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martedì 25 febbraio 2014

VIII Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Isaìa (Is 49,14-15)

Sion ha detto: «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato». Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai.

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (1Cor 4,1-5)

Fratelli, ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, ciò che si richiede agli amministratori è che ognuno risulti fedele. A me però importa assai poco di venire giudicato da voi o da un tribunale umano; anzi, io non giudico neppure me stesso, perché, anche se non sono consapevole di alcuna colpa, non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il Signore! Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, fino a quando il Signore verrà. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode.

 

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 6,24-34)

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza. Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena».

 

Il brano di vangelo che la Chiesa ci propone per questa Ottava domenica del Tempo Ordinario è tratto anch’esso (come i precedenti) dal discorso della montagna, anche se – in questo caso – non abbiamo a che fare con la prosecuzione diretta del testo di domenica scorsa, ma con una sezione successiva (il liturgista omette Mt 6,1-23).

In questo modo l’incipit del vangelo odierno, risulta la lapidaria espressione di Gesù: «Nessuno può servire due padroni […]. Non potete servire Dio e la ricchezza», dove il tema che si impone con forza alla nostra attenzione è quello della ricchezza…

Qui come altrove, Gesù sembra indicare che la ricchezza allontani da Dio e dal suo Regno, cioè dal mondo come Dio lo vuole, mentre è la povertà che ci avvicina a Lui.

Sembra, dai testi, che dentro a questa categoria dell’umano che noi istintivamente rifuggiamo (la povertà), ci sia qualcosa che invece è in sintonia col “mondo come Dio lo pensa”, con l’idea che Lui ha della nostra felicità, della nostra “buona riuscita”, della pienezza della vita.

E al di là di tutte le poesie che si possono fare sulla povertà, sulla libertà interiore che essa “regala”, ecc… credo che l’elemento decisivo che rende la povertà così ben vista agli occhi di Dio, stia nella restituzione della qualità originaria e autentica della vita dell’uomo cui fa accedere.

“Qualità autentica e originaria della vita dell’uomo” che – non a caso – caratterizza le esperienze di santità più grandi della storia della Chiesa. Basti pensare a san Francesco d’Assisi o al tema dell’umiltà tanto caro a santa Teresa d’Avila, che con “umiltà” intendeva – appunto – il far luce sulla verità di sé…

L’essere ricco invece è la grande illusione per l’uomo, è il grande inganno sulla sua vera realtà, su chi lui sia veramente: cioè povero e dunque inevitabilmente necessitato da un affidamento…

La ricchezza si avvicina dunque alla mancanza di umiltà (in senso teresiano), cioè mancanza di verità su di sé, rinnegamento di questa qualità originariamente povera, di ciascun uomo…

La ricchezza è la grande illusione, di riuscire a bastare a se stessi, di salvarsi da soli, di “farcela” da soli…

Ecco perché – nel testo odierno – è messa radicalmente in antitesi col Dio del vangelo: «Non potete servire Dio e la ricchezza»! Perché l’essere ricchi, cioè l’illudersi di non essere poveri, fa dimenticare di essere figli… fa dimenticare di aver bisogno di stare nelle braccia di qualcun altro che tiene in mano la nostra vita… fa dimenticare la necessità di un affidamento…

Ecco perché Gesù, dopo la lapidaria frase iniziale, prosegue dicendo: «Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita»… Perché la domanda fondamentale a cui vuol spingere l’uomo è precisamente questa: “Nelle mani di chi / di che cosa hai posto la tua vita?”; a cui ne fa eco una simmetrica: “Per chi / per che cosa ti affanni, ti preoccupi mentre vivi?”…

Per il Regno di Dio (cioè per il mondo come Dio lo vuole, e cioè fatto di fratelli che si amano e si prendono cura – si liberano dal male – gli uni gli altri) o per la tua auto-salvezza (denaro, cibo, vestiti, relazioni che ti riempiano la vita, consolazioni religiose…)?

