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sabato 28 dicembre 2013

Santa Famiglia 2013


Dal libro del Siracide (Sir 3,2-6.12-14)

Il Signore ha glorificato il padre al di sopra dei figli e ha stabilito il diritto della madre sulla prole. Chi onora il padre espia i peccati; chi onora la madre è come chi accumula tesori. Chi onora il padre avrà gioia dai propri figli e sarà esaudito nel giorno della sua preghiera. Chi glorifica il padre vivrà a lungo; chi obbedisce al Signore darà consolazione alla madre. Figlio, soccorri tuo padre nella vecchiaia, non contristarlo durante la sua vita. Sii indulgente, anche se perde il senno e non disprezzarlo, mentre tu sei nel pieno vigore. L’opera buona verso il padre non sarà dimenticata, otterrà il perdono dei peccati.

Dalla lettera di Paolo apostolo ai Colossesi (Col 3,12-21)

Fratelli, scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E rendete grazie! La parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza. Con ogni sapienza istruitevi e ammonitevi a vicenda con salmi, inni e canti ispirati. E qualunque cosa facciate, in parole e in opere, tutto avvenga nel nome del Signore Gesù, rendendo grazie per mezzo di lui a Dio Padre. Voi, mogli, state sottomesse ai mariti, come conviene nel Signore. Voi, mariti, amate le vostre mogli e non trattatele con durezza. Voi, figli, obbedite ai genitori in tutto; ciò è gradito al Signore. Voi, padri, non esasperate i vostri figli, perché non si scoraggino.

Dal vangelo di Matteo (Mt 2,13-15.19-23)

I Magi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo». Giuseppe si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Dall'Egitto ho chiamato mio figlio. Morto Erode, ecco, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nel paese d'Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino». Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d'Israele. Ma, quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelào al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nelle regioni della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nazaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: «Sarà chiamato Nazareno».

La Chiesa in questa prima domenica dopo Natale, celebrando la festa della Santa Famiglia di Gesù, Giuseppe e Maria, ci invita a riflettere sulla narrazione che ne racconta la storia (almeno un pezzettino…). Ma – come testimonia la scelta delle letture, tratte dal Siracide e dalla lettera di Paolo ai Colossesi – l’invito è quello di estendere la riflessione anche alle nostre famiglie…

Partiamo proprio da qui. Infatti mi pare che sia subito da mettere in luce un’indicazione interessante: e cioè il fatto che, sia la prima che la seconda lettura, parlino dei rapporti familiari all’interno di discorsi più ampi, stigmatizzando la vita di coppia o il rapporto con i figli come situazioni emblematiche per la vita. Ne parlano infatti insieme all’altra condizione fondamentale dell’uomo, quella della sua attività (cfr Sir 3,17: «Figlio, nella tua attività sii modesto»), in particolare all’interno del rapporto servo-padrone (cfr Col 3,22: «Voi, servi, siate docili in tutto con i vostri padroni terreni»). Inoltre, in modo esplicito il libro del Siracide introduce il brano dov’è contenuta la lettura di questa domenica con questa frase: «Figli, ascoltatemi, sono vostro padre; agite in modo da essere salvati» (Sir 3,1).

L’orizzonte ampio in cui si collocano le parole sui rapporti genitori-figli è allora quello della salvezza: per essere salvati, sembra dire il Siracide, è necessario che curiate le relazioni di generazione, quelle che toccano l’origine della vostra vita.

Eppure, nonostante l’evocazione di questa pista di riflessione crei notevoli aspettative, di fatto poi, la lettura del testo del Siracide, lascia una certa impressione di delusione... Non tanto per quanto dice... ma soprattutto per quanto non dice:

- si parla di onore al padre e alla madre… indicazione certo inconfutabile, se non fosse che a noi riecheggia subito nelle orecchie quanto cantava De Andrè nel suo Testamento di Tito: «Onora il padre, onora la madre e onora anche il loro bastone, bacia la mano che ruppe il tuo naso perché le chiedevi un boccone: quando a mio padre si fermò il cuore non ho provato dolore». A dire che forse non sempre l’automatismo del comandamento ha una plausibilità storica;

- si parla poi, per chi onora il padre, di esaudimento della preghiera, di gioia dai propri figli, di vita lunga... ma semplicemente noi sappiamo che non è così... basta attraversare un po’ l’umanità e le tragedie che investono la sua storia per rendersene conto: persone che sono state figli esemplari non hanno visto le loro preghiere esaudite, non hanno avuto gioia dai loro figli, non hanno avuto una vita lunga… e chissà cos’altro…;

- si parla di un padre che perde il senno, ma non sono considerate tutte le altre drammatiche situazioni che le nostre famiglie attraversano…

Non credo però ci sia troppo da stupirsi... mi pare infatti che l’intento del Siracide in questi versetti sia semplicemente quello di delineare una buona condotta familiare, contenuta in un testo più generale che vuole dare “consigli per il vivere”, attraversando molti campi esistenziali, senza la pretesa di indagarli nello specifico. E come insegna la buona esegesi, non si può far dire a un testo più di quello che dice.

Da quanto detto quindi mi pare emerga un dato di fatto: se oggi la Chiesa ci chiede di concentrarci sul tema della famiglia, non possiamo farlo limitandoci a proporre banali regole di buon comportamento, abituali pacche sulle spalle che non consolano né incoraggiano più nessuno, aridi discorsi moralistici che non fanno altro che buttare sulle spalle della gente pesi che noi non tocchiamo neanche con un dito (Lc 11,46).

In questo senso è interessante proseguire la nostra riflessione notando che, come il Siracide, che elencava una norma comportamentale per i figli al fine di salvarsi, anche la vicenda del Vangelo parli della necessità di un mettersi in salvo: «I Magi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo”» (Mt 2,13). È ancora più curioso il fatto che, chi deve essere messo in salvo (lui è ancora troppo piccolo per poterlo fare da sé), sia proprio il Salvatore del mondo...

Ma qui, diversamente dal Siracide, in merito alla salvezza non si parla astrattamente di ‘come ci si deve comportare in famiglia’: qui ci è raccontato un pezzetto della storia di una famiglia e del suo ‘immischiamento’ nel fango e nelle fatiche di questo mondo...

Di essa infatti si dice subito che sta tutta dalla parte dei derelitti, di quelli a cui certo non bastano le buone norme comportamentali: questa, di Gesù, Maria e Giuseppe è una famiglia profuga (tra l’altro in Egitto...), povera («non c’era posto per loro nell’albergo»), strana (è infatti una famiglia moralmente incriminabile, come trapela da Mt 1,18-25, che mette in evidenza la tensione di Giuseppe all’idea di avere in moglie una ragazza madre)… è una famiglia che dunque si impone come paradigma non solo per le famiglie “apposto” da un punto di vista giuridico-canonico, ma per tutte le famiglie, anche per quelle che in senso stretto non dovremmo neanche chiamare così: le comunità, le fraternità, le famiglie allargate, le famiglie rimpicciolite, le s-famiglie (per citare un’opera di P. Crepet)… insomma – prendendo il termine in senso lato e ampio – per tutte quelle situazioni umane in cui ci si ritrova almeno in due a tentare di vivere l’accoglienza di Gesù, lasciandosi da lui normare la vita…

Perché seppure le povertà siano diverse, tra miseri, poveri, emarginati, si crea una sorta di solidarietà di base... di sentirsi collocati dalla stessa parte del mondo (quella sbagliata naturalmente)... E allora è davvero consolante leggere che la santa famiglia sta anch’essa da ‘questa parte di qua’: dalla parte delle famiglie profughe, povere, strane... dalla parte delle famiglie che non possono più dirsi famiglie... dalla parte di famiglie in cui manca il padre, la madre, un figlio... dalla parte delle famiglie che preferirebbero non avere quel padre, quella madre, quel figlio... dalla parte di quelle «nuove famiglie che la Chiesa non vede» (come scriveva Aldo Schiavone, sula Repubblica di lunedì 24 dicembre 2007)...

