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martedì 25 marzo 2014

IV Domenica di Quaresima


Dal primo libro di Samuele (1Sam 16,1.4.6-7.10-13)

In quei giorni, il Signore disse a Samuele: «Riempi d’olio il tuo corno e parti. Ti mando da Iesse il Betlemmita, perché mi sono scelto tra i suoi figli un re». Samuele fece quello che il Signore gli aveva comandato. Quando fu entrato, egli vide Eliàb e disse: «Certo, davanti al Signore sta il suo consacrato!». Il Signore replicò a Samuele: «Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore». Iesse fece passare davanti a Samuele i suoi sette figli e Samuele ripeté a Iesse: «Il Signore non ha scelto nessuno di questi». Samuele chiese a Iesse: «Sono qui tutti i giovani?». Rispose Iesse: «Rimane ancora il più piccolo, che ora sta a pascolare il gregge». Samuele disse a Iesse: «Manda a prenderlo, perché non ci metteremo a tavola prima che egli sia venuto qui». Lo mandò a chiamare e lo fece venire. Era fulvo, con begli occhi e bello di aspetto. Disse il Signore: «Àlzati e ungilo: è lui!». Samuele prese il corno dell’olio e lo unse in mezzo ai suoi fratelli, e lo spirito del Signore irruppe su Davide da quel giorno in poi.

Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni (Ef 5,8-14)

Fratelli, un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate di capire ciò che è gradito al Signore. Non partecipate alle opere delle tenebre, che non danno frutto, ma piuttosto condannatele apertamente. Di quanto viene fatto in segreto da [coloro che disobbediscono a Dio] è vergognoso perfino parlare, mentre tutte le cose apertamente condannate sono rivelate dalla luce: tutto quello che si manifesta è luce. Per questo è detto: «Svégliati, tu che dormi, risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà».

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 9,1-41)

In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa “Inviato”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so». Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!». Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori. Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui. Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane».

 

Il lungo vangelo che la Chiesa ci propone per questa quarta domenica di Quaresima è molto lungo.

Mi limito dunque a mettere in luce un unico profilo di questo testo, tra i tanti che offre: quello dell’identità di Gesù. Infatti, raramente nel vangelo, si trovano brani così densi di “titoli” (positivi e negativi) che gli vengono attribuiti o che egli stesso si attribuisce, come quello di questa domenica. Potremmo infatti quasi dire che, tra le molte tematiche che questo brano intercetta, di certo, su tutte, spicca quella cristologica: esso sembra infatti costruito per rispondere alla domanda “Chi è Gesù?”. Una domanda, tra l’altro, che per come è costruito il discorso, non si propone in termini filosofico-metafisici – dunque riservati agli specialisti del mestiere – ma piuttosto in una trama coinvolgente, che trascina nel suo andirivieni concentrico (ma un concentrico “a spirale”, che cioè va sempre più in profondità) il lettore stesso. È lui che – dentro alla complessa dinamica in cui è raccontato lo scontro teologico sull’identità di Gesù (che sarà ciò che lo porterà a morire) – dovrà dare la sua risposta.

Veniamo dunque al testo…

Esso si apre con una domanda che i discepoli – vedendo «un uomo cieco dalla nascita» – pongono a Gesù: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?».

Rabbì è dunque il primo modo in cui nel testo viene nominato Gesù: maestro.

Un titolo a cui se ne affianca però subito un altro, contenuto nelle stesse parole di risposta di Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo».

Sono la luce del mondo è quindi ciò che Gesù dice di sé, il modo in cui, in questa prima parte del testo, si autodefinisce. Mentre quindi Gesù, rispondendo ai suoi, corregge la loro teologia (cioè il loro modo di pensare al male del cieco nato come legato ad un peccato suo o dei suoi genitori di cui la cecità sarebbe appunto la punizione… e lo fa mettendo immediatamente in relazione il cieco a Dio e non al peccato!), coglie anche l’occasione per dare un orientamento sulla sua identità: certo è un maestro, un rabbì… ma un maestro diverso da tutti gli altri: egli è infatti la luce del mondo, mandata da Dio.

Ma il brano prosegue, perché dopo la guarigione del cieco inizia la diatriba vera e propria sull’identità di Gesù. Perché il cieco, interrogato su come gli fossero «stati aperti gli occhi», risponde anche lui dando un “titolo” a Gesù. Lo nomina infatti: «l’uomo che si chiama Gesù». Il cieco parte quindi dall’evidenza immediata. È stato un uomo a guarirlo, un uomo di nome Gesù.

Ma i farisei lo incalzano, scettici sui fatti e sulla loro interpretazione. Anch’essi infatti dicono la loro sull’identità di Gesù: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Per loro dunque Gesù è un uomo che non viene da Dio.

Ma non son tutti d’accordo. Qualcuno infatti commenta: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». Per questi altri cioè Gesù non può essere un peccatore… deve in qualche modo “venire da Dio” per compiere segni di quel tipo.

«C’era [dunque] dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: “Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?”. Egli rispose: “È un profeta!”». Il nostro cieco ha fatto un passettino ulteriore… la domanda è sempre la stessa (la scena gira infatti continuamente intorno ad essa e la ripropone in continuazione), ma stavolta rispetto alla prima risposta, si va più in profondità: non è riportata solo l’evidenza immediata (l’uomo che si chiama Gesù), ma a partire da essa si fa un passettino ulteriore: mi ha aperto gli occhi, non può che essere un profeta, cioè uno che ha Dio dalla sua parte, non un peccatore!

Ma è proprio su questa interpretazione che i farisei “sbottano”: non può essere un uomo di Dio e tradire il riposo del sabato (vorrebbe dire che per Dio l’osservanza del sabato, cioè della legge non è il riferimento ultimo… quello su cui loro – farisei – hanno impostato tutta la loro vita…). E perciò urlano al cieco: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». In mancanza di ragioni convincenti, ecco che scatta la violenza: è un peccatore, «Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia».

Ma qui il cieco si fa raffinato, convinto ormai dalla reazione aggressiva degli altri, di averli messi in scacco: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Per il cieco dunque Gesù non solo è l’uomo che gli ha aperto gli occhi, non solo è un profeta, ma diventa uno che onora Dio e fa la sua volontà, uno che viene da Dio.

Tutto il problema legato all’identità di Gesù sembra così in qualche modo legato alla sua provenienza: viene da Dio o no?

Ma il brano non è ancora finito, perché nel finale presenta un’altra scena rivelativa. Gesù e il cieco si rincontrano dopo che quest’ultimo è stato cacciato dalla sinagoga (scomunicato) e nel dialogo che intraprendono, emergono altri due titoli: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!».

Dunque Figlio dell’uomo e Signore, titoli, entrambi molto forti (anche figlio dell’uomo, che a differenza di quanto si può pensare non indica un’audesignazione umile da parte di Gesù, ma fa riferimento a tutto un mondo anticotestamentario e ad un’appropriazione personale che rimandano all’eletto/inviato da Dio): è il riconoscimento finale del fatto che alla domanda “Da dove viene Gesù?”, il cieco (e Gesù stesso) dice “Da Dio”. È il riconoscimento finale sull’identità di Gesù. Come se l’evangelista nell’avvicinarsi della sua narrazione alla Pasqua, sentisse il bisogno di dire: stiamo parlando di questo, del Messia che viene da Dio!

Ecco perché a metà Quaresima, nella cosiddetta domenica laetare (quella che fa pendant con la domenica gaudere dell’Avvento – un tempo accomunata all’altra dal fatto di essere le uniche due domeniche in cui i paramenti liturgici erano rosa), quella che in qualche modo vuole porre una “pausa” nei toni concentrati della Quaresima per dare un po’ di lietezza ai fedeli, la Chiesa ci invita a fare una “pausa” per ricordarci che tutti gli sforzi di preparazione a questa Pasqua non sono fini a se stessi o marginali alla vita: il centro, ciò che c’è in questione, ciò su cui bisogna che ci concentriamo in questo tempo speciale è Gesù, il Figlio dell’uomo, cioè il Signore mandato da Dio.

