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martedì 26 febbraio 2013

III Domenica di Quaresima


Dal libro dell’Èsodo (Es 3,1-8.13-15)

In quei giorni, mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio. Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele». Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io Sono mi ha mandato a voi”». Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 10,1-6.10-12)

Non voglio che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto. Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono. Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 13,1-9)

In quel tempo si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».

 

I primi versetti del vangelo che la Chiesa ci offre in questa Terza Domenica di Quaresima, ci presentano la situazione sconcertante di alcuni «Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici». La notizia del fatto corre di bocca in bocca ed arriva fino a Gesù, il quale immediatamente associa questo desolante episodio con un’altra notizia tragica di cui aveva sentito parlare: quella di «quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise».

Sono fatti di cronaca nera – diremmo noi col nostro linguaggio moderno –, sono fatti in cui tutte le generazioni si imbattono, così simili a quelli che anche noi oggi possiamo trovare aprendo uno dei nostri quotidiani: tragedie, morti, sopraffazioni, inganni… Sono i fatti di sempre; fatti che in tutte le generazioni hanno ingenerato domande, urla, tentativi di soluzione, fallimenti: “Perché succedono queste cose?”, “Cosa bisogna fare perché non succedano più?”…

E come sempre – anche al tempo di Gesù – si cercano risposte. Risposte che spesso però saltano a piè pari la drammaticità della tragedia e la fatica del capacitarsene e vogliono arrivare rapide a dare ragione di ciò che ragione non ha… Al tempo di Gesù la soluzione più immediatamente a portata di mano (la risposta pre-confezionata) era quella del principio della retribuzione: se c’è una tragedia è perché dietro c’è un peccato; se un figlio nasce malato è perché i suoi genitori o chi per essi hanno peccato…

Evidentemente è una risposta assolutamente senza fondamento (Gesù stesso – come vedremo – ma già anche l’A.T. la smentiscono), una risposta che a noi oggi ripugna, eppure: Quante delle nostre risposte di oggi sono ancora fatte così? Di questo tipo? Risposte pre-confezionate, luoghi comuni, frasi fatte, che impediscono di pensare radicalmente ai problemi e ci consentono di perseguire una scorciatoia per non doverci davvero mettere faccia a faccia con le tragedie del nostro mondo, con le nostre, con quelle dei nostri fratelli e con il doveroso rendere e rendersi ragione di ciò che (ci) accade? Io credo (temo) siano tante… Per esempio quelle di chi dice – quando muore un bambino – che è perché Dio voleva un altro angelo in cielo (?!?!) – che è un’aberrazione teologica, prima ancora che umana.

Oggi come allora infatti di fronte alle esperienze del non-senso, di fronte a quei fatti che mettono in discussione il normale ordine delle cose, la loro sensatezza e giustezza, la risposta umana assomiglia sempre a un tentativo maldestro e mal riuscito di trovare balbettanti – se non ripugnanti – argomenti che non riescono mai a fronteggiare le cruciali domande che i problemi pongono: come allora infatti – solitamente – si fa un po’ di chiasso nei primi giorni della tragedia e poi si preferisce mettere a tacere le domande che essa ha sollevato, riprendendo la propria vita come se nulla fosse stato. Non a caso “La vita continua” è precisamente uno dei luoghi comuni più abusati di fronte alle tragedie del nostro tempo (siano essere personali, familiari, sociali…).

Come dicevamo Gesù fa diversamente. Egli scardina la risposta preconfezionata che la sua cultura aveva partorito per le varie tragedie della sua storia (il principio della retribuzione) – dicendo per due volte: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico». Ma non si ferma qui, non propone un altro luogo comune diverso, non si sottrae alla tragicità della questione. Il problema rimane ed egli lo fronteggia. Il problema infatti – al di là dei singoli episodi che lungo la storia cambiano nomi e scenari, ma mantengono la stessa drammatica trama – è quello del rimando di questi fatti alla più radicale insensatezza/incompiutezza della vita. Dice infatti Gesù: «perirete tutti allo stesso modo»; intendendo dire che il problema dell’insensatezza della vita è il problema che riguarda o può riguardare tutti, anche quelli che non fanno una fine tragica: è il problema della domanda che queste tragedie pongono a ciascuna singola persona, a me. Di fronte a questi fatti che rimandano in maniera inequivocabile alla precarietà della vita, alla sua durezza, al suo possibile triste esito (che non vuol dire che non tutti vanno in paradiso, ma che non tutti muoiono sereni nel loro letto circondati da chi li ama), il problema vero su cui Gesù vuol concentrare l’attenzione di chi lo ascolta è: Ma tu perirai nel non senso? Che vuol dire: Ma tu stai vivendo sensatamente? Perché se la risposta è sì, non c’è morte tragica che ti possa togliere quella sensatezza; ma se la risposta è no, non c’è morte più tardiva e tranquilla che possa dartela!

Il problema di fondo dunque, il nocciolo della questione a cui Gesù va sempre, senza fronzoli e scorciatoie, è quello della vita individuale di ciascuno, della singolare ricerca del senso, della personale costruzione di sé che si sta attuando: Di che qualità è?

Ecco perché immediato scatta l’invito alla conversione: «se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo»! Perché il rischio di “perire”, di “finire nel non senso”, di “non credere che ci sia un senso per me” è precisamente il dramma che si profila negli abissi di ciascun cuore umano. E lì bisogna convertirsi! Dove convertirsi evidentemente non è un problema di morale o una generica revisione dei propri peccati, ma è la domanda radicale che penetra fin nelle midolla e chiede: Dove è riposto il tuo senso? In chi è riposto?

Il senso di quella necessità di conversione è infatti specificato dalla parabola che compone la seconda parte del brano di vangelo odierno, dove l’attenzione è posta precisamente sulla cura cui il fico sterile verrà sottoposto, prima di essere nuovamente vagliato: «Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai». Convertirsi per non perire nell’insensatezza consiste allora precisamente nello zappare e concimare, cioè – fuor di metafora – nell’occuparsi di sé, nel prendersi cura della propria destinazione (i propri frutti), nel non lasciar scorrere la nostra vita nella genericità come se fossimo chiunque, nell’accudire la propria interiorità con quella tenerezza con cui una madre accudisce il proprio piccolo e lo guarda sorridente, anche quando sbaglia… solo così impareremo a non evitare i drammi della vita, ma a lasciarcene scavare l’anima orchestrando un senso, come la storia seguente suggerisce:

 

«M come morte.