Infatti «… Questa “santa” famiglia è così tanto culturalmente disomogenea ad ogni modello e tanto fuori da ogni misura, proprio per questa divina inabitazione, da contenere ogni famiglia […]. Allora, adesso, ogni luogo d’amore umano che anela ad esser “famigliare”, (ove cioè l’uomo tenta di addestrarsi comunque ad esser uomo), si tratti di famiglia “normale” o incompiuta, legalizzata o emarginata, affranta sotto il peso della condanna ecclesiale o sociale, o da paure e divisioni, peccato o fragilità, sessualità normotipiche o incoative – dentro o al di fuori di ogni frontiera culturale ‑ tutte sono abitate “carnalmente, e per questo ancor più “profeticamente” da Dio stesso … Magari pàgano un amaro tributo alla prima radice carnale, ma possono sempre essere redimibili e salvifiche perché aggrappate alla seconda. Nessuno può più a priori condannarle, ma anzi deve accudirle e custodirle e illuminarle, perché dentro le ferite della tormentata storia biologica, culturale o personale che le ha prodotte, il cristiano sa che c’è sempre, almeno un brandello della “buona notizia di carne” – che è questo “bambino”». Ma «… bisogna forse fermarsi un momento a riflettere per capire come questa ‘unica’ irrepetibile famiglia possa essere significativa per le nostre… se dev’essere in qualche modo il modello della famiglia cristiana, proprio perché è la famiglia di Gesù il Cristo. È una ben strana famiglia, questa, che vive un’avventura umana così eccezionale ed irrepetibile… Una continua sorpresa a se stessa! A leggere il racconto di Matteo, Giuseppe desiderava invece una normalissima famiglia, ma ad ogni momento importante ha un sussulto per un cambio di rotta sconvolgente… Non avrebbe mai “sognato” di vivere un’avventura così. Altri sogni invece lo istradano verso progetti impensabili» [Giuliano].

Progetti, sogni, avventura che come dice bene Paolo son fatti… «di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità», ma soprattutto «di carità/amore, che li unisce tutti»…

Accogliere Gesù, infatti, da bambino e poi da grande e poi da crocifisso e poi come Signore della propria vita, vuol dir proprio questo – alla fine – se ci pensiamo… plasmare il nostro cuore (dentro il miracolo – “diluito” lungo tutta la vita – di con-vertirci a Lui) perché si disponga sempre come “capace” di amare… tutti…

Ciò che infatti alla famiglia di Nazareth sarà chiesto lungo la storia – a Giuseppe con Gesù bambino (un bambino non suo) e poi da grande in particolare a Maria – è rompere i confini della generazione carnale, per aprirsi all’universalità del bene (non a caso Maria è madre sua e madre nostra, cioè di tutti): ella infatti – come si vede bene nei testi che parlano di lei (Mt 12,46-50, Lc 2,33-35, Lc 2,48-51, Gv 2,1-5, Gv 2,12) – vive una tensione che man mano la porterà ad essere non più solo la madre di Gesù – vocazione che “istintivamente” le riusciva bene – ma la madre dell’umanità – vocazione che invece le richiede l’accettazione di una spada che trafigge l’anima… per lei infatti, al seguito di suo figlio, la maternità non si esaurirà più nella custodia – fino alla morte – del proprio figlio… Ma diventerà il modo d’essere di sempre, la modalità di esistenza di fronte a chiunque, il nuovo DNA per stare al mondo: in Gesù “essere madre / essere materni” («tenerezza, bontà, umiltà, mansuetudine, magnanimità, carità/amore») diventerà il modo nuovo di accostarsi a ciascun figlio dell’uomo, a qualsiasi grumo di sangue, a qualsiasi pezzetto di carne umana si incontri nella propria vita. È infatti precisamente quello che chiederà a sua madre quando, sotto la croce (Gv 20,25-27), le affiderà Giovanni, un altro figlio, mentre lui, il suomuore… Questa è la maternità riscritta da Gesù – per niente sdolcinata o sentimentale – che chiede la dilatazione del proprio grembo per farci stare non solo i nostri ma chiunque abbia bisogno di un po’ di spazio, di un po’ di accudimento, di un po’ di casa…

In questo senso tutte le “famiglie sbagliate” che abitano il nostro mondo (a vario titolo ‘maledette’… composte da orfani, figli di separati, di omosessuali, di extracomunitari, di prostitute, di pedofili, di violenti, di carcerati, di malati, di psicolabili...) non sono “fuori dai giochi”, ma anzi anch’esse abilitate a “provare ad amare così” e addirittura – forse – anche più “predisposte” perché loro l’alterità, la stranezza, la diversità che gli altri leggono come estraneità (facendone dei “non nostri”) ce l’hanno in casa… come Maria e Giuseppe!

In proposito vi metto qui sotto, anche un testo scritto da Giuliano per i monasteri (pensati come cantieri antropologici in cui provare a vivere il vangelo), in cui si delinea – a mio parere – un certo modo “evangelico” (appunto!) di esse famiglia, di qualsiasi tipo sia…

 

APPUNTI monastici carmelitani

 

·         Con S. Teresa d’Avila inizia un nuovo progetto umanistico, innestato sul tronco antico del monachesimo carmelitano:

*      Costruire uno spazio esteriore ed interiore ove coinvolgere tutta la persona per sempre, affascinandola al progetto di cambiare la propria vita “spirituale” in amicizia con Dio, attraverso l’umanità di Cristo, entro un gruppo di sorelle amiche!

*      Privilegiando la via dell’esperienza, rispetto alla via intellettuale o pastorale o devozionale o sacrale:

o   Dunque una via accessibile alle donne – monache (del tempo! : cioè accessibile ai laici – anche non colti!)

o   Compatibile con il lavoro manuale (alla portata di gente immersa nelle faccende quotidiane – non chierici)

*      In un laboratorio di libertà: ove poter dedicarsi totalmente (in uno spazio preservato dall’autonomia monastica anche canonica) ad una dinamica evangelica ovviamente disomogenea al contesto circostante – di cui la clausura è la custodia (come presa di distanza in ogni campo: culturale, ecclesiale, fraterna, monastica, economica...) – e il filtro (che lascia entrare solo ciò che serve a questa scelta radicale).

*      Ove tutte le risorse e la passione della persona e della comunità siano rivolte al primato della relazione / dilatazione dell’amore

*      Agevolando l’esperienza ricettiva, la potenza della passività, la significatività della relazione accolta sia nella solitudine e nel silenzio, come nell’intensità della relazione – sonora e amabile, non affatto isolata nè ombrosa:

“l’orazione infatti altro non è che coltivare una relazione di amicizia intrattenendoci frequentemente in solitudine con chi sappiamo che ci ama. E se voi ancora non lo amate (in quanto, affinché l’amore sia vero e l’amicizia durevole, occorrono condizioni di parità,e invece è notorio che la natura di Dio va immune da qualsiasi difetto, mentre la nostra è viziosa sensuale ingrata) - ossia se non riuscite ad amarlo abbastanza, perché lui non è alla pari di voi, per lo meno, constatando quanto vantaggio vi apporti godere la sua amicizia e quanto egli vi ami, ce la farete a sopportare la pena di intrattenervi a lungo con Chi pure è tanto diverso da voi”

[ S. Teresa V,8, 5]