Allora sarebbe bello fare anche noi una pausa e dare la nostra risposta alla domanda “Da dove viene Gesù?”, cioè “Chi è?”, provando a farlo anche noi come il cieco: non nei termini metafisici-filosofici degli addetti ai lavori, ma a partire da quella che è l’esperienza del nostro incontro con lui, della nostra storia con lui. E da lì ripensare noi stessi e la nostra vita, perché: «la conoscenza di sé e quindi la conoscenza di Dio sono speculari dentro di noi, e solo nella purificazione e ricostruzione della propria immagine di sé s’illumina l’immagine di Dio, e viceversa» [Giuliano].

martedì 18 marzo 2014

III Domenica di Quaresima


Dal libro dell’Èsodo (Es 17,3-7)

In quei giorni, il popolo soffriva la sete per mancanza di acqua; il popolo mormorò contro Mosè e disse: «Perché ci hai fatto salire dall’Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?». Allora Mosè gridò al Signore, dicendo: «Che cosa farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno!». Il Signore disse a Mosè: «Passa davanti al popolo e prendi con te alcuni anziani d’Israele. Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo, e va’! Ecco, io starò davanti a te là sulla roccia, sull’Oreb; tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà». Mosè fece così, sotto gli occhi degli anziani d’Israele. E chiamò quel luogo Massa e Merìba, a causa della protesta degli Israeliti e perché misero alla prova il Signore, dicendo: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?».

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 5,1-2.5-8)

Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 4,5-42)

In quel tempo, Gesù giunse a una città della Samarìa chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?». Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». «Signore – gli dice la donna –, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». Le dice: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». Gli risponde la donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». Gli replica la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità». Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa». Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te». In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: «Che cosa cerchi?», o: «Di che cosa parli con lei?». La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?». Uscirono dalla città e andavano da lui. Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia». Ma egli rispose loro: «Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete». E i discepoli si domandavano l’un l’altro: «Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?». Gesù disse loro: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. Voi non dite forse: ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l’altro miete. Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica». Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».

Le letture che la Chiesa ci propone in questa terza domenica di Quaresima sono talmente ricche da rendere impossibile un’indagine approfondita di tutto ciò che mettono in campo. Per questo mi limito a delineare uno dei possibili percorsi a cui esse ci aprono, e cioè: è soltanto facendo esperienza (e facendo poi memoria) del Signore che mi incontra nel più intimo di me (Gv 4,5-42), che Egli può essere tolto dal banco degli imputati (Es 17,3-7), dov’è guardato con sospetto come un lui qualunque, e diventare un Tu con cui Vivere la vita (Rm 5,1-2.5-8). Cerco di spiegarmi… a partire dall’esperienza del popolo di Israele nel deserto: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?». Ecco la domanda inquisitoria nei confronti di Dio che crea un evidente “ribaltamento” dei ruoli “classici” (di solito è dio che mette alla prova l’uomo!): qui invece il deserto, da terra di prova per la fede dell’uomo, diventa luogo dove in discussione vi è Dio in persona.

«Il Signore è in mezzo a noi sì o no?»… è la domanda di Israele nel deserto, ma non è certo una domanda che noi possiamo permetterci di guardare con sufficienza o superiorità: quante volte infatti è salita in gola anche a noi? Soprattutto proprio in quei momenti in cui, come si dice del popolo, si «soffriva la sete per mancanza di acqua»?

Per ognuno certamente l’esperienza del deserto e della sete assume contorni e sfumature personalissime, l’acqua che manca è per ciascuno connotata in modo singolarissimo, ma – mantenendo il paragone – non si può negare che quello della mancanza di acqua sia proprio un tratto caratteristico di questa nostra vita umana, di tutti e di ciascuno. «il credente fa fatica a scoprire il presente di Dio. E quindi va in crisi ad ogni sofferenza e si ribella: il Signore è in mezzo a noi o no? Rischia di regredire nella religione come schiavitù o di fuggire nel futuro apocalittico. Ma il Signore non vuole servi. Si offre come amico, che è presente adesso: io ci sono! è sempre la sua risposta» [Giuliano].

Ma non solo: comune a tutti e a ciascuno pare anche, almeno tendenzialmente, la reazione a questa carenza di acqua, di vita. Essa si connota infatti umanamente con l’inquisire Dio: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?». È lui il primo imputato del nostro male di vivere, dei nostri stenti, delle nostre infelicità e solitudini, delle nostre povertà e miserie, dei nostri lutti… della nostra sete di Vita: Dov’era Dio? Interessante a questo proposito è notare come la domanda «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?» sia come urlata ad un cielo vuoto: non è rivolta a Mosè, né a nessun altro membro del popolo; e non è rivolta nemmeno a Dio stesso; Egli vi è infatti citato alla terza persona… Ed è interessante perché rimanda ad un’altra domanda – urlata da una croce – che interrogherà il cielo: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Anch’essa è la domanda di uno che ha sete (sete di vita), di uno che dispera, di uno che muore… ma – a differenza di quell’altra – è una domanda che, anche nel grido dello strazio, tiene aperto il dialogo con il Padre. È infatti la domanda di uno che continua comunque a dargli del Tu, a interpellarlo in prima persona.

È proprio questa la novità cristica, la sua risposta al nostro umanissimo istinto di mettere in discussione Dio: o Dio lo incontri nel dramma della libertà storica di Gesù, o, se rimane un’impalcatura religiosa, un insieme di pratiche e devozioni, non ti disseta, non ti salva, non ti dà Vita; resta sempre un idolo in terza persona… cioè uno sconosciuto.

In questo senso è significativo che il liturgista abbia posto in connessione alla sete di Israele nel deserto, il dialogo che Gesù intrattiene con la Samaritana sull’acqua viva che zampilla per la vita eterna.

Questo incontro tra la libertà storica di questo uomo – che possiede in sé la fonte della Vita – e questa donna – che invece ha in sé la fonte della sete – è così coinvolgente perché non rappresenta un esempio edificante, un modello stereotipo del rivolgersi al Signore. Esso è piuttosto raccontato nel suo snodarsi, nel suo svolgersi reale; e in questo senso noi lettori siamo come catturati dentro alla scena, dove «il prototipo della fede... è la donna di tanti mariti! ... presso un antico pozzo biblico, a mezzogiorno, fuori orario per andare ad un pozzo, arriva infatti una donna mai vista prima, razza e religione diverse e conflittuali... Gesù, seduto lì, spossato dal viaggio, inizia un approccio sorprendente per lei (e anche per i discepoli, dopo). Un dialogo... come si impara una lingua ignota in terra straniera. Partendo dall’esperienza comune delle cose semplici e concrete, evidenti a tutte due, provoca l’intuizione di un significato nuovo, per successive ambiguità e spiegazioni, equivoci e chiarimenti. Smonta dolcemente un’impalcatura interiore di paure e pregiudizi, bisogni e desideri, legami e rimorsi... e le fa intravedere e le induce nel cuore una costellazione di orizzonti nuovi... e infine un totale sconvolgimento della vita. Attraverso    il sentiero difficile dei fraintendimenti: l’acqua e la sete, l’amore e i mariti, Dio e la sua casa, il messia e il suo vangelo, il pane e la fame, il missionario e il salvatore... sono i passi di questa privilegiata catecumena, alla quale un catechista d’eccezione insegna il cammino per diventare... discepola e apostola, come lui la sogna. Un arduo viaggio interiore, per portarla a disseppellire una sorgente d’acqua viva per la sua sete, non chissà dove, ma nel proprio intimo, scavando nei sedimenti induriti che le impediscono la conoscenza di sé e quindi la conoscenza di Dio. Le due immagini infatti sono speculari dentro di noi, e solo nella purificazione e ricostruzione della propria immagine di sé s’illumina l’immagine di Dio, e viceversa. Il racconto vivace dei desideri e delle resistenze, dello stupore e delle riluttanze di questa donna, segna in filigrana i passi critici della fede» [Giuliano].

Così al seguito di questa donna anche noi abbiamo, ancora una volta, la possibilità di accedere al mistero dell’identità di Gesù vedendolo in azione, dal di dentro della sua vita: Egli è accessibile anche ai peccatori! In queste pagine infatti si rivela qualcosa di eccezionale: Dio è quel Gesù che camminando per le strade della Samaria si incontra (e qui il verbo va preso nel senso forte di “si mischia l’anima”) con una donna («Giunge una donna»), una donna considerata eretica («una donna samaritana»), un’eretica peccatrice («Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero») e proprio a lei si rende accessibile come fonte della Vita: «Sono io, che parlo con te». Ecco perché è possibile anche per noi metterci nella nuova prospettiva (convertirci) che «viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. [...] Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità».

