’incontro col risorto farebbe ancora parte della risurrezione; non a caso essa non ci è narrata – nessuno era presente in quel momento – ma testimoniata da chi ha incontrato Gesù vivo dopo la morte), mentre – è come se – i fatti della seconda parte del brano del vangelo proposto dalla liturgia, aprissero già uno squarcio sul “dopo”, sulla fatica della testimonianza, sulla sua credibilità discussa, sul problema dei discepoli della seconda (terza, quarta, millesima…) generazione che non erano lì e non hanno visto…


I due momenti non vanno separati: sarebbe forse più bello – dilaterebbe di più il cuore – concentrarsi solo sulla prima parte del vangelo, richiamando i sentimenti che – si può immaginare – avranno accompagnato i protagonisti delle prime apparizioni:

-        la struggente trepidazione di Maria di Magdala quando trova il sepolcro vuoto… trepidazione caratterizzata più dal timore che le abbiamo tolto anche il corpo morto dell’uomo che amava in modo così speciale, più che dalla speranza che fosse risorto; la sua affannosa corsa per avvisare i suoi fratelli e l’annuncio del “furto del cadavere” con l’angoscia per il non sapere dove l’abbiano posto;

-       l’altrettanto trepida corsa dei discepoli (Pietro e quello che Gesù amava) verso il sepolcro; la vista dei teli, del sudario; il ritorno incerto a casa; e Maria che invece – scrive letteralmente Giovanni – «stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva»… Finché una voce da dietro la chiama, chiedendole il motivo del suo pianto e chi stesse cercando; e in lei, sconfortata dal dolore, come facevano trapelare le sue ultime parole «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto», rinasce come un singulto di vita e di speranza molto concreta ancora legata alla ricerca del corpo morto: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo»; fino alla nuova chiamata «Maria!», stavolta decisiva, stavolta di rinascita, stavolta di ri-esplosione d’amore; e di nuovo la corsa verso i suoi fratelli per annunciare: «Ho visto il Signore!»…

-       ed essi ancora intimoriti dai Giudei, incerti sulle parole della Maddalena e sul sepolcro trovato vuoto, quella stessa sera mentre sono a porte chiuse – immagine che vale sia per l’esterno che per la loro interiorità – si vedono arrivare Gesù, che mostra mani e fianco; e anche per loro la stessa esplosione che per Maria: «gioirono a vedere il Signore»; e nel ricevere l’annuncio di pace e la missione da parte di Gesù…

Dicevamo… percorrere questi testi dilata il cuore, commuove, a tratti fa chiudere la bocca dello stomaco e un attimo dopo ri-esplodere di entusiasmo, consolazione, fiducia… Ma la liturgia ci invita già a fare un pezzettino ulteriore: a guardare a quel Tommaso, che proprio non va snobbato, perché probabilmente più di tutti ci assomiglia (e per certi aspetti c’ha proprio ragione nelle sue obiezioni!), quel Tommaso che quella sera non c’era (e anche questo è piuttosto indicativo…) e che non se la sente di credere a quanto dicono i suoi fratelli e le sue sorelle: probabilmente – il testo non lo dice – crede che siano impazziti per il dolore e la paura o che si siano suggestionati l’un l’altro…