Perché solo una vita affidata nelle mani di un altro, può essere vissuta per… qualcuno che non siamo noi…

Se infatti essa è solo in mano nostra, passeremo tutto il tempo preoccupati (affannati) a cercare di conquistare o mantenere l’abilitazione a stare al mondo (grazie ai nostri averi, ai nostri saperi, ai nostri meriti…), per scoprire poi che essi non servono a un tubo per salvarci la vita…
Se, invece, diamo credito alla rivelazione di Dio che ci si fa incontro in Gesù e che Isaia sintetizza in quella insuperabile frase della prima lettura messa in bocca a Dio stesso («non ti dimenticherò mai»), e per questo ci decidiamo per un affidamento, cioè ci sbilanciamo a pensarci (a pensare noi stessi) nelle mani di un Altro, allora avremo la vita abilitata da lui e per questo libera da affanni… libera di dedicarsi a qualcun altro… che non sia sempre e solo il nostro io.

martedì 18 febbraio 2014

VII Domenica del Tempo Ordinario

Dal libro del Levìtico(Lv 19,1-2.17-18)
Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla a tutta la comunità degli Israeliti dicendo loro: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo. Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore”».

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (1Cor 3,16-23)
Fratelli, non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi. Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente, perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Sta scritto infatti: «Egli fa cadere i sapienti per mezzo della loro astuzia». E ancora: «Il Signore sa che i progetti dei sapienti sono vani». Quindi nessuno ponga il suo vanto negli uomini, perché tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio.

Dal Vangelo secondo Matteo(Mt 5,38-48)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle. Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».

In questa Settima Domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa – nel vangelo – ci invita a proseguire la lettura del discorso della montagna iniziata ormai qualche settimana fa e che, proprio oggi, raggiunge uno dei suoi vertici più alti (ma anche più difficilmente comprensibili e assimilabili)… l’amore per i nemici...
Gesù invita precisamente a questo… a non opporsi al malvagio (cioè a chi ci fa delle malvagità), anzi, ad offrire l’altra guancia a chi ci ha colpito la prima; a lasciare anche il mantello a chi ci vuole togliere la tunica; ad accompagnare per due miglia, chi ci costringe a farlo per un miglio; a dare a chi chiede e a non voltare le spalle a chi desidera da noi un prestito; ad amare i nostri nemici e a pregare per chi ci perseguita…
Dove, la paradossalità del discorso, sta nel fatto che in nessuno di questi inviti è possibile rintracciare un qualcosa che ne attenui la portata… Non si dice di non opporsi a chi ci ha fatto una malvagità (magari occasionalmente, magari subito pentendosene, magari perché cresciuto dentro ad una condizione di disagio…), ma di non opporsi ai malvagi (senza nessuna specifica che attenui la portata di questa “malvagità”); non si dice di porgere l’altra guancia – cioè di tornare ad arrischiare la propria vita con qualcuno che l’ha già tradita – ad un amico, a qualcuno di caro, che – nonostante la sofferenza procurataci – non vogliamo perdere… ma si dice di porgere l’altra guancia e basta, nuovamente senza un elenco di casi o una specificazione di situazioni “accettabili”; non si dice di dare tunica e mantello (magari) a chi ha freddo o a chi ne ha bisogno… ma di dare il mantello a chi ci ha rubato la tunica, magari lasciando noi al freddo e nel bisogno; non si dice di accompagnare per due miglia un amico che ci aveva chiesto di farne uno con lui… ma di farne due con chi ci ha costretto a farne uno; fino ad arrivare alla paradossalità estrema dell’amore ai nemici e della preghiera per i persecutori…