La cronaca gli ha dato un nome di fantasia, Tommy. Ha otto anni, frequenta una scuola elementare di Sesto San Giovanni, alle porte di Milano. Non è un bambino fortunato: per lunghi mesi suo padre viene ricoverato in ospedale per un tumore. Purtroppo le condizioni del genitore peggiorano e Tommy, che gli è legatissimo, non sente ragioni: non lo vuole lasciare nemmeno un giorno, vuole stare vicino a papà fino all’ultimo. Tommy fa ovviamente molte assenze da scuola in quei tragici mesi. Poi il padre lo lascia. Tommy torna a scuola – gli insegnanti sanno tutto, da sempre – e viene bocciato. L’opinione pubblica della cittadina immagino abbia mugugnato, qualche quotidiano ha espresso un effimero sconcerto, gli insegnanti avranno addotto le loro brave ragioni, il direttore non avrà certo paura dell’ispettore che il ministro ha spedito a Sesto San Giovanni. E Tommy?

[…] Tante volte sono stato invitato in scuole dove un allievo era morto suicida o aveva perso la vita contro un albero all’alba di una domenica, pieno di alcol e pastigliette. Gli insegnanti volevano me in quanto “esperto”, perché troppi di loro non sanno parlare di morte, esattamente come non sanno parlare di vita. Mi sarebbe piaciuto che la scuola elementare di Tommy avesse organizzato brevi corsi suppletivi per lui, per stargli un poco vicino a casa o in ospedale: avrebbe sentito che gli adulti non sono tutti discendenti di Erode, che ve ne sono di capaci di empatia.

Ma quanto è ciecamente crudele questa cultura dell’efficienza che non accoglie, non accompagna il tempo del pianto, nemmeno per un padre: si deve essere perfetti, capaci di rimuovere malinconie e disperazioni in nome della produttività, anche quella di una scuola elementare.

Sarà in pace il direttore scolastico, lo saranno anche gli insegnanti: hanno applicato le regole, sono stati impeccabili, l’avrà ribadito anche l’integerrimo ispettore ministeriale. Di una cosa però sono certo: che Tommy, quando diventerà adulto, sarà molto meglio di tutti loro. Lui non ha rifiutato la morte, si è fatto coraggio e ha accompagnato il padre ad andarle incontro: conosce già quanto è fragile la vita e saprà per questo rispettarla. Tommy avrà un grande maestro cui dedicare tutti i suoi sforzi migliori, un uomo conosciuto per poco tempo ma infinitamente più importante per lui, pur nella morte, di tanti ignavi e impotenti burocrati vivi» [P.Crepet, Sfamiglia, Einaudi, Torino 2009, 131-134].

giovedì 21 febbraio 2013

Il pastore e il lupo

Lo Spirito di Cristo insegna a vedere oltre la maschera

Riporto integralmente qui quanto pubblicato nel sito “100 passi”.
Il post parla della vicenda sotto certi aspetti surreale di una senatrice del Pdl che scrive ai parroci non solo per avere il voto, ma per chiedere sostegno politico, riducendo di fatto le parrocchie a una succursale politica del suo partito!
Alla lettera della senatrice ammiccante presunti “valori non negoziabili” di cui si sentirebbe lei e il suo partito novelli crociati, segue la risposta franca ma cortesissima di don Gianfranco Formenton che da a lei (e ai cattolici che non l’avessero ancora capito) qualche lezione anche di sani principi morali sui cosiddetti “valori non negoziabili” che non possono non comprendere la dottrina sociale della Chiesa! Mentre – aggiungo io – la miopia pastorale non comprende che da questi dipendono le possibilità di una difesa non ipocrita degli altri: non è un caso, sottolinea anche don Gianfranco, che nei Vangeli proprio quelli sociali hanno l’esclusiva preoccupazione di Gesù e degli Apostoli.
(NB: le sottolineature sono mie)

LA LETTERA DELLA SENATRICE
Perugia, 8 febbraio 2013

Gentile Parroco,
mi sono decisa a scrivere questa lettera ai pastori del popolo cristiano dell'Umbria perché, dopo cinque anni trascorsi in Senato, so con certezza che nei primi mesi della prossima legislatura dovranno essere affrontati in Parlamento parecchi argomenti che riguardano temi etici importanti e delicatissimi. Mi riferisco, tra le altre, alle disposizioni sul fine vita (chi non ricorda il caso Englaro), alla legge sul matrimonio per le coppie omosessuali, all'adozione di bambini nelle stesse coppie omosessuali, alle problematiche sull'uso degli embrioni, all'apertura all'aborto eugenetico (che, di fatto, si va già diffondendo).

In Parlamento, lo scorso anno, ho costituito, assieme ad altri colleghi, l'Associazione parlamentare per la Vita. Una Associazione che è stata un baluardo contro ogni attacco volto a modificare in senso negativo la nostra legislazione. Malgrado ciò recenti orientamenti dei giudici hanno intaccato lo stesso dettato costituzionale in tema di famiglia, di adozioni e di fine vita.
Immagino che sulla politica economica del mio partito non tutto possa essere pienamente condivisibile e che, magari, alcuni preferiscano soluzioni diverse da quelle che abbiamo proposto o che abbiamo in programma di fare. Sui temi etici però, a differenza di altri partiti, il PdL è stato sempre unito e coerente, perché composto da molti cattolici e da altri che si definiscono laici adulti, la cui formazione culturale e politica è in ogni caso improntata al rispetto di tutti i valori non negoziabili. Se di politica economica si può discutere (ma io ho sempre lottato per orientare al bene comune l'azione dello Stato), su queste tematiche non ci sarà possibilità di mediazione. Mediare significherebbe comunque accettare che, prima o poi, si compia un'escalation che ha come traguardo la modificazione dei valori di fondo della nostra società, da ultima, per usare la denuncia dei vescovi spagnoli, la separazione della sessualità dalla persona: non più maschio e femmina, ma il sesso sarebbe un dato anatomico senza rilevanza antropologica.
È necessario che nel futuro Parlamento ci sia un numero di persone sufficienti a non far passare leggi contro la famiglia, l'uomo e la sua vita. Io mi sono impegnata e mi impegnerò in questo senso. Per questo chiedo anche il Suo sostegno e ringrazio per tutto quello che riterrà di fare.
Devotamente saluto,
Ada Urbani
candidata PdL al senato
www.adaurbani.it

LA RISPOSTA DI DON GIANFRANCO FORMENTON
Spoleto, 12 febbraio 2013

Gentile Senatrice,
ho ricevuto la sua lettera ai pastori del popolo cristiano dell'Umbria e ho deciso di risponderle in quanto pastore di una parte di questo popolo al quale recentemente il Card. Bagnasco ha raccomandato, dopo alcune eclatanti ed astrali promesse elettorali, di non farsi abbindolare.