È l’inizio del faticoso cammino dell’annuncio incredibile di Gesù risorto e la Chiesa già solo una settimana dopo Pasqua si scontra con questa resistenza e ci invita a riflettere su questo. Il problema di Tommaso è infatti il nostro, è infatti quello che affiora immediatamente alle labbra quando usciti dal clima coinvolgente delle celebrazioni ci si ritrova a riprendere in mano la vita di sempre, le fatiche, le gioie, i dolori, la morte: Sarà davvero risorto? Non è che se lo sono immaginato? Non è che suggestionati dalle parole di una donna, da un sepolcro vuoto e dal bisogno comune di conferme si siano più o meno coscientemente inventati una storia? E i dubbi sono tanto più radicali, quanto più abbiamo percepito durante la settimana scorsa che la posta in gioco era alta: qui si tratta del senso della nostra vita; se siamo destinati a tornare in polvere e a rimanerci per l’eternità o se c’è un’eternizzazione, una custodia, un preservazione di ciò che siamo, di quanto abbiamo sudato, pregato, amato, pianto, condiviso… E non è una questione che la Chiesa vuole trattare con leggerezza: il dubbio di Tommaso, così come il nostro, non possono essere banalizzati o liquidati come figli di una fede infantile, ancora poco matura, non veramente radicale… In gioco c’è la verità di noi, della nostra vita, del senso delle cose: in gioco c’è ciò che sopra a tutto il resto sa chiudere nell’angoscia le nostre notti, ci fa contorcere di paura nella solitudine, ci fa alzare apatici, vivere da scoraggiati o da affamati – mai sazi – di qualcosa che riempia il vuoto che ci sentiamo intorno e addosso e dentro… c’è in gioco la morte e la vita.

Per questo è immediatamente proposto il brano di Tommaso, perché tutti – dopo le feste – torniamo a quel suo stesso dubbio, a quella sua stessa trepidazione, a quella sua stessa s-fiducia… e ad essa dobbiamo dare una risposta: non tanto in termini intellettuali, avvallando argomentazioni pro e contro la possibilità di questo evento incredibile della vittoria di uno sulla morte, quanto piuttosto in termini esistenziali, di decisione di sé e per sé. La questione potrebbe essere posta in questi termini: di fronte al mistero celebrato a Pasqua, alla vittoria di Gesù sulla morte e alla promessa di una sensatezza – che rimane – anche per la nostra vita, e di fronte al ritorno alla vita ordinaria, al lavoro, ai problemi, alle situazioni che non sembrano certo essere cambiate, a un mondo che continua a parlare di morte, a una società che non solo non crede più nell’aldilà, ma neanche nella vita nell’aldiqua, a una chiesa che spesso sembra aver dimenticato il vangelo, di fronte a tutto questo… diamo credito a quel libro in cui sono stati scritti quei segni proprio perché noi credessimo che Gesù è il Cristo il Figlio di Dio e perché, credendo, avessimo la vita nel suo nome?

In altre parole: non ci è chiesto tanto di formulare la domanda piuttosto estrinseca se crediamo che uno possa risorgere da morte e se pensiamo – guardando a questo mondo – che possa dirsi un mondo salvato… piuttosto ci è chiesto se la storia di quell’uomo che abbiamo iniziato a sentire in Avvento e che ci ha portati fino alla sua morte e all’annuncio della sua risurrezione sia credibile o meno (credibile nel senso di giocarci la vita). Se cioè è credibile che l’unica vera vita che valga la pena di essere vissuta, l’unica vita che possa dirsi Vita (nell’aldiqua e nell’aldilà), sia quella di chi sposa la logica gesuana dell’amore fino alla morte; e ciascuno credo sappia cosa vuol dire declinato in termini quotidiani, contingenti, inevitabilmente personalissimi…

Da Tommaso Gesù si fa vedere e si fa toccare, eppure conclude dicendo «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Beati dunque noi? Noi che invece vorremmo così tanto vedere, toccare, avere risposte, conferme, certezze… Eppure Gesù sembra gioire di questa nostra condizione di discepoli di “otto giorni dopo”… se non altro sta indicando come possibile una fede che a volte a noi sembra invece impossibile… addirittura la indica come privilegiata…