Una “paradossalità” l’abbiamo chiamata… Una paradossalità perché è un modo di atteggiarsi che non rispetta nessuno dei canoni abituali con cui solitamente è organizzato il nostro vivere sociale… non è rispettata l’inviolabilità della persona, il diritto di proprietà, l’istinto di sopravvivenza, la giusta retribuzione, il diritto di combattere contro le ingiustizie subite, ecc… Dentro a questo “pacchetto” di diritti sta tutto il nostro vivere sociale (necessarissimo e figlio di una lunga storia di battaglie per i diritti che vanno assolutamente onorate!)… però… c’è un però… che nasce proprio dalla lettura di questo vangelo…
Perché dentro ad uno stare al mondo pensato secondo quei criteri (quei diritti personali) la proposta di Gesù non ci sta, appare, appunto, paradossale, fuori dallo schema, “inincastrabile”…
Infatti non si possono vivere gli inviti di Gesù, se ciò che urla nel nostro cuore è la rivendicazione (per noi) di quei diritti: non posso porgere l’altra guancia, dopo che mi hanno ingiustamente percosso la prima, se ciò che emerge come prioritario nel mio cuore, nella mia mente, nelle mie reazioni (cioè nel mio modo d’essere) è la rivendicazione del diritto all’inviolabilità della mia persona… o quello alla lotta per le ingiustizie subite. Non posso dare anche il mantello a chi mi ha rubato la tunica se ciò che emerge in me è essenzialmente la necessità di una giustizia retributiva, la rivendicazione del mio diritto alla proprietà privata, ecc… non posso fare due miglia con chi mi ha costretto a farne uno con lui, se mi esplode dentro la pretesa di veder riconosciuto il mio diritto alla libertà, alla libera determinazione, alla libera circolazione…
Non posso…
Ma allora? Com’è possibile entrare nella mentalità di Gesù (una mentalità per la quale queste proposte – visto che lui le fa e le vive! – non sono affatto paradossali ma pronunciate con realismo)? Perché per lui sono “normali”, “possibili”, “percorribili” mentre a noi risultano “fuori dal normale” (paradossali, appunto), “impossibili”, “improponibili” e “irricevibili”?
Forse perché – appunto – in quelle situazioni, ciò che in Lui emerge come prioritario non è la rivendicazione di alcuni diritti (per sé) – pure giusti – ma qualcosa d’altro… Per Lui ciò che preme dal di dentro e va a determinare il suo pensare, sentire e reagire è la custodia dell’altro, sentito sempre come suo. Anche quando è malvagio, sconosciuto, straniero, ladro, peccatore, ecc...
È qui che giunge dunque il suo invito… non tanto (o non solo) a cambiare alcuni nostri atteggiamenti, a correggere alcune nostre reazioni, a seguire una serie di prescrizioni per dei casi concreti, ma a cambiare il nostro modo di stare al mondo… Infatti potremo vivere tutti quei suoi inviti, solo se dentro ci nascerà un’istanza diversa, che diventa prioritaria su tutte le altre: quella per cui l’altro è l’unica mia preoccupazione, è il senso della mia vita, colui che gli dà la giusta misura!
Vivere così, con questa istanza interiore, riscrive tutti i nostri modi di pensare, di pensarci, di organizzare, di organizzarci, di stare insieme, di stare al mondo…
Ma dove si impara questo nuovo modo di stare al mondo?
Andando a scuola dal Padre, dice il vangelo: tentando di diventare pian piano (e non pretendendo di essere) “perfetto come il Padre nostro che è nei cieli”… Uno del quale Gesù dice che «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti»…
Solo un Dio paradossale così infatti può essere il Dio di quelli che paradossalmente amano i nemici…
Ma forse ci sembra tutto così paradossale – nonostante siano 2000 anni che tutto è già scritto nel vangelo – perché non abbiamo accettato un Dio così (che fa sorgere il sole sui buoni e suoi cattivi…)… Un Dio così infatti non serve a niente nella rivendicazione dei nostri diritti… cosa ce ne facciamo di un Dio così, che sa solo proporci di amare i nemici e quindi, non solo di non guadagnarci niente, ma anche di perderci… e non qualcosa, ma noi stessi?
Non serve a niente, ecco perché – pur essendo una definizione di Dio che ha dato Gesù stesso – è forse la meno conosciuta e citata nella storia del Cristianesimo… storia, segnata troppo spesso dalla ricerca di un dio che “serviva” a qualcosa, che serviva a noi (contro gli altri), a me (contro l’altro)… dimentica del Dio della gratuità, non della necessità; dell’amore, non del dovere; dell’inclusione, non dell’esclusione; del per te, non del per me; della tua misura, non della mia misura…
Forse è allora davvero giunto il tempo che ci mettiamo alla scuola del Padre, vivendo in un orizzonte segnato dalla preoccupazione per l’altro e non per la rivendicazione dei miei giusti diritti… chissà che “alla fine della fiera” non diventiamo anche noi perfetti come il Padre nostro celeste… e anche noi facciamo piovere il nostro bene sui giusti e sugli ingiusti…?!?
Ma se proprio nelle nostre relazioni umane non ce la facciamo a seguire questa strada prospettata dal Padre nella sua Parola, almeno non andiamo in giro a dire e a dare altre versioni di chi Lui sia: perché la cosa più grave (in cui purtroppo anche la Chiesa è caduta) non è non riuscire ad amare i nostri nemici ma desiderare che nemmeno Dio li ami.