Non è più questione di appartenenza etnica, religiosa, di genere, di casta, di santità... L’incontro col Signore è questione di spirito e di verità, o, se volete, di verità di spirito: cioè è questione di lasciarsi incontrare nella trasparenza del proprio essere, di quel centro vitale in cui noi siamo proprio noi... O Dio lo si incontra lì nel nucleo vitale della nostra singolarità, o non è Dio, di certo non è il Signore della mia vita, non può essere la fonte che mi dà Vita. È questa la nuova via aperta da Gesù nell’incontro col Padre: «noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo [...] perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato». E non tengono più neanche le remore etiche che ci facciamo o che ci mettono addosso: «Infatti, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi». Non c’è scusa per non avventurar la vitasulle strade di questa amicizia... neanche il male commesso fa più da ostacolo... nel poter lasciarsi zampillare l’anima.

Infatti: «L’amore non funziona perché non si apre all’altro, ma cerca se stesso, cioè la propria immagine e il proprio soddisfacimento. Non incontrando nessuno che lo ami, la sete insaziata moltiplica i tentativi di dissetarsi e la conseguente frustrazione... Anziché patire una grande sete, sembra più comodo inseguirne molte, piccole e inappaganti. Gesù non rimprovera la donna per i cinque mariti, le fa osservare la sua situazione senza aggressione moralistica... Sa che non ha imparato ad amare, perché nessuno l’ha mai amata gratuitamente, in perdita – per amore! È apprendimento più difficile e più importante della vita. Si impara ad amare per contagio, per esser venuti in contatto con chi ti fa sperimentare che amare vuol dire consegnarsi alla sete dell’altro. Questo amore accende una nuova dinamica interiore, che ha il suo senso e la sua garanzia in se stessa. Lo sappia o no, si è incendiata ad un Amore che genera e nutre ogni amore, senza fine» [Giuliano].

giovedì 13 marzo 2014

Sole di Giustizia



Salta all’occhio il fatto che nel corso della storia si siano moltiplicati — e continuino a moltiplicarsi anche oggi — i fondamentalismi. In sostanza si tratta di sistemi di pensiero e di condotta assolutamente imbalsamati, che servono da rifugio. Il fondamentalismo si organizza a partire dalla rigidità di un pensiero unico, all’interno del quale la persona si protegge dalle istanze destabilizzanti (e dalle crisi) in cambio di un certo quietismo esistenziale. Il fondamentalismo non ammette sfumature o ripensamenti, semplicemente perché ha paura e — in concreto — ha paura della verità. Chi si rifugia nel fondamentalismo è una persona che ha paura di mettersi in cammino per cercare la verità. Già «possiede» la verità, già l’ha acquisita e strumentalizzata come mezzo di difesa; perciò vive ogni discussione come un’aggressione personale.
La nostra relazione con la verità non è statica, poiché la Somma Verità è infinita e può sempre essere conosciuta maggiormente; è sempre possibile immergersi di più nelle sue profondità. Ai cristiani, l’apostolo Pietro chiede di essere pronti a «rendere ragione» della loro speranza; vuol dire che la verità su cui fondiamo l’esistenza deve aprirsi al dialogo, alle difficoltà che altri ci mostrano o che le circostanze ci pongono. La verità è sempre «ragionevole», anche qualora io non lo sia, e la sfida consiste nel mantenersi aperti al punto di vista dell’altro, senza fare delle nostre convinzioni una totalità immobile. Dialogo non significa relativismo, ma «logos» che si condivide, ragione che si offre nell’amore, per costruire insieme una realtà ogni volta più liberatrice. In questo circolo virtuoso, il dialogo svela la verità e la verità si nutre di dialogo. L’ascolto attento, il silenzio rispettoso, l’empatia sincera, l’autentico metterci a disposizione dello straniero e dell’altro, sono virtù essenziali da coltivare e trasmettere nel mondo di oggi. Dio stesso ci invita al dialogo, ci chiama e ci convoca attraverso la sua Parola, quella Parola che ha abbandonato ogni nido e riparo per farsi uomo.
Così appaiono tre dimensioni dialogiche, intimamente connesse: una tra la persona e Dio — quella che i cristiani chiamano preghiera — , una degli esseri umani tra loro, e una terza, di dialogo con noi stessi. Attraverso queste tre dimensioni la verità cresce, si consolida, si dilata nel tempo. […] A questo punto dobbiamo chiederci: che cosa intendiamo per verità? Cercare la verità è diverso dal trovare formule per possederla e manipolarla a proprio piacimento.
Il cammino della ricerca impegna la totalità della persona e dell’esistenza. È un cammino che fondamentalmente implica umiltà. Con la piena convinzione che nessuno basta a sé stesso e che è disumanizzante usare gli altri come mezzi per bastare a sé stessi, la ricerca della verità intraprende questo laborioso cammino, spesso artigianale, di un cuore umile che non accetta di saziare la sua sete con acque stagnanti.
Il «possesso» della verità di tipo fondamentalista manca di umiltà: pretende di imporsi sugli altri con un gesto che, in sé e per sé, risulta autodifensivo. La ricerca della verità non placa la sete che suscita. La coscienza della «saggia ignoranza» ci fa ricominciare continuamente il cammino. Una «saggia ignoranza» che, con l’esperienza della vita, diventerà «dotta». Possiamo affermare senza timore che la verità non la si ha, non la si possiede: la si incontra. Per poter essere desiderata, deve cessare di essere quella che si può possedere. La verità si apre, si svela a chi — a sua volta — si apre a lei. La parola verità, precisamente nella sua accezione greca di aletheia, indica ciò che si manifesta, ciò che si svela, ciò che si palesa attraverso un’apparizione miracolosa e gratuita. L’accezione ebraica, al contrario, con il termine emet, unisce il senso del vero a quello di certo, saldo, che non mente né inganna. La verità, quindi, ha una duplice connotazione: è la manifestazione dell’essenza delle cose e delle persone, che nell’aprire la loro intimità ci regalano la certezza della loro autenticità, la prova affidabile che ci invita a credere in loro.
Tale certezza è umile, poiché semplicemente «lascia essere» l’altro nella sua manifestazione, e non lo sottomette alle nostre esigenze o imposizioni. Questa è la prima giustizia che dobbiamo agli altri e a noi stessi: accettare la verità di quel che siamo, dire la verità di ciò che pensiamo. Inoltre, è un atto d’amore. Non si costruisce niente mettendo a tacere o negando la verità. La nostra dolorosa storia politica ha preteso molte volte di imbavagliarla. Molto spesso l’uso di eufemismi verbali ci ha anestetizzati o addormentati di fronte a lei. È, però, giunto il momento di ricongiungere, di gemellare la verità che deve essere proclamata profeticamente con una giustizia autenticamente ristabilita. La giustizia sorge solo quando si chiamano con il loro nome le circostanze in cui ci siamo ingannati e traditi nel nostro destino storico. E facendo questo, compiamo uno dei principali servizi di responsabilità per le prossime generazioni.
La verità non s’incontra mai da sola. Insieme a lei ci sono la bontà e la bellezza. O, per meglio dire, la Verità è buona e bella. «Una verità non del tutto buona nasconde sempre una bontà non vera», diceva un pensatore argentino. Insisto: le tre cose vanno insieme e non è possibile cercare né trovare l’una senza le altre. Una realtà ben diversa dal semplice «possesso della verità» rivendicato dai fondamentalismi: questi ultimi prendono per valide le formule in sé e per sé, svuotate di bontà e bellezza, e cercano di imporsi agli altri con aggressività e violenza, facendo il male e cospirando contro la vita stessa.
Francesco, Vescovo di Roma
(via repubblica.it)

martedì 11 marzo 2014

La Trasfigurazione


Dal libro della Gènesi(Gen 12,1-4)

In quei giorni, il Signore disse ad Abram: «Vàttene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra». Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore.