Forse che ha intuito, molto prima e molto meglio di noi, che la struttura antropologica è fondamentalmente e necessariamente lo sbilanciarsi verso un affidamento, verso una promessa, verso un credito concesso? Nessuna prova, nessuna matematica, nessuna dimostrazione è capace di muovere il cuore di un uomo alla dedizione di una vita: nessun segno, nessun vedere, nessun toccare affranca dal doversi af-fidare… Ecco perché di fronte alla morte e risurrezione di Gesù non ci si può porre con i criteri della ragione scientifica che pretende di misurare la dimostrabilità della risurrezione, né con l’asetticità di chi vuole un sì o un no come risposta alla domanda “Può uno risorgere dai morti?”… La questione è se è un Dio affidabile quello che si è rivelato in quella storia concreta, in quella libertà incarnata che è stata suo figlio Gesù: se quella sua proposta di vita d’amore è credibile e percorribile (e chi l’ha sperimentata, cioè chi c’ha creduto – prima di vedere! – e s’è messo a viverla ci testimonia di sì!) oppure no…

lunedì 9 aprile 2012

Il dramma pasquale



Anastasis
S. Salvatore in Chora
Gioia e Paura
Tutta la Pasqua è una festa, la più grande festa cristiana… e la liturgia ci invita alla gioia e ci testimonia questa gioia in un continuo esaltante “Alleluia!”.
È giusto che sia così, perché come ricordiamo durante la Veglia Pasquale, la luce di Cristo ha vinto le tenebre del Male. La Vita ha definitivamente prevalso sulla morte…

Tutta questa gioia, lo ribadisco, è legittima, giusta, santa… Ma… c’è un “ma” che forse ci sfugge: Come mai la Risurrezione di Cristo non riesce a incidere nella nostra vita come vorremmo? Eppure… quante Pasque abbiamo già festeggiato? Non è che forse in questa gioia e di questa gioia ci stia sfuggendo qualcosa?

Se leggiamo i Vangeli questa gioia che noi stiamo celebrando, non sembra contagiare immediatamente i discepoli e le discepole di Gesù! Se leggiamo i quattro racconti della risurrezione notiamo proprio questo: coloro che si recano al sepolcro, vivono un’esperienza “spaventosa”, che incute loro timore… i discepoli appaiono comunque ora pieni di stupore (che a differenza della meraviglia ha in sé un sentimento di paura, trasmessa da un’esperienza che supera e schiaccia chi la vive), ora disorientati, ora increduli…

Oppure – come nel vangelo di oggi (Gv 20,1-9)– c’è una totale assenza di manifestazione esplicita di gioia…
Cosa gli costava a Giovanni scrivere “videro e credettero e furono colmi di gioia”?... Invece no! C’è solo un freddo “videro e credettero”!

Non entro nei dettagli ma vi faccio solo notare un’altra incongruenza sempre in Giovanni: se Giovanni e Pietro “videro e credettero” perché mai nel brano che segue (Gv 20,11ss) Maria Maddalena deve annunciare la Risurrezione agli apostoli? Senza contare che lei come donna, per la cultura di allora, era una testimone inattendibile!
Forse, come il seguito del vangelo lascia intendere, perché sebbene credettero, il loro credere, come il nostro, era ancora incapace di farsi storia. Infatti l’evangelista annota, nel versetto immediatamente successivo al nostro brano, che i discepoli “se ne tornarono di nuovo a casa” (Gv 20,10). Ci chiediamo: Come se niente fosse? Così sembra stando all’evangelista. Infatti li ritroviamo più avanti intenti a pescare (Gv 21,3ss): erano ritornati alla vita di prima di conoscere Gesù!

Insomma la Chiesa in questi giorni ci vuole aiutare a credere nella Risurrezione di Cristo ma dobbiamo prendere coscienza che allora non si possono omettere certi versetti scomodi. Perché credere nella Risurrezione di Cristo, non vuol tanto dire credere in una dottrina (che non basta sembra dirci l’evangelista), ma vuol dire mettersi a fare tutto il faticoso cammino che gli apostoli hanno fatto. Passando attraverso la loro “paura pasquale”!