Vedo che nella sua lettera lei parla in gran parte dei cosiddetti temi etici che lei riferisce unicamente ai luoghi comuni che tutti i politici in cerca di voti e consensi toccano quando si rivolgono ai cattolici: il fine vita, le unioni omosessuali, gli embrioni, l'aborto.

La ringrazio anche per la citazione dei vescovi spagnoli e per il suo impegno per la formazione culturale e politica improntata al rispetto di tutti i valori non negoziabili.

Ma rivolgendosi ai pastori del popolo cristiano lei dovrebbe ricordare che tra i valori non negoziabili nella vita, nella vita cristiana e soprattutto in politica entrano tutta una serie di comportamenti di vita, di etica pubblica e di testimonianza sui quali non mi sembra che il partito di cui lei fa parte né gli alleati che si è scelto siano pienamente consapevoli.

Sarebbe bello stendere un velo pietoso su tutto ciò che riguarda il capo del suo partito, sul quale non credo ci siano parole sufficienti per stigmatizzare i comportamenti, le esternazioni, le attitudini pruriginose, le cafonerie, le volgarità verbali che costituiscono tutto il panorama di disvalori che tutti i pastori del popolo cristiano cercano di indicare come immorali agli adulti cristiani e dai quali cercano di preservare le nuove generazioni.

Sarebbe bello ma i pastori non possono farlo perché lo spettacolo indecoroso del suo capo è stato anche una vera e propria modificazione dei valori di fondo della nostra società (come lei dice) operata anche grazie allo strapotere mediatico che ha realizzato una vera e propria rivoluzione (questa sì che gli è riuscita) secondo la quale oramai il relativismo morale, tanto condannato dalla Chiesa, è diventato realtà. Concordo con lei, su questo mediare significherebbe accettare.

Un'idea di vita irreale ha devastato le coscienze e i comportamenti dei nostri giovani che hanno smesso di sognare sogni nobili e si sono adagiati sugli sculettamenti delle veline, sui discorsi vacui nei pomeriggi televisivi, sui giochi idioti del fine pomeriggio e su una visione rampante e furbesca della politica fatta di igieniste dentali, di figli di boss nordisti, di pregiudicati che dobbiamo chiamare onorevoli.

Oltre a questo lei siederà nel Senato della Repubblica insieme a tutta una serie di personaggi che coltivano ideologie razziste, populiste, fasciste che sono assolutamente anti-cristiane, anti-evangeliche, anti-umane. Mi consenta di dirle francamente che il Vangelo che i pastori annunciano al popolo cristiano non ha nulla a che vedere con ideologie che contrappongono gli uomini in base alle razze, alle etnie, alle latitudini, ai soldi e, mi creda, mentre nel Vangelo non c'è una sola parola sulle unioni omosessuali, sul fine vita e sull'aborto: sulle discriminazioni, invece, sul rifiuto della violenza e su una visione degli altri come fratelli e non come nemici ci sono monumenti innalzati alla tolleranza, alla nonviolenza, all'accoglienza dello straniero, al rifiuto delle logiche della furbizia e del potere.

Mi dispiace, gentile senatrice, ma non riterrò di fare qualcosa né per lei, né per il suo partito, né per i vostri alleati, anzi. Se qualcosa farò anche in queste elezioni questo non sarà certo di suggerire alle pecorelle del mio gregge di votare per quelli che mi scrivono lettere esibendo presunte credenziali di cattolicità.

Mi sforzerò, come raccomanda il cardinale, di mettere in guardia tutti dal farsi abbindolare da certi ex-leoni diventati candidi agnelli. Se le posso dare un consiglio, desista da questa vecchia pratica democristiana di scrivere ai preti solo in campagna elettorale, e consigli il suo capo di seguire l'esempio fulgido del Papa. Sarebbe una vera opera di misericordia nei confronti del nostro popolo.
don Gianfranco Formenton

martedì 19 febbraio 2013

II Domenica di Quaresima


Dal libro della Genesi (Gn 15,5-12.17-18)
In quei giorni, Dio condusse fuori Abram e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle»; e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia. E gli disse: «Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra». Rispose: «Signore Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?». Gli disse: «Prendimi una giovenca di tre anni, una capra di tre anni, un ariete di tre anni, una tortora e un colombo». Andò a prendere tutti questi animali, li divise in due e collocò ogni metà di fronte all’altra; non divise però gli uccelli. Gli uccelli rapaci calarono su quei cadaveri, ma Abram li scacciò. Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram, ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono.Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi. In quel giorno il Signore concluse quest’alleanza con Abram: «Alla tua discendenza io dò questa terra, dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate».

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi (Fil 3,17-4,1)
Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi. Perché molti – ve l’ho già detto più volte e ora, con le lacrime agli occhi, ve lo ripeto – si comportano da nemici della croce di Cristo. La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra. La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose. Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi!

Dal vangelo secondo Luca (Lc 9,28-36)
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli non sapeva quello che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!». Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.

 

In questa Seconda Domenica di Quaresima, la Chiesa – come di consueto – ci invita a riflettere sul brano della Trasfigurazione; quest’anno secondo l’evangelista Luca.

«Nel vangelo di Luca (come pure in quello di Matteo e Marco) il racconto della trasfigurazione è inquadrato in un contesto preciso e significativo. Non soltanto, è preceduto dalla confessione di Pietro, dal primo annuncio della passione e dalle istruzioni di Gesù sulla via Crucis del discepolo stesso, ma è anche seguito dalla guarigione del fanciullo epilettico e dal secondo annuncio di passione. Dunque, la trasfigurazione è raccontata in un contesto dominato dal tema della Croce.

I tratti del racconto (vocabolario, immagini, riferimenti alle Scritture) dicono chiaramente che esso appartiene al genere “epifanico-apocalittico”: vuole cioè essere una rivelazione rivolta ai discepoli, rivelazione che ha come oggetto il significato profondo e nascosto della persona di Gesù e della sua opera. Questo significato profondo e nascosto della persona e dell’opera di Cristo ci viene comunicato, da una parte, mediante riferimenti all’Antico Testamento (Mosè ed Elia e – più impliciti ma ugualmente presenti – i riferimenti al Figlio dell’uomo di Daniele e al Servo di JWHW di Isaia) e, dall’altra, mediante riferimenti a due episodi della vita di Gesù: il battesimo (con il quale il nostro racconto ha indubbiamente diverse analogie) e i racconti pasquali (con i quali ha pure una innegabile parentela di vocabolario e di immagini).