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo (2Tm 1,8b-10)

Figlio mio, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia. Questa ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, ma è stata rivelata ora, con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo.

Dal vangelo secondo Matteo (Mt 17,1-9)

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo. Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».

In questa seconda domenica di Quaresima, la Chiesa attraverso il Vangelo di Matteo (17,1-9) ci invita ad addentrarci in uno degli eventi più enigmatici dell’esperienza terrena di Gesù, che è appunto la sua trasfigurazione.

Già solo la parola – trasfigurazione – pare creare in noi un certo qual senso di inadeguatezza, un alone di mistero… quasi forse un sentimento di inquietudine: ci sentiamo messi di fronte a uno di quegli episodi della vita di Gesù che, per come ce li hanno raccontati fin da piccoli, si discostano troppo dalla nostra capacità di comprensione, perché li sentiamo al di là della nostra umanissima esperienza. E chissà come, dalle profondità ataviche del Cristianesimo succhiato al seno di nostra madre, sentiamo improvvisamente che l’umanissimo Gesù che siamo abituati a trovare nel Vangelo, ora ci pare così lontano… ci incute quasi timore.

Eppure, se guardiamo bene al testo, non ci sarebbero poi così tanti elementi a sostegno di questa sensazione istintiva che ci nasce in cuore: tutta la vicenda è infatti raccontata nel giro di pochi versetti, manca di qualsiasi presentazione dal sapore enfatico, è priva di ogni euforico senso del miracoloso e addirittura si conclude con un deciso invito a non sponsorizzare l’accaduto.

Si potrebbe quasi anzi dire che il modo di raccontare questo fatto da parte di Matteo (come anche di Luca e Marco) sia il più demitizzato possibile: avrebbe potuto caricarlo di prodigiosità, avrebbe potuto sfruttarlo per convincere alla fede i suoi lettori, avrebbe potuto anche forzare un po’ la mano e sottolinearlo tanto da farlo diventare il momento clou del suo vangelo. E invece no: invece, appunto, gli dedica pochi versetti e tiene un profilo narrativo basso.

Questo è un indizio significativo di quale sia l’intento dell’evangelista: egli non sta pubblicizzando Gesù, come una delle tante proposte di salvezza presentate all’umanità, ma dentro all’evoluzione della narrazione evangelica («il racconto della trasfigurazione, nel vangelo di Matteo, è strettamente legato alla passione, preannunciata da Gesù appena prima e ribadita subito dopo» [Giuliano]), con la quale questo brano sta in continuità, vuole portare pian piano il discepolo all’incontro con l’identità del suo Maestro e Signore.

È in questa prospettiva che va letta anche la trasfigurazione: essa, da un lato, è uno dei momenti della vicenda della libertà di Gesù (è un’esperienza che fa Gesù); dall’altro, è il coinvolgimento in questa vicenda da parte dei suoi discepoli, i quali non la apprendono su un libro o per sentito dire, ma lasciandosene implicare e compromettendosi in prima persona.

Questo modo, che è l’unico vero, di conoscere qualcuno, non è stato possibile solo allora e a noi precluso per un’immensa e incolmabile distanza spazio-temporale dal fatto storico: anzi, tutto il NT trasuda la certezza di un’accessibilità reale per il discepolo di qualunque tempo alla drammatica storica della vita di Gesù. Essa è percorribile proprio nella stessa dinamica di implicazione e compromissione, che era propria dei discepoli della prima ora.

Ecco perché credo utile provare a ripercorrere il senso del brano evangelico che la liturgia ci propone, puntualizzando proprio questa dimensione: il coinvolgimento con la sua identità che il Signore ha inteso proporre ai tre discepoli, in questo episodio della trasfigurazione.

Dicevo prima infatti che questa è: 1) sia un’esperienza di Gesù; 2) sia un coinvolgimento dei discepoli (e di noi in quanto discepoli) in questa stessa vicenda.

Perché sottolineo questo? Perché – leggendo – mi è sorta questa domanda: “Ma Gesù quando ha chiamato «in disparte su un alto monte Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello», sapeva che sarebbe stato trasfigurato «davanti a loro»?”.

Certo, so che sono quelle domande che non ci si dovrebbe mai porre, perché – come insegnano gli studiosi – i brani biblici non andrebbero mai interrogati con domande eterogenee al testo così come esso si dà… però mi pare che questa possa comunque essere una domanda “ammessa”, se non altro perché credo possa aiutarci a inquadrare un po’ meglio la situazione. Infatti, leggendo il resto del brano, sembra che Gesù viva con molta naturalezza questa esperienza: di lui non è raccontata nessuna reazione, nessuna parola, se non sul finale quando appunto «Gesù si avvicinò, li toccò e disse: “Alzatevi e non temete”». Forse questo può farci dire che non è stata un’esperienza così inaspettata per Gesù; forse possiamo addirittura arrivare a dire che il suo comportamento, per come ce lo dipingono i sinottici, in quell’occasione è stato quello di chi vive qualcosa di conosciuto, quasi di usuale: Gesù non si è spaventato come gli altri.

In questa prospettiva, riprendendo la nostra impertinente domanda, potremmo allora dire che, sì, in qualche modo, Gesù ha scelto consapevolmente di portare con sé i tre discepoli (quelli delle occasioni importanti) per coinvolgerli in uno dei momenti essenziali della sua vita: la sua relazione col Padre e in Lui, con la Legge (Mosè) e i profeti (Elia).

Di questa esperienza, ciò che emerge dai versetti matteani, è sicuramente l’insieme dei tratti caratteristici (classici) della teofania (la luminosità, l’apparizione, la voce dalla nube…) – che stanno lì a dire che appunto in gioco c’è il relazionarsi a Dio –, ma soprattutto la messa in campo di una dialogicità: «Mosè ed Elia, che conversavano con lui», «una voce dalla nube che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo”».

È in questa sua esperienza di relazione dialogica con Dio e con la storia della salvezza che Gesù vuole coinvolgere i suoi tre discepoli, quasi a tirarli dentro nel più intimo della sua intimità (il suo rapporto col Padre). In questo senso questa è davvero un’esperienza rivelativa, un momento cioè in cui Gesù dice davvero di sé; ma appunto lo fa non con un bel discorso, ma tirando dentro alla sua vicenda (intanto che la vive!) anche altri, che così possono capire «che dal suo cuore, emanava come un’esplosione di luce, il mistero intimo del Messia, che nella sua vita storica, tiene insieme cose inconciliabili: la potenza divina e la debolezza umana, la sofferenza fino all’angoscia e la gioia di vedere realizzato il disegno di amore del Padre, lo svuotamento di ogni bene e la fecondità della salvezza...» [Giuliano].

Ma tutto questo – gli altri (i suoi, noi…) – lo capiranno solo dopo la sua risurrezione… Qui, tanto per cambiare, fanno ancora una volta la figura di quelli che capiscono poco…

Infatti, la prima cosa che si dice di loro, di Pietro in particolare (gli altri sono addirittura ammutoliti), è che prende la parola, ma, come Marco e Luca addirittura esplicitano, non sa che dire: «Non sapeva infatti che cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento» (Mc 9,6), «Egli non sapeva quel che diceva» (Lc 9,33). Matteo esprime questo suo dire inopportuno, attraverso l’escamotage letterario di non farlo nemmeno finir di parlare: «Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce…».

Inoltre Matteo aggiunge un’ulteriore notazione dell’“inebetimento” dei discepoli: «All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore».

Pare quindi che il tentato coinvolgimento nell’intimità di Gesù che egli attua a favore dei suoi, non sia andato a buon fine: i tre discepoli non capiscono, non sanno che dire e anzi si spaventano, tanto da ritrovarsi a terra tremanti e quasi tramortiti…

Ma non è il caso di essere troppo duri con loro, anche perché forse non sono così lontani da noi e da quell’immagine che tutti noi abbiamo misteriosamente impressa nella mente di un dio spauracchio dell’uomo, di un dio rivale all’uomo, di un dio che fa paura! In quest’ottica è più che comprensibile la reazione dei tre; senza contare che stiamo parlando di Ebrei, per i quali udire la voce di Dio può comportare addirittura la morte (in proposito il libro del Deuteronomio – 4,32-33 – dice: «Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da un’estremità dei cieli all’altra, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo?»).

