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venerdì 27 settembre 2013

XXVI Domenica del Tempo Ordinario (C)


Dal libro del profeta Amos (Am 6,1.4-7)

Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria! Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla. Canterellano al suono dell’arpa, come Davide improvvisano su strumenti musicali; bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano. Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo (1Tm 6,11-16)

Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni. Davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, che al tempo stabilito sarà a noi mostrata da Dio, il beato e unico Sovrano, il Re dei re e Signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità e abita una luce inaccessibile: nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo. A lui onore e potenza per sempre. Amen.

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 16,19-31)

In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

La parabola del vangelo di Luca che la Chiesa ci propone in questa Ventiseiesima Domenica del Tempo Ordinario, è una di quelle che merita una spiegazione previa. Infatti il riferimento al povero Lazzaro «portato dagli angeli accanto ad Abramo» e al ricco epulone che stava «negli inferi fra i tormenti […] lontano», ci porta subito a pensare a quelli che noi abitualmente chiamiamo “paradiso” e “inferno” e rischia di farci fraintendere il tutto.

Sentendo infatti parlare di aldilà, di inferno e paradiso, di angeli e di tormenti, il contesto culturale cattolico in cui siamo immersi da quando nasciamo e cresciamo, fa scattare come un meccanismo automatico per cui non ascoltiamo più cosa dice davvero la parabola, ma ci fissiamo sul “già noto”, sulla necessità di comportarsi bene per “meritarsi” il paradiso, sull’imperativo di evitare il male per non finire all’inferno, identificando con “l’essere buoni” o “l’essere cattivi” qualcosa che da sempre ci dicono: una rigorosità morale in ambito sessuale, una puntualità legalistica nella partecipazione alle celebrazioni sacre, un ricordo (anche materiale) per i più poveri, ecc…

Questa prospettiva però – che probabilmente ha avuto una sua ragion d’essere in passato – oggi risulta un po’ riduttiva: ciò che infatti all’uomo odierno non risulta chiaro è il perché (o se volete il per chi) di tutti questi moniti e accorgimenti. In una società in cui l’aldilà non è più dato per scontato – come invece avveniva un tempo – la grande preoccupazione dei più infatti è molto più legata al “come tirare a campare nell’aldiqua” piuttosto che al come porsi per l’aldilà.

Questa prospettiva, che forse qualcuno giudicherà di cattivo auspicio, sottolineando come si sia persa la tensione per l’infinito, l’eterno, la cura dell’anima, ecc., in realtà ha la sua buona dose di bontà nella misura in cui arriva forse a cogliere meglio la prospettiva autentica con cui Gesù intendeva la parabola.

La preoccupazione di Gesù infatti – ad una lettura scevra dai nostri preconcetti sul paradiso e sull’inferno – non è affatto quella di delineare un’escatologia: qui Gesù non sta dicendo che c’è l’inferno, che è fatto in un determinato modo, che alcune tipologie di persone sicuramente ci finiranno… La sua preoccupazione è per la vita nell’aldiqua!

Certo, per descrivere il regno dei morti, usa la cultura del suo tempo, facendo riferimento agli inferi e agli angeli, ma con lo scopo di parlare della storia di questo nostro mondo, non di quell’altro.

È come se, a partire dalla prospettiva finale della vita di ciascuno, provasse a illuminarne il percorso, fissando quindi l’interesse non sulla meta, ma sul cammino da fare: come un regista, che a partire dall’idea di “lieto fine” che vuol dare al suo film, pensa a come raccontarne la trama…

Questo va detto, perché altrimenti le parole del vangelo di questa domenica (che – come vedremo – non sono per niente scontate rispetto alla nostra idea di aldilà e aldiqua), rischiano di scivolarci via senza nemmeno interpellarci, perché tanto – pensiamo – dell’escatologia cristiana sappiamo già tutto: sappiamo dell’inferno in cui vanno i cattivi, del paradiso in cui vanno i buoni, del purgatorio per i “così così” e di cosa si deve o non si deve fare per arrivarci.

E allora proviamo a far lo sforzo di lasciar da parte tutto quanto “già sappiamo” e di andare a leggere bene quel che dice Gesù.

La parabola appare divisa in tre parti:

1-      Nella prima è descritta la vita di «un uomo» che «era ricco» («indossava vestiti di porpora e di lino finissimo e ogni giorno si dava a lauti banchetti») e la vita di «un povero di nome Lazzaro» («stava alla sua porta [alla porta dell’uomo ricco], coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; anche i cani venivano a leccare le sue ferite»).

