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giovedì 27 giugno 2013

XIII Domenica del Tempo Ordinario


Dal primo libro dei Re (1Re 19,16.19-21)

In quei giorni, il Signore disse a Elìa: «Ungerai Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecolà, come profeta al tuo posto». Partito di lì, Elìa trovò Eliseo, figlio di Safat. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo. Elìa, passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello. Quello lasciò i buoi e corse dietro a Elìa, dicendogli: «Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò». Elìa disse: «Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te». Allontanatosi da lui, Eliseo prese un paio di buoi e li uccise; con la legna del giogo dei buoi fece cuocere la carne e la diede al popolo, perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì Elìa, entrando al suo servizio.

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati (Gal 5,1.13-18)

Fratelli, Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso». Ma se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri! Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 9,51-62)

Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio. Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio». Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».

 

Le letture che la Chiesa ci propone in questa Tredicesima Domenica del Tempo Ordinario, sono molto dense: seguire tutti gli spunti di riflessione che esse suscitano è impossibile in breve tempo (ci vuole una vita!), ma rintracciare in qualche modo un punto prospettico è invece più fattibile, soprattutto grazie alla felice associazione dei brani scelti dalla Liturgia.

La seconda lettura, infatti, contiene un’espressione talmente esplosiva, da risultare sintetica forse dell’intero NT, sicuramente dei testi odierni. Paolo infatti scrive: «Tutta la Legge trova la sua pienezza in un solo precetto: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”», dove ciò che interessa di più non è tanto “ciò che c’è” (che magari ad una prima veloce lettura non avevamo neanche notato, tanto è “scontato” nel cristianesimo l’amore al prossimo), quanto “ciò che non c’è”. Manca infatti la prima parte del duplice comandamento dell’amore, che invece – solitamente – è sempre ricordato (cfr. Mt 22,36-40: «“Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?”. Gli rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”»): manca cioè il richiamo all’amore per Dio…

Indubbiamente non si tratta di un cambiamento di prospettiva di Paolo rispetto a Gesù (quasi che Paolo volesse correggere Gesù) e certamente è necessario contestualizzare l’affermazione paolina (collocata in una lettera – quella ai Galati – dove i problemi comunitari iniziavano a farsi sentire con veemenza), ma rimane il fatto che l’Apostolo sottolinei volutamente – per un ebreo come lui non si può infatti pensare ad una dimenticanza – come, la sintesi di tutta la Legge, coincida esattamente con l’amore per il prossimo.

E in questo non è certo il solo, né nella tradizione cristiana, né nel NT stesso; Giovanni infatti al capitolo 13, versetto 34, riporta questa frase di Gesù: «Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri»; ribadendo il concetto al capitolo 15, versetti 12-13: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici»; e nella sua prima lettera: «Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20)…

Anche Santa Teresa di Gesù – dottore della Chiesa – 1500 anni dopo si ritrova sulla stessa lunghezza d’onda, quando, nel Castello interiore, scrive: «Per noi la volontà di Dio non consiste che in due cose: nell’amore di Dio e nell’amore del prossimo [5M 3,7]. Il segno più sicuro per conoscere se pratichiamo questi due precetti è vedere con quale perfezione osserviamo quello che riguarda il prossimo. Benché vi siano molti indizi per conoscere se amiamo Dio, tuttavia non possiamo mai esserne sicuri, mentre lo possiamo essere quanto all’amore del prossimo. Anzi, più vi vedrete innanzi nell’amore del prossimo, più lo sarete anche nell’amore di Dio: statene sicure. Ci ama tanto Dio, che in ricompensa dell’amore che avremo per il prossimo, farà crescere in noi, per via di mille espedienti, anche quello che nutriamo per Lui. E di ciò non v’è dubbio [5M 3,8]».

Fino ad arrivare ai giorni nostri, quando un biblista come P. Pezzoli in AaVv., Scuola della Parola 2002, Diocesi di Bergamo, commenta Gv 13,31-35 dicendo: «è interessante anche un altro aspetto di questo comandamento: “Così come io vi ho amato, amatevi gli uni gli altri”. Secondo una certa logica, avrebbe dovuto dire: “Così come io vi ho amato, voi amate me”. L’amore di Dio scende su di noi, ma il movimento inverso non è quello di risalire, bensì il diffondersi nel mondo. Certo, poi la risposta ha sempre una dimensione verticale, ma il Nuovo Testamento è molto parco nel parlare di amore nostro per Dio»…

In questo senso trova luce anche il vangelo di Luca, quando – di fronte ai discepoli così appassionati nella difesa del loro Signore («Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?») – Gesù riporta “in squadra” il loro errore di parallasse: «Si voltò e li rimproverò»! Con la tristezza, forse, di chi proprio non si sente capito: perché “seguire” Lui, “difendere” Lui non può che voler dire difendere l’altro, il prossimo, chiunque si imbatta sulla nostra strada, foss’anche samaritano, oppositore, nemico.