Eppure la voce di Dio («voce di tuono», secondo Es 19,19) stavolta aveva un messaggio di speranza: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo».

Ma neanche questo basta!

È qualcos’altro che fa da chiave di volta nell’emotività dei discepoli. Perché effettivamente un cambiamento in loro c’è; li ritroviamo infatti un versetto dopo (v. 10) tutti tranquilli che intraprendono un discorso teologico con lo stesso Gesù: «Allora i discepoli gli domandarono: “Perché dunque gli scribi dicono che prima deve venire Elia?”».

Cosa gli ha fatto dunque ritrovare il riordinamento della sensibilità poc’anzi così sconvolta?

Io credo sia stato il tocco di Gesù, unito alle sue parole: «Gesù si avvicinò, li toccò e disse: “Alzatevi e non temete”».

È proprio questo modo nuovo di essere Dio in Gesù che permette all’uomo di non stare più prostrato pieno di paura, ma, toccato, di rialzarsi e coinvolgersi, in un ritorno al dialogo con Gesù, il Figlio che rivela un Dio che ama («Questi è il Figlio mio, l’amato»), che promette affidabilmente benedizione («Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra»). E questa è la buona notizia (Vangelo) per cui val la pena anche soffrire («soffri con me per il Vangelo»): che Dio è questo qua!

In questo brano infatti, di fronte ai nostri occhi: «si sono manifestate simbolicamente le tre tende della presenza di Dio , quasi tre successive abitazioni del Signore nella storia del suo popolo: la legge, la profezia... e il corpo di carne di Gesù», di cui la voce dal cielo dice: Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo! «Dunque questa ultima “tenda” è di tutt’altra natura. Non è solo la nuova legge che conduce a Dio, né la profezia che intravede nelle vicende storiche i barlumi di amore di Dio. È il figlio stesso, prediletto, di Dio, in cui, il Padre trova la sua gioia, perché lui salverà il mondo che il Padre “tanto ama”, attraverso la scadenza finale del dramma, quando gli stessi tre testimoni privilegiati, ma non più acuti degli altri, vedranno la sua disperazione e la sua debolezza estrema... ma fedele, fino alla morte. Fino a quando un ignaro centurione romano, dalla nube laica della sua rusticità militare, ribadirà la voce divina: “Costui era veramente figlio di Dio”! [Così] Tutto quello che Gesù ha fatto e detto è l’esegesi, la spiegazione, l’incarnazione dell’amore del Padre. Che così è divenuto percepibile a noi, al nostro linguaggio, al nostro coinvolgimento mentale e affettivo... Il suo amore di infinita benevolenza diventa umano... Questa è la gioia che lo fa rallegrare di compiacenza» [Giuliano].

martedì 4 marzo 2014

I Domenica di Quaresima


Dal libro della Gènesi (Gen 2,7-9; 3,1-7)
Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male». Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.
 
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 5,12-19)
Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato. Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire. Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti. E nel caso del dono non è come nel caso di quel solo che ha peccato: il giudizio infatti viene da uno solo, ed è per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute, ed è per la giustificazione. Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita. Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.
 
Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 4,1-11)
In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”». Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”». Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vàttene, satana! Sta scritto infatti: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”». Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.
 
Domani – mercoledì delle ceneri – inizia per la Chiesa un’altra quaresima… Domenica prossima è quindi la I di questo tempo forte. Le letture ancora una volta ci portano a meditare sul testo evangelico delle tentazioni nel deserto e sul brano genesiaco di Adamo ed Eva.
Su entrambi questi testi sono state scritte tantissime cose – dalle fonti più disparate – e anch’io ne ho già scritte molte… Perciò ho pensato, per questa lectio, di mettere insieme vari spunti che facciano pensare.
 
Innanzitutto: il tema che fa da porta d’ingresso alla quaresima è quello del male. Questo tempo forte infatti serve proprio nella Chiesa per prepararsi alla Pasqua – che è il mistero dell’incontro-scontro di Gesù con il male.
E allora poniamo fin da principio una questione: che cosa è il male?
Perché, del fatto che esso esista non c’è bisogno di convincere nessuno. Tanto meno è necessario convincere della sua complessità: esso possiede infatti articolazioni tali da arrivare a coprire tutto il campo umano (male fisico, male psichico, male morale… male subito, male inflitto… dolore colpevole, dolore innocente…).
Ma cosa intendiamo quando diciamo “male”?
Non è questione di errori, sbagli, imperfezioni, limiti; tutte cose che presuppongono una perfettibilità e quindi una risoluzione già umanamente possibile del problema. No! Il male di cui si parla nella Bibbia è quello che mette in discussione la realtà stessa del mondo, dell’uomo, di Dio, della mia interiorità.
La radicalità del male la si evince già dalle parole di Dio: «dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti» (Gn 2,17).
È quello che magistralmente Dostoevskij mostra in un passo de I fratelli Karamazov a proposito del dolore innocente, il paradigma più emblematico della radicalità del male:
«C'era una bambina di cinque anni, venuta in odio al padre e alla madre, persone rispettabilissime, di ottimo ceto sociale, ben educate e istruite. […] Quella povera bambina di cinque anni fu sottoposta a sevizie di ogni genere da parte dei colti genitori. La picchiavano, la frustavano, la prendevano a calci, senza motivo, sino a ridurle il corpo a un ammasso di lividi; alla fine, si spinsero a livelli di maggiore ricercatezza: la chiudevano per tutta la notte al freddo, al gelo di una latrina e, per punirla del fatto che lei non chiamava in tempo per fare i suoi bisogni, le insudiciavano la faccia con le sue feci e la costringevano a mangiare quelle feci, ed era la madre, la madre a costringerla! E quella madre era capace di continuare a dormire, quando di notte si udivano i lamenti della povera bambina, chiusa a chiave in quel lurido postaccio! Lo capisci questo, quando un piccolo esserino che non è ancora in grado di capire che cosa gli stanno facendo, si colpisce il petto straziato con il suo pugno piccino, al freddo e al gelo di quel lurido postaccio, e piange lacrimucce insanguinate, dolci, prive di risentimento al "buon Dio", perché lo difenda? La capisci questa assurdità, amico mio, fratello mio, pio e umile novizio di Dio, tu lo capisci a che scopo è stata creata questa assurdità, a che cosa serve? Senza di essa, dicono, l'uomo non avrebbe potuto esistere sulla terra, giacché non avrebbe conosciuto il bene e il male. Ma a che serve conoscere questo maledetto bene e male, se il prezzo da pagare è così alto? Infatti, tutto un mondo di conoscenza non vale le lacrime di quella bambina al suo "buon Dio"».
Queste parole atroci, mettono in gioco proprio il peso radicale del male: esso tocca le fondamenta stesse della vita, della possibilità della vita, della possibilità della mia vita. Qualsiasi riflessione sul male (e su Dio) deve allora rendere conto delle lacrime di quella bambina, che non possono rimanere un grido inascoltato che viaggia nell’universo.
 
Chiarito che è di questo che si sta parlando, facciamo un secondo passo: è evidente che la questione del male chiama in causa il volto di Dio e il volto dell’uomo.
Partiamo dal volto di Dio, con le tre proposizioni di epicurea memoria da far collimare:
- Dio è buono;
- Dio è onnipotente;
- il male esiste.
Con le varie combinazioni possibili:
- se Dio è buono e onnipotente, unde malum?;
- se Dio è onnipotente e il male esiste, Dio vuole il male? Non è buono?;
- se Dio è buono eppure il male esiste, forse che non sia onnipotente? Forse che il male sia più forte di Lui?
Tutte conclusioni evidentemente inaccettabili per la fede cristiana. Ma allora? Chi è Dio? Chi è Dio di fronte a quelle lacrime? Di fronte a quella radicalità?
Non possono certo essere accettati quei tentativi di risposta che evitano la posta in gioco. Vanno rifiutati approcci quali: il male come pedagogia di dio, il male come punizione di dio, il male come conto da pagare a una felicità postuma, il male come appagamento che dio chiede per la giustizia... Non c’è margine di compromesso su queste impostazioni.
Esse mettono in campo un volto di dio che non è quello di Gesù: che mai ha inflitto il male a qualcuno per insegnargli qualcosa, punirlo di qualcosa, fargli pagare il paradiso, fargli saziare la sete di sangue di dio; e nemmeno mai ha interpretato il male che ha incontrato come mandato da Dio per insegnare, punire, pagare, saziare…
Questi nostri modi di far fronte al male “tirando in ballo dio” in questo modo vanno rifiutati.
E non ha senso nemmeno l’apportare come giustificazione per conservarli il fatto che essi abitino la tradizione cristiana. Certo, le ritroviamo lungo tanta parte dell’arco del pensiero cristiano, ma esse vanno intese semplicemente come i tentativi storici di trovare ragionevolezza nel dramma della sofferenza umana e non possono essere elevate a verità!
 