2-      Nella seconda – a mo’ di capovolgimento – è raccontata la morte di questi due uomini e la fine che fanno (ricordo che questa “fine” che fanno è all’interno del linguaggio parabolico, cioè di una finzione letteraria. Non si tratta della descrizione di Gesù di come è fatto il mondo dopo la morte). Tale “fine” indica implicitamente un giudizio sul primo quadro, cioè sulla vita che i due hanno vissuto da vivi.

Del povero si dice che «morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo». Del secondo che «morì e fu sepolto».

Il v. 23 fa da collegamento tra il II e il III quadro, quello del dialogo tra il ricco e Abramo.

Infatti dice: «Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro nel seno di lui». Per introdurre letterariamente il dialogo tra il ricco e Abramo viene dunque specificato che il ricco, che «morì e fu sepolto», discese agli inferi e lì vide Abramo (con Lazzaro), verso il quale si rivolge.

3-      La terza parte è infatti interamente occupata dal dialogo tra il ricco e Abramo, articolato in 3 botta e risposta, che analizzeremo in seguito.

Ciò che colpisce della prima e della seconda parte è la mancanza di riferimenti morali riguardanti la vita dei protagonisti: non si dice che il ricco fosse malvagio, né che il povero Lazzaro fosse buono. Si dice solo che l’uno «indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti» e che l’altro «stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe».

Certo, qualcuno potrebbe obiettare che la colpa del ricco sta nel fatto che durante tutta la sua vita non ha fatto nulla per questo povero (non gli ha fatto l’elemosina!), pur sapendo della sua esistenza (era proprio lì, fuori da casa sua), ma in tutta la parabola non si fa cenno a questa colpa; perfino quando Gesù mette in bocca ad Abramo le parole di spiegazione per il ricco della situazione in cui si viene a trovare dopo morto («Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti») non v’è riferimento alcuno alla “mancata elemosina” o al fatto che il problema stia nel non essersi accorto e preso cura del povero seduto alla sua porta.

La questione quindi non sembra essere morale. Il ricco è nei tormenti non perché è cattivo, ma perché è ricco. E il povero è con Abramo, non perché era buono (non si sa, stando al testo!), ma perché era povero.

Questa è la paradossalità della parabola.

Ma prima di riprendere questa paradossalità – affrontando la III parte della parabola – un’annotazione sul versetto gancio tra le prime due parti e l’ultima. I versetti 22-23 contengono 3 parole, che messe una in fila all’altra, fanno un po’ sussultare: “morì”, “fu sepolto”, “negli inferi” (nell’Ade – termine usato solo qui e un’altra volta in Apocalisse, in tutto il NT)… che – se qualcuno ha in mente il Credo apostolico, sono le medesime parole che si riferiscono a Gesù: «morì e fu sepolto. Discese agli inferi»…

Ma torniamo alla parabola. La terza parte – dicevamo – è costituita dal dialogo (fittizio) tra il ricco e Abramo.

Il ricco prende la parola per primo, rivolgendo al padre dei credenti una richiesta gridata: «Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma». Il versetto (24) è interessante perché – al di là della connotazione scenografica “infernale”, che – lo ripetiamo – non va presa alla lettera come fosse una descrizione della realtà del dopo morte – funge da interpellazione (è cioè l’escamotage per attivare il dialogo) e perché mostra una punta polemica: il ricco – sentendo come parla – è un ebreo e nella finzione parabolica è, da morto, nei tormenti: il che vuol dire che l’essere ebrei non è garanzia di salvezza. Il criterio per il giudizio della vita nell’aldiqua sta altrove.

Questo “altrove” pare delinearsi nella risposta di Abramo: «Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti». Come si accennava in precedenza, non vi è alcun riferimento morale che Abramo pone a giustificazione della diversa collocazione di Lazzaro e del ricco… Sembra quasi che questo versetto 25 metta in luce un freddo e asettico contrappasso: ricchezza nell’aldiqua / tormenti nell’aldilà – povertà nell’aldiqua / consolazione nell’aldilà. Situazione accentuata dalle parole del v. 26, che dice la definitività di questa situazione: «Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi».

La questione sembra dunque tornare ad intrecciarsi con quella della settimana scorsa: il problema non è l’uso della ricchezza, ma l’intrinseca ingiustizia della ricchezza: è la ricchezza in sé che fa problema, non solo tutto ciò che vi è correlato.