Ma allora per smascherare la nostra incredulità (che si traduce nella sterilità delle nostre Pasque) dobbiamo forse prendere coscienza della nostra paura della Risurrezione come ci rivelano in un modo o nell’altro tutti gli evangelisti.
E questo è continuamente sottolineato nei vangeli nel fatto che sia l’angelo, sia Gesù nelle sue apparizioni, devono continuamente calmare gli animi: “non abbiate paura”; “la pace sia con voi”, “non temete”…

Ora ci chiediamo, questa “paura” è un genere letterario per dire che siamo di fronte a una manifestazione divina? o è un espediente con cui indirettamente si vuol sottolineare che Gesù era veramente morto?...
Certo ci può stare anche questo, è certamente anche un genere letterario ma se è solo questo, tutto si riduce a una specie di finzione teologico-letteraria…

E allora siamo tenuti a pensare che gli apostoli vogliono obbligarci a capire come la Risurrezione di Gesù Cristo, la Pasqua che stiamo festeggiando, sia anche un fatto realmente sconvolgente, al punto che umanamente non si può non averne paura! Almeno all’inizio e molto prima di suscitare gioia!
Ripeto umanamente! È utile osservare come Matteo mette insieme appunto “timore e gioia grande” (Mt 28,8)… oltre a sottolineare che le guardie che custodivano il sepolcro e di cui avevano sigillato (!) la roccia, furono prese da un tale spavento da rimanere “come morte” (Mt 28,4). Uno spavento il loro che però non arriva a maturare in gioia! Anche questo è possibile davanti alla Risurrezione.

Mi sembra quindi che emerga con forza questo insegnamento a noi “lettori” già credenti ma non ancora posseduti da una vera gioia. E che come Giovanni e Pietro rischiamo di ritornare a casa alle proprie quotidiane occupazioni senza che questa Pasqua abbia inciso nella nostra quotidianità.
Per poter fare veramente esperienza di una gioia pasquale che ci cambi la vita, dobbiamo quindi prendere coscienza di questa paura anch’essa pasquale dei discepoli.
Insomma è vero che nella Veglia Pasquale abbiamo gioito il passaggio dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita. Ma dobbiamo prendere coscienza che a ciascuno di noi, non fa solo paura il “buio” ma anche la luce, soprattutto se intensa… Non ci fa solo paura la morte, ma anche la vita, soprattutto un certo tipo di vita…

Davanti a racconti di cronaca in cui apprendiamo che una persona che è creduta morta ritorna in vita, ci viene spesso descritta la gioia dei familiari nell’apprendere quello che i giornali non esitano spesso a definire “miracolo”… E questa gioia è testimoniata anche nei vangeli per i miracoli di Gesù! E in fin dei conti scorrendo i vangeli osserviamo che per i discepoli non è il primo “ritorno dai morti” a cui avevano assistito… Gesù aveva strappato dalla morte altre persone: Lazzaro, la fanciulla anoressica…

Ora perché invece nei racconti della Risurrezione, quando proprio ci aspetteremmo solo la gioia dei discepoli di sapere Gesù vivo, essi hanno paura? Dove sta qui la differenza?
E in cosa consiste propriamente questa paura? Cosa c’è di veramente nuovo in questa Risurrezione – quella di Gesù dico – da incutere immediatamente paura? Al punto che in un certo senso i discepoli la fuggono (Mc 16,5-8), proprio come sono fuggiti dalla sua morte?

Eppure essere cristiani vuol dire essere testimoni del Risorto. La storia ci insegna che non è necessario essere cristiani per fare del bene, anche eroicamente. Per amare fino al dono della vita, con la grazia dello Spirito ogni uomo di buona volontà può farlo, ma solo i cristiani possono essere testimoni della Risurrezione di Gesù.

Ma questo concretamente cosa vuol dire?
Proviamo allora anche noi a chinarci e ad entrare nel sepolcro.

La pietra del sepolcro
Il modo con cui una civiltà elabora una cultura sulla morte e sui morti (da imbalsamare, da tumulare, da bruciare…), dice anche la propria visione del mondo, dell’uomo e di Dio.