Chiarita dunque la questione in campo e scartata tutta una serie di visioni (valide dal punto di vista filosofico, ma) incompatibili con la rivelazione evangelica, proviamo allora ad affrontare la questione del male e del volto di Dio (e dell’uomo) per come emerge dalle Scritture.
Partiamo da Genesi.
Infatti in questo anno A, accanto al “classico” vangelo di tutte le prime domeniche di quaresima che è quello delle tentazioni di Gesù nel deserto, la prima lettura è il racconto del cosiddetto “peccato originale”.
“Originale” qui non indica qualcosa di “stravagante”… ma nemmeno qualcosa di “originario”, come se si stesse narrando del primo reale peccato commesso dall’umanità (dal primo uomo) con delle conseguenze a cascata su tutte le generazioni che sono seguite (come farebbe pensare e – per secoli – ha fatto pensare una certa interpretazione letterale dei testi). Siamo piuttosto davanti al racconto del peccato “originale” perché, dentro al mito di Genesi, si tenta di raccontare il “funzionamento” del peccato di sempre, la matrice di ogni male che l’uomo fa e si fa…
Proviamo dunque ad analizzarlo un po’ più da vicino… Innanzitutto: il serpente. Esso è una figura letteraria che nella finzione del mito ha la funzione di rappresentare la cattiva coscienza umana o ciò che la instilla nelle profondità del nostro cuore (perché è lì che si dà la lotta tra Bene e Male).
Dunque il serpente… che esordisce con una domanda curiosa: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?». Una domanda curiosa perché ha in sé una chiara esagerazione: non è infatti assolutamente vero che Dio ha detto di non mangiare di alcun albero del giardino! Perché allora fa questa domanda, così palesemente erronea? Perché esagera così tanto nel travisamento delle parole (della Parola – della Legge – del comandamento) di Dio? Perché ha in mente una strategia bene precisa: quella di insinuare nella donna il dubbio che l’intenzione di Dio (in ciò che dice) non sia per il bene dell’uomo, ma per una sua soggiogazione, mortificazione, limitazione… Instilla cioè nella donna il dubbio che il comandamento di Dio sia troppo esagerato per avere uno scopo benefico: è infatti così difficilmente osservabile, che la sua trasgressione diventa giustificabile.
Ecco il primo dato: il male si origina sempre per una messa in discussione della paternità/benevolenza di Dio… per una sospensione della fiducia riposta in questo volto… una sospensione che apre la strada per addentrarsi in altre vie, in altre ricerche di felicità e bontà.
E la donna ci casca… Se prestiamo infatti attenzione alla sua risposta («Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”»), ci accorgiamo immediatamente che essa si è fatta “tirar dentro” alla rete del serpente: riporta infatti a sua volta il presunto comandamento di Dio, ma anch’ella lo sbaglia/esagera in due punti non marginali.
Se infatti andiamo a prendere ciò che aveva detto Dio («Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire»), vediamo come gli errori della donna siano:
-          Nella proibizione: Dio aveva detto solo di non mangiare, mentre lei aggiunge (esagera) “non mangiare e non toccare”;
-          Nella dislocazione: Dio aveva detto di non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male e non dell’albero al centro del giardino, che era l’albero della vita («Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male»)… come a dire che quando ci si insinua la tentazione del male, quest’ultimo diventa il centro del nostro mondo, dei nostri pensieri, dei nostri desideri…
Non a caso, la donna guardando al “frutto proibito” «vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza»… cioè era una via alternativa a quella di Dio che conteneva in sé tutto ciò che può soddisfare la ricerca della felicità: era buono (da mangiare, dunque appagava il desiderio corporeo), gradevole (agli occhi, dunque appagava il desiderio estetico), desiderabile (per acquistare saggezza, dunque appagava il desiderio di sensatezza)… appagava l’essere umano nella sua interezza… e di fatti «prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò»… Non prima però di aver sentito per l’ennesima volta il serpente parlare e mettere in discussione l’identità di Dio: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male».
Ecco consumato il peccato originale! Ecco raccontato cioè, non un peccato, ma lo “schema di funzionamento” di ognipeccato… Il problema biblico infatti non sono mai i peccati (al plurale), ma la loro radice più intima, chiamata – appunto – biblicamente, il peccato (al singolare), che è il dubbio su Dio. Questo infatti riesce a fare il serpente: instillare nella donna il dubbio che quel Dio che aveva sempre conosciuto come paterno, come benevolente (cioè come volente il suo bene), forse non lo è per davvero… forse nasconde una doppia faccia… un volto oscuro tenuto finora nascosto, per rivelarlo al momento opportuno, colpendoci alla sprovvista… con le sue punizioni, con le sue limitazioni, con le sue mortificazioni…
In proposito ho deciso di sottoporvi 2 testi di canzoni (diversissime tra loro) che trattano proprio di Adamo, Eva, Dio, il giardino, il peccato, ecc…
La prima è di Davide Van De Sfroos (che canta in dialetto comasco, ma vi ho messo anche la traduzione) e vuole essere più che altro una parodia, ma – al di là della parte ridanciana – non è per niente scema: anzi, coglie alcuni aspetti centrali, soprattutto su quella che è la tentazione istillata dal serpente riguardo al volto di Dio.
La seconda è di Fabrizio De Andrè e – anche se apparentemente ad un cristiano può sembrare “blasfema” (soprattutto in alcuni passaggi) – a me sembra molto interessante, perché mostra quello che un non credente – ascoltando i cattolici – capisce del mistero del male. Che volto di Dio abbiamo mostrato agli atei? Perché se il volto di dio è quello di cui lui parla, ha ragione a dirsi ateo. Allora è lui il blasfemo o noi che gli abbiamo mostrato un volto di dio (blasfemo) che non era quello di Gesù?