«Le reazioni dei discepoli – invece – continuano a nutrirsi della logica mondana di competizione per l’affermazione dell’io personale e collettivo – con le inevitabili conseguenze di conflitto violento… con i concorrenti… (Maestro, abbiamo visto un tale scacciare i demoni in tuo nome … e glielo abbiamo impedito, perché non è dei nostri!” 49). La comunità (la chiesa) fa ancor più fatica del singolo a rinnegarsi, a farsi piccola, a dare la precedenza… perché pensa addirittura che sia giusto affermare il proprio potere e la propria grandezza con il pretesto della missione ricevuta… Ma la chiesa non è il centro o il fondamento di sé stessa : “nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già si trova, che è Gesù Cristo stesso” (1 Cor 3,11) e questi crocifisso (1 Cor 1,23; 2,2). Il centro della chiesa è sempre fuori di lei, perché Gesù, uscito dal Padre, è sempre dono “fuori di sé”… Discepolo è colui che accetta e resiste – cioè si schiera … con questo volto umile e rifiutato, vincendo la tentazione sempre rinascente di farsene un proprio potere, monopolizzando la salvezza – ed escludendo chi non si sottomette! Mentre l’amore di Gesù, presto o tardi, non può che rivelarsi come impotenza disarmata – pane offerto alla fame della gente. Il fuoco che lui porta non è quello che distrugge, ma quello che toglie il peccato del mondo, assumendosene il peso sulle proprie spalle… Solo Dio è davvero mosso da viscere di misericordia per l’uomo e vuole salvarlo… I discepoli vogliono salvare anzitutto se stessi…» [Giuliano].

Quanto è vera anche quest’oggi – per noi, per me, per ciascuno – questa fatica a mettersi davvero “dietro” a un Signore così, che – per amore dell’altro, per la preferenza della faccia dell’altro, per la custodia del volto dell’altro – non concede spazi alla ricerca dell’affermazione del nostro “io”… che invece in noi – continuamente e in molti modi (gratificazioni, potere, ricchezze… essere al centro, aver ragione, riuscire…) – torna a rispuntare, mai domi – come siamo – di fronte ad un Signore che di sé dice: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo», dove ciò che è indicata come la vera identità di Gesù «non è semplicemente la povertà, né semplicemente la fatica di una vita pellegrinante, ma l’insicurezza e la precarietà» [B. Maggioni, il racconto di Luca]. Insicurezza e precarietà di cui invece noi abbiamo terribilmente paura – incapaci – di far nostro ciò che Lui sostituisce alla nostra affannosa ricerca della sicurezza nel possesso, che è l’incondizionata fiducia nel Padre…

 

Chissà se arriveremo mai a far nostre le parole di De Andrè, quando dice: «Non ci sono poteri buoni» e «Il potere io l’ho scagliato dalle mani»!




 

«Ecco, comunque, le istruzioni per non soccombere e prepararsi, almeno, alle insidie del viaggio di fede nella nostra povera storia:

1.      … quando gli dici: “ti seguirò dovunque tu vada”, sappi che non andrai in nessun posto… (adesso sappiamo che, a seguirlo, non vedremo gratificazioni, né potere, né ricchezze… e neanche un posto dove sbatter la testa. Perciò sappiamo che lo tradiremo! Perché noi, e la nostra chiesa, tutte queste cose continuiamo a cercarle lo stesso, rinnegando il maestro!)

2.      … ma il Signore, ostinato, ribadisce: “seguimi!”: non spegnerti nel passato, dove i morti accudiscono solo morti… annuncia e coltiva i germogli vivi del Regno, guardando avanti con i tuoi fratelli e sorelle, che vogliono vivere…» [Giuliano].