Invece: io posso anche non riuscire a perdonare, a custodire l’altro, a inondarlo di un surplus d’amore, ma Dio resta Padre anche suo e questo scarto tra me e Dio non va colmato, tirando Dio dalla mia parte, predicandolo come il castigatore dei nemici. Perché questo è l’antivangelo.

mercoledì 12 febbraio 2014

VI Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del Siracide (Sir 15,15-20)
Se tu vuoi, puoi osservare i comandamenti; l’essere fedele dipende dalla tua buona volontà. Egli ti ha posto davanti fuoco e acqua: là dove vuoi tendi la tua mano. Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà. Grande infatti è la sapienza del Signore; forte e potente, egli vede ogni cosa. I suoi occhi sono su coloro che lo temono, egli conosce ogni opera degli uomini. A nessuno ha comandato di essere empio e a nessuno ha dato il permesso di peccare.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 2,6-10)
Fratelli, tra coloro che sono perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo, che vengono ridotti al nulla. Parliamo invece della sapienza di Dio, che è nel mistero, che è rimasta nascosta e che Dio ha stabilito prima dei secoli per la nostra gloria. Nessuno dei dominatori di questo mondo l’ha conosciuta; se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Ma, come sta scritto: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti conosce bene ogni cosa, anche le profondità di Dio.
Dal vangelo secondo Matteo (Mt 5,17-37)
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli. Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai;chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna. Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono. Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo! Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. Fu pure detto: “Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio”. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio. Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti”. Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re. Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”, “No, no”; il di più viene dal Maligno».
Il vangelo che la Chiesa ci propone per questa Sesta Domenica del Tempo Ordinario è il proseguimento del discorso della montagna.
Il versetto 17, quello che inaugura il brano odierno, e il discorso che a partire da esso Gesù pronuncia, suscita però qualche istintiva perplessità: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli». Una perplessità, dovuta al fatto che non siamo più molto abituati ad avere a che fare con un Gesù “intransigente”, soprattutto sui cavilli della Legge (che infatti lui stesso trasgredirà nella sua vita, basti pensare al vespaio che suscitano i suoi miracoli in giorno di sabato…). Perché dunque – proprio nel momento in cui fa un discorso programmatico sulla sua vita e sulla vita della Chiesa (in questo infatti consiste il discorso della montagna) – introduce questa “intransigenza”? Come va interpretata?