La parabola dunque a mio parere non può essere ridotta ad un mero invito ad un corretto uso delle proprie ricchezze, ad un’esortazione ad accorgersi e ricordarsi (anche materialmente) dei poveri che ci sono nel mondo, ma va assunta come messa in discussione della propria realtà personale (e l’economia è indubbiamente uno dei pilastri centrali della vita di ciascuno): non tanto stigmatizzando un “tipo” umano tutto preso dal solo e avido interesse per l’accumulo di soldi e ricchezze, mai identificabile con me medesimo e perciò in grado di “farmi sentire apposto” dicendo: “Certo, io ho delle ricchezze, però non vivo solo per i soldi come quello lì e quello là. Ne faccio poi comunque buon uso, faccio anche donazioni per i poveri, sono generoso con gli amici e comunque non sono attaccato al denaro”.

Qua la questione è più radicale: Gesù – come in diversi altri passi («Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio», Lc 6,20; «Il giovane se ne andò, triste; possedeva infatti molte ricchezze», Mt 19,22; «Non potete servire Dio e la ricchezza», Mt 6,24; «la seduzione della ricchezza soffoca la Parola ed essa non dà frutto», Mt 13,22; «è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio», Mt 19,24) – respinge da sé ciò che fra gli uomini è esaltato (cfr. Lc 16,15), proprio come Mosè e i Profeti cui la parabola rimanda nelle sue ultime due articolazioni.

La ricchezza è dunque abominevole, cioè – letteralmente – da respingere.

Questo è il messaggio duro (direi, la mazzata) che ci arriva in questa domenica. Ci sarebbe da spiegare il perché… ma la parabola non lo dice… forse perché vuole che la botta arrivi, forte, senza possibilità di annacquarla immediatamente con le nostre infinite buone ragioni.

lunedì 16 settembre 2013

XXV Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Amos (Am 8,4-7)

Il Signore mi disse: «Ascoltate questo, voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese, voi che dite: “Quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano? E il sabato, perché si possa smerciare il frumento, diminuendo l’efa e aumentando il siclo e usando bilance false, per comprare con denaro gli indigenti e il povero per un paio di sandali? Venderemo anche lo scarto del grano”». Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe: «Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere».

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo (1Tm 2,1-8)

Figlio mio, raccomando, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio. Questa è cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza egli l’ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto messaggero e apostolo – dico la verità, non mentisco –, maestro dei pagani nella fede e nella verità. Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza contese.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 16,1-13)

In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.

1- Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.

2- Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?

3- Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

 

Il vangelo che la Chiesa ci propone in questa Venticinquesima Domenica del Tempo Ordinario, è uno di quei testi che va letto diverse volte, prima che riesca a convincere di essere davvero tratto dal Nuovo Testamento – «fatevi degli amici con la ricchezza disonesta» (?!?) – e prima che si colga bene quel che vuole arrivare a dire: la spiegazione della parabola sembra infatti continuamente correggersi… in principio c’è una lode per l’amministratore disonesto («Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza»), ma subito sembra che egli sia da far rientrare nella categoria dei “figli di questo mondo” in opposizione ai “figli della luce” («I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce»); vi è poi l’invito sconcertante «fatevi degli amici con la ricchezza disonesta», seguito però subito da un’affermazione che pare screditare la disonestà: «Chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

Per cercare di chiarire un po’ i termini della questione, va innanzitutto detto che il testo va diviso in due parti: c’è la parabola propriamente detta, che termina al v. 8, seguita da 3 detti (come si vede dalla divisione del testo), di cui solo il I sembra strettamente legato alla parabola, mentre gli altri due sembrano posti qui quasi per assonanza gergale o tematica.

Iniziamo con la parabola, chiarendo alcuni termini che – tradotti in maniera più precisa dal greco – possono dare un’intonazione diversa al testo.

Innanzitutto il verbo “sperperare” riportato nel primo versetto come motivo d’accusa contro l’amministratore. Il termine “sperperare/dilapidare”, ricorre nel NT solo altre 4 volte:

-          In Lc 15,13: «Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto»;

-          In Mc 14,27: «Gesù disse loro: «Tutti rimarrete scandalizzati, perché sta scritto: Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse»;

-          In Gv 11,51-52: «Questo però non lo disse da se stesso, ma, essendo sommo sacerdote quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi»;

-          E in At 5,37: «Dopo di lui sorse Giuda il Galileo, al tempo del censimento, e indusse gente a seguirlo, ma anche lui finì male, e quelli che si erano lasciati persuadere da lui si dispersero».

C’è dunque – nel significato del verbo – un’eco che ha a che vedere con la dispersione. Esattamente come il figliol prodigo, questo amministratore ha dunque disperso i beni del suo padrone.