LA POMA (Van De Sfroos – dialetto comasco)
Adamo in sot la pianta vöreva far la pisa
Vaca che stremizzi, ghe salta fö na bisa
La bisa che la ceciara de quest e de quel
Adamo che g'ha paura che ghe cagna via l'usel
"Eva, Eva, ven scià anca te
Che voler men andar in mez duma me
Ghe ke na bisa che la vol parlà
Ghen sarie en mesté che noi pudimo far
"Adami, mi gh'ò schivi, sarà anca inteligent
Però en serpent le sempre un serpent"
Però a l'è curiosa, la vol sentir
Quel che la bisa la gha de dir
Ve ricorduf quela poma ve han dit de mai tucà?
Per me l'é na cazada, la poduf magnà
Ancha perché vioultri si ke
E intant il Padreterno chissà 'ndu a lè
Nii là a mangiar la poma, mangila tus düü
Che non ve suced nagot perché el ve ciapa pel cüü
Nii là a mangiar la poma, mangila tus düü
Magari diventuf più sebalas de lüü
Per una poma, per una poma
Propri quela poma, ma l'era la sua poma
Adamo, lu le na brava persona
E l'è brava anca la sua dona
è vero, è vero che ghem propri tut
G'ho mea de laorar, g'ho mea de far el magut
Se vo là a toccar la poma, magari el me se incazza
Me mola giò qualk fulmin, magari el me mazza
Ma intanto Eva la varda el so marì
Ghe dis che i é lì come du rembambì
In tütt el Paradììs i hennin giir dumà luur düü
E intaant el Padreternu chissà indue 'l s'è scundüü.
"Gh'émm tütt, gh'émm tütt,gh'émm tütt
Però intaant sémm in girr ammò biùtt
L'è inütil restà che cumé pòpp
Magari cun la poma vànn a posto tanti ròpp
Per una poma, per una poma
Propri quela poma, ma l'era la sua poma
Adamo in sö la pianta el vöer la poma
Ghe bòrla via la scala e varda là che toma,
La bissa la riid e l'Angel el se incàzza,
El rüva via a manetta cun scià una mazza
El fa una lüüs che l'è una beléza
Ghe mola un catfiich che umenti i a sgavezza
E Adamo ed Eva che i vöeren veenc,
I branchén scià la poma e la pìchen suta i deenc
La poma che la fa schivi, ghè deent anca l'cagnòtt
E Adamo ed Eva i tàchen a dàss bòtt.
El biss el riid cun la fàcia de balòss
El riid talmeent de güst che urmai se pìssa adòss,
E l'Angel el ghe diis "La v'è piasüda?"
E gò un oltru culpu e giò un oltra batüda.
El Padreterno che l'ha gnanca muvüü un dii
El varda nànn i düü rembambii :
"Vi ho dato il Paradiso e l'era mea assée
Vuréuff la poma e sempru püseée,
Ve piàas rubà, ve piàas fa la guéra?
Sii propi faa apposta per viif in söe la Tera.
E Adamo ed Eva, sia lee che lüü
Ne vànn del Paradiis a Pescìaat in del.
LA POMA (traduzione)
Adamo sotto la pianta voleva far pipì
vacca che spavento, gli salta fuori una biscia
la biscia chiacchera di questo e di quello
Adamo ha paura che gli morda l'uccello
"Eva,Eva,vieni qui anche tu
che non voglio andarci di mezzo solo io
c'è qui una biscia che vuol parlare
ci sarebbe qualcosa che potremmo fare…"
"Adamo,io ho schifo, sarà anche intelligente,
però un serpente è sempre un serpente"
Però è curiosa, vuole sentire
quello che la biscia ha da dire
"Vi ricordate quella mela che vi han detto di non toccare
per me è una cazzata, la potete mangiare
anche perché voi siete qui
e intanto il Padreterno chissà dov'è
andate a mangiargli la mela, mangiatela tutt'e due
non vi succede nulla perché vi prende per il culo
andate a mangiargli la mela, mangiatela tutt'e due
magari diventate più furbi di lui…
Per una mela, per una mela,
proprio quella mela, ma era la sua mela
Adamo, lui, è una brava persona
ed è brava anche la sua donna
E' vero, è vero qui abbiamo proprio tutto
non devo lavorare,non devo fare il muratore
se vado a toccargli la mela, magari s'incazza
mi molla qualche fulmine, magari mi ammazza"
Ma intanto Eva guarda suo marito
gli dice che son lì come due rimbambiti
In tutto il Paradiso sono in giro solo loro due
e intanto il Padreterno chissà dove si è nascosto
Abbiamo tutto, abbiamo tutto……..
però intanto siamo ancora in giro nudi
è inutile restare qui imbambolati
magari con la mela vanno a posto tante cose
Per una mela, per una mela,
proprio quella mela, ma era la sua mela
Adamo sulla pianta vuol prendere la mela
gli cade la scala, e guarda che volo…
La biscia ride e l'Angelo s'incazza
arriva giù in picchiata con una mazza
fa una luce che è una bellezza
gli molla una botta che a momenti lo spezza
e Adamo ed Eva che vogliono vincere
pigliano la mela e la mettono sotto i denti
La mela che fa schifo, c'è dentro pure il verme
E Adamo ed Eva cominciano a darsi botte…
Il serpente con la faccia da furbetto
ride tanto di gusto che quasi se la fa adosso
e l'Angelo dice "Vi è piaciuta?"
E giù un altro colpo, giù un'altra battuta…
Il Padreterno che non ha neanche mosso un dito
Guarda andarsene i due rimbambiti:
"Vi ho dato il Paradiso e non era abbastanza
volevate la mela e sempre di più
vi piace rubare, vi piace fare la guerra,
siete proprio fatti apposta per vivere sulla Terra!"
E Adamo ed Eva, sia lei che lui,
se ne vanno dal Paradiso e pedate nel …


UN BLASFEMO (Fabrizio de André)

 

Mai più mi chinai nemmeno su un fiore,

più non arrossii nel rubare l’amore

dal momento che Inverno mi convinse che Dio

non sarebbe arrossito rubandomi il mio.

 

Mi arrestarono un giorno per le donne ed il vino,

non avevano leggi per punire un blasfemo,

non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte,

mi cercarono l’anima a forza di botte.

 

Perché dissi che Dio imbrogliò il primo uomo,

lo costrinse a viaggiare una vita da scemo,

nel giardino incantato lo costrinse a sognare,

a ignorare che al mondo c’è il bene e c’è il male.

 

Quando vide che l’uomo allungava le dita

a rubargli il mistero d’una mela proibita

per paura che ormai non avesse padroni

lo fermò con la morte, inventò le stagioni.

 

...mi cercarono l’anima a forza di botte...

 

E se furon due guardie a fermarmi la vita,

è proprio qui sulla terra la mela proibita,

e non Dio, ma qualcuno che per noi l’ha inventato

ci costringe a sognare in un giardino incantato.

Ci costringe a sognare in un giardino incantato.

 

http://www.youtube.com/watch?v=GGuqlJfag9M

http://www.youtube.com/watch?v=5EdfDj8vZG0

 

Veniamo dunque al vangelo… per farci istruire da esso nell’affrontare (sia nella meditazione che nella vita) la questione “qual Dio alla luce del male radicale?”.

Siamo di fronte alle tentazioni nel deserto (secondo l’evangelista Matteo). Un episodio che p. Giuliano Bettati, ocd ha chiosato in questo modo: «Un’esperienza di guerra totale contro il male, pagata sulla sua pelle, per imparare ad amare sempre, senza cedere mai alla paura e all’egoismo, senza tentennamenti né pentimenti».

Per capire il testo sarebbe interessante chiederci: Se dovessimo sentir parlare di “tentazioni” in ambito cristiano, senza leggere questo testo, che cosa ci verrebbe subito in mente? Se parlassi ad una persona nata nel nostro contesto culturale cattolico, senza fare immediatamente riferimento al brano evangelico delle tentazioni, a quale campo semantico assocerebbe il termine “tentazione”?

Non credo ci sia ombra di dubbio: il referente primo sarebbe il sesso!

La tentazione nel nostro contesto culturale cattolico è immediatamente associata (involontariamente, istintivamente, senza doverci nemmeno pensare) alla questione morale, legata in particolare ai “peccati sessuali”.

Sarebbe interessante chiedersi perché…

Ma più interessante ancora è andare a leggersi il testo di Matteo (come anche quello di Luca) per vedere che la medesima associazione è assente nella mentalità di Gesù e della prima Chiesa. Come già accennavamo, la tentazione non è legata ai peccati (al plurale) – che noi immediatamente riferiamo alle “parti basse”: di sesso, donnine seminude che tentavano Gesù o cose simili non c’è nemmeno l’ombra!

La tentazione, e il peccato (al singolare!) connesso, ha un altro referente: riguarda il volto di Dio. La tentazione – secondo il vangelo – non è qualcosa che ha a che fare con la morale, ma con la teologia. E di fatti il dialogo “fittizio” che si svolge tra Gesù e il diavolo è un dialogo tra teologi, fatto a colpi di citazioni della Bibbia!

Ciò su cui il “diavolo” tenta Gesù per tutta la vita, fin lassù sulla croce, è quindi l’identità di Dio (che – come abbiamo visto è il medesimo congegno del serpente di Genesi 3).