Mi pare che, innanzitutto, per non farsi trascinare in letture non conformi al più ampio contesto evangelico, sia utile chiedersi quale sia, dal punto di vista di Dio (e di Gesù), il senso della Legge… Perché se diamo troppo per scontato che la Legge sia quella “cosa” che abbiamo in testa noi, cadere in cortocircuiti ermeneutici è molto facile… Se invece proviamo ad andare in profondità sul significato profondo che il dono della Legge ha nel testo biblico (interessante la locuzione “dono della Legge”… perché noi che istintivamente la sentiamo come un qualcosa di ostico e opprimente, facciamo fatica a considerarla un dono… e già questo dovrebbe farci spuntare un campanellino d’allarme… perché, forse, quello che istintivamente pensiamo, non è esattamente il pensiero di Dio – e di Gesù – in proposito…), forse riusciremo anche a capire meglio il senso dell’“intransigenza” che Gesù propone nella sua osservazione…
Dunque cimentiamoci in un piccolo excursus… Innanzitutto una curiosità: la parola latina testamentum deriva da quella greca diatheke, che, a sua volta, è la traduzione di una parola ebraica (berit), che vuol dire “alleanza”. Perciò i nostri “Antico” e “Nuovo Testamento” non vogliono dire altro che “antica” e “nuova alleanza”… Essi cioè sono la storia di come Dio liberamente e gratuitamente decide di stringere con l’uomo un rapporto di amicizia.
L’amicizia che però Dio propone, la sua alleanza, ha contorni diversi da quelli delle nostre “amicizie/alleanze” umane: noi – solitamente – per “alleanza” (anche per quelle non sancite giuridicamente, come le amicizie) intendiamo un accordo tra due o più persone all’interno del quale avviene come uno scambio, fatto di reciprocità nell’offerta e nei benefici messi in campo. Esempio evidente è un contratto d’affitto (ma in genere tutte le alleanze economiche, fondate sul do ut des): uno mette a disposizione la casa e ci guadagna i soldi; l’altro mette a disposizione dei soldi e ci guadagna la possibilità di abitare in una casa.
Dicevo, anche nelle alleanze non sancite giuridicamente noi “funzioniamo” un po’ così: in un’amicizia ti offro il mio bene, la mia confidenza, la mia vicinanza, ma in cambio mi aspetto altrettanto bene, altrettanta confidenza, altrettanta vicinanza…
Bene, l’alleanza proposta da Dio funziona altrimenti: innanzitutto – se si segue un po’ il testo biblico – ci si accorge che l’iniziativa è sua e consiste in una gratuita disposizione ad essere amico/alleato del popolo. Per esempio Dio non chiede nulla in cambio della cessazione del diluvio universale: fa un patto unilaterale, in cui si offre come “il Dio del popolo di Israele”.
Inoltre – e veniamo a ciò che più direttamente ci interessa – anche quando sembra faccia un patto bilaterale (proponendosi come “il Dio del popolo”, quindi proponendosi come guida, protettore, custode, ecc… e chiedendo “in cambio” che “Israele sia il popolo di Dio” osservando le tavole della Legge del Sinai) in realtà, nuovamente, segue criteri diversi da quelli del do ut des. Sarebbe infatti interessante chiedersi perché Dio dia una Legge al suo popolo… a che pro? Cosa ci guadagna?
Lui non è che diventa “più Dio” se l’uomo osserva la sua Legge… anzi… proprio il contrario: è l’uomo che diventa “più uomo” se osserva la Legge… Cioè, forse, il modo giusto per guardare ai comandamenti di Dio non è tanto quello che ci ha introiettato una certa morale del contrappasso (devi osservare la Legge, altrimenti Dio ti punisce), quanto piuttosto quello di intendere la Legge come quei consigli che – dentro alla confidenza di un’amicizia – Dio si permette di dare all’uomo per suggerirgli un modo bello per essere uomo. Dei “consigli” dunque, non un’imposizione sotto minaccia di repressione! E con il fine, non di guadagnarci Lui (Dio), ma di consegnare all’uomo qualche suggerimento per arrivare alla fine della vita contenti di ciò che si è diventati. Una Legge perl’uomo dunque, per la sua felicità, per la sua umanizzazione! Dei consigli che – certo – l’uomo può non seguire (senza per questo incorrere nella punizione di Dio), ma – sembra suggerire il testo biblico – col rischio di immischiarsi col male, che la prima persona che abbruttisce (dis-umanizza) è esattamente chi lo fa!
Ma, se dunque è questo il senso vero della Legge (e Gesù lo ribadirà continuamente, tant’è che a chi lo accusava di trasgredire l’osservanza del riposo sabbatico, risponderà: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!», Mc 2,27), allora, forse, si inquadra meglio l’invito di Gesù ad un’intransigenza. Come a dire: quei “consigli” che Dio ha dato ad Israele per vivere una vita buona (che in greco coincide con “bella”), io non li invalido, anzi li voglio portare a compimento!
E infatti ecco l’elenco dei suoi “Avete inteso che fu detto / ma io vi dico”, dove ciò che è importante non è tanto – almeno a mio parere – la casuistica che Egli propone (son solo esempi, lascia fuori molte cose, dunque non ha certo qui una pretesa catalogativa esaustiva), quanto piuttosto l’evincere un criterio che possa farci capire cosa Gesù, con così tanta forza, voglia sostenere: e cioè, che il problema non è (l’ipocrisia del) l’osservanza legalistica della Legge (che appunto rimanda ad un’interpretazione errata di cosa sia la Legge, dal punto di vista di Dio e dunque di Gesù), ma la disposizione interiore del cuore dell’uomo verso il suo prossimo, l’intenzione del suo cuore, il modo di sentirlo, pensarlo, mettirglisi di fronte… Questo è il punto: se in una logica che rende bella la vita (una logica di Vita appunto, di donazione della vita, cioè di amore: l’unica cosa che – a dar retta a Dio e a Gesù – fa bella la vita), o una logica di sopraffazione e morte (che disumanizza l’uomo, soprattutto quello che la attua, più ancora di quello che la subisce)…
In questo senso allora torna interessante l’osservazione che fa il libro del Siracide nella prima lettura: «Se tu vuoi, puoi osservare i comandamenti; l’essere fedele [felice, nel senso di Dio, cioè amante e perciò contento di ciò che sei diventato] dipende dalla tua buona volontà. Egli ti ha posto davanti fuoco e acqua: là dove vuoi tendi la tua mano. Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà».
A noi non piace questo discorso sulla “buona volontà”. Troppo immediatamente infatti ci risuonano nelle orecchie dinamiche di volontarismo che ci hanno introiettato da piccoli (devi essere bravo, se no… devi riuscire, se no… devi essere adeguato sempre, se no…). Ma qui – se proviamo a staccarci dal senso che noi diamo a queste parole e a prenderle nel senso che hanno in loro stesse – vediamo che l’accento è del tutto diverso: qui si parla di quell’educazione interiore di sé che pian piano cura l’istinto di sopraffazione, di violenza, di omicidio che abbiamo nei confronti degli altri, per abituarci (gli antichi non a caso parlavano di habitus, una virtù talmente sedimentata da aver plasmato ormai la mia interiorità, cosicché non devo neanche più sforzarmi per essere quella cosa lì, perché ormai la sono diventata) a guardarli (gli altri), a sentirli, a pensarli e metterci di fronte a loro con lo sguardo della custodia, come per una cosa preziosissima che ho… Tutti gli “ma io vi dico” vanno infatti in questa direzione…
Per questo c’è bisogno di una “recisione” («se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te», «se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te»)… altro termine che a noi non piace… Ma perché  l’abbiamo sempre inteso come una recisione di qualcosa di nostro, che ci fa, ci costituisce, per cui “reciderlo” sarebbe una castrazione… Invece qui si intende recidere una logica… impedirsi proprio di attuarla, e poi – pian piano – anche impedirsi di pensarla; e poi – pian piano – anche di sentirla… per lasciar sempre più spazio ad un altro modo di porci di fronte agli altri, di pensarli, di sentirli…
E a chi dice che tutto questo è impossibile, Paolo risponde: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti conosce bene ogni cosa, anche le profondità di Dio».
E io aggiungo: io non sono capace, ma ho visto chi – pian piano – in vita, si è trasfigurato in questo modo! E perciò ci credo. E ci provo.