Anch’egli – come il figliol prodigo (parabola, che a mio giudizio, non a caso è immediatamente precedente a questa) – è come costretto a fare i conti con la sua scelta di immergersi nella storia, negli affari della vita: quello per fame, questo perché licenziato dal padrone. Per entrambi c’è come un impatto con la storia che li costringe a uscire dal quotidiano svolgersi della loro vita. Entrambi sono costretti – dalla situazione – a ragionare (di entrambi è raccontato cosa andavano pensando tra sé e sé) e a decidersi.

Entrambe le loro decisioni incontrano un inaspettato (e scandaloso?) esito positivo: il figliol prodigo può sperimentare l’amore del padre (per il suo ritorno, scandalosamente determinato dalla fame, non da altro), l’amministratore può addirittura sperimentare la lode del suo padrone (per l’essere stato “avveduto”, amministrando scandalosamente in maniera ancora più “dispersiva” i beni del padrone).

Ho scritto “avveduto” e non “scaltro” perché il termine greco è proprio quello: «Il padrone lodò l’amministratore ingiusto perché aveva fatto avvedutamente; poiché i figli di questo mondo sono più avveduti dei figli della luce». Dove questo “avveduti” indica contemporaneamente la lucidità di avvertire la gravità della situazione, la prontezza nel cercare soluzioni, il coraggio di prendere decisioni.

Non a caso il termine è l’esatto contrario dell’aggettivo attribuito ad un altro personaggio di un’altra parabola di Luca, chiamato “stolto” per aver accumulato senza tener conto che quella notte stessa sarebbe morto (cfr. Lc 12,20).

Il centro della parabola è dunque questa avvedutezza, che si determina nella ricerca di qualcuno che lo possa accogliere in casa sua – dice la parabola – di “amici” – come dirà il primo detto: «Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne».

Il problema – a mio avviso – non è dunque tanto morale (come usare delle ricchezze?), ma esistenziale: come collocarsi nell’esistenza? Pare dire Gesù: creando relazioni di amicizia, di domesticità… coltivando terreni (del cuore) capaci di accoglierci… di accoglierci così tanto che – dice il primo detto – quando sarà ora di morire, troveremo là – sotto alle tende eterne del Padre – qualcuno che ci riconosce e che picchia dentro col gomito al Signore (che intanto si sta dicendo: “Io questo mica lo conosco”, cfr. Mt 25,13) e gli dice: “Quello lo conosco io!...

… una volta mi ha tolto un pezzo di debito… o … una volta l’ho preso in casa perché era stato licenziato!”.

Una duplicità che il vangelo suggerisce, questa del dare e del ricevere… in maniera per nulla gratuita…

Che – perlomeno a me – rinfranca un po’ il cuore… sempre un po’ disperso nel tentativo di amori “puri”, “inequivocabilmente gratuiti”, “affrancati dalla necessità del contraccambio”, “capaci di dedizione unilaterale”…

Che sono cose “sacre” a cui il vangelo ci richiama, ma che se diventano il nostro ideale di perfezione (perché – ancora una volta – emerga il nostro “io”), perdono di umanità e terrestrità… come ogni altro ideale di perfezione (sacrale, moralistico, spiritualistico, ecc…).

Mi sembra molto più nella prospettiva evangelica invece riconoscerci sempre impastoiati di necessità e convenienza (in tutti i nostri amori) – mai assoluti, dicevamo settimana scorsa, sempre storici – e contemporaneamente sempre capaci – in questa marasma che sono i nostri tentativi relazionali, fatti di emozioni, chimica, umori, ideali, tabù, confini – di quella gratuità che arriva anche a dare la vita. Sempre insieme, contemporaneamente, l’una e l’altra cosa: come si vede bene nella figura del poliziotto nel film Magnolia, per chi l’ha visto.

 

Infine gli altri due detti, che ruotano intorno al termine “mammona”. Una parola che ha avuto molta fortuna rispetto a quanto poco è presente nel NT: solo 4 volte (3 nel brano evangelico odierno e 1 nel parallelo di Mt 6,24).

Ma la cosa più curiosa è una possibile etimologia di questo termine, che pare avere la stessa radice di “amen”. Mammona sarebbe perciò ciò verso cui si ha fede, ciò verso cui si pone la propria fiducia, la propria sicurezza… invece che nel Dio, Padre di Gesù e nostro.

Così anche il II detto trova una sua spiegazione: perché il termine aramaico “mammona” viene reso in greco con la medesima radice del termine “fedeli”, cosicché si creerebbe – nel II detto – una sorta di gioco di parole, a cui il III detto si aggancia.