Non a caso tutte e tre le tentazioni cominciano con quel “Se tu sei Figlio di Dio:

-          se tu sei il figlio di quel Dio che trasforma le pietre in pane (cioè se credi nel dio della magia, che risolve i problemi saltando la storia – e dunque la libertà del creato e dell’uomo) allora…

-          se sei il figlio del dio onnipotente…

-          se sei figlio del dio a portata di mano…

Può aiutarci a illuminare il senso di queste tentazioni un altro testo – a mio parere – insuperabile di Dostoevskij, contenuto nel discorso del grande inquisitore:

«Lo spirito intelligente e terribile, lo spirito dell’autodistruzione e del non essere, il grande spirito, Ti parlò nel deserto, e nei libri ci è riferito come egli Ti avesse “tentato”. Ma si poteva mai dire qualcosa di piú vero di quanto egli Ti rivelò nelle tre domande che Tu respingesti e che nei libri sono dette “tentazioni”? […] In quelle tre domande infatti è come compendiata e predetta tutta la storia ulteriore dell’umanità, sono dati i tre archetipi in cui si concreteranno tutte le insolubili, contraddizioni storiche dell’umana natura su tutta la terra. […] “Decidi Tu stesso chi avesse ragione, se Tu o colui che allora T’interrogava. Ricordati la prima domanda: se non la lettera il senso era questo: “Tu vuoi andare e vai al mondo con le mani vuote, con non so quale promessa di una libertà! Vedi Tu invece queste pietre in questo nudo e infocato deserto? Mutale in pani e l’umanità sorgerà dietro a Te come un riconoscente e docile gregge, con l’eterna paura di vederti ritirare la Tua mano, e di rimanere senza i Tuoi pani”. Ma Tu non volesti privar l’uomo della libertà e respingesti l’invito, perché, cosí ragionasti, che libertà può mai esserci, se la ubbidienza è comprata coi pani? […] Acconsentendo al miracolo dei pani, Tu avresti dato una risposta all’universale ed eterna ansia umana, dell’uomo singolo come dell’intera umanità: “Davanti a chi inchinarsi?”. […] Tu conoscevi, Tu non potevi non conoscere questo fondamentale segreto della natura umana, ma Tu rifiutasti l’unica irrefragabile bandiera che Ti si offrisse per indurre tutti a inchinarsi senza discussione dinanzi a Te; la bandiera del pane terreno, e la rifiutasti in nome della libertà e del pane celeste. […] In questo Tu avevi ragione. Il segreto dell’esistenza umana infatti non sta soltanto nel vivere, ma in ciò per cui si vive. Senza un concetto sicuro del fine per cui deve vivere, l’uomo non acconsentirà a vivere e si sopprimerà piuttosto che restare sulla terra, anche se intorno a lui non ci fossero che pani. Questo è giusto, ma che cosa è avvenuto? Invece di impadronirti della libertà degli uomini. Tu l’hai ancora accresciuta! […] Ci sono sulla terra tre forze, tre sole forze capaci di vincere e conquistare per sempre la coscienza di questi deboli ribelli, per la felicità loro; queste forze sono: il miracolo, il mistero e l’autorità. Tu respingesti la prima, la seconda e la terza e desti cosí l’esempio. Lo spirito sapiente e terribile Ti aveva posto sul culmine del tempio e Ti aveva detto: “Se vuoi sapere se Tu sei Figlio di Dio, gettati in basso, poiché di Lui è detto che gli angeli Lo sosterranno e Lo porteranno, ed Egli non cadrà e non si farà alcun male, e saprai allora se Tu sei il Figlio di Dio e proverai allora quale sia la Tua fede nel Padre Tuo”; ma Tu, udito ciò, respingesti l’offerta, non Ti lasciasti convincere e non Ti gettasti giú. […] Tu non scendesti dalla croce quando Ti si gridava, deridendoti e schernendoti: “Discendi dalla croce e crederemo che sei Tu”. Tu non scendesti, perché una volta di piú non volesti asservire l’uomo col miracolo, e avevi sete di fede libera, non fondata sul prodigio. Avevi sete di un amore libero, e non dei servili entusiasmi dello schiavo davanti alla potenza che l’ha per sempre riempito di terrore. […] Tu però già allora avresti potuto accettare la spada di Cesare. Perché ricusasti quest’ultimo dono? Accogliendo questo terzo consiglio dello spirito possente, Tu avresti compiuto tutto ciò che l’uomo cerca sulla terra, e cioè: a chi inchinarsi, a chi affidare la propria coscienza e in qual modo, infine, unirsi tutti in un formicaio indiscutibilmente comune e concorde, giacché il bisogno di unione universale è il terzo e l’ultimo tormento degli uomini».

Ma Gesù non accettò neanche l’ultimo dono del maligno… sintetizzando in questi suoi rifiuti la scelta di tutta una vita, sul suo modo di stare al mondo: affidandosi al Padre e non ad altro.

Notate bene: affidandosi al Padre non ad un dio impersonale. È dentro a questa relazione, reale e concretissima («Dopo aver congedato la folla, si ritirò in disparte sul monte a pregare. E, venuta la sera, se ne stava lassù tutto solo» Mt 14,23), in cui il Padre resta sempre un Tu, anche quando è invocato o bestemmiato nella disperazione («E, verso l'ora nona, Gesù gridò a gran voce: “Elì, Elì, lamà sabactàni?” cioè: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”» Mt 27,46), che Gesù si fida.

Forse il nostro problema più grande nell’affrontare il tema del male, del mondo come il nostro, è che presupponiamo sempre dio (impersonale e cosmico), il male (l’altra grande forza in campo) e noi (spettatori – vittime di una battaglia che talvolta ci investe). È lo stesso scenario che si presenta nel mito dei primogenitori, che parlano di dio sempre in terza persona, come il grande assente (dai loro cuori), fin quando sarà proprio lui –usando la II persona – a dire: «Adamo (= uomo) dove sei?» (Gn 3,9).

È questa domanda «dove sei?», che deve collocarci nel posto giusto per parlare di Dio e anche di Dio alla luce del male: è a partire dal mio rapporto con lui che quanto dirò smetterà di suonare come apologetico, falso, non sentito…

Quella a cui conformarsi allora è la collocazione di Cristo, che non ha evitato il male, non ha difeso dio, ma nella sua libertà, nel luogo cioè del suo esser-ci, del suo dire io, della sua presenza a se stesso ha incontrato il male, lasciandosene ferire fin dentro alle giunture più intime della carne e dello spirito, mantenendo però vivo quell’abbandono a quel Tu intimo e innamorato che conosceva come affidabile: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46).

È dal di dentro di questo rapporto, dal parlare con Dio più che dal parlare di Dio (come diceva santa Teresina) che si può affrontare il discorso sul male: solo lì infatti lo scacco che il male pone al mio esser-ci, alla mia libertà, alla mia umanità, è confrontato e vinto dalla fonte della Vita, del mio esser-ci, della mia libertà e della mia umanità.

Anche per Gesù infatti… «Non si trattava soltanto di sopravvivere, lui e i suoi... il mangiare, bere, vestirsi… la casa e gli affetti, e le varie necessità essenziali pur semplicissime, che dopo l’infanzia imparò a soddisfare con il lavoro duro delle sue mani, come la tradizione e le Scritture insegnavano. Ma soprattutto era in gioco la compassione per i bisogni ... disattesi o disprezzati, dei poveri, malati, oppressi …che costituiranno apertamente i suoi interlocutori preferiti degli anni della vita pubblica … L‘impazienza di intervenire e lo struggimento dell’impotenza di fronte al male, avranno fatto venire anche a Gesù un’umanissima voglia di miracolo, pur di soccorrere il disperato che non ha più dove sbattere la testa, il piccolo violentato nella sua crescita umana, l’affamato che si è smangiato ogni sentimento umano perché non ha cibo per il suo stomaco né tenerezza per il cuore. Ecco il desiderio che il Padre trasformi non solo le pietre in pane, ma le rocce in case e il deserto in scuole e ospedali e rifugi d’accoglienza per chi ha perso ogni riparo… E invece gli tocca imparare ad amare a mani vuote E ‑ anche lui ! ‑ dopo quel poco che può fare, dichiararsi servo inutile, per questo tipo di bisogni. Ed abitare nella nostra stessa impotenza, accanto alla sofferenza senza rimedio. Ed imparare quanto è amaro e duro, rinunciare ad usare Dio per tappare i vuoti della nostra storia, cercando invece di accompagnare umilmente la gente nel deserto inospitale della vita. E ascoltare quale Parola esce dalla bocca di Dio, dentro le situazioni senza uscita nelle quali lascia vivere i suoi figli. E, dunque, imparare ad amare, senza pretendere inutili miracoli!» [Giuliano].
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