venerdì 7 febbraio 2014

V Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Isaìa (Is 58,7-10)

Così dice il Signore: «Non consiste forse [il digiuno che voglio] nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà. Allora invocherai e il Signore ti risponderà, implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”. Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio».

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (1Cor 2,1-5)

Io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso. Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione. La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.

 

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 5,13-16)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli».

 

In questa Quinta domenica del Tempo Ordinario (lo farà anche nelle prossime domeniche) la Liturgia ci presenta un brano tratto dal “Discorso della montagna” (Mt 5,1-7,29) – una delle sezioni più significative del vangelo – che settimana scorsa – se non fosse caduta di domenica la festa della Presentazione del Signore – avremmo sentito nel suo esordio (con la proclamazione delle beatitudini).

Oggi infatti ci ritroviamo fra le mani il proseguimento di quel medesimo discorso che Gesù fa alle folle e in particolare ai suoi. Sono loro quel “voi” a cui fa appello al termine dell’elenco delle beatitudini: «Voi siete il sale della terra… Voi siete la luce del mondo…».

Ma, dato che settimana scorsa non ci siamo potuti soffermare sulle beatitudini, faccio oggi una piccola digressione su quel testo, perché – vedremo – ha direttamente a che fare con questo.

Di per sé, le beatitudini, sostanzialmente, non sono molto più che un elenco di persone (o gruppi di persone) che Gesù definisce “beate”, dunque felici, contente…

Un elenco che chiunque di noi potrebbe stilare… anzi che sarebbe interessantissimo che ciascuno di noi stilasse… Chi è beato? Chi potremmo chiamare “felice”? Di chi potremmo dire che è contento?

Sarebbe interessantissimo, perché dalle proposte che ne risulterebbero, emergerebbe, per ciascuno, l’idea di felicità che ha in testa… l’idea di “buona riuscita” della vita… l’ideale di contentezza a cui aspira…

E il punto sta proprio qua: Quale idea di beatitudine, di felicità, di buona riuscita della vita, emerge dall’elenco di Gesù?

Beh… (letteralmente) è quella dei poveri in spirito, di quelli che sono nel pianto, dei miti, di quelli che hanno fame e sete di giustizia, dei misericordiosi, dei puri di cuore, degli operatori di pace, dei perseguitati per la giustizia.