“Mammona”, quindi, che abitualmente è tradotto con “ricchezza”, starebbe ad indicare – secondo l’etimologia – tutto ciò in cui si pone la propria sicurezza tranne che Dio… e – stando al contesto di Luca in cui questi detti sono inseriti – tranne i nostri tentativi relazionali, lodati da Dio che – guarda caso – nel suo Figlio ci ha insegnato: «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi», riassorbendo nel II comandamento dell’amore, il I.

giovedì 12 settembre 2013

XXIV Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro dell’Èsodo (Es 32,7-11.13-14)

In quei giorni, il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: “Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”». Il Signore disse inoltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo: ecco, è un popolo dalla dura cervìce. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione». Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: «Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente? Ricòrdati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo, e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”». Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo.

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo (1Tm 1,12-17)

Figlio mio, rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna. Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 15,1-32)

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.

Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».

Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

 

Le letture che la Chiesa ci propone per questa Ventiquattresima Domenica del Tempo Ordinario sono molto lunghe e molto dense. Si può dunque solo prendere una pista d’indagine, tra le tante che propongono. Quella che quest’anno mi viene da scegliere riguarda il percorso che Luca ci fa compiere al seguito delle sue tre parabole della misericordia (è l’unico evangelista che le riporta), a fronte di quella che è la situazione dell’uomo di tutti i tempi, quindi anche nostra, ben delineata dal popolo di Israele che – ai piedi del monte Sinai – decide di costruirsi un vitello d’oro.

Nella finzione letteraria pare che Dio se ne abbia a male di fronte a questo popolo, che aveva visto le grandi opere di Dio per lui, e che però senza troppo pensarci su è pronto ad attaccare il cuore ad un dio finto, un idolo, una statua d’oro, «opera delle mani dell’uomo», che come gli idoli delle genti «hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Le loro mani non palpano, i loro piedi non camminano; dalla loro gola non escono suoni!» (Sal 115).

Mosè, invece, guarda il suo popolo con occhi diversi: ricorda a Dio che quegli uomini, incapaci di sostenere una fedeltà, sono il suo popolo… che non può che essere così… spaventato, inconsistente, figlio della viscosità e resistenza della storia, impastato di paure e abissi che gli fanno tremare il cuore… incapace di fiducia in qualcosa che non si tocca… disperso – come tutti noi – nei meandri del giusto/sbagliato, buono/cattivo, utile/inutile… spaesato di fronte alle vicende della vita mai davvero guardabili e “tenibili”…

È così per tutti, per ciascun uomo, sempre troppo coinvolto in ciò che fa, in ciò che gli capita per poter guardare le cose da fuori, tenerle in mano fino in fondo, custodendo una lucidità e un’oggettività priva di rimandi al vissuto, al patito, al deciso, all’inconscio, scavatoglisi dentro chissà quando, chissà dove, chissà come.

Nessuno di noi può evincersi dalla storia, dalla sua storia e pensare di avere reazioni, di porre scelte, di determinarsi evincendo da essa…

Tante volte abbiamo la presunzione di farlo, di essere assoluti (ab-soluti = slegati) dalla storia che ci abita la pelle… Tante volte le filosofie (anche religiose), le istituzioni (anche religiose), le istanze (anche religiose) ci chiedono di farlo, di essere “tutti d’un pezzo”… ma è come negare all’uomo di essere uomo, cioè storico.

E tutti i nostri tentativi – di fatti – vanno a finire come i castelli di sabbia distrutti dai piedi dei bambini… come il vitello del popolo di Israele, come il progetto del figlio minore della parabola o come quello di verso opposto, ma di medesima direzione del figlio maggiore. Tutti dispersi – dietro alla propria finta sicurezza – come la pecora e la moneta. Tutti col sedere a terra.

Questa è la realtà dell’umano, incapaci strutturalmente – per natura direbbero gli antichi – di porre qualcosa di assoluto, di definitivo, di non reinterpretabile, non travisabile, non corruttibile.

Di fronte a questa presa di coscienza, istintivamente, ci viene da sentirci in debito, come colpevoli, sempre e comunque inadeguati di fronte a Dio, che, pensiamo, ci vorrebbe diversi, migliori, meno invischiati nelle particelle di terrestrità che ci costituiscono.