3.      … con la preziosa associazione del testo di 1Re 19 – dove Elia permette ad Eliseo di andare a salutare quelli di casa – a ricordarci che, pure queste “istruzioni” se diventano rigidi moralismi fondamentalisti, ricadono nella logica di tradimento del Maestro… per il quale nulla è mai stato più importante che la faccia di quello che aveva davanti (e dietro… e nascosto… e perso chissà dove…).

martedì 18 giugno 2013

XII Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Zaccarìa (Zc 12,10-11;13,1)

Così dice il Signore: «Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito. In quel giorno grande sarà il lamento a Gerusalemme, simile al lamento di Adad-Rimmon nella pianura di Meghiddo. In quel giorno vi sarà per la casa di Davide e per gli abitanti di Gerusalemme una sorgente zampillante per lavare il peccato e l’impurità».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati (Gal 3,26-29)

Fratelli, tutti voi siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 9,18-24)

Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: «Le folle, chi dicono che io sia?». Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa; altri uno degli antichi profeti che è risorto». Allora domandò loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose: «Il Cristo di Dio». Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno. «Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno». Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà».

 

Il brano di vangelo che la Chiesa ci propone per questa Dodicesima Domenica del Tempo Ordinario è un brano molto noto, anche perché presente in tutti e tre i sinottici. In tutti, in qualche modo, è presentato come un momento fondamentale (un momento di svolta) nella vita di Gesù: in essi è infatti raccontata – resa narrazione – la problematica di Gesù rispetto al suo impatto sugli altri (sulla gente, prima; sui suoi, poi). Dopo cioè che ha iniziato la sua vita pubblica (battesimo nel Giordano, 40 giorni nel deserto), dopo che ha iniziato a predicare il Regno di Dio (con parabole e con i segni della liberazione dal male), dopo che ha iniziato a raccogliere intorno a sé diversa gente (discepoli e folle), dopo che ha iniziato a suscitare le prime resistenze nel potere costituito, ora è il momento del fermarsi un attimo a guardare… cosa la gente ha capito di lui… cosa pensa… cosa vede…

E al di là della risposta, talmente conosciuta da poter essere citata a memoria da molti («Giovanni il Battista; altri dicono Elìa; altri uno degli antichi profeti che è risorto»), e sulla quale potremmo fare anche varie considerazioni (per esempio quella di Bruno Maggioni nel suo Il racconto di Luca: «L’errore della gente è di pretendere di capire Gesù confrontandolo con le figure del passato già conosciute. È questa una strada inadeguata. La strada giusta è sforzarsi di capire Gesù partendo da lui stesso, da quanto dice e fa. I confronti si potranno fare, ma solo dopo. E si capirà che Gesù non rinnega il passato, ma è oltre»), ciò che veramente merita attenzione – o per lo meno ha suscitato la mia – è il fatto che Gesù senta come il bisogno di “misurare” la comprensione che gli altri hanno di lui. A dire che allora forse una visione un po’ troppo frettolosa e riduttiva di un Gesù che non vive un’autentica drammatica umana (perché tanto sapeva già tutto, perché tanto era Dio, perché tanto muore ma sa che poi risorge, ecc…) non è certo in consonanza col testo evangelico… Dal quale piuttosto emerge come sia vero ciò che diciamo ogni domenica nel Credo: «Si è fatto uomo», che non si riferisce solo al momento puntuale dell’incarnazione (di cui per altro il Credo ha già parlato: «Si è incarnato e si è fatto uomo»), ma anche al lento percorso che l’ha portato a prendere consapevolezza della sua identità e a decidersi per essa (come due film, per altri versi criticabili, mostrano invece molto bene: I giardini dell’Eden di D’Alatri e L’ultima tentazione di Cristo di Scorsese). E in questo senso quanto sia contato anche il confronto con la vita altrui (emblematico in questo senso il brano della donna siro-feinicia, Mt 15,26 e paralleli: la donna che ha fatto cambiare idea al Figlio di Dio!). Come a dire che nemmeno Gesù si è tirato fuori da quella dinamica che, molto più laicamente, Povia ha descritto nella sua canzone I bambini fanno oh, quando dice che «senza qualcuno nessuno può diventare un uomo».

E i “qualcuno” con cui Gesù è diventato un uomo, in questo brano (e nei versetti seguenti) sono come chiamati a raccolta: la gente (che di lui dice: “è un profeta”), il discepolo (“è il messia”), il Padre (“il Figlio del Padre”)… E dentro a questo gioco di rimandi e rispecchiamenti, la sua parola su di sé: «Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno».

 

La “voce” che “manca” – oggi – è quella del lettore, è la nostra, è la mia. Dove l’importanza di dire una parola su chi sia Gesù per noi – se è vero quanto detto finora – non va solo nel senso di rispondere noi – per noi – a questa domanda (nell’unico senso cioè per cui dire chi è lui, è importante perché ci fa contemporaneamente anche dire chi siamo noi), ma anche in quello di far sì che lui possa essere sé; esattamente come un padre è padre, quando ha un figlio che lo riconosce tale; un marito è marito, quando ha una moglie, ecc… Quasi che non solo ci sia chiesto di cogliere l’importanza di Dio nella nostra vita, ma anche l’importanza nostra nella sua.