*      Si tratta di imparare a dirsi di no (!) per uscire dalla condizione infantile della paura di perdere l’io: quella che ci impedisce di seguire il Signore:e non ci lascia mai passare da ciò che si è a ciò che non si è (ancora!); infatti:

o   sei ancora lì (stanca) – nel luogo da dove non sei mai partita (purtroppo)

o   vivi (senza gioia) quello che non hai voluto morire

o   sei affamata (senza pace) di quello che non hai voluto mangiare

*      non bastava “congedarsi” da casa – ma bisognava rinchiudersi in una casa – ove:

o   il non / io è accolto in te: tu non vai via, né lo chiudi fuori: lasci lui venire a te

o   sorridi all’intrusione del diverso, all’irruzione del disagio, al protagonismo dell’altro

o   contieni la tracimazione dell’insofferenza (è solo l’io che... ha messo i suoi confini)

*      lasciando invece scavare, dentro di te, il fondo dell’interiorità, per farci stare ognuno e ogni cosa che chiederà uno spazio – è terreno tuo che offri alla dilatazione del Regno:

o   per ospitare l’oltranza, e fare dell’altruità un’attitudine del cuore

o   per uscire da sé – alterarsi o alienarsi un poco

o   rovinare dolcemente i gusti e i significati per simpatizzare con le diversità e le antipatie

o   imparando a gustare le non/esperienze/ il dentro che viene da “fuori”

lunedì 16 dicembre 2013

IV Domenica del Avvento


Dal libro del profeta Isaìa (Is 7,10-14)

In quei giorni, il Signore parlò ad Acaz: «Chiedi per te un segno dal Signore, tuo Dio, dal profondo degli inferi oppure dall’alto». Ma Àcaz rispose: «Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore». Allora Isaìa disse: «Ascoltate, casa di Davide! Non vi basta stancare gli uomini, perché ora vogliate stancare anche il mio Dio? Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele».

Dalla lettera di Paolo apostolo ai Romani (Rm 1,1-7)

Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio – che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore; per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli, per suscitare l’obbedienza della fede in tutte le genti, a gloria del suo nome, e tra queste siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo –, a tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo!

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 1,18-24)

Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa “Dio con noi”. Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.

Ed eccoci giunti all’ultima domenica prima di Natale… Ormai ci siamo… il mistero tanto atteso inizia ad essere intravisto, tant’è che il brano del Vangelo di Matteo che la Chiesaci propone incomincia con la dichiarazione esplicita di che cos’è ciò che stavamo aspettando: «la nascita di Gesù Cristo». Ma ci vien detto di più… infatti non solo è detto il fatto, ma anche il desiderio di volercelo narrare: «Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo». È un incipit davvero promettente… anche liturgicamente parlando: dopo queste settimane di attesa (di Avvento – appunto –), finalmente siamo arrivati a leggere e celebrare la Parola che delinea chiaramente cosa c’era da aspettare… E dunque? Ormai è chiaro che quanto dovevamo aspettare era una nascita…

Ma… leggendo fino in fondo il testo proposto dalla liturgia di questa quarta domenica di Avvento ci rendiamo conto con un sorriso che non è raccontata proprio nessuna nascita… Essa infatti nel Vangelo di Matteo è sì al cap. 1, ma al versetto 25… mentre il testo proclamato in chiesa si ferma al v. 24… Curioso, no? No… il fatto è che siamo vicini… ma non ci siamo ancora… è ancora tempo di attesa (di Avvento – appunto –)… un’attesa che però si fa sempre più carica di aspettativa perché ormai le fila principali del discorso iniziano a snodarsi… ed oggi ci è dato di fare non un passettino qualunque verso il mistero che celebreremo mercoledì, ma quello decisivo… l’ultimo: ben sapendo che “quando si fanno 10 passi verso qualcuno, 9 sono solo la metà”…

Ma allora di cosa è fatto quest’ultimo avvicinamento a Natale, se non c’è la nascita di Gesù, come ci avevano detto (cfr Mt 1,18a)?

Beh… parla di un uomo a cui è successa una cosa strana… una cosa che potremmo delineare con queste parole: a quest’uomo, che si chiamava Giuseppe, è successo di passare dal “rannicchiamento” sui suoi pensieri agli orizzonti ampi apertigli da un incontro speciale…

Si sa, Matteo racconta i fatti dell’infanzia di Gesù dal punto di vista di Giuseppe… a quest’ultimo era stata data in sposa Maria. La procedura matrimoniale ebraica prevedeva 2 fasi: lo scambio del consenso e il trasferimento della sposa nella casa del marito… Ecco… Maria e Giuseppe nel momento che l’evangelista sta descrivendo erano promessi, ma non abitavano ancora insieme.

La sorpresa è che Maria si ritrova incinta… letteralmente «si trovò avente in ventre»… Forse a noi questo ventre riempito, che si ritrova con dentro qualcosa non fa più tanto problema… noi sappiamo già tutto il proseguimento della storia e la sua spiegazione: sappiamo che lì dentro c’è Gesù, che è il Figlio di Dio, che Maria l’ha concepito verginalmente, che c’ha pensato lo Spirito santo… ma proviamo a metterci un po’ nei panni dei protagonisti… nei panni di Giuseppe… forse le cose ci appariranno sotto un altro punto di vista… una prospettiva nuova che potrà aiutare anche la nostra (quella di quelli che sanno già tutto…) a farsi nuovamente istruire… Insomma… Giuseppe si ritrova con un ventre riempito… e il problema c’è… tant’è che sa che Maria potrebbe incorrere nel «pubblico ludibrio», potrebbe essere additata come una donna scandalosa, come una di quelle che ha concepito un figlio fuori dal matrimonio… (e che peccato che i cristiani nel guardare a queste donne non abbiano imparato dalla tenerezza e giustezza di Giuseppe verso la sua Maria)…

Ad ogni modo… Il versetto 19 e la prima parte del 20 ci descrivono quest’uomo contorto nei suoi pensieri, nella preoccupazione sul da farsi, nei giramenti di viscere tra incredulità di fronte all’accaduto, rabbia per un tradimento subito, amore per la sua Maria a cui comunque non vuol far del male: «Giuseppe poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò». Potremmo immaginarlo seduto, con la testa fra le mani, incapace di star fermo, col cervello che gli fuma e il cuore che gli sanguina («mentre stava considerando queste cose»)… ed è facile immaginarselo così… perché è così simile alle tante volte in cui noi ci ritroviamo così… raggomitolati su noi stessi alla ricerca di una via che non troviamo… con quella sensazione di impotenza, incapacità, sfiducia che ci ridona la consapevolezza di essere caduti, ancora una volta, nel circolo vizioso del cane che si morde la coda… E Giuseppe, proprio come noi, alla fine di tutto il suo ragionare, partorisce la sua risoluzione… come l’elefante che partorisce il topolino… infatti la sua è una risoluzione che non può che apparire ed apparirgli come il male minore, il meno peggio… come ogni uomo, nei contorcimenti della vita, non può che trovare espedienti, escogitare risposte in seconda battuta, tamponare la falla… «pensò di ripudiarla in segreto».

Eppure gli rimane, come rimane a noi d’altra parte, la terribile sensazione che era altro quello che dovevamo fare, che la vita aveva promesso altro a noi e a chi ci stava intorno… ma d’altronde che potevamo fare d’altro? Che poteva fare Giuseppe d’altro? «Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”. […] Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa».

Avviene qualcosa… finalmente per Giuseppe arriva l’unica risoluzione che dà gioia, l’unica che aveva sempre sperato di poter realizzare, ma che nel giro di un momento gli era morta in mano: prender con sé la sua sposa! È successo qualcosa in quest’uomo che avevamo lasciato poco fa incurvato sotto il peso dei suoi pensieri e che ritroviamo determinato e quasi felice (il testo non lo dice, ma l’incalzare dei verbi indica che lo scenario – anche interiore – è mutato: c’è dell’aria fresca da respirare ora…).