I due rilievi fatti sono comuni a tutta la tradizione sinottica. Ma su questa tradizione comune Luca ha introdotto due importanti modifiche: l’accenno alla preghiera di Gesù (“Salì sulla montagna a pregare. E mentre pregava…”); e l’esplicitazione del contenuto del colloquio che si svolge fra Mosè, Elia e Gesù: “Parlavano del trapasso (esodo) che egli doveva compiere a Gerusalemme”».

[B.Maggioni, il racconto di Luca, Cittadella Editrice, Assisi 2000, 186-187]

Siamo dunque di fronte ad una scena di rivelazione: una scena per molti aspetti simile a quella descritta dalla prima lettura (Gn 15,5-12.17-18), quando Abram è testimone del patto che il Signore stipula con lui «quando, tramontato il sole» passò «un braciere fumante e una fiaccola ardente in mezzo agli animali divisi».

Ciò che immediatamente fa da rimando tra le due letture, è l’atteggiamento, da un lato di Abram e dall’altro di Pietro, Giacomo e Giovanni. Del primo si dice infatti che «mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram, ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono»; degli altri, similmente, che «Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno» e che «all’entrare nella nube, ebbero paura».

Dunque il sonno e la paura come sentimenti ricorrenti dell’uomo di fronte al Signore che si rivela, che si mostra, che si fa conoscere.

Se da un lato questa reazione umana ci sembra istintivamente normale (quella che probabilmente anche noi avremmo/abbiamo o che immagineremmo/immaginiamo), perché di fronte a Dio è ovvio “non reggere il confronto” (sia fisicamente: sonno; che emotivamente: paura); dall’altro però, tale reazione, non può non risultare un po’ eterogenea rispetto a ciò che di fatto è il contenuto di quella rivelazione: di fronte a Gesù (che con Mosè ed Elia durante la trasfigurazione parla della sua croce!), al Dio Padre di tutti che Egli ha rivelato, è ancora così normale avere paura?

“Ovviamente no”, la risposta dovrebbe essere questa… eppure essa risuona così anaffettiva, privata della sua drammaticità, quasi stoicamente falsa, se detta un po’ troppo in fretta, se arriva subito a sciogliere l’impasse, se non fa la fatica di stare a bagnomaria nelle angosce ataviche o ingenerate che abitano il cuore dell’uomo.

A me pare che il rapporto fiducia/paura, affidamento/angoscia, sia spesso sciolto – da alcuni – un po’ troppo celermente in grandi proclami della fede: “Il cristiano è colui che non ha paura, perché ha riposto la sua fiducia nel Signore!”, “Bisogna avere paura di quelli che hanno paura”, “Chi teme non crede!”, ecc… ecc… ecc…

Perché:

- se è vero – e molte volte noi stessi l’abbiamo ribadito (cfr. la riproposizione che segue delle citazioni di Sequeri, da Il timore di Dio) – che va scardinato senza esitazioni dal nostro cuore il dubbio diabolico (divisorio) del serpente che proponeva un volto di Dio contraffatto (un dio ambiguo, geloso dell’uomo; dal quale l’uomo può aspettarsi tanto il bene quanto il male, ecc…), un dio di cui avere paura perché apre «lo spazio dell’incredulità: [...] il sospetto cioè che il comandamento invece che il simbolo della solidarietà di Dio, sia il segno di un’oscura prevaricazione»;

- se è vero che questa paura dell’arbitrio di Dio, per la quale si teme che «dietro un volto apparentemente buono e promettente, Egli ne celi forse uno inquietante e minaccioso», va scardinata precisamente in nome di Gesù, che per tutta la vita non ha fatto altro che «attivare un processo di interno confronto fra l’immagine dell’abbà e la rappresentazione faraonica di Dio coltivata nel fondo della nostra coscienza» ribadendo incontrovertibilmente come «prima di tutto e nonostante tutto, l’essenza della volontà di Dio è la cura per l’essere umano»;

- se è vero che l’esercizio della fede di una vita consiste nel «togliere ogni ombra di dominio e di assoggettamento alla relazione che caratterizza Dio», per cui «neppure a fin di bene Dio esercita la propria potenza», e nel realizzare che «nella concretezza del rapporto instaurato con Dio non v’è alcuno spazio per l’ipotesi formulata dal serpente» e che «lo spazio dell’incredulità, sin dall’inizio, si apre [solo] nell’immaginazione [e mai] nell’esperienza»;

- è altrettanto vero che tutto questo non può mai diventare puro oggetto di insegnamento intellettuale, preteso auto o etero convincimento volontaristico, nominalistico discrimine tra “chi è dei nostri e chi non lo è”.

Tutte queste riduzioni della drammatica del vivere umano portano un cattivissimo servizio alla costruzione del Regno di Dio, perché saltano precisamente ciò che Gesù aveva posto a fondamento di tutto il suo essere e agire e parlare e vivere e morire: l’in-carnazione, lo strettissimo tenersi alla carne, la sua insuperabilità.

In questo senso la paura di morire, che è l’altra faccia della medaglia della paura di vivere, della paura di Dio, della paura di essere se stessi (ecc… ecc… ecc…) e che radicalmente racchiude non un dubbio intellettualistico su cosa ci sarà dopo la morte, sulla reale esistenza di Dio e di un Dio così, sulla sensatezza del faticare quotidiano (ecc… ecc… ecc…), ma le più tremende e penose angosce in cui ci dibattiamo nei nostri letti, sotto i nostri tavoli, negli angoli delle nostre pareti, sul ciglio delle strade, o sull’orlo dei precipizi, non si può “sanare” nell’estrinsecismo del sistema-scuola, nell’illusoria organizzazione dei tempi familiari, nell’asettica proposta catechetica delle nostre parrocchie, nell’interrogatorio moralistico di certi confessionali, nel fasullo mondo della trasgressione (comunque intesa), ma solo nella coraggiosa e solidale (bisogna essere almeno in due: «fatevi insieme miei imitatori») discesa nei nostri inferi, senza paura di aver paura, perché l’avremo. Ma solo passando di lì, dentro a quella paura lì, dentro a quella angoscia lì, non saltata, ma incarnata, smetteremo di fronte ai nostri drammi e a quelli degli uomini del nostro tempo, di fare la figura di Pietro che «non sapeva quello che diceva». Non a caso infatti Gesù, diversamente, sa sempre cosa dire e cosa dice: lui infatti nella fornace ardente della trasfigurazione, ha guardato in faccia il suo inferno, il suo esodo. E l’ha fatto non da solo! Perché la paura è questione di pancia non di testa e si cura solo con la tenerezza, non coi discorsi: «Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi!».