Perché se è vero che l’amore è amore anche quando non è corrisposto (e cioè che Dio resta Dio anche quando non è riconosciuto, così come un padre resta padre anche quando il figlio lo rifiuta, e un innamorato resta innamorato anche quando non è corrisposto e comunque il suo amore è sensato perché umanizza lui per primo) è altrettanto vero che la pienezza della relazione si ha in una reciprocità e corrispondenza, con tutte le gradualità e fragilità che essa può avere.

Ecco perché allora è importante, di fronte ad un vangelo come questo, fermarci un attimo anche noi – dopo che abbiamo già vissuto un pezzo della nostra vita e della nostra relazione col Signore – a chiederci “Chi dico che lui sia?”, “Chi dico che lui sia se mi fermo un attimo a rifletterci / pregarci su?”, “Chi dico che lui sia con la vita che conduco?” e infine: “Cosa / Chi lo sto facendo essere?”.

E inevitabilmente la risposta non può essere totalmente avulsa da quanto lui dice di se stesso… o meglio: può esserlo, ma con l’onestà di fondo di “parlare per aria”, senza alcun criterio orientativo. Mentre, per quanto resti il problema di una non fruibilità immediata della persona di Gesù, delle vie di accesso percorribili a lui ci sono e sono quelle che il NT stesso e poi la tradizione della Chiesa presentano ai cristiani di tutti i tempi: la Parola di Dio (e in particolare i vangeli, come ricorda DV 18: «A nessuno sfugge che tra tutte le Scritture, anche quelle del Nuovo Testamento, i Vangeli possiedono una superiorità meritata, in quanto costituiscono la principale testimonianza relativa alla vita del Verbo incarnato»), i sacramenti (e in particolare l’eucaristia, come ci ricorda la LG 11, per cui il «sacrificio eucaristico [è] fonte e apice di tutta la vita cristiana»), i volti degli altri (in particolare i poveri, come dice Paolo, che mentre fa il resoconto del suo incontro con gli apostoli, si premura di annotare: «Ci pregarono soltanto di ricordarci dei poveri, ed è quello che mi sono preoccupato di fare», Gal 2,10).

È allora dentro a queste vie d’accesso (insostituibili e non aggirabili) valide per tutti che deve trovare fondamento la risposta di ciascuno, che sarà comunque – appunto – “per ciascuno la sua” e non invece una posizione omologabile; perché appunto dentro ci (si) gioca la libertà singolarissima di ogni individuo, che agli occhi di Dio, benché non sia l’unico è però sempre unico.

martedì 11 giugno 2013

XI Domenica del Tempo Ordinario (C)


Dal secondo libro di Samuèle (2Sam 12,7-10.13)

In quei giorni, Natan disse a Davide: «Così dice il Signore, Dio d’Israele: Io ti ho unto re d’Israele e ti ho liberato dalle mani di Saul, ti ho dato la casa del tuo padrone e ho messo nelle tue braccia le donne del tuo padrone, ti ho dato la casa d’Israele e di Giuda e, se questo fosse troppo poco, io vi aggiungerei anche altro. Perché dunque hai disprezzato la parola del Signore, facendo ciò che è male ai suoi occhi? Tu hai colpito di spada Urìa l’Ittìta, hai preso in moglie la moglie sua e lo hai ucciso con la spada degli Ammonìti. Ebbene, la spada non si allontanerà mai dalla tua casa, poiché tu mi hai disprezzato e hai preso in moglie la moglie di Urìa l’Ittìta». Allora Davide disse a Natan: «Ho peccato contro il Signore!». Natan rispose a Davide: «Il Signore ha rimosso il tuo peccato: tu non morirai».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati (Gal 2,16.19-21)

Fratelli, sapendo che l’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno. In realtà mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me. Dunque non rendo vana la grazia di Dio; infatti, se la giustificazione viene dalla Legge, Cristo è morto invano.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 7,36-8,3)

In quel tempo, uno dei farisei invitò Gesù a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo. Vedendo questo, il fariseo che l’aveva invitato disse tra sé: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!». Gesù allora gli disse: «Simone, ho da dirti qualcosa». Ed egli rispose: «Di’ pure, maestro». «Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. Non avendo essi di che restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi di loro dunque lo amerà di più?». Simone rispose: «Suppongo sia colui al quale ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene». E, volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non hai unto con olio il mio capo; lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo. Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco». Poi disse a lei: «I tuoi peccati sono perdonati». Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è costui che perdona anche i peccati?». Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!». In seguito egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni.