È successo che mentre sognava gli si è fatto vicino Dio (“un angelo del Signore” nella Bibbia è l’espressione per dire la presenza di Dio) e gli ha sciolto il nodo che aveva in gola «non temere di prendere con te Maria, tua sposa». Gli ha detto di non avere paura a prendere in casa una ragazza madre, gli ha ricordato un’appartenenza promessa e da mantenere (quella ragazza madre è «Maria, tua sposa»), lo ha coinvolto nella vicenda di sua moglie, del figlio di lei, del figlio di Dio… l’ha coinvolto nella vicenda di Dio… che mai infatti – ci insegnerà lo stesso Gesù – si svolge senza l’uomo («ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù»).

E questo incontro speciale ha trasformato Giuseppe… Troppo spesso lo immaginiamo come una figura presto da dimenticare: non fa niente, gli tocca tenere e crescere un figlio non suo, con questa storia dello Spirito santo che fa sorridere i malpensanti, non può stare con sua moglie (che per la Chiesa è vergine prima durante e dopo), a un certo punto della storia sparisce, senza che si sappia più niente di lui… insomma… non pare avere una grande parte nella scena della vita di Gesù…

E invece no! Invece Giuseppe è uno di quegli «amati da Dio e santi per chiamata» di cui parla Paolo nella sua lettera ai Romani: è uno di quelli che attraverso il richiamo a non avere paura (di amare), la fedeltà ad una storia (d’amore) e il coinvolgimento da parte di Dio in una Storia (d’Amore) esce trasformato, convertito, trasfigurato… Giuseppe fa l’esperienza di passare, nell’incontro con Dio, dalla vita mortifera alla Vita vitale. E il suo sollevarsi dal raggomitolamento all’azione («Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa») è rivelazione che quel Dio lì che ha incontrato è il Dio della Vita… Giuseppe è testimone, nella sua carne, che con Gesù si ha a che fare con il Dio che dà vita, che fa fare esperienza di vita…

È interessante che la Chiesaproponga proprio questo testo l’ultima domenica prima di Natale: forse vuole dirci che la disposizione per accogliere questa nascita è il non avere paura di amare, essere fedeli alla storia e lasciarci coinvolgere nella dinamica vitale di Dio? Di quel Dio-con-noi che curiosamente è detto a noi, ma non a Giuseppe…? Matteo infatti mette la citazione di Isaia come suo commento al discorso dell’angelo… le parole «Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi”» non fanno parte del discorso che l’angelo fa a Giuseppe… Giuseppe sa che il figlio che ha in pancia Maria «viene dallo Spirito Santo» e che «egli salverà il suo popolo dai suoi peccati», ma non sa che è l’Emmanuele, cioè non sa che è un Dio che sta dalla parte dell’uomo…

Ma secondo me a lui non l’hanno detto, perché non c’era bisogno: l’aveva già scoperto nella sua carne…

Eppure… non va dimenticato… che anche questa esperienza di Giuseppe non va troppo facilmente risolta nel suo “lieto fine”… anch’esso è testimonianza in piccolo di una dinamica più grande e pervasiva di tutto il vangelo: c’è sempre una drammatica con cui scontrarsi…

Per Giuseppe è la sottrazione della generazione di suo figlio, di cui infatti sarà “solo” il padre legale («Per un momento, nella normale costruzione di un essere umano, è sospeso l’intervento dell’uomo: la donna è invitata a rinunciare al suo umano progetto, e diventa il luogo della parola parlata da Dio», I volti di Eva a cura del Monastero delle carmelitane scalze di Legnano)… dramma simbolico del fatto che quel bimbo porta in sé la drammaticità che cambierà la storia («Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: “Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori”»Lc 2,33-35; «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada», Mt 10,34): anche Maria – che in tutto il racconto di Matteo non dice una parola – dovrà «continuare a cercare tra la gente, nelle strade e nelle contrade, nel tempio o sulle colline… il figlio dell’uomo, senza padre, che annunciava il Padre di tutti… anche a lei, al di là di ogni generazione carnale. In questa ricerca, “serbava nel suo cuore tutte queste cose, confrontandole tra loro”. Per domandarsi ancora una volta che senso avessero. Sotto la croce ha capito! Perché sotto la croce Dio le ha restituito – morto – il figlio comune (umano e divino). Mettere al mondo, dunque, non voleva dire soltanto far nascere, ma rendere mondano, cioè mortale, Dio. Mettere al mondo vuol dire mettere a morte. Seminare la morte all’interno di Dio. E Dio venne ad abitare nell’unico luogo dove non avrebbe mai potuto abitare. Ma siccome Dio è troppo grande, è la mondanità che è diventata interna a Dio. Di questa malattia umana, trasmessa da Maria, Dio è morto. Poiché questa unione di Dio con la sua carne di donna, dentro il suo corpo (questo è il mio corpo! Questo è il mio sangue!) è indivisibile. Il figlio morente ha fatto delle due cose incompossibili, una cosa sola, per sempre. Il matrimonio tra Dio e mondo, in Maria, diventa indissolubile, anche se una spada a due tagli cerca di separarli. La terra (l’umanità) si santifica stando impotente ai piedi della croce, col cuore trafitto dalla spada a doppio taglio. Doppiamente lacerati, dunque, dall’abbandono nel quale Dio lascia il figlio e la nostra storia nel suo abisso di impotenza e di morte – e dalla solidarietà con gli uomini nostri fratelli, incapaci di fraternità e perdono. Senza potere fare nulla»… [I volti di Eva]
… se non… re-investire esistenza – che è il contrario che l’emorragia di umanità (di cui siamo affetti quando muore qualcuno che amiamo); che vuol dire re-investire la nostra affettività, le nostre ‘molle’, le nostre dedizioni, la nostra voglia, le nostre chiacchiere, le nostre rabbie, i nostri perdoni… in un tessuto di volti… che è l’unica cosa che può portarci a perdonare Dio, o la vita, o la storia, o noi stessi, o chiunque individuiamo come sfogo del nostro “non doveva andare così”… perché soltanto il tornare a credere nell’amore (fino ad investirci la vita) ci fa fare pace con la drammaticità che la nostra storia – e il nostro Dio anch’egli passato in mezzo ad essa – ci consegna… [cfr. Elaborare la dipartita, a cura del Monastero della carmelitane scalze di Legnano].

domenica 15 dicembre 2013

III DOMENICA DI AVVENTO (A) – GAUDETE


Mt. 11,2-11 «In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!». Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”. In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».

In una fiaba dei fratelli Grimm, I sette corvi, una bambina, spinta da un insensato senso di colpa (ma quando mai il senso di colpa è sensato?) scappa di casa per cercare di andare a salvare i suoi sette fratelli, tramutati in corvi da un terribile incanto. Pur essendo piccola, è molto saggia, e decide di portare con sé “una pagnotta per la fame, un brocchino di acqua per la sete e una seggiolina per la stanchezza”. Ella sa, pur se piccina, che in quel terribile viaggio che è diventare adulti, diventare uomini e donne (cammino che non si esaurisce certo con l’adolescenza, ma continua per tutta la vita), abbiamo bisogno di cibo, di acqua, di riposo, di sostegno. Lo sa anche la Chiesa che, a metà del cammino di Avvento e di Quaresima, inserisce un domenica di gioia e letizia: gaudete (III dom. Avvento), laetate (IV dom. di Quaresima). Il senso è il medesimo: se prendiamo sul serio questi due periodi di conversione - che non è qualcosa di moralistico, come un tentativo di imparare a fare un po’ meno peccati per guadagnarsi prima il paradiso, ma la tenace, sistematica e faticosa distruzione delle idee di Dio sbagliate, che abbiamo inscritte nel DNA e che ci insegnano fin da bambini, per rivolgerci (convergere, appunto) al volto del Padre annunciato da Gesù - non possiamo che trovarci in grande difficoltà (soprattutto perché bisogna sbilanciarsi, verso quel volto, fidarsi, giocarci la vita…), bisognosi di un po’ di tenerezza e sostegno.
Ma cosa c’è da stare allegri? Non possiamo certo accontentarci di un generico, un po’ infantile invito alla gioia, quasi ad eludere la drammatica dell’esistenza. Dobbiamo fare molta attenzione e non banalizzare l’invito a gioire, rinchiudendoci in un irenismo un po’ becero, che, appunto, finisce per ignorare le contraddizioni della storia (senza le quali, cioè senza passare attraverso le quali, come insegna la fiaba che citavo all’inizio, non si diventa grandi, donne e uomini adulti, e quindi tanto meno si può aspirare diventare discepoli di Gesù, vero uomo, non solo nel senso di uomo per davvero, ma di uomo portato a compimento, cresciuto).