 

martedì 5 febbraio 2013

V Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Isaìa (Is 6,1-2.3-8)
 
Nell’anno in cui morì il re Ozìa, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali. Proclamavano l’uno all’altro, dicendo: «Santo, santo, santo il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria». Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo. E dissi: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti». Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse: «Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato». Poi io udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò e chi andrà per noi?». E io risposi: «Eccomi, manda me!».

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 15,1-11)

Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano! A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. Dunque, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto.

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 5,1-11)

In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca. Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.

 

Le letture che la Chiesa ci propone per questa Quinta Domenica del Tempo Ordinario sono tutte e tre molto ricche e decisamente interessanti. Non potendole però approfondire tutte in maniera adeguata, non resta che concentrarsi su una in particolare (il vangelo), ma non senza aver prima notato come in ognuna sia ripercorso in qualche modo il medesimo schema:

- c’è (o c’è stato) un incontro col Signore (la teofania di Isaia: «Nell’anno in cui morì il re Ozìa, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio»; l’apparizione a San Paolo: «Ultimo fra tutti apparve anche a me»; e l’incontro con Simone: «In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra»);

- un prendere coscienza della propria inadeguatezza – di fronte a questo incontro – da parte dell’uomo (Isaia dice: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti»; Paolo si autodefinisce un “aborto”; e Pietro vedendo quanto fatto da Gesù gli «si getta alle ginocchia, dicendo: “Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore”»);

- una conferma del Signore (per Isaia, quanto narrato ai versetti 6-7 del capitolo 6: «Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse: “Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato”»; per Paolo la consapevolezza che «Per grazia di Dio, però, sono quello che sono»; per Pietro, la parola che il Signore gli rivolge: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini»);

- e infine l’accettazione della relazione col Signore (Isaia: «Eccomi, manda me!»; Paolo: «Dunque, sia io che loro, così predichiamo»; Pietro: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti» / «tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono»).

Lo schema che così viene a comporsi – proprio per il fatto che attraversa tutte le scritture sia antico che neotestamentarie – diviene in qualche modo l’indicazione del percorso di ogni discepolato, di ogni relazione con Dio. Per tutti infatti – anche per ciascuno di noi – c’è un incontro col Signore, un venire a sapere di Lui, un imbattersi nella sua parola o nella sua vicenda; un non sentirsi all’altezza; un ritrovare una conferma del proprio esistere; uno sbilanciarsi per acconsentire ad una donazione che diventa radicale, totale, totalizzante…

Il problema è che forse spesso questi momenti (questi passaggi) nella vita reale vanno al di là di ogni possibile schematizzazione, per cui può capitare di vivere insieme alcune di queste fasi o prolungarne altre, o riviverle più volte… col rischio di non saperle ben riconoscere o – peggio – di fossilizzarsi su una di esse, mentre invece è nella loro coralità che tratteggiano il percorso compiuto del discepolo.

Innanzitutto la domanda che a noi può sorgere è quella dell’incontro con Dio… Pietro ha incontrato Gesù sulle rive del lago Gennèsaret, a Paolo è apparso il Signore risorto, Isaia ha addirittura vissuto una teofania… ma a noi? Niente di tutto questo: nessun evento di questo tipo… E allora la domanda nasce spontanea: Davvero ho incontrato il Signore? Non è stata una mia autosuggestione? Non mi ha semplicemente fatto piacere crederlo? Si può davvero incontrare il Signore?

A tutte queste domande mi sembra pertinente rispondere con le parole di un grande biblista dei nostri giorni, don Roberto Vignolo, il quale in un suo libro (Personaggi del quarto vangelo), parlando di un grande assente, Tommaso – assente almeno quanto noi – che però pretenderà e otterrà – a differenza nostra – di vedere per credere, scrive così: «In che cosa consisterà la forma specifica della fede che non vede rispetto alla visione che conduce Tommaso [noi potremmo dire: Isaia, Paolo, Pietro] alla fede? Come dovrà intendersi una fede “beata perché crede e non vede”? In che termini il lettore sarà non solo non penalizzato rispetto a questi personaggi, ma piuttosto fortunato, paradossalmente anche più di loro? L’enigmatico macarismo di Gv 20,29 [«Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!»] […] non intende affatto celebrare l’esaltazione di una fede cieca (e quindi più pura) contro una fede appagata di visione miracolistica (e quindi mediocre). Nemmeno rappresenta un deprezzamento per l’esperienza di Tommaso, e dei testimoni oculari in genere. [Piuttosto] una risposta può venire considerando come Giovanni, collocando un macarismo ad epilogo del suo Libro, recuperi abilmente la tradizione per cui un libro, in quanto condensa un patrimonio di esperienza vissuta e funge da strumento di comunicazione tra le generazioni, va considerato come una vera e propria fortuna. […] La fortuna dei lettori/uditori non contemporanei non starà nel contenuto quantitativo del Libro, che è materialmente parziale e più limitato rispetto all’evento. […] Ma questa forma della fede si rivela tuttavia a propria volta singolarmente “felice” per le seguenti ragioni: 1/ è fede necessariamente ancorata alla mediazione kerygmatico-testimoniale, che cioè dipende da una testimonianza – proprio come la fede degli stessi testimoni oculari. […] Per tutte le generazioni successive a quella dei testi oculari la gerarchia che prevede il primato della parola nella fondazione della fede non si limita più ad un’affermazione di principio, ma diventa una necessità, un a priori di fatto, che trova nella forma dei “segni scritti” l’adeguata mediazione per la fede che “non vede”. 2/ Questo kerygma specificamente testimoniale chiede e sollecita un ascolto che, lungi dall’essere cieco, intende piuttosto “far vedere” e “insegnare come vedere”. [Infatti] mentre si fa ascoltare come testimonianza verbale scritta, il Libro fa vedere sia ciò che i testi oculari hanno potuto vedere (il contenuto cristologico della rivelazione), sia come essi abbiano potuto farlo (il loro cammino di fede)». Dunque alla domanda “Si può davvero oggi incontrare il Signore?” i testi neotestamentari rispondono risolutamente di sì, anzi in maniera ancora più “beata”/fortunata/facilitata che i testimoni oculari.

Il cammino del discepolato quindi non trova oggi un’interruzione in partenza, per il fatto che oggi visioni, teofanie o rivelazioni particolari sembrino essere assenti dal palcoscenico della storia. Anzi, il fondamento per tale percorso sembra essere quello del primato della Parola… Il cammino di relazione col Signore nasce infatti dal nostro imbatterci in quella sua Parola, in quella sua iniziativa libera e gratuita di farsi incontrare, di farsi conoscere, di farsi prossimo… L’iniziativa dunque è sua… e per questo è per tutti: perché non è da conquistare, ma è donata!