Un elenco strano… Non tanto perché lontano da quello che formulerebbero i nostri adolescenti (o la parte più visibile e rumorosa dei nostri adolescenti – di tutte le età) – quindi un elenco in cui i beati sono i ricchi, i famosi, i calciatori, quelli che hanno tante donne, ecc… “Strano” dunque, non tanto per questo, quanto piuttosto perché, pur assomigliando – almeno in alcuni aspetti – all’elenco che formuleremmo anche noi alla ricerca di “ideali alti” (la mitezza, la giustizia, la pace, ecc…), in realtà ha in sé un elemento del tutto imprevisto (e che Luca radicalizzerà): quello degli afflitti, che ora la nuova traduzione rende con “quelli che sono nel pianto”…

Mentre infatti tutte le altre beatitudini di Matteo sono in qualche modo riconducibili ad un ideale accettabile e accettato – almeno a parole – da tutti noi, questa degli afflitti (e quelle di Luca: «Beati voi, poveri», « Beati voi, che ora avete fame», « Beati voi, che ora piangete»), ci risulta incompatibile da accostare ad un ideale di felicità…

Il punto è allora che – a dispetto di quanto sembrava all’inizio – l’ideale di felicità di Gesù, che in qualche modo non ci sembrava così lontano da quello (almeno teorico) che avremmo evinto anche da un nostro ipotetico elenco di beati, in realtà va ripensato… radicalmente…

Infatti forse l’inganno mentale in cui siamo caduti è stato quello di dare per scontato che cosa fosse la “beatitudine”, la “felicità” e, dunque, semplicemente far variare i percorsi per raggiungerla: perciò una vita bella, riuscita, felice non poteva essere quella dei ricchi, fannulloni, annoiati e soli… bensì quella di persone animate da grandi idealità e impegnate su quei versanti… la pace, la giustizia, la mitezza, ecc… pensando che questo fosse anche ciò che pensava / diceva Gesù…

Invece, la questione è più radicale… Quel “beati gli afflitti” insinua un necessario ripensamento che va a scavare fino al significato stesso di felicità… Detto con uno slogan: per Gesù i felici non sono necessariamente i sorridenti… Tra i beati Lui ci mette infatti anche quelli che piangono (di afflizione!).

Cosa vuol dire questo? Che la buona riuscita della vita per Gesù ha come elemento fondamentale qualcosa d’altro rispetto alla sensazione/emozione/condizione di ben-essere, di allegria, contentezza, soddisfazione, ecc… Per Lui infatti – e lo si evince da tutto il vangelo, da come vive e da come muore – una vita è beata se ha come unica preoccupazione quella di alzare il tasso d’amore nel mondo, testimoniando così l’inequivoca paternità di Dio. A quel punto non importa se le prendi, se ti perseguitano, se ti ritrovi nel pianto… non importa neanche se rimani da solo (come don Primo Mazzolari davanti allo specchio con un bicchiere di vino a dire: “Però c’abbiamo ragione noi!”)… la tua vita – a quel punto – è una vita “riuscita” secondo le logiche del Regno! E la felicità starà nel guardare alla consistenza della persona (amante) che si è diventati o si è tentato di diventare… il resto conterà… ma molto poco…

Ma – venendo al testo odierno – se l’idea di felicità che emerge dall’elenco dei beati che Gesù fa, è quella di chi nella vita si dà come unico e assoluto scopo quello di alzare il tasso d’amore nel mondo, anche l’essere “sale” e l’essere “luce” non può che andare in questo senso. Per Gesù il sapore da dare a questa nostra storia umana (personale e universale) e la luce sotto cui metterla è quella del bene dell’altro…

E questo per rendere «gloria al Padre vostro che è nei cieli».

È su questo punto che oggi vorrei soffermarmi… Su questa curiosa espressione “rendere gloria a Dio” (che Gesù chiama sempre Padre). Perché mi chiedevo… Cosa vorrà dire questo “rendere gloria”? Istintivamente mi saltano alla mente le teofanie dell’Antico Testamento, o gli incensi dei nostri riti religiosi, o momenti di particolare devozione…

Eppure le parole “stroncanti” di Gesù nel vangelo di Giovanni («Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. […] Viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità», Gv 4,22-23) giungono come un monito a frenare questo sviluppo semantico della locuzione “rendere gloria a Dio”.

Allora, forse, è meglio scendere un po’ più “terra terra” e provare a dire con parole nostre cosa potrebbe significare questa espressione… che a me, per esempio, diviene chiara se provo a sostituirla con quest’altra: “far contento il Padre”… che è molto diverso dall’accontentarlo! E in questo s. Teresina ci è maestra.