Mette in guardia contro questo rischio proprio la prima lettura, quando chiarisce chi è che deve gioire, chi si deve rallegrare ed esultare: «Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa». E’ proprio il lato oscuro, la parte malata, quella profonda e mai sufficientemente accolta, è proprio ciò che vi è di deserto, (cioè privo di relazioni e di vita) di arido, che deve rallegrarsi. E’ la steppa, il luogo del lutto, dei gemiti e del lamento (Ger. 9,9), il terreno nel quale si instaura la nuova economia del rallegrarsi. Detto in termini più aderenti all’avvento ed all’attesa del Natale, ciò significa che l’invito a gioire è rivolto proprio a chi sperimenta – qui ed ora - deserto, lutto, lamento, aridità, infecondità.
Perché, continua il profeta, questo è il contenuto dell’invito che ci vene rivolto: «Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti. Dite agli smarriti di cuore: “Coraggio, non temete!” Ecco il vostro Dio… Egli viene a salvarvi». E chi di noi non si è trovato, cento e cento volte, davanti al fallimento delle relazioni, all’inutilità dei nostri sforzi di attenzione e custodia verso gli altri, all’incomprensione di chi ci aveva illuso di essere davvero nostro compagno di strada, con le mani fiacche, con le ginocchia che vacillano?
Ancora un considerazione sulla prima lettura: tutti i verbi che ho citato sono al presente. Ma la realizzazione di queste promesse è descritta nei vv. 5-6: «Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto», dove i verbi sono tutti al futuro. E rimandano ad un “allora” (τότε, tote, nella versione greca della Bibbia dei LXX), che ancora non c’è. Quei segni, frutto della capacità delle donne e degli uomini di irrobustire, l’una l’altro, le mani fiacche, di rendere salde le ginocchia vacillanti, di incoraggiare gli smarriti, diventano la realtà del Regno, nel Vangelo di questa domenica di invito alla gioia.
Il quadro, come anche avviene nel (quasi) parallelo passo di Luca, ho una cornice drammatica (a conferma della decisività di ciò che vi è in gioco). In Lc. 4, 14-21 il discorso di Gesù, che si attribuisce la concretizzazione e la realizzazione, qui e ora, dei segni messianici annunciati come futuri da Isaia, avviene nella sinagoga di Nazareth, ed quale conseguenza il tentativo dei suoi concittadini di ucciderlo, gettandolo dalla rupe sulla quale era costruita la città. Qui la situazione è, per certi versi, ancora più complessa, dal punto di vista storico, perché muova da una domanda di Giovanni Battista in carcere, poco prima di essere ucciso. L’arresto (e poi l’assassinio) del più grande dei profeti, infatti, segna un punto di svolta nella vicenda dell’annuncio del Regno (Mc. 1, 14). Ma la questione è drammatica anche dal punto di vista esistenziale. Giovanni è in una situazione estrema, difficile, e chiede a Gesù se bisogna aspettare un altro. Proprio lui, che ha indicatori primi discepoli (tra i quali Giovanni Apostolo) l’agnello di Dio, ora dubita. Ma dubita facendo capire che se non fosse Lui, Gesù, l’atteso (il veniente dell’avvento che celebriamo), allora bisognerebbe aspettare un altro. Rimettersi in attesa, senza sapere per quanto tempo, senza sapere chi e come. Sembra un po’ un “tutti a casa”, ci siamo sbagliati. Aspettiamo un altro. E riecheggia il discorso dei discepoli di Emmaus. “Noi speravamo che fosse lui…” E invece, bisogna aspettare un altro. Perché non si può vivere senza aspettare qualcuno, e la delusione di essersi ingannati sull’essere lui, l’atteso, porta a rimettere in moto il meccanismo di un’altra, nuova attesa. Non credo che possiamo davvero immedesimarci nella tragicità della situazione politica ed esistenziale nella quale si trova Giovanni Battista quando pone questa domanda (la seconda, più terribile della prima), ma possiamo forse capire la cifra reale della sua frase, pensando alla delusione di chi si innamora, e scopre di aver sbagliato persona. Non era lei. Devo aspettarne un’altra.
E Gesù risponde. Non dice “sono io, basta aspettare un altro”. Risponde con i segni del Regno non più attesi, ma realizzati. I verbi, questa volta, sono tutti la presente: Oggi, ora, qui, nelle pieghe tragiche e contraddittorie della storia (nostra e universale) «I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo».
Che cosa vuol dire, per noi, credere a questa realizzazione? E’ una domanda fondamentale, perché se non sappiamo rispondere, cioè se non sappiamo dare una dimensione esistenziale alla scelta di sbilanciarci verso questa realizzazione del Regno, allora l’avvento, l’attesa, l’incarnazione, la nascita, la venuta di Gesù, tutto, perde di significato, diventa vuoto.
Ebbene, la risposta che mi viene da dare, in questo Avvento, è che significa credere che Gesù ha incontrato, nelle donne e negli uomini storici che ha intercettato per le strade della Palestina, tutte le possibili limitazioni della vita (cecità, sordità, paralisi delle gambe, esclusione sociale da malattia infettiva, povertà; persino il paradigma di ogni limitazione della vita: la morte). Ed ha annunciato loro il volto buono di Dio, che sta da quella parte, che ha scelto di condividere quella realtà. Chi sente annunciare che Dio è solo buono, che fa solo del bene, per i figli bravi come per quelli cattivi, può smettere di aspettare qualcun altro.
Perché, però, questo massaggio è di “scandalo”? Perché Gesù si sente in dovere di aggiungere che è “beato” chi non se ne fa scandalizzare, cioè chi non vi legge un ostacolo, un inciampo per la sua via di fede?
Una prima risposta riguarda proprio Giovanni Battista, e ci aiuta a capire la seconda parte del Vangelo di oggi. Egli, infatti, come detto, sa bene chi è Gesù, lo sa da sempre, ma vede il Lui un modello di Messia diverso, troppo diverso da quello che ha mente. E rischia di rimanerne “scandalizzato”. Nel brano di Vangelo che avremmo letto domenica scorso (se non vi fosse stata la coincidenza con la solennità dell’immacolata concezione di Maria), infatti, Giovanni Battista parla di ira imminente, scura alla radice degli alberi, fuoco inestinguibile che brucia la paglia… Tutte immagini (in sintonia con il suo stile di vita) che richiamano un’idea di Messia (e quindi un volto di Dio) ben diverso da quello che, invece, Gesù è venuto ad annunciare con le parole, ma soprattutto con il suo sguardo di tenerezza su tutti coloro che ha incontrato, in modo particolare proprio gli ultimi, i peccatori, i falliti…
Ed allora, forse, (anche se in maniera confusa), possiamo capire perché il più grande dei nati di donna, se non si “converte” ad un’idea di Dio diversa, al volto buono del Padre annunciato da Gesù, è sopravanzato dal più piccolo nel Regno dei cieli, cioè da quel piccolo che, smessa qualsiasi idea di dover o poter meritare, guadagnare, difendere qualcosa davanti a Dio, scopre che l’unico senso della vita è accettare la misericordia del Padre, lasciando che copra tutte le nostre debolezze e fragilità, dalle quali non dobbiamo più scappare, che smettono di farci paura.
Ma vi è anche una seconda ragione di scandalo, legata alla nostra esperienza personale, che si scontra quotidianamente – se solo accettiamo di farci coinvolgere dal male e dal dolore degli altri – con la nostra incapacità di vedere occhi ciechi che si aprono, orecchie sorde che si schiudono, gambe storte che si raddrizzano. Chi ha fatto l’esperienza di accompagnare un malato grave di tumore, nel suo calvario, sa che noi non preserviamo nessuno da morte; non possiamo guarirlo, non riusciamo a restituirgli quella vita che lo abbandona, giorno dopo giorno. E siamo pertanto tentati di non credere a quella realizzazione dei segni messianici proclamata da Gesù, realizzazione che, allo scontro con la storia, pare non mantenere la sua promessa di vita e di pienezza. Da qui, anche la tentazione (ancora meno sensata) di porre su due piani diversi storia e Regno di Dio, collocando il secondo fuori dalla prima, in un iperuranio privo di relazione con le nostre vite. E quindi, alla fine, privo di senso per noi.
Invece, l’invito del Vangelo di oggi è proprio quello di inoculare germi, bacilli del Regno di Dio nella storia, con la stessa tenerezza e vicinanza che è stata di Gesù. Non certo i miracoli di guarigione, ma la nostra vicinanza a chi soffre, il nostro esserci, il nostro non scappare (come tante volte vorremmo fare, innanzi al male), il nostro condividere (magari con un silenzio debole, mite ed impotente) le vicende (tragiche) delle donne e degli uomini è il segno reale, concreto, della venuta, oggi, del Regno di Dio nella storia, della piena realizzazione di quelle promesse. Ogni nostra carezza, ogni prendersi cura, custodire, accogliere, condividere, ogni frammento di fraternità e solidarietà che, pur con la nostra fragilità, sappiamo diffondere, realizza, qui e ora, oggi, nella storia, le promesse dei profeti. Questo è il Regno.