Certo è che di fronte a tale donazione l’uomo si sente inadeguato, non all’altezza, non degno, nelle forme più svariate: “Per me capire la Parola di Dio è troppo difficile”, “Viverla poi…”, “Io sono troppo giovane”, “Io troppo vecchio”, “Io troppo peccatore”, “Io troppo imbranato”… Ma spesso non ci si rende conto che dietro a queste nostre obiezioni – pur vere da un certo punto di vista – in realtà si nasconde un frustrato desiderio di onnipotenza, che si presenta sotto il suo contrario: la rassegnazione, come bene aveva intuito Teresa di Gesù Bambino: «Voi, o Signore, conoscete la mia debolezza: ogni mattino prendo la risoluzione di praticare l’umiltà e alla sera riconosco che ho commesso ancora ripetuti errori di orgoglio. A tale vista sono tentata di scoraggiamento; ma capisco, anche lo scoraggiamento è effetto d’orgoglio. Voglio quindi, mio Dio, fondare la mia speranza su voi solo».

Siccome non posso essere dio, siccome non posso essere l’uomo/la donna ideale che ho in testa, siccome non posso essere il discepolo ideale, allora mi tiro indietro, mi tiro fuori da questo circolo, me ne sto per i fatti miei (e che gli altri vedano che me ne vado!)… O tutto o niente, o perfetto o distrutto, o dio o nulla… Questo è l’uomo… Questi siamo noi… quando cadiamo nella falsa illusione che essere amati voglia dire essere amabili! E siccome ci consideriamo non amabili, non crediamo sia possibile essere amati…

E invece ecco la riconferma del Signore, presente – come visto – in tutte e tre le letture… L’elemento forse più difficile di tutto il percorso del discepolato: riconoscersi amati/graziati/perdonati. All’uomo che non si sente amabile, che non si perdona la sua inadeguatezza e per questo vorrebbe andarsene, sparire, magari orchestrando una sceneggiata che almeno per un momento lo rimetta al centro dell’attenzione, Dio risponde con l’inaspettato sguardo di chi problemi per la nostra inadeguatezza proprio non se ne fa… Anzi… ci si era fatto prossimo quando noi eravamo ancora inconsapevoli della nostra inadeguatezza («Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi », Rm 5,8)… e Lui l’aveva già contemplata, accettata, amata… (forse ne aveva anche maternamente sorriso).

È solo dentro a questo orizzonte che prende senso il decider-si del discepolo: solo in questo abbraccio che “tutto-accoglie” si può arrivare (anzi si deve arrivare) a dire: «Eccomi, manda me!», si deve arrivare cioè a giocarsi la vita…

Purtroppo invece a noi capita molto più spesso di non dar credito a questo orizzonte e di arenarci in qualcuno di questi momenti e non venirne fuori più: perché non crediamo sia possibile oggi un farsi prossimo del Signore, oppure perché troppo velocemente arriviamo a sentirci perdonati (nel giusto), senza passare dal rendersi conto purificatore che “Io non sono dio!”, oppure perché non crediamo nell’amore altrui che va ben al di là della nostra amabilità, oppure perché in ogni caso ci fa troppa paura dire «Eccomi, manda me!»…

In ogni caso, dietro ad ogni nostra interruzione sta sempre un’errata considerazione di chi sia Dio e dunque di chi sia l’uomo: è su quest’idea che ogni mattina ed ogni sera dovremmo, nella preghiera, ricalibrare la nostra vita.

lunedì 4 febbraio 2013

Panem et circenses

Mario Balotelli

Molto è stato detto sulle promesse elettorali di Berlusconi: di abbassare le tasse prima e ora di restituire in contanti quell'IMU che peraltro lui stesso aveva votato e difeso sui giornali. Quest’ultima è stata chiamata “la proposta choc”! E sotto certi aspetti lo è veramente. Vediamo perché.

Berlusconi (coi suoi alleati) sta applicando, direi attualizzando, un vecchio metodo ben noto fin dagli albori di ogni potere assolutista e sintetizzato efficacemente nel primo secolo dal poeta latino Decimo Giunio Giovenale con l’espressione “panem et circenses”! Metodo che trasformava e trasforma ogni parvenza di democrazia nella concreta dittatura della demagogia. Manifestando anche a ben vedere un profondo disprezzo verso il proprio popolo: come se fosse un cane a cui basta un osso e una palla per renderlo felice! (Cosa che in realtà neanche al cane basterebbe!).

In Berlusconi, al pane corrisponde la restituzione dell’IMU e al circo, il circo calcistico del gladiatore Balotelli! È ovvio che costa di più dare da mangiare al popolo che acquistare un gladiatore! Se a Berlusconi è riuscita la seconda, è impossibile che gli riesca la prima!

Infatti Roma si indebitò per questo e andò in rovina anche per questo (altra causa fu il degrado morale. Ma guarda un po’ com’è attuale la storia!)! Così sarà per l’Italia se glielo permetteremo (ammesso che intenda e voglia realmente realizzarlo: anzi per le ragioni che dirò sotto è auspicabile che ancora una volta menta!).

Oggi, in un mondo globalizzato, se le casse sono vuote, non è più possibile fare come nel passato. A meno di scatenare il nostro esercito alla conquista dei continenti. E se anche dichiarassimo guerra, questo non potrà che generare lutto, rovina, distruzione, perdita di sovranità: proprio come nell’antichità e nel passato più recente. I sogni di ricchezza e gloria per il popolo italiano di Mussolini si sono infranti nell’impossibilità di conquistare un mondo che già allora cominciava – in qualche modo col colonialismo – a globalizzarsi.

Non è un caso che proprio “Roma Antica” fosse il modello che ispirava l’azione mussoliniana.
Che l’elogio di Berlusconi allo statista Mussolini (escludendo solo le leggi razziali “ha fatto cose buone”: quali di grazia?) vada ad iscriversi in questa logica? Io credo di sì: un filo rosso sangue li unisce. Non c’è solo l’occhiolino strizzato alle falange estreme dell’astensionismo. Certo non penso che Berlusconi lancerà i futuri F35 (temporale permettendo) alla conquista dell’Africa… la cosa non è così banale, ma come interpretare la “dichiarazione di guerra” contro l’Europa, la Cancelliera Angela Merkel, la BCE, il PPE, l’euro…?