 

«… ecco una donna, con un vaso di profumo…

 … dove ha trovato questo coraggio, di sfidare un pubblico ‘perbene’ ed entrare già con l’intenzione di inondare Gesù della sua tenerezza? Perché questo, ovviamente, era il suo tormento: trovare qualcuno che si lasci davvero amare, curare e accudire, ma non a pagamento… Cercare qualcuno cui donarsi davvero “gratis”, per amore. È la sua unica possibilità di sapere che qualcuno la ama! Chissà quali parole o gesti di Gesù le hanno infuso questa fiducia di essere accolta e poter osare una libertà che sbalordisce il padrone di casa – e conquista la “scandalosa” connivenza di Gesù. E’ la prima persona veramente libera che Gesù incontra. Ha sperimentato in qualche modo che Gesù, a differenza di tutti gli altri, invece che schiacciarle addosso la pietra tombale del suo disgraziato mestiere, l’avrebbe accolta e amata, con tale fiducia e condiscendenza, da lasciarsi amare da lei con tutti i “sensi” dell’anima e del corpo… E proprio su questo Gesù richiama l’attenzione (vedi questa donna?), enumerando di nuovo i suoi gesti di tenerezza appassionata: con gli occhi (con lacrime irrorò i miei piedi); con i capelli (li asciugò); con le labbra (non smise di baciare i miei piedi!); con le mani (di profumo unse i miei piedi)  … Lacrime e baci, carezze e capelli, profumo e contatto della pelle … che impregnano di sensualità amante i suoi piedi, lui tutto, … e l’intera casa. Le sono perdonati i molti suoi peccati perché ha molto amato!».

Giuliano

Ho voluto iniziare la riflessione sulle letture (bellissime!) di questa Undicesima Domenica del tempo ordinario con un pezzo significativo della lectio di Giuliano di sei anni fa… perché mi pare “metta lì” proprio bene quella che chiamerei l’ “icona” di questa donna, se “icona” non suonasse alle nostre orecchie occidentali come qualcosa di meramente simbolico, nel senso debole che si dà a questa parola oggi… “Icona” e “simbolo” sono invece parole forti, parole in cui non solo è evocata o rimandata una realtà, ma in cui essa è significata davvero. In questo senso la donna che Luca ci presenta in questo suo settimo capitolo è realmente icona, perché in lei si convogliano le esperienze storiche di tante donne di tanti tempi (oserei dire: di tutte le donne di tutti i tempi), ma non in una maniera che rende stereotipa, evanescente, meramente esemplificativa la sua vicenda: la sua storia, la sua esperienza, la sua relazione a Gesù è la sua… eppure è così vera che – avendo intercettato le coordinate fondamentali del suo essere donna – intercetta contemporaneamente quelle di ognidonna:

-  Il bisogno di una visibilità pubblica dell’unicità del proprio amore;

-  La “necessità” di sciogliersi in un’intimità che non ha ombre né paure;

-  La condiscendenza dell’altro, «certezza di “indovinare”, questa volta, come amare».

- 

L’essere cioè guardata senza essere violentata, da quell’unico sguardo che permette di farsi vedere davvero, nella propria intimità più intima, senza dover costruire maschere, accettare etichette, fare continuamente i conti col “non essere come l’altro ti vuole/vorrebbe”… senza dover fare l’amore per soddisfare «le carezze di un animale» (De Andrè) o per ricatto o «per avercelo garantito» (De Andrè).

 

E questa qui è l’icona a cui Gesù chiede di guardare: «vedi questa donna?».

È dentro a questo specchio qui che il cristiano si deve guardare… Perché di fronte a quello che qui è raccontato (nel vangelo!!!) crollano tante (tutte?) le impalcature che ci siamo preconfezionati per scansare sempre – almeno un attimo prima – questo sguardo o l’intimità della gente… che così abbandoniamo e tradiamo veramente, rifugiandoci nelle nostre liturgie, nei nostri dogmi, nelle nostre banalissime pacche sulle spalle… senza mai entrare nei drammi veri della gente che ci vive accanto, nei suoi abissi, nelle sue disumanizzazioni… che anche noi – come figli di questo mondo – abbiamo contribuito a creare, o a rilanciare, o ad ignorare…

 