PREGHIERA.

Padre buono, che con affetto insensibile ai nostri meriti e alle nostre colpe, fai sorgere il tuo sole sopra i buoni e sopra i cattivi, e fai piovere sui giusti e sugli ingiusti, aiutaci a spargere, nella storia, frammenti di tenerezza, di cura, di accoglienza. In questo modo, tutte le donne e gli uomini Ti daranno lode e Ti riconosceranno come il Dio amante della vita.
Te lo chiediamo per Gesù Cristo, che attendiamo, e che ce lo ha insegnato.

AMEN.

by Davide P.

martedì 10 dicembre 2013

III Domenica di Avvento


Dal libro del profeta Isaìa (Is 35,1-6a.8a.10)

Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso fiorisca; sì, canti con gioia e con giubilo. Le è data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saron. Essi vedranno la gloria del Signore, la magnificenza del nostro Dio. Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti. Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi». Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto. Ci sarà un sentiero e una strada e la chiameranno via santa. Su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore e verranno in Sion con giubilo; felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto.

 

Dalla lettera di san Giacomo apostolo (Gc 5,7-10)

Siate costanti, fratelli miei, fino alla venuta del Signore. Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge. Siate costanti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina. Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alle porte. Fratelli, prendete a modello di sopportazione e di costanza i profeti che hanno parlato nel nome del Signore.

 

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 11,2-11)

In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!». Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”. In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».

 

Il vangelo che la Chiesa ci offre in questa Terza Domenica di Avvento, fa nuovamente riferimento alla figura di Giovanni Battista, anche se – ovviamente – tratta un episodio diverso rispetto a quello narrato settimana scorsa.

In quell’occasione, volutamente, ho preferito non concentrarmi sul precursore, per poter oggi – grazie a questo secondo brano che affianca quello (Mt 3,1-12) – affrontare il discorso con una completezza maggiore.

Siamo al capitolo 11 del vangelo di Matteo; sono quindi “passati” 8 capitoli rispetto al battesimo di Gesù: 8 capitoli nei quali i due cugini hanno avuto destini diversi. Giovanni è finito in carcere a causa della sua predicazione, che creava problemi al potere costituito; mentre Gesù ha iniziato la sua vita pubblica (a questo punto del vangelo ha infatti già annunciato l’approssimarsi del Regno, chiamato i discepoli, compiuto guarigioni, fatto il famoso discorso della montagna e quello missionario… ha già avuto le prime discussioni…); addirittura – per l’evangelista Marco – il momento dell’arresto dell’uno, ha coinciso con l’inizio dell’attività dell’altro («Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio», Mc 1,14), tanto che secondo Giovanni – l’evangelista –, Giovanni – il Battezzatore – avrebbe detto: «Lui deve crescere; io, invece, diminuire», Gv 3,30.

È proprio dopo questi 8 capitoli, che hanno segnato, per i due, una storia così diversa, che sulla scena irrompe la domanda di Giovanni Battista che manda a Gesù i suoi discepoli per chiedergli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?».

La domanda non è banale… In Israele al tempo di Gesù c’era una forte attesa messianica e Giovanni da subito aveva individuato in Gesù il compimento di questa attesa (Mt 3 e paralleli)… Eppure ora, dopo 8 capitoli, è un po’ dubbioso… Perché? In che cosa Gesù non lo convince molto come messia?

Per intuirlo è interessante andare a rileggersi l’idea di Dio (e quindi di messia) che ha in testa Giovanni, quella che si può trovare nella II parte del vangelo di settimana scorsa – la “predica” di Giovanni (Mt 3,7-12: «Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: “Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: “Abbiamo Abramo per padre!”. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile») e confrontarla con la vita di Gesù narrata nei primi 10 capitoli del vangelo di Matteo… dei quali, basti un assaggio: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste», Mt 5,43-48.

È interessante, perché si vede subito che l’idea di Dio dei due cugini non è precisamente la stessa… anzi…

Per quanto Giovanni aspetti il messia e lo riconosca in Gesù, quest’ultimo nel suo proporsi è sempre sorprendente… non prevedibile, inedito! E questo a volte mette in crisi, perché rompe gli schemi… ed è così per tutti… «Qui, [infatti] il problema del Messia non è più quello del popolo che si converte, alla voce di Giovanni, mentre i maestri e i capi lo rifiutano, ed Erode, prima affascinato, è poi travolto nella logica di morte dalla quale non riesce a togliersi… Il problema è di Giovanni stesso. Proprio lui, il più preparato ad accoglierlo, la cui missione è di preparatore degli altri. Ma anche per Giovanni, quando il Messia s’avvicina, la sua vera identità è sorprendente, inaspettata – anche per lui, come poi per Maria, come per tutti i discepoli, Gesù è il messia, il figlio del Dio vivente, dirà Pietro… ma non come l’aspettavano! E questa è la vera fonte dei nostri guai di fede! Il Signore non è ovvio, non è prevedibile coi criteri miracolosi che ci hanno detto: è sempre inaspettato – sempre, per tutti! Giovanni aveva atteso e predicato, sulla scia di antiche profezie, un Potente che battezza con Spirito e fuoco…una scure incombente alle radici dell’umanità in attesa. Occorre convertirsi subito, o sarà la fine! Ma arriva un Mite, che si mischia coi poveri e i peccatori, li perdona senza castigo, si autoinvita a casa loro…» [Giuliano].