Quanto detto credo inviti a non prendere sottogamba le sparate di Berlusconi… Non è a mio avviso una cosa su cui riderci sopra, insomma! Siamo agli albori, se gli italiani ci cascano, di una rovina più grande e forse senza ritorno del paese: che solidarietà potremmo aspettarci dagli altri popoli quando noi stessi abbiamo eletto colui che sarà causa della nostra e loro rovina? Perché qui in gioco non c’è solo l’Italia e/o l’Europa, ma – piaccia o non piaccia la globalizzazione – gli equilibri politici ed economici del pianeta. Non siamo il Liechtenstein dobbiamo assumerci anche il ruolo geopolitico che la storia, nel bene e nel male, ci ha consegnato.

Gli altri partiti e o coalizioni hanno il dovere di raccogliere la sfida scardinandone la logica di (s)governo soggiacente (“panem et circenses”) per mostrare nei fatti che oggi il consenso si fonda su un’attenzione all’uomo che si esplicita in valori che vanno oltre l’IMU e la risata facile: giustizia, pace, moralità, responsabilità, onestà, condivisione, solidarietà, ecologia, rispetto per l’uomo e la donna indipendentemente dal proprio status (religioso, affettivo, economico, culturale, etico…), multiculturalità, ecc.

Il consenso per produrre benessere per tutti non può che essere democratico: si deve fondare sulla conoscenza e sulla possibilità data a tutti e a ciascuno di decidere del proprio destino, personale e comunitario, per il bene globale. Altrimenti smettiamola di dire “poverino” quando vediamo persone ai margini della storia: della nostra compassione ed elemosina non se ne fa niente nessuno e men che meno la nostra coscienza.

Spiace vedere come una Chiesa, più preoccupata di non perdere posizione sociale (che peraltro – per fortuna per questa chiesa – continua inesorabilmente a perdere) che a illuminare la storia, sia sfuggita ancora una volta i rischi della sua (falsa) neutralità politica!

Piace invece notare che il testimone evangelico, di cui la Chiesa nel suo insieme è istituzionalmente apostola, sia da tempo ormai passato in altre mani “eretiche” molto più attente e premurose nel lenire – oltre il caritatevole e l’elemosina e anche a costo di sbagliare – le piaghe di un’umanità ferita (cfr Lc 10,33-35: ricordo che i Samaritani erano considerati all’epoca eretici e apostati).

venerdì 1 febbraio 2013

IV Domenica del Tempo Ordinario (C)

Dal libro del profeta Geremìa (Ger 1,4-5.17-19)

Nei giorni del re Giosìa, mi fu rivolta questa parola del Signore: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni. Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi, àlzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò; non spaventarti di fronte a loro, altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro. Ed ecco, oggi io faccio di te come una città fortificata, una colonna di ferro e un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese. Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti».

 Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 12,31-13,13)

Fratelli, desiderate intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime. Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo, per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe. La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino. Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 4,21-30)

In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.

 Il vangelo che la Chiesa ci propone in questa Quarta Domenica del Tempo Ordinario, è la precisa continuazione di quello letto la settimana scorsa. Là la liturgia aveva fatto la scelta di concentrarsi sulla prima parte della vicenda di Gesù a Nazaret – quella della sua auto-proclamazione come compimento della citazione di Isaia 61,1-2, ripresa anche all’inizio del brano odierno –, senza preoccuparsi delle reazioni suscitate nei suoi ascoltatori. Qui invece l’attenzione va precisamente su queste conseguenze: la meraviglia iniziale («tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca») si tramuta improvvisamente in rifiuto («tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fino al ciglio del monte per gettarlo giù»).

Curiosamente non sono i compaesani di Gesù ad esprimere la motivazione di questo cambiamento, ma è Gesù stesso che li previene: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Il problema immediato sembra dunque consistere nel fatto che Gesù faccia miracoli fuori dal suo paese e non li faccia invece in patria…

Problema che solo Luca identifica in questo modo: Marco (6,1-6) e Matteo (13,53-58) fanno infatti piuttosto riferimento ad un’altra ragione che avrebbe originato il rifiuto dei nazaretani, e cioè l’umile origine di Gesù, la sua condizione di falegname, che anche Luca ricorda (dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?»), ma sulla quale non si attarda. Inoltre rispetto agli altri sinottici, Luca è l’unico a porre quest’episodio all’inizio del ministero pubblico di Gesù, trasformando quest’esperienza del rifiuto in un episodio di apertura. Gli altri infatti ne parlano più avanti, a missione inoltrata.

Certo, come precisa B. Maggioni, dal punto di vista storico paiono più corretti Marco e Matteo: «l’episodio di Nazareth non è la prima apparizione in pubblico di Gesù: tanto è vero che gli abitanti di Nazareth gli rimproverano di aver già compiuto molti miracoli altrove. Né – sempre dal punto di vista storico – si può dire che il rifiuto sia stato la prima reazione che Gesù ha incontrato: raccontando, infatti, subito dopo i miracoli compiuti a Cafarnao, Luca annota che “la sua fama si diffondeva in tutta la regione” (4,37) e che “le folle lo cercavano” (4,42). Tuttavia – pur essendo al corrente di tutto questo – l’evangelista ha scelto come episodio iniziale un rifiuto. Non c’è dubbio sulla sua intenzione. Storicamente l’opposizione alle parole e alle azioni di Cristo è cresciuta a poco a poco, ma Luca vuole che il lettore la incontri subito, fin dalle prime pagine, e vi rifletta. In tal modo il punto più delicato dell’intera storia di Gesù – il fatto cioè che abbia incontrato l’opposizione del suo popolo e sia stato crocifisso – non è differito, ma affrontato immediatamente. Da una parte il Messia che annuncia l’oggi di Dio e offre la sua liberazione ai poveri e ai peccatori, dall’altra gli uomini che ne provano irritazione: ecco il contrasto già chiaro nell’episodio di Nazareth e di cui l’intero vangelo vuole essere un’ampia illustrazione».

Il problema che dunque ci si profila a partire da questo vangelo è il rifiuto a cui il volto di Dio che Gesù rivela, va incontro. Più precisamente: il problema non è il rifiuto di Dio. Ci sono infatti immagini di dio che doverosamente sono da rifiutare! Ma il rifiuto di questoDio, di Colui che – come dicevamo settimana scorsa e anche quella prima – è incontrovertibilmente il Dio della Vita degli uomini, dell’umanizzazione delle loro dis-umanizzazioni… Colui dal quale inequivocabilmente giunge all’uomo solo il bene.

Il problema profilato da Luca allora non è semplicemente quello della particolare malvagità da imputare a quellagenerazione o a quegli abitanti di Nazareth, ma la comune durezza di cuore che si incontra dappertutto e in ogni tempo.