Vi siete mai chiesti per quale ragione gli ebrei seppellivano i morti nella roccia? Scavare la roccia non è facile come scavare la terra. Perché non li seppellivano nel suolo? Perché complicarsi la vita a scavare nella viva roccia? E in più scolpire un enorme masso di pietra circolare che viene fatto rotolare all’entrata del sepolcro?
Evidentemente questo obbediva a una ben determinata visione del mondo.
Anche per gli ebrei il mondo dei vivi era radicalmente separato dal mondo dei morti. E andavano tenuti separati! Cosa di meglio di una caverna artificiale scavata nella dura roccia e con un masso inamovibile che ne impedisce l’apertura col rischio di comunicazione tra i due mondi? Cosa sarebbe accaduto se il mondo dei morti avesse invaso quello dei vivi? Certi film dell’horror riprendono questa paura ancestrale…

Per gli ebrei, Dio stesso, il mondo di Dio, il Dio che ha parlato ad Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, ai profeti… non ha niente a che fare con questo mondo dei morti! Dio è il vivente… che c’entra con i morti? Quindi per l’ebreo il mondo di Dio era incomunicabile con questo Sheol ( così gli ebrei chiamavano il mondo dei morti). Era un mondo immaginato, non molto diversamente dal nostro inferno, come un luogo di oscurità, di polvere, di una vita che però non era vera vita.
I morti non lodano il Signore ripetono i salmi e Giobbe (cfr anche Isaia 38,18ss)! Eppure questo era il destino dell’umanità e prima o poi ciascuno sarebbe entrato a farvi parte.
Per questo la fede nella risurrezione dei farisei non cambiava le carte in gioco: perché era una risurrezione non molto diversa dalla maledizione di continue reincarnazioni delle religioni orientali.

Solo la Risurrezione di Gesù cambia radicalmente la visione delle cose. Ed è proprio questo che testimoniano i racconti evangelici con pochi ma significativi indizi che sorprendono i discepoli.
Ecco la sorpresa o meglio le sorprese: Il masso che teneva ben separati i due mondi era stato rotolato via. I due mondi comunicano, diventano un mondo solo! Non esiste più il mondo dei vivi e il mondo dei morti. Potete ben immaginare ora la paura? E come la fantasia galoppasse…
Ma ecco la seconda sorpresa: il mondo dei morti è vuoto! È un mondo svuotato dal Cristo… Lo Sheol, l’Ade, gli Inferi, non sono più il destino dell’umanità…
In Cristo Dio ha inaugurato un nuovo mondo, il mondo di Dio. Dove l’uomo può fare esperienza non della “vita eterna” (che nell’immaginario comune noi concepiamo come una vita “da morto”), ma della vita dell’Eterno. La vita dell’Eterno non è più appannaggio di coloro che vivono nell’aldilà ma offerta a ogni uomo, in qualunque inferno o mondo si trovi.
Da qui la grande gioia di cui parla Matteo e che pian piano fa capolino anche nel vangelo di Giovanni.

Il regno di Dio
Annunciare il Cristo risorto allora vuol dire uscire da questo schema dualista fatto di aldilà e aldiquà, perché non c’è più l’aldilà o l’aldiquà, ma ce solo l’essere in Dio. Un mondo che siamo chiamati a riscoprire pian piano e che tutti ci accomuna vivi e morti. Dove possiamo ben capire, non ha più importanza essere vivi o morti, ma ciò che conta essere “in Dio”.

Significativa a questo proposito è proprio la seconda lettura tratta dalla lettera ai Colossesi (3,1-4) di san Paolo e che fa propria questa nuova visione che facciamo così fatica a fare nostra:

Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.