In realtà il vangelo odierno ci narra di un Dio, che non pensa ai suoi figli come noi pensiamo ci pensi… Non è un desiderio di Dio il volerci astorici (lui ci ha fatti così, come raccontava il mito antico, impastati di fango e respiro divino – non pensati in antitesi – come la filosofia platonica ci ha insegnato – ma pensati come la cosa più bella che poteva fare - «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona», Gn 1,31; senza contare che lui si è fatto così: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi», Gv 1,14).

È così come siamo, storici, mai assoluti, persi negli interstizi del mondo, che il Signore ci ha pensati… Lì – dice la Parola di Dio – lui ci cerca e ci trova.

È dunque forse ora di smetterla di investire (sprecare) energie, tempo, fatiche per “diventare dei o angeli” sperando di poter così essere con Dio, di poterlo incontrare, trovare, avvicinare… Tanto Lui, non è lì.

Forse è ora di investire energie, tempo e fatiche per “diventare uomini”, per “restare uomini”, per “essere uomini”, immischiati con il sudore, il fango, il sangue, le lacrime, la carne, la storia… con una certezza nel cuore: ovunque ci saremo dis-persi, sciolti, mescolati Lui c’è; perché lì ci cerca e lì ci trova… Come un pastore con la sua pecorella, come una donna con la sua moneta, come un padre con il suo figlio…

Così – dice Luca – avviene l’incontro col Signore… accettando di essere non-dei, non-angeli, ma uomini e in questo riconosciuti come figli… come fa il padre della parabola, che riconosce in quello scapestrato che torna da lui per fame, non certo per pentimento, suo figlio. Se da lontano avesse avvistato un etereo angelo o uno snaturato semidio non vi avrebbe riconosciuto la faccia del suo.

In chiusura allora, le parole di una canzone di Vecchioni, che a me piace molto e che mi pare si addica a quanto andiamo pensando… Nei suoi versi, l’Autore decide di lasciare dio (il dio che abbiamo in testa noi, però, quello che pensiamo ci voglia non-uomini)… per essere uomo… ma solo così si fa trovare da Dio:

C'è un solo vaso di gerani / dove si ferma il treno, / e un unico lampione / che si spegne se lo guardi, / e il più delle volte / non c'è ad aspettarti nessuno, / perché è sempre troppo presto / o troppo tardi. / - Non scendere - mi dici, / - continua con me questo viaggio! - / e così sono lieto di apprendere / che hai fatto il cielo / e milioni di stelle inutili / come un messaggio, / per dimostrarmi che esisti, / che ci sei davvero: / ma vedi, il problema non è / che tu ci sia o non ci sia: / il problema è la mia vita / quando non sarà più la mia, / confusa in un abbraccio senza fine, / persa nella luce tua sublime, / per ringraziarti non so di cosa e perché // Lasciami / questo sogno disperato / di esser uomo, / lasciami / quest'orgoglio smisurato / di esser solo un uomo: / perdonami, Signore, / ma io scendo qua, / alla stazione di Zima. // Alla stazione di Zima / qualche volta c'è il sole: / e allora usciamo tutti a guardarlo, / e a tutti viene in mente che / cantiamo la stessa canzone / con altre parole, / e che ci facciamo male / perché non ci capiamo niente. // E il tempo non s'innamora due volte / di uno stesso uomo; / abbiamo la consistenza lieve delle foglie: / ma ci teniamo la notte, per mano, / stretti fino all'abbandono, / per non morire da soli / quando il vento ci coglie: / perché vedi, l'importante non è / che tu ci sia o non ci sia: / l'importante è la mia vita / finché sarà la mia: / con te, Signore / è tutto così grande, / così spaventosamente grande, / che non è mio, non fa per me // Guardami, / io so amare soltanto / come un uomo: / guardami, / a malapena ti sento, / e tu sai dove sono... / ti aspetto qui, Signore, / quando ti va, alla stazione di Zima.

martedì 3 settembre 2013

XXIII Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro della Sapienza (Sap 9,13-18)

Quale, uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore? I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni. A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo? Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito? Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra; gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito e furono salvati per mezzo della sapienza».

Dalla lettera a Filèmone (Fm 1,9-10.12-17)

Carissimo, ti esorto, io, Paolo, così come sono, vecchio, e ora anche prigioniero di Cristo Gesù. Ti prego per Onèsimo, figlio mio, che ho generato nelle catene. Te lo rimando, lui che mi sta tanto a cuore. Avrei voluto tenerlo con me perché mi assistesse al posto tuo, ora che sono in catene per il Vangelo. Ma non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario. Per questo forse è stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore. Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso.

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 14,25-33)

In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».