So che forse letteralmente non è proprio la stessa cosa e che gli studiosi del greco biblico e della filologia avrebbero qualcosa (di più preciso) da dire… Però, mi pare che tradurre “rendere gloria a Dio” con “farlo contento” renda bene l’idea di quello che voleva dire Gesù…

Soprattutto perché, se stiamo a vedere, ciò che invera questo invito sono – curiosamente – le «vostre opere buone» sulla terra! Esse fanno contento il Padre «che è nei cieli».

E in cosa consistano queste “opere buone” sulla terra, è lì a ricordarcelo in maniera inequivocabile la prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia: dividere il pane con l’affamato; introdurre in casa i miseri, senza tetto; vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti; togliere di mezzo l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio; aprire il cuore all’affamato; saziare l’afflitto di cuore.

Dove la cosa curiosa è lo strano modo che il Padre ha di chiedere una corrispondenza al suo amore: “Io ti amo” – dice il Padre (e questo è indubbio, è la buona notizia del vangelo per tutti, anche per i più peccatoracci di tutti! È ciò che è ‘fuori discussione’ per Gesù, che ha speso tutta la sua vita solo per dirci questo, senza arretrare mai di un passettino, neanche quando lo scontro s’è fatto duro e per testimoniare fino alla fine solo l’amore, ha deciso di farsi male solo lui – nessun altro si fa male durante la sua passione, perché anche il servo a cui viene tagliato l’orecchio, lui lo guarisce! Nessuno viene nemmeno maledetto: Gesù muore perdonando i suoi carnefici: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno», Lc 23,34… Solo lui muore della morte dei maledetti: «l’appeso è una maledizione di Dio», Dt 21,23. È la vittoria dell’inappellabilità del suo amore: non lo ha smentito mai, nemmeno quando – umanamente parlando – avrebbe avuto il diritto di dire “adesso basta”… e invece no… il basta non arriva mai…). “Io ti amo – dice dunque il Padre – se vuoi accogliere il mio bene e ricambiarlo, beh, fallo ricircolare su un altro, ama tuo fratello, il tuo prossimo, chi ti si pone sul cammino…”.

Ecco l’inedito! Come se io avessi un moroso e gli dicessi: “Sì, però ricambia il mio bene amando un’altra…”… Ma come!!?!? È un po’ strano… Ma è così perché per Lui ogni “altro”, ogni “altra” è suo/sua! Cosa che a noi, invece, risulta una logica inconcepibile, o perlomeno molto difficile da accettare e incarnare… per questo ci facciamo continuamente la guerra (e non solo quella con le armi… ma quella dell’affermazione dell’io…).

Invece Lui che è nei cieli, ma è molto più “terra terra” di noi, ci invita a sostenere lo sguardo di fronte a questo inaudito modo di stare al mondo, perché è quello vero, è quello che porta alla beatitudine di cui parlavamo domenica scorsa… È l’invito a non perderci in tante parole e cerimonie, incensi e devozioni, ma a far vedere che accogliamo e ricambiamo il suo amore, amando i nostri fratelli, suoi figli: «Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20). Non a caso, quando Gesù invia i suoi ad annunciare il vangelo (cioè la buona notizia che Dio è un Padre che ama i suoi figli), li manda a due a due, convinto com’è che renderanno testimonianza non per le grandi parole che diranno o per le grandi opere che faranno, ma per l’amore con cui si ameranno: questo persuaderà le genti: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).

Ma è evidente che per fare tutto questo è necessaria una conversione… perché noi ancora non siamo persuasi che Dio sia sempre e solo un Padre da cui viene sempre e solo il bene per l’uomo (anche peccatore, come me!). È per questo che Gesù vi insiste tanto e non fa nient’altro – praticamente – nella vita che ribadire, nelle parole e nei gesti, nelle scelte e nelle reazioni, nelle relazioni e nei modi di porsi, che il Dio vero è il Papà (l’Abbà) degli uomini, Colui che li abilita a vivere e dal quale non hanno niente da temere. Vi insiste tanto, soprattutto coi suoi, perché sa che «Si è immagine per gli altri solo di quel Dio che si ha dentro» [Giuliano] e se si vuole arrivare fino ai confini del mondo col vangelo, è per dare l’annuncio lieto di un Dio così, non di un altro, fatto a nostra immagine…
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