Siete risorti con Cristo: Paolo sta parlando ai vivi, dei vivi: dunque noi non abbiamo più bisogno di essere morti per risorgere (mentre noi pensiamo alla risurrezione come un avvenimento post-mortem). Certo anche i morti risorgono in Cristo, ma questo non vuol dire che non risorgano anche i vivi.
Cristo seduto alla destra di Dio: non nell’aldilà, in un altro mondo quello dei morti, ma nel modo di essere di Dio.
Voi infatti siete morti: sta parlando ai vivi e li chiama “morti”. Invita a superare la visione dei due regni: esiste un solo mondo, vivi o morti che siamo, il mondo di Dio (vita … in Dio)!
Sarà manifestato… apparirete: tutto questo al compimento della storia sarà manifesto e verrà rivelato il senso della storia di ciascuno. Ecco perché ora “la vita in Dio” è nascosta. La prospettiva è storica, sebbene nel suo significato escatologico e trascendente ma esclude radicalmente, smontandola, la prospettiva “pagana” dei mondi separati. C’è una sola separazione: vivere (da vivi o da morti) in Dio o “vivere” (da vivi o da morti) non in Dio.
Il passaggio successivo sarà che morti non sono i morti ma coloro che non vivono in Dio anche se vivi, e vivi sono non i vivi ma coloro che vivono in Dio anche se defunti.

Compreso questo, possiamo verificare concretamente come nella nostra visione delle cose, noi siamo ancora troppo prigionieri del vecchio schema, per cui Cristo è assente da questo mondo, lo concepiamo come vivente altrove, in un altro mondo, in un aldilà del regno dei morti, sebbene nella gloria del Paradiso… E allora che Pasqua è? Che Pasqua festeggiamo? Con questa nostra visione delle cose, noi la vanifichiamo!
Dobbiamo invece cominciare a riscoprire – perché la nostra gioia sia piena – questa novità della Pasqua, che non è semplicemente la storia di un morto che cammina… ma la possibilità data ad ogni uomo di vivere già ora – vivo o defunto che sia – nel “ tempo del mondo di Dio”.

Se questo è vero allora si può ben capire quanto sia legata ai vecchi schemi tutta la nostra paura di morire, di far parte del regno dei morti. Quanto sia pagano tutto il nostro affannarci per ritardarne il momento. Ma se ciò che conta è essere “nel regno di Dio”, essere in quello dei vivi o dei morti non importa. Ed è proprio questo l’“ultimo” capovolgimento della Pasqua per noi che cerchiamo disperatamente di fuggire a una morte che si fa ogni giorno di più inevitabile.
Nella Risurrezione di Gesù è sancita definitivamente una verità che fa fatica ad entrarci nel cuore e nella mente perché capovolge la nostra prospettiva. Se c’è una vita riuscita è proprio la vita di Gesù, una vita che noi non seguiamo perché nel profondo del nostro cuore, siamo convinti (in un certo senso a ragione!) che se la mettessimo in pratica sarebbe – per quanto eroica – storicamente fallimentare.
Ebbene la Pasqua è la proclamazione di questa verità che ci fa paura: Tutto il successo che noi cerchiamo di avere nel nostro concreto vivere è dichiarato, lui sì, “definitivamente morto”. E ciò che “vive e dà vita” è quella vita e quella morte, sempre da riscoprire e ricomprendere, che Gesù ha vissuto.

I nostri maldestri tentativi di ridurre il dramma della Risurrezione dimenticano quindi che se Gesù non fosse risorto (perché “ridurre” è di fatto “negare”), avremmo forse pianto la morte ingiusta di un uomo eccezionale, avremmo forse anche cercato di custodirne gli insegnamenti e i valori… ma come tutti, avremmo continuato ad avere come destino la ricerca di un successo mondano che dopo aver fatto strage di ogni uomo o donna considerati rivali, si sarebbe comunque concluso nel “regno dei morti”.

Ora invece “il Signore è Risorto”, il regno dei morti non ci avrà perché ciò che ci irrompe semmai è il regno di Dio.

giovedì 5 aprile 2012

I prediletti di Dio

Daniel Zamudio
Vorrei proporvi durante questa “Santa Settimana” (vedi nota *) in cui la cristianità fissa il suo sguardo sul “compimento” della vita di Gesù di Nazareth, di meditare “La Passione” guardando “Le Passioni” della storia di oggi.