 

Le letture che la Chiesa ci offre in questa Ventitreesima Domenica del Tempo ordinario, sono tutte molto interessanti e – ciascuna a suo modo – davvero capaci di smuovere le viscere della nostra pancia, anche se ad un prima scorsa non appare immediato il filo conduttore che le lega.

Soprattutto, un po’ slegato dai brani della Sapienza e del vangelo, appare il testo di Paolo a Filèmone – come è giusto che sia, dato che la prassi liturgica tende sempre ad associare la prima lettura col vangelo e proporre altri spunti di riflessione attraverso le lettere paoline e non. Eppure su queste poche righe – che fanno sì che questa lettera propriamente non sia nemmeno ricordata come una lettera, ma come un “biglietto” – non si può soprassedere a cuor leggero, perché – forse proprio per il suo contesto così particolare («Il biglietto indirizzato da Paolo a Filèmone è sostanzialmente una lettera di raccomandazione. Uno schiavo di nome Onèsimo, fuggito dal padrone Filèmone, incontra Paolo che sta in prigione; l’apostolo gli annuncia il Vangelo e lo rimanda al suo padrone con un breve scritto», La sacra Bibbia, nuova traduzione CEI) – lascia emergere un tratto della personalità di Paolo che in altri scritti resta più in ombra: frasi come «Ti prego per Onèsimo, figlio mio», «lui che mi sta tanto a cuore», «Avrei voluto tenerlo con me», «come fratello carissimo, in primo luogo per me», insieme al fatto che decida di non “scavalcare” Filèmone, avendone pure in qualche modo il diritto come apostolo, ma dicendogli addirittura «non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario», lasciano trasparire il modo in cui Paolo intendeva il rapporto fra fratelli (fra cristiani, cioè fra discepoli – seppur della seconda ora – di Gesù) e alcuni dei pilastri su cui esso si fondava: l’amore, inteso nel suo senso forte di farsi carico del destino altrui; la corresponsabilità… “pilastri” che – forse – anche noi, come singoli e come Chiesa, dovremmo una volta per tutte deciderci a scegliere come elementi fondanti le nostre relazioni, ancora spesso così incastrate invece in inutili pacche sulle spalle o in un “ricordiamoci nella preghiera”, cui non fa seguito il coinvolgersi nella sorte dell’altro, l’abitare la sua solitudine, il considerare i “suoi” problemi come i “nostri” problemi… per non parlare della corresponsabilità…

E credo che proprio a questo livello (quello cioè del chiedersi “Che cosa nella nostra vita di singoli e di Chiesa abbiamo deciso di scegliere?” – dunque: “Chi abbiamo deciso di essere?”), possiamo lasciarci interrogare dalla riflessione che il libro della Sapienza e il vangelo di Luca istituiscono.

La prima lettura, infatti, in termini incredibilmente vicini alla sensibilità dei nostri giorni, va a toccare proprio il nocciolo duro del pensare umano: «Quale, uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore? […] A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo?»; che – in termini più laici – potremmo forse tradurre così: “Quale uomo può afferrare la verità della vita? Il suo senso? Io, come posso afferrarla? Cosa devo fare? Come voglio spendermi? Per cosa vale la pena farlo? Per cosa, che non mi si sgretoli in mano come un castello di carte sul letto di morte? Chi devo essere? Chi voglio essere?”…

Ecco il punto centrale… di Paolo, della Sapienza, di Gesù… Il rapporto col Signore non è come iscriversi al club della vela… in gioco c’è qualcosa di decisivo, c’è un impresa da compiere, che potremmo verbalizzare nella domanda: “Chi abbiamo deciso di essere?” E: “Su quale base?” – domanda forse ancora più importante, perché invera o falsifica la prima… “Su quale base?” se è così evidente che «Questa sapienza, sempre ambita dall’uomo, è biblicamente irraggiungibile se non è lo stesso spirito di Dio dall’alto, a spiegarci cosa Dio stesso (non le nostre proiezioni su di lui) vuole veramente» [Giuliano]: «Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?». Nessuno! Appunto… perché non c’è progetto umano (su sé, sugli altri, sul mondo, su dio…) che tenga, se costruito a partire da sé, perché «i ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni»… perché l’uomo non è assoluto… “ab-solutus”, sciolto da tutto: dalla storia, dalla carne, dalla «faticosa e fragilissima elaborazione del pensiero nella refrattarietà della materia», dalle «cornici culturali di lettura e interpretazione della realtà, che incapsulano il pensiero in una tenda invalicabile, più che le pareti di argilla di un vaso» [Giuliano].