Giovanni si aspettava il Dio della potenza, il Dio giudice, il Dio armato che premierà i buoni e distruggerà i cattivi e dunque vedeva la realizzazione dell’uomo nello sforzo volontaristico di essere gradito a Dio…

Gesù, invece, parla di un Dio che è Padre, che fa sorgere il sole su tutti, sui buoni e sui cattivi, sui giusti e sugli ingiusti… e vede la realizzazione dell’uomo nella sua capacità di imparare ad amare tutti, anche i nemici…

Non a caso la risposta di Gesù ai discepoli di Giovanni va proprio in questo senso… Stanno mettendo in discussione la sua identità messianica e lui risponde dicendo di riferire a Giovanni ciò che vedono e odono, cioè che dove passa lui la morte è trasformata in vita, la tristezza in gioia, l’aridità in fertilità… Per Gesù infatti il Regno di Dio, dunque, il mondo come Dio lo vuole, sono gambe storte che si raddrizzano, occhi ciechi che ci vedono, orecchie sorde che ci sentono, cuori induriti che si sciolgono… insomma l’umanizzazione della dis-umanizzazione in tutte le sue forme. Sia nel macrocosmo (poveri – prigionieri – ciechi – oppressi), sia nel microcosmo (noi, nelle nostre povertà – prigionie – cecità – oppressioni). La prospettiva di Gesù è infatti sempre quella di restituire all’uomo la sua specifica caratura umana (non a caso i suoi miracoli non sono mai segni di potenza, ma sempre di liberazione dal male!).

Questo è Gesù, questo è ciò che lui stesso dice di sé… questo è il suo modo di essere messia, quello per cui «Oramai guarire [non punire] l’uomo è un criterio di riconoscimento» [Giuliano] di Dio.

Il confronto, però, non termina qui, ma prosegue nella scena in cui Gesù – dopo aver congedato i discepoli di Giovanni – parla, alle folle, del Battista stesso… definendolo “il più grande fra i nati da donna”, ma sottolineando anche come il più piccolo nel regno dei cieli sia più grande di lui…

Come a dire che con Giovanni si chiude – seppur in maniera degnissima – un certo modo di interpretare Dio e quindi l’uomo e con Gesù irrompe nella storia qualcosa di qualitativamente diverso: con Giovanni finisce un’epoca, che in lui ha avuto il suo apice, ma che si esaurisce in Gesù, il quale inaugura una possibilità totalmente nuova di stare al mondo, che rivela un volto di Dio inaudito, che mostra una via per l’uomo mai percorsa…

Con Giovanni si chiude l’Antico Testamento (l’antica alleanza, l’antico volto di Dio, l’antico volto dell’uomo) e con Gesù si apre il Nuovo (la nuova e definitiva alleanza, il nuovo e definitivo volto di Dio, l’uomo nuovo…).

Ecco perché Giovanni è definito “quell’Elia che deve venire” (gli ebrei infatti credevano che prima dell’avvento del messia, ci sarebbe stato il ritorno di Elia, del quale la Bibbia non racconta la morte, ma il rapimento su un carro di fuoco, 2 Re 2): Giovanni è l’Elia che deve venire, è l’ultimo atto prima che si inauguri la nuova storia del popolo di Dio, è il precursore… è il massimo che il modello precedente poteva offrire, ma minuscolo di fronte al Regno di Dio che con Gesù arriva: «Giovanni è la nostra verità umana più umile, perciò più vera e più autentica. Tra i nati di donna non c’è nessuno più grande di lui: è la soglia, dunque! Più in là non siam capaci di andare. È presentato da Gesù stesso come il culmine del Primo Testamento, il grande profeta severo e ardentemente impaziente di preparaci per l’arrivo del Signore. Ma, almeno come anelito, Giovanni segna l’avventura intima di ogni uomo» [Giuliano]. Quella per cui il rapporto con Dio è basato sulla paura: l’uomo che teme la morte e sa che Dio lo può salvare, fa di tutto per ingraziarselo (osserva le sue leggi, gli fa dei sacrifici, teme il suo castigo, spera nel suo premio) e guarda a chi gli sta intorno come un mezzo per raggiungere lo scopo (i poveri come mezzi per la nostra santificazione) o come rivale (se il premio è per pochi, deve essere per me, non per te…).

La novità di Gesù sta invece nel fatto che egli pone come base per ogni ragionamento o scelta o modo di stare al mondo, la benevolenza immeritata ma sovrabbondante: l’uomo che teme la morte scopre che Dio è un Padre che gli vuole bene e che lo invita ad entrare in un circolo di benevolenza che passa di mano in mano e umanizza chi lo riceve (e chi lo dà). Per questo guarda agli altri come a fratelli fatti della stessa carne / pasta umana sua… e perciò si dedica alla loro custodia (fino a dare la vita), perché gli altri, chiunque altro, è dei suoi…

Questa seconda impostazione – quella di Gesù – è quella che coincide con il vangelo, con la buona notizia, e che è proposta a chiunque voglia essere discepolo di Gesù… è la buona notizia che con lui prende carne, nel Natale che aspettiamo.

martedì 3 dicembre 2013

II Domenica di Avvento


Dal libro del profeta Isaìa (Is 11,1-10)

In quel giorno, un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e d’intelligenza,spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore. Si compiacerà del timore del Signore. Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire; ma giudicherà con giustizia i miseri e prenderà decisioni eque per gli umili della terra. Percuoterà il violento con la verga della sua bocca, con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio. La giustizia sarà fascia dei suoi lombi e la fedeltà cintura dei suoi fianchi. Il lupo dimorerà insieme con l’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà. La mucca e l’orsa pascoleranno insieme; i loro piccoli si sdraieranno insieme. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera; il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso. Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno in tutto il mio santo monte, perché la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare. In quel giorno avverrà che la radice di Iesse si leverà a vessillo per i popoli. Le nazioni la cercheranno con ansia. La sua dimora sarà gloriosa.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 15,4-9)

Fratelli, tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza. E il Dio della perseveranza e della consolazione vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù, perché con un solo animo e una voce sola rendiate gloria a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo. Accoglietevi perciò gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi, per la gloria di Dio. Dico infatti che Cristo è diventato servitore dei circoncisi per mostrare la fedeltà di Dio nel compiere le promesse dei padri; le genti invece glorificano Dio per la sua misericordia, come sta scritto: «Per questo ti loderò fra le genti e canterò inni al tuo nome».

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 3,1-12)

In quei giorni, venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaìa quando disse: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!». E lui, Giovanni, portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico. Allora Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: “Abbiamo Abramo per padre!”. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».

Le letture di questa Seconda Domenica di Avvento hanno proprio il sapore di un’introduzione al mistero del Natale… Siamo ancora sulla soglia, ma già si intravede che ciò che ci aspetta è qualcosa di decisivo… La Chiesa ci accompagna in questa attesa, “incuriosendoci” sulla portata dell’evento… Pone infatti in campo parole che attraggono le orecchie e il cuore di ciascuno… Chi infatti non si sente stuzzicato da frasi come «In quel giorno avverrà...», «Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione», «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino»…?

Se anche facessimo finta che non fossero parole bibliche, esse rimarrebbero comunque cariche del loro fascino:

-          Chi, infatti, non ha almeno qualche volta sognato di sapere cosa «In quel giorno avverrà...»; che si trattasse del giorno della nostra morte, della venuta del Messia, dell’appuntamento con chi si spera di conquistare, di un colloquio di lavoro, di un incontro dopo tanti anni…?

-          Chi, sommerso dal disorientamento e dalla confusione nel maneggiare questa vita, non ha desiderato almeno ogni tanto di avere per le mani un manuale d’istruzioni, in modo da poter dire che «Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione»?

-          E infine chi, esausto per la fatica di vivere e di dar credito al fatto che ne valga la pena, non ha sperato che «il regno dei cieli» – qualsiasi cosa esso volesse dire – fosse «vicino»?

Ma ri-collocate nel contesto biblico, che è il loro, che cosa vogliono dire queste parole così cariche di aspettative, aspirazioni, sogni, speranze, attese?