Infatti “Il Giusto”, per la bibbia, è solo Dio. Quindi ogni ingiustizia è sempre anche direttamente contro Dio. Ne consegue che l’ingiustizia non dipende né dalla moralità, né dal grado di consapevolezza di chi la subisce, comunque le si giudichi, ma dalla offesa oggettiva arrecata all’uomo, “sua immagine”! Un’ingiustizia, è un’ingiustizia sempre, anche se chi la fa (o la subisce) non ne sono consapevoli.

Per questo nell’ingiustizia subita da Gesù – e di cui facciamo Memoria – è racchiusa ogni ingiustizia. E circolarmente, in ogni ingiustizia subita da qualunque uomo o donna, è riattualizzata sacramentalmente – come un alter Christus (Mt 25,40.45) – l’ingiustizia subita dal Figlio di Dio!
Se così non fosse, Gesù Cristo, nel suo “patirla così” – e ci vuole una vita per capire che non è mera rassegnazione – non avrebbe potuto salvarci!
Ora questa “solidarietà inscindibile” tra Dio e l’uomo, mi consente di proporre, in piena coerenza biblica, di cambiare il cuore meditando durante questa «Settimana Santa» sulla morte di Daniel Zamudio. Torturato e ammazzato perché omosessuale.

È la scelta che ho fatto non per escluderne altre, ma perché anche in ciò che Daniel ha patito, c’è come “segnato” ciò che i Vangeli vogliono indicarci attraverso il racconto della passione, morte e resurrezione di Gesù. Le analogie (quindi di identità e differenza come sempre quando parliamo di persone) con la morte di Gesù mi appaiono qui più evidenti.
Ne elenco solo alcune, oltre alla già citata mostruosa ingiustizia:

Marginale: Anche Daniel è (stata) una persona che per alcuni aspetti potremmo considerare – proprio come il Gesù storico – “marginale”.
Ultimo: È storicamente, suo malgrado, la storia di un “Ultimo”, evangelicamente parlando…
Conosciuto attraverso la morte: Nonostante ne conosciamo alcuni aspetti, praticamente è per noi un “senza-nome”, uno che non abbiamo conosciuto e non avremo – per l’irreparabile bestemmia di alcuni – mai più occasione di conoscere se non attraverso la comprensione delle “ragioni” della sua morte.
Maledetto: Per quei redivivi farisei, incapaci di vedere al là del proprio ombelico perbenista, era considerato una individuo riprovevole.
Bestemmiatore: Daniel era certamente un uomo che non poteva credere in tutto ciò che credono i moralisti…
Crocifisso: L’analogia non è solo per la violenza e le torture, ma per la forma “umiliante” di una morte inflitta a coloro che non erano considerati uomini perché “disprezzati”.
Scandaloso: Perché gay. Come scandaloso è scriverne facendo un parallelo con la figura del Crocifisso. Come scandaloso era Gesù che annunciava un modo nuovo di “guardarci” tra di noi… come scandalosi erano i suoi discepoli che annunciavano il suo Sguardo, come scandaloso è questo post che cerca di trasmetterlo. Ovviamente non per tutti ma per i presunti “pii” di ieri e di oggi che si scandalizzano del Vangelo. E nascondono che il vero scandalo consiste nel pensare che ad un uomo possano essere negati dei diritti perché non vive secondo una certa morale sessuale.
Pietra di inciampo: Il suo “epilogo” ci interpella a una presa di posizione che diventa l’ermeneutica autentica del nostro essere credenti inseriti in una comunità di credenti.
La sua morte ci giudica: Certo non ci saranno “evangelisti” che scriveranno di Daniel, eppure la sua storia, certamente nel suo compimento, è già inscritta nel Vangelo, in quanto diventa a mio parere discriminante nel giudicare il “tasso” di trasformazione evangelica del nostro cuore (immagine di ciò che ci fa figli/e di Dio… o statue di gelida pietra).

La sua morte dicevo, ma anche la sua vita! Perché se è morto così è perché qualcuno ha ritenuto che la sua vita non fosse degna di essere vissuta e al suo modo di essere occorreva porre un termine definitivo.