“Per fortuna”, “ad un certo punto”… a Dio è venuto in mente di farsi conoscere lui, di rivelarci lui la sua identità (di Padre) che contemporaneamente svelava la nostra (di figli)… così che – come recita la mai troppo citata DV2 – «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2 Pt 1,4). Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto. La profonda verità, poi, che questa Rivelazione manifesta su Dio e sulla salvezza degli uomini, risplende per noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione».

Da allora la “base”, su cui decidere chi essere, non può essere che quella «misurata e collaudata sull’avventura umana di Gesù» [Giuliano]!

Da questo punto di vista, il brano di vangelo di Luca che la Chiesa ci propone questa domenica, è davvero emblematico, perché tratta esplicitamente del «criterio evangelico di maturazione del discepolo (“se uno viene dietro di me!”): Nel suo viaggio verso Gerusalemme, Gesù è seguito da “molte folle” di aspiranti discepoli, ancora inconsapevoli del senso e della meta del viaggio. In questo percorso verso la sua fine, ha già spiegato in vari modi la sua identità. Ora si gira verso la gente, e proclama in modo estremamente crudo e sintetico in cosa consiste questa sapienza dall’alto! Non è una dottrina, ma un atteggiamento globale verso la vita, che si può imparare perseguendo, nel contesto della propria storia, la presenza del Padre, divenuta visibile in Gesù. In lui, infatti, finalmente, “possiamo immaginare cosa vuole il Signore”, “possiamo conoscere la sua volontà”, perché Dio si è reso visibile in Gesù di Nazareth» [Giuliano].

«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo»… «chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo»…

Ecco qual è per Gesù il criterio “crudo e sintetico” dell’essere discepoli, cioè del decidere chi essere: andare dietro a lui, cioè incarnare la sua logica, tenere il suo sguardo (sulle cose, sulla gente, su se stessi, su Dio), vivere la sua dedizione… anche quando questo vuol dire incontrarsi o scontrarsi con prospettive di altro tipo – fossero anche quelle di chi amiamo di più (padre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle e perfino la nostra vita; quest’ultima sicuramente la più dura da “contra-stare”) – anche quando questo vuol dire rimanere soli…

È in questi “momenti topici” della nostra vita – quando appunto siamo soli, quando non ci sentiamo capiti, quando siamo ritenuti “folli” dai “nostri” – che radicalmente ci è chiesto di scegliere chi essere (per lui o contro di lui), ma non perché la nostra vita sia segnata da gesti eroici, ma perché quei momenti misurano quanto la nostra quotidianità sia stata istruente per fronteggiare anche momenti così decisivi. È la quotidianità della dedizione infatti che ci insegna «per progressiva modifica dell’atteggiamento profondo di fronte alla vita» [Giuliano] ad avere una tenuta (che “tiene” appunto) anche nei momenti dove il nostro dramma storico si fa più tagliente.

È stato così anche per Gesù, che non è sfuggito dal Getzemani, ma è salito in croce, non perché lì si è “improvvisato eroe”, “è riuscito nell’impresa”, ma perché per tutta la vita che ha preceduto quel momento, aveva abilitato se stesso alla dinamica della consegna (si era predisposto all’impresa: «Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace»).

Oppure – prendendo la questione per un altro verso, non alternativo, ma in circolarità con questo: le “situazioni limite” in cui amare di più lui, di tutto il resto, non sono “situazioni limite” perché disomogenee alla quotidianità, ma perché segnalano in maniera evidente quello che è sempre all’opera nella quotidianità, e cioè che c’è una scelta su chi vogliamo essere perennemente presente nelle piccole e apparentemente insignificanti decisioni e modi di essere quotidiani… sono come punti luce che illuminano il prima e il dopo: ogni attimo della vita ha infatti in sé la caratura pregnante del custodire la decisione su di sé. In ogni scelta, modo di essere, di reagire, di sentire c’è in gioco il “chi stiamo decidendo di essere”… così che se è vero che nella riflessione decidiamo chi essere e nella quotidianità lo attuiamo (o tentiamo di farlo) è anche vero che vivendo l’ordinarietà della vita costruiamo il “chi vogliamo essere”, a cui poi nei momenti di riflessione diamo un contorno più consapevolizzato.

Per questo non c’è preghiera senza vita e non c’è vita senza preghiera, perché è in questa circolarità di azione e riflessione, di pratica e di teoria, di atto e di consapevolizzazione dell’atto, che costruiamo il “chi vogliamo essere”, in un processo che – inevitabilmente – è storico, cioè si fa, facendolo… dietro a lui.
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