Perché, dunque, il rifiuto di questo Dio?

Io credo che il testo di Luca indichi una duplice e complementare linea interpretativa. Innanzitutto il fatto che precisamente questo volto di Dio faccia problema; e in secondo luogo il tratto di questo volto in cui emerge l’universalità della dedizione.

In altre parole, Luca sembra dire che, per un verso, il rifiuto di questo volto di Dio dipenda dal fatto che è un volto che non giustifica più la cattiveria umana, la ricerca di potere, il continuo riproporre logiche di sopraffazione; questo Dio infatti, in quanto Dio della Vita dell’uomo, di ogni uomo – in particolare del più debole –, non può più essere strumentalizzato contro qualcun altro (il povero non è il maledetto, il malato non è il peccatore, l’altro non è il nemico, l’eretico non è quello contro cui scagliare un guerra santa…); l’altro – anzi – proprio a partire da questo volto di Dio è sempre e solo fratello… Ecco perché diventa un Dio scomodo… perché non giustifica più la mia lotta per imporre me stesso, il mio popolo, la mia razza, il mio partito, la mia ideologia…

Per altro verso, il rifiuto di questo volto di Dio che si propone come Padre di tutti, dipende dal fatto che precisamente questo suo essere di tutti, immediatamente viene percepito dalla logica competitiva umana come meno mio: il problema degli abitanti di Nazareth è infatti che lui faccia miracoli anche altrove.

È sempre la medesima insofferenza che ci nasce dentro quando capita qualcosa di buono a qualcuno che non siamo noi o che non è dei nostri: come se il bene che capita ad un altro fosse immancabilmente qualcosa che è tolto a me, ai miei…

Ecco, precisamente queste sono le dinamiche del rifiuto che Luca vuole mettere in risalto: l’inaccettabilità di un Dio che non coincide con il mio idolo, con il vessillo della mia ideologia, con il “come lo avevo pensato io”; e l’inaccettabilità di un Dio che è anche il Dio di qualcun altro… anzi il Dio di tutti!

Sostanzialmente l’inaccettabilità di un Dio che mi chiede di essere fratello/sorella del mio prossimo, sempre e comunque, dell’altro, sia esso ricco o povero, oppresso o oppressore, libero o prigioniero, cieco o vedente, peccatore o santo, eterosessuale o omosessuale, ebreo o nazista, berlusconiano o bersaniano, buono o cattivo… Solo chi vede l’altro come un fratello/sorella, infatti, non sente come rubato a sé il bene che gli capita, ma anzi, sa dare la vita perché il bene capiti all’altro… (come si evince bene dalla famosa Lettera a Pipetta di don Milani, che vi metto qua sotto).

Ma appunto… tutto questo non è altro che inaccettabile, impossibile… e un Dio così, in-credibile, cioè non degno di fede… Non conviene credere a un Dio così, si finisce male… Perché è vero – e Gesù l’ha sperimentato sulla sua pelle: non c’è nulla di più feribile dell’amore che si dona.

Eppure è altrettanto vero che se, per paura di donarsi (di morire), ci si trattiene da questa modalità di stare al mondo, il vivere si tramuta in un triste e sterile sopravvivere impaurito, dove l’altro rimane sempre e solo colui che mi potrebbe fare del male e da cui dunque devo difendermi, e dio sempre e solo l’ultimo baluardo idolatrico della mia ideologia...

L’inaccettabile Dio della Vita e la sua impossibile logica dell’amore che si dona (sempre) sono allora davvero la più autentica possibilità per l’uomo di essere Uomo e per la sua vita di essere Vita…

Io almeno non ne ho trovate altre così affascinanti e credibili, così appassionanti e dilatanti, così azzardate e così belle… Così vivificanti e umanizzanti…

 
Caro Pipetta,
ogni volta che ci incontriamo tu mi dici che se tutti i preti fossero come me, allora…

Lo dici perché tra noi due ci siamo sempre intesi anche se te della scomunica te ne freghi e se dei miei fratelli preti ne faresti volentieri polpette. Tu dici che ci siamo intesi perché t'ho dato ragione mille volte in mille tue ragioni.

Ma dimmi Pipetta, m'hai inteso davvero?

È un caso, sai, che tu mi trovi a lottare con te contro i signori. San Paolo non faceva così.

E quel caso è stato quel 18 aprile che ha sconfitto insieme ai tuoi torti anche le tue ragioni. È solo perché ho avuto la disgrazia di vincere che…

Mi piego, Pipetta, a soffrire con te delle ingiustizie. Ma credi, mi piego con ripugnanza. Lascia che te lo dica a te solo. Che me ne sarebbe importato a me della tua miseria?

Se vincevi te, credimi Pipetta, io non sarei più stato dalla tua. Ti manca il pane? Che vuoi che me ne importasse a me, quando avevo la coscienza pulita di non averne più di te, che vuoi che me ne importasse a me che vorrei parlarti solo di quell'altro Pane che tu dal giorno che tornasti da prigioniero e venisti colla tua mamma a prenderlo non m'hai più chiesto.

Pipetta, tutto passa. Per chi muore piagato sull'uscio dei ricchi, di là c'è il Pane di Dio.

È solo questo che il mio Signore m'aveva detto di dirti. È la storia che mi s'è buttata contro, è il 18 aprile che ha guastato tutto, è stato il vincere la mia grande sconfitta.

Ora che il ricco t'ha vinto col mio aiuto mi tocca dirti che hai ragione, mi tocca scendere accanto a te a combattere il ricco.

Ma non me lo dire per questo, Pipetta, ch'io sono l'unico prete a posto. Tu credi di farmi piacere. E invece strofini sale sulla mia ferita.

E se la storia non mi si fosse buttata contro, se il 18… non m'avresti mai veduto scendere là in basso, a combattere i ricchi.

Hai ragione, sì, hai ragione, tra te e i ricchi sarai sempre te povero a aver ragione.

Anche quando avrai il torto di impugnare le armi ti darò ragione.

Ma come è poca parola questa che tu m'hai fatto dire. Come è poco capace di aprirti il Paradiso questa frase giusta che tu m'hai fatto dire. Pipetta, fratello, quando per ogni tua miseria io patirò due miserie, quando per ogni tua sconfitta io patirò due sconfitte, Pipetta quel giorno, lascia che te lo dica subito, io non ti dirò più come dico ora: «Hai ragione». Quel giorno finalmente potrò riaprire la bocca all'unico grido di vittoria degno d'un sacerdote di Cristo: «Pipetta hai torto. Beati i poveri perché il Regno dei Cieli è loro».

Ma il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò.

Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso. 
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