La prospettiva di Isaia è – ancora una volta – decisamente luminosa… sta parlando di qualcuno che arriverà: qualcuno fortemente attaccato alla storia dell’umanità, come un germoglio al suo tronco e un virgulto alle sue radici, e nello stesso tempo altrettanto fortemente inondato di profumo divino… qualcuno che contro i violenti e gli empi, starà dalla parte degli umili e dei miseri… Quando arriverà le leggi naturali della vittoria del più forte, della selezione naturale, della paura come anima del mondo, saranno stravolte, per lasciare il posto alla giustizia, alla fedeltà, al dimorare insieme, allo sdraiarsi accanto, al trastullarsi…

Eppure Isaia non sta scrivendo in un momento facile per il suo popolo: niente fa prevedere un lieto fine della situazione, tanto meno un lieto fine cosmico, che coinvolga il mondo nel suo insieme; dilagano corruzione, dispotismo, idolatria, pressione straniera, ingiustizia sociale, povertà, indigenza…

Ma allora perché Isaia interviene con queste parole promettenti? Interessante quanto risponde il gesuita argentino H. Simian Yofre, mettendo in luce le idee che da questo brano emergono con forza: «Anzitutto la convinzione che davanti ad ogni crisi, non soltanto personale, ma anche e soprattutto sociale, istituzionale, nazionale, perfino internazionale, la fede non è ridotta al silenzio, ma ha una parola importante da dire. Essa genera una parola critica circa la situazione concreta; così il pensiero escatologico, nel momento stesso in cui prospetta un mondo nuovo, non consente una fuga dal presente, ma fa maturare una visione obiettiva e critica a riguardo del presente, e specificamente dell’ingiustizia, del caos istituzionale, dell’ambiguità di certi rapporti politici, della perdita d’identità profonda del popolo. Il pensiero escatologico profetico non si accontenta di proporre una soluzione “spirituale”, ma comincia da un’analisi lucida dei mali presenti nella società!». Ecco che a noi, allora, a noi che almeno qualche volta abbiamo sognato di sapere cosa «In quel giorno avverrà...», viene rimesso in mano il nostro oggi, il nostro presente, la situazione concreta.

Ma… non eravamo partiti da un oggi, un presente, una situazione concreta inospitale, inabitabile, mortifera? E allora che senso ha il ricollocarci del profeta in essa? Se non eravamo capaci prima, non lo saremo neanche ora…

E allora? Allora… la chiave di volta è proprio il fatto che né una fuga spiritualistica da una storia avvelenata, né uno sforzo volontaristico e solipsistico per resistere nel viverla, sono le vie indicate dal profeta. Egli ha una prospettiva diversa: la vita può tornare ad essere vivibile perché è abitata dalla speranza in una promessa: che questa storia è inondata da Dio («la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare»). Che è la medesima speranza di cui parla Paolo quando afferma: «teniamo viva la speranza»! «Paolo – infatti – raccoglie l’eredità di una processione interminabile di antichi padri e profeti, grandi e piccoli, uomini e donne del popolo, che per millenni si sono lasciati impregnare, plasmare e confortare dalla trasmissione di una “speranza”, prima raccontata e poi scritta, in innumerevoli testimonianze, che di generazione in generazione, si intersecano, si riprendono, si illuminano a vicenda. Dio interverrà a salvare il suo popolo, e attraverso di questo tutte le genti, per mostrare finalmente il suo volto. Il peregrinare dei patriarchi, l’esodo, l’esilio, la decadenza della fede e lo sfaldamento del popolo, non riescono a spegnere, anche se ridotta talora a un lucignolo fumigante, la fede di chi ancora attende» [Giuliano].

Ma come vivere il nostro oggi alla luce di questa speranza? Cosa «è stato scritto per la nostra istruzione»?

Purtroppo o per fortuna, non si tratta di un manuale di istruzioni… piuttosto di un invito: «Accoglietevi gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi». Non è un modello a cui tentare di assomigliare, ma una persona (Vivente!) con cui entrare in relazione: in una relazione talmente intima da essere conformante! Questa relazione è la speranza realizzata della presenza del Signore nel nostro oggi.

L’attesa trepidante a cui ci invita la Chiesa è allora quella di Uno che amandoci per primo introduce una nuova logica nel mondo: quella dell’accoglienza, dell’«avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù». È ancora una volta la proposta di una vita che si fa vivibile perché com-passionevole, perché com-patita, perché abitata da una solidarietà che rende parte di un popolo in cammino, dell’umanità tutta… che geme, spera, ama, soffre, muore, sorride… come me.

In questo senso, essendo dalla parte di chi ha già letto fino in fondo i Vangeli, a noi fanno un po’ sorridere alcune aspettative di Giovanni Battista: «Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco». Egli è il precursore e realmente è «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!». Ma Gesù… sorprenderà anche lui: davvero è un novum nella storia dell’uomo: lui, infatti, in una parabola, di fronte ad un albero che non porta frutto, dirà di lasciarlo ancora per un anno e di prendersene cura perché diventi fecondo (Lc 13,6-9), non di tagliarlo!

Su una cosa però Giovanni non si sbaglia: l’evento atteso e annunciato è decisivo; di fronte ad esso non si possono raffazzonare conversioni posticce, false illusioni, ristrutturazioni di facciata: «Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: “Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: ‘Abbiamo Abramo per padre!’. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo”».

Fa sorridere e tremare che i destinatari di questo ammonimento fossero proprio i più religiosi (sacerdoti e “laici impegnati”)… Proprio loro rischiano di non accogliere la logica di Dio, che sopra ad ogni norma, istituzione, interesse, ragione politica, economica, sociale, religiosa, pone il volto dell’altro, che sempre è fratello!

Ma è proprio questa logica che plasma anche la nostra sete di regno dei cieli. Essa – qualunque cosa voglia dire –, sorta spesso sull’onda di un essere esausti per la fatica di vivere e di dar credito al fatto che ne valga la pena, prende la forma di un’attesa non più vaga e qualunquistica, ma cristicamente centrata, perché solo il suo immergerci nello Spirito santo («vi battezzerà in Spirito Santo»), nel suo Spirito, nella sua logica, nel suo amore, ci salva, ci libera, ci abilita a Vivere.

Non a caso «La carica portante del messaggio del Battezzatore è quella dell'imminenza di Dio nella nostra vita, poiché Egli è venuto e sempre viene, a trasformare il nostro presente, a rincuorare l’uomo entrando nella sua stessa dimensione storica e assumendo la debolezza della sua carne, per apportarvi finalmente la novità della pace, della giustizia, della rettitudine e della gioia, in modo compiuto. Ma è un compimento profetico…

Le promesse di Dio [infatti] ci spingono verso un mondo di pacificazione e tenerezza che ci entusiasma il cuore e dilata la mente… e rimane scritto per nostra consolazione. Ma non è subito qui! Subito scopri che nella storia concreta di questo mondo è proprio sulla sua pelle e con la sua mitezza insanguinata che l’agnello addomestica il lupo, è lasciandosi morsicare la vita infinite volte che il bambino mette la mano nella tana delle vipere e le svelenisce… Cioè: se non si è disposti a fare la fine dell’“Agnello portato al macello”, le profezie non si avvereranno… i conflitti, il dolore e la morte non vengono disinquinate se non attraverso la nostra partecipazione alle sofferenze di Dio nel mondo. Nella forza dello Spirito di Gesù, Giovanni ha capito che le promesse escatologiche hanno una lunga gestazione, nella quale trasformano la storia e la liberano dalle catene del male, secondo tempi e modi che solo il Padre conosce».

Per questo «L’unione al Messia Crocifisso e risorto, che riprende con ciascuno di noi e con la sua chiesa il cammino della storia, è il nome della nostra fede. Riuscire a trasformare con lui la nostra storia è la speranza. Donarecon lui la nostra vita è l’amore» [Giuliano].
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