Quanta troppa poca gente rimandiamo in pace… come chiesa, come cristiani, come persone singole, impastate delle stesse paure e fragilità degli altri, dei loro stessi tradimenti e infedeltà, schifezze e meschinità, dimentichi che se appariamo solo po’ più bravini, lucidi, solidi, integerrimi, forti, è solo perché siamo dei privilegiati tra i derelitti della storia, ancora convinti che è per le nostre buone opere che siamo così (giusti!!?!?)… e non perché a noi è stata fatta una carezza e agli altri no; e non perché noi abbiamo da mangiare (tutti i cibi di cui si sazia l’uomo: pane, affetto, un tetto, un’istruzione, …) e gli altri no… Con una mentalità ancora anticotestamentaria per cui l’elezione (mia) è a scapito della non-elezione (di qualcun altro)… come se il nostro privilegio fosse un premio per le nostre opere buone e la loro dannazione (in terra) fosse figlia delle loro opere cattive (dei loro peccati, della loro ottusità, della loro malvagità o sfrenatezza)… Diceva un amico (il biblista Luca Moscatelli) in proposito: di fronte al mandato «tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16,19) dovremmo avere un sussulto di gioia perché a noi è dato di “sciogliere” tutti… e non dovremmo far altro che vivere per rimandare in pace la gente… e invece abbiamo fatto anche di questo un potere… sciogliendo qualcuno e non sciogliendo qualcun altro abbiamo inserito una discriminazione, su cui fondare il nostro potere…

 
Ecco… è il volto di dio che fonda questa discriminante (perché lui discriminatorio per primo) che Gesù – per tutta la sua vita e la sua morte – ha voluto distruggere… per rivelare l’unico vero Dio, l’Abbà suo… e nostro… che si tiene lì tra le sue braccia una prostituta (resa tale dagli uomini, come è di ogni donna) perché lui ci vede solo una “piccola” da pacificare – inglobandola nella sua tenerezza.

martedì 4 giugno 2013

X Domenica del Tempo Ordinario


Dal primo libro dei Re (1Re 17,17-24)

In quei giorni, il figlio della padrona di casa, [la vedova di Sarepta di Sidòne,] si ammalò. La sua malattia si aggravò tanto che egli cessò di respirare. Allora lei disse a Elìa: «Che cosa c’è fra me e te, o uomo di Dio? Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia colpa e per far morire mio figlio?».

Elia le disse: «Dammi tuo figlio». Glielo prese dal seno, lo portò nella stanza superiore, dove abitava, e lo stese sul letto. Quindi invocò il Signore: «Signore, mio Dio, vuoi fare del male anche a questa vedova che mi ospita, tanto da farle morire il figlio?». Si distese tre volte sul bambino e invocò il Signore: «Signore, mio Dio, la vita di questo bambino torni nel suo corpo».

Il Signore ascoltò la voce di Elìa; la vita del bambino tornò nel suo corpo e quegli riprese a vivere. Elìa prese il bambino, lo portò giù nella casa dalla stanza superiore e lo consegnò alla madre. Elìa disse: «Guarda! Tuo figlio vive». La donna disse a Elìa: «Ora so veramente che tu sei uomo di Dio e che la parola del Signore nella tua bocca è verità».

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati (Gal 1,11-19)

Vi dichiaro, fratelli, che il Vangelo da me annunciato non segue un modello umano; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo.

Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo: perseguitavo ferocemente la Chiesa di Dio e la devastavo, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri.

Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti, subito, senza chiedere consiglio a nessuno, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco.

In seguito, tre anni dopo, salii a Gerusalemme per andare a conoscere Cefa e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore.

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 7,11-17)

In quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla.

Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei.

Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre.

Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo».

Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante.

 

Con questa Decima Domenica del Tempo Ordinario, riprende – anche per la liturgia domenicale – il Tempo Ordinario vero e proprio. È finito il tempo delle grandi feste su cui ci siamo soffermati in queste ultime settimane e il testo che la Chiesa ci propone è la seconda parte del capitolo 7 del vangelo di Luca, il vangelo di riferimento per questo anno C.

Lo avevamo lasciato, prima della Quaresima, al capitolo 5con l’episodio della pesca miracolosa, uno dei primi segni della vita pubblica di Gesù, che Luca aveva iniziato a raccontare nei capitoli 3 e 4 (con il trittico sinottico: predicazione di Giovanni, battesimo di Gesù e tentazioni nel deserto; con Gesù a Nazaret e le prime liberazioni dal male). Poi appunto i capitoli 5 e 6, con la pesca miracolosa, cui fa seguito la chiamata dei primi discepoli; altre liberazioni dal male e i primi insegnamenti (con il discorso della montagna, nella versione di Luca, che colloca le beatitudini e le altre parole di Gesù “in pianura” e che quindi si dovrebbe chiamare “il discorso della pianura”…).