Non crediamoci migliori dei suoi assassini, consolati magari dall’etichetta che si sono affibbiati. Domandiamoci piuttosto se, sebbene non saremmo arrivati a tanto, sostanzialmente il nostro giudizio resti lo stesso!
Se c’è stato qualcuno che ha deciso di poterlo uccidere, ciò è dovuto al fatto che qualchedun altro ha predicato che una vita come la sua non fosse degna di essere vissuta!

Se, ad esempio, uno proclamasse che sarebbe “meglio avere un figlio morto piuttosto che un figlio gay”, come dovremmo giudicarlo se poi cominciasse a urlare disperato se qualcuno prendendolo di parola gli uccidesse il figlio gay? Eppure, non è proprio quello che fanno in molti anche nella chiesa? Non diciamo che andranno all’inferno? E di cosa ci lamentiamo se poi qualcuno glielo procura?
Anche le nostre mani grondano di sangue… del suo!

E allora che cosa ci differenzia da questi assassini? Provocatoriamente: la mancanza di coraggio di andare fino in fondo nel nostro giudizio e di passare dalla parole ai fatti? E non sarebbe una differenza che ci renderebbe peggiori degli assassini? Almeno loro hanno avuto il coraggio di essere coerenti. Mi rendo conto di dire qualcosa che sembra una bestemmia, ma è la stessa che ha pronunciato il Cristo in Lc 16,8.

E allora cerchiamo di convertirci conoscendo Daniel (come troppe volte accade) attraverso la descrizione della sua morte, lasciandoci commuovere da un dolore indicibile che ci trapassa il cuore e lo cambia!
Perché ci si domanda – prima ancora di chiedersi come sia potuto accadere: sterile domanda finché il cuore non è trasformato – che cosa si può fare perché “certe cose” non accadano mai più?

Quello che riesco a capire – sperando di non urtare nessuno – è che non si può stare a guardare. Non si può più semplicemente gridare. Direi che non basta più nemmeno “non essere omofobi”, come non basta denunciare l’omofobia od ogni altra fobia… È importante, ma non basta!
Quello che bisognerebbe cominciare a fare, come chiesa, come cristiani, come magistero, se si vuol restare uomini… è essere attivamente “[h]omofili”, amici dell’uomo, di ogni uomo (Gv 13,35)…

Non si può pensare di “difendere la morale cristiana” calpestando i nostri fratelli e sorelle più piccoli. Offenderemmo il Redentore. Piccoli non perché meno uomini, anzi! Piccoli in quanto indifesi, additati, oltraggiati, insultati, ridicolizzati, torturati, ammazzati… ma per questo veri uomini in quanto prediletti da Dio.

Con la vita di queste persone, ci stiamo giocando quella del Cristo. E del suo autentico annuncio! E questo lo dico per quelli che tradizionalmente fanno dell’«annuncio» il loro scopo, non capendo che lo scopo dell’annuncio lo si raggiunge, paradossalmente, proprio non facendone uno scopo: perché se c’è un scopo questo è solo la difesa e lo sviluppo della dignità di ogni uomo e donna. Indipendentemente dal giudizio morale che possiamo dare: ed è per questo che i suoi assassini avranno un giusto processo!
In altre parole, se ci preoccupassimo di meno di “annunciare il Cristo” e ci preoccupassimo di più di “risorgere – cioè apprezzare – ogni uomo”, annunceremmo veramente la Passione di Cristo!

Non pensare e agire in questo senso ci renderebbe – come uomini, come cristiani, come chiesa, come cittadini – veramente responsabili di un peccato di omissione ancor più spregevole del crimine commesso dagli stessi carnefici. È compito dell’impegno politico, oltre che pastorale, salvarci da una tale condanna.

(*: volevo pubblicare il post lunedì, ma impegni inderogabili me lo hanno impedito, lo faccio oggi convinto che possa aiutare qualcuno/a come ha aiutato me.
Un grazie al
Corriere della Sera che è stato uno dei pochi che ne ha messo subito in evidenza la notizia…
Che Daniel interceda per noi!).

Daniel Zamudio
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