Si approda poi al capitolo 7, i cui primi 10 versetti narrano la guarigione del servo del centurione a Cafarnao e la lode per la fede di questo pagano.

È proprio a questo punto che è inserito il testo odierno.

Siamo a Nain, un villaggio a sud-est di Nazaret: siamo perciò sempre in Galilea. Ricordo infatti che il vangelo di Luca è organizzato in questo modo: fino al capitolo 9 c’è una sorta di presentazione della missione/identità di Gesù in Galilea, cui fa seguito la seconda parte del testo, inaugurata dalla decisione di Gesù di dirigersi a Gerusalemme.

Siamo dunque ancora nella prima parte del Terzo vangelo, quella che – in qualche modo – dicevamo – nell’intenzione dell’autore – ha lo scopo di presentare chi è Gesù di Nazaret, figlio di Adamo, figlio di Dio.

Il nostro brano è particolarmente significativo perché – dopo la narrazione di diverse liberazioni dal male (l’uomo posseduto da un demonio impuro, Lc 4,31; la suocera di Pietro, Lc 4,38; il lebbroso, Lc 5,12; il paralitico, Lc 5,17; l’uomo dalla mano paralizzata, Lc 6,6; il servo del centuriore, Lc 7,1) – qui per la prima volta Gesù riporta in vita una persona morta: il figlio unico di una donna vedova.

Nei vangeli sono solo 3 gli episodi che narrano questo tipo di liberazione dal male, dal male radicale che è la morte: il figlio della vedova di Nain, la figlia di Giairo (Lc 8,40), l’amico Lazzaro (di cui parlerà Giovanni).

Non è un episodio totalmente inaudito: come ci ricorda la prima lettura, la Scrittura faceva memoria della rianimazione di un altro figlio unico di una donna vedova, per opera del profeta Elia a Sarepta di Sidone. Tant’è vero che proprio ad un profeta viene paragonato Gesù dalla folla che assiste a questo suo richiamare in vita il giovinetto di Nain: «Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: “Un grande profeta è sorto tra noi”».

Certo però, indubbiamente, questo tipo di liberazione dal male ha echi particolari in noi… In gioco c’è la questione cruciale della vita e della morte. Del potere sulla morte. Della vittoria sulla morte.

Forse anche per questo, i testi evangelici, che raccontano nel loro insieme più di 30 miracoli, ne riferiscono solo 3 di questo tipo.

Ma andiamo con ordine.

Innanzitutto, come magistralmente annota Pagola nel suo Gesù: «Quel che maggiormente differenzia Gesù da altri guaritori è il fatto che, per lui, le guarigioni non sono fatti isolati, ma fanno parte della sua proclamazione del regno di Dio. È il suo modo di annunciare a tutti questa grande notizia: Dio viene, e i più sventurati possono già sperimentare il suo amore compassionevole. Queste sorprendenti guarigioni sono un segno umile, ma reale, di un mondo nuovo: il mondo che Dio vuole per tutti».

Dunque “gesti”, “segni” non estemporanei rispetto alla sua identità e alla sua missione di far vedere che faccia ha Dio: non a caso il testo lucano tratteggia questa rianimazione del ragazzetto di Nain con particolare cura nel mostrare contemporaneamente alla narrazione dei fatti, anche i tratti del volto di colui che li compie. Chi legge questo testo in qualche misura vede come è fatto Gesù, chi è Gesù (e dunque chi è Dio): Gesù arriva a Nain, insieme ai suoi discepoli e a una gran folla. Probabilmente l’atmosfera è quella dell’allegra convivialità (siamo ancora nella fase della vita di Gesù in cui l’indice di gradimento della gente nei suoi confronti è alto), del vociare, camminando insieme. Vicino alla porta della città però, la “comitiva” si imbatte in un funerale. Sulla scena cala un velo di silenzio, di tristezza, di rispetto per la sofferenza altrui. È la medesima esperienza che abbiamo fatto molte volte anche noi in vita, quando – la morte che riguardava qualcun altro – s’impatta con la nostra tranquilla quotidianità.

Qui l’esperienza non è quella di quando la morte ce l’hai in casa tu (più simile a questa situazione sarà l’episodio di Lazzaro); qui la situazione è quella di chi viene a sapere che il figlio di un amico di un amico è morto di tumore, di chi tornando a casa contento perché ha comprato la macchina nuova incrocia un funerale, di chi non riesce mai ad avere il cuore in pace perché sa che qualcuno, nemmeno troppo lontano da lui, sa che il suo amato deve morire. È la morte che ha in casa qualcun altro che – chissà perché? – raggiunge anche noi, che siamo in quella parte di mondo che rispetto a quelli in lutto, devono “portare avanti il mondo”, perché “la vita va avanti”, perché a noi non si è fermato il respiro come a quelli che il morto ce l’hanno in casa.

Il funerale in cui si imbatte Gesù, poi, è particolarmente straziante: è il funerale di un ragazzino (come quei tanti che non siamo riusciti a portare avanti con noi nella vita, ma che si sono fermati prima) e dietro alla sua bara c’è la sua mamma sola (perché il suo papà era già morto anche lui), anche se circondata da tanta gente.

Gesù la vede. Vede lei, non il funerale, o la bara, o la gente. Vede questa mamma, questa donna, di cui il testo non riferisce null’altro se non la sua disgrazia: nel testo ella coincide con la sua disgrazia. E come potrebbe essere diverso? E quante volte noi di questo ci lamentiamo? Quante volte ci lamentiamo di quei fratelli o sorelle che non sanno non coincidere con le loro disgrazie? E vorremmo che reagissero, che vedessero altro, oltre… Forse perché abbiamo solo paura che abbiamo ragione loro a identificarsi con la loro disperazione… atteggiamento che noi, forti delle nostre finte sicurezze, non abbiamo il coraggio di incarnare.

Gesù poi le parla. Le dice: «Non piangere». Che è una frase terribile. Che bisognerebbe farsi soffocare in bocca ogni volta che ci viene alle labbra: non piangere!?! Come “non piangere”? Come ci permettiamo di dirla (io l’ho detta stamattina!) dal di fuori di quel dolore? Cosa vogliamo fare? Chiedere a chi soffre di far finta di non soffrire per non tirar dentro anche noi nella sua disperazione?

Perché Gesù si permette di dirla?

Perché appena prima e appena dopo averla pronunciata fa 2 cose che cambiano totalmente la sua posizione (interiore ed esteriore): «fu preso da grande compassione» e «si avvicinò».

Ecco chi è colui che sta per rianimare il ragazzino: colui che di fronte alla disperazione altrui non mette uno schermo per non farsene invadere l’anima, ma la lascia entrare tutta («fu preso da grande compassione», vuol dire che patisce dentro quello che sta patendo lei) senza scappare («si avvicinò»). Gesù è colui che non scappa mai… Dio è colui che non scappa mai…

Ma non è tutto, perché dopo aver toccato la bara – altro gesto bellissimo (che di per sé, nell’economia del racconto della rianimazione poteva anche non esserci, visto che poi è con la voce che Gesù richiama in vita il fanciullo, e invece c’è… perché appunto non si tratta della cronistoria di un evento prodigioso, ma del tratteggiare il volto di Dio) – si dice che «glielo restituì». Altra bellissima immagine. Tolto alla morte, per essere restituito alla vita, nelle mani della matrice della sua vita.

Ecco che allora la folla dice: «Dio ha visitato il suo popolo». In quell’uomo che fa quei gesti, che dice quelle parole, che dice chi è, facendo quei gesti e quelle parole, la gente riconosce il volto di Dio.

Luca ha centrato il suo obiettivo: attraverso le sue parole, ci ha riconsegnato il volto di Dio: che non è quello del potente che fa prodigi, addirittura richiamando in vita i morti… ma è colui che non scappa di fronte alla disperazione (senza senso e senza consolazione) degli uomini e agisce sempre e solo per liberare dal male. Mai per infliggerlo. E in questo suo modo di essere è più forte della morte.

È questo l’annuncio che ci è consegnato nelle mani, non privo del modo in cui è stato annunciato nella vita di Gesù e poi nelle parole dei suoi evangelisti: non si possono cioè solo dire cose su Dio, come troppo spesso noi cristiani facciamo… non si può solo dire un insieme di verità… ma il volto di quel Dio va tratteggiato nella vita, con la vita… provando anche noi a farci invadere l’anima dalle sofferenze altrui, senza scappare. Che – sia detto tra parentesi – è possibile solo quando con la gente ci vivi insieme anche quando non è in lutto: perché non ci si inventa fratelli, solo quando c’è da dire il funerale.

 

Non possiamo ridare figli… ma raccogliere brandelli di carne umana straziata dal dolore, riconsegnando briciole di vita sì. Testimoniando fino allo spasimo, che non è Dio che ci porta via i figli!
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