In questa prima domenica di Quaresima, la Chiesa – come di consueto – ci invita a riflettere sul brano delle cosiddette “tentazioni nel deserto”; quest’anno secondo l’evangelista Luca. Questo ci costringe – rispetto alla lettura corsiva del vangelo di Luca che stavamo conducendo durante le settimane del Tempo Ordinario – a fare un passo indietro: eravamo infatti giunti a leggere e meditare il sesto capitolo di questo vangelo, mentre il brano odierno è collocato da Luca al capitolo 4. Esso, precisamente, sta dopo i primi 2 capitoli dedicati all’infanzia, e il terzo, in cui è presentato il battesimo di Gesù e la sua genealogia, ed immediatamente prima dell’inizio vero e proprio del ministero pubblico di Gesù, che – come dicevamo qualche settimana fa (terza domenica del Tempo Ordinario) – Luca colloca a Nazaret.
Questo quarto capitolo si apre con la comparsa sulla scena di due personaggi inaspettati: uno già presentato in precedenza, uno che appare qui per la prima volta: si tratta dello Spirito Santo e del diavolo. Il primo era già comparso durante la scena del battesimo («Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba», Lc 3,21-22): ciò che qui appare come inatteso è il fatto che sia precisamente lui a guidare Gesù nel deserto.
La prima sorpresa dunque è quella per cui – a differenza di quanto a volte trasmette il sentire popolare – Gesù non si imbatte casualmente nelle tentazioni, non finisce nel deserto spinto dal diavolo, ma in qualche modo – nel suo dialogo personale col Padre, che è lo Spirito – sceglie di andarci, sceglie di mettersi in una situazione di assoluta nudità di fronte a Dio e a se stesso e dunque in una condizione fragile, attaccabile, denudata appunto.
Ma perché Gesù sceglie di andarci? Di correre questo rischio? Alla ricerca di cosa? Se non sapessimo che è il Figlio di Dio diremmo: è un uomo che sta per iniziare un esporsi a livello pubblico, è un uomo che ha appena fatto un’esperienza forte e non del tutto comprensibile come quella del battesimo al Giordano, dell’entusiasmo del Battista, della voce che parlava dal cielo… probabilmente vuole fermarsi un momento per riflettere bene su chi lui sia e voglia essere, su quale sia la sua identità e la sua missione, il suo desiderio e il modo di perseguirlo…
Diremmo così, se non fosse il Figlio di Dio… Ma, visto che è il Figlio di Dio, si può ancora dire che nel deserto ci va alla ricerca di se stesso e di Dio, della sua identità e di quella di Colui dal quale si sente mandato? Non dovrebbe già sapere tutto, vedere tutto, non avere nessun dubbio?
Evidentemente le domande sono retoriche, perché nascondono un falso modo di intendere l’identità del Figlio di Dio, un’identità che perde il dogma cristologico fondamentale, quello della piena umanità insieme alla piena divinità. Quanto perciò avremmo detto se non avessimo saputo che Gesù è il Figlio di Dio, va detto comunque; anzi è la condizione che rivela se abbiamo capito davvero cosa vuol dire “essere Figlio di Dio” per Gesù, che non a caso è un concetto che si riempie di significato solo dopo che abbiamo percorso l’avventura umana di Gesù e non prima! Cosa voglia dire “Figlio di Dio” infatti non lo si sa a priori, prima che Gesù viva la sua storia – come se gli fosse stato attribuito questo titolo perché la sua vita coincideva con l’idea preconcetta che si aveva su come dovesse essere un “Figlio di Dio” – ma a posteriori: cioè – vedendo quella vita – si è detto: “Questi è il Figlio di Dio!” (cfr. «Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”»Mc 15,39).
Gesù dunque, il Figlio di Dio, va nel deserto per mettersi a nudo di fronte a se stesso e di fronte a Dio, perché – come ogni figlio di uomo su questa terra che cresce – ha il problema dell’identità (Chi sono?) e della libertà (Chi voglio essere?).
Lì, incontra il secondo personaggio misterioso presentato dal primo versetto di Lc 4: il diavolo.
L’etimologia del suo nome, forse può aiutarci a inquadrarlo almeno un po’: dia-ballo letteralmente vuol dire gettare in mezzo / attraverso; diavolo vuol allora dire divisore, colui che divide. In questo senso il diavolo di cui parla Luca non è il personaggio folcloristico con le corna e la coda che spesso associamo a questo nome: quel diavolo – semplicemente – non esiste; è solo la visibilizzazione, la personificazione di ciò che è male. Chi ha incontrato allora Gesù nel deserto? Non un personaggio in carne ed ossa, bensì dentro se stesso la possibilità del male, la possibilità di attaccare il cuore a qualcosa che non fosse l’amore del Padre, la possibilità di scegliere di dar retta ad altro rispetto al progetto del Padre. Il dare una fisionomia a quest’esperienza è solo strumento letterario per poterla raccontare, per poter raccontare dell’esistenza del male, dell’esperienza del suo starci fronte e penetrarci fin nelle midolla. È nel nucleo più intimo di noi stessi infatti che si dà questo incontro, non fuori, nel buio, al cimitero o chissà dove. Il diavolo è l’esperienza della possibilità che la divisione da Dio, dagli altri, da noi stessi si annidi nelle profondità più intime di noi stessi. Questo è il male.
E questa è l’esperienza di Gesù, stigmatizzata – perché possa essere verbalizzata – come se fosse un’esperienza con dei confini precisi (40 giorni, il deserto…), ma che in realtà accompagna l’esistenza tutta di Gesù, come non a caso lascia intendere Luca, quando conclude il brano con l’espressione: «il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato». «Dunque la prova non è un episodio chiuso, ma aperto. È previsto un tempo in cui Satana ritornerà. La prova si riproporrà nella vita di Gesù e, più tardi, nella vita della comunità dei discepoli. In un certo senso, tutta la vita di Gesù fu accompagnata dalla prova […]. Una prova insistente, proveniente da varie parti (da Satana, da scribi e farisei, dalla gente) e tuttavia sempre uguale nel contenuto: il tentativo, cioè, di distogliere Gesù dalla fiducia nella parola di Dio e indurlo a percorrere strade umanamente più promettenti» [B.MAGGIONI, il racconto di Luca, Cittadella Editrice, Assisi 2000, 94-95].
Dunque Gesù nel deserto e poi in tutta la sua vita, ha a che fare con la tentazione del male: come mostra bene il racconto evangelico non si deve intendere questo come se il problema riguardasse i peccati che Gesù potrebbe commettere; in gioco non c’è se Gesù ha detto una parolaccia, ha risposto male a qualcuno o è stato con una donna; non si tratta dei peccati al plurale; ma del male radicalmente inteso, del peccato al singolare, che biblicamente parlando è sempre e solo la lontananza da Dio e dal suo progetto (quello che Gesù chiamava Regno).
Ma, forse, dire così ancora non basta… rischieremmo infatti di pensare a un Dio che considera male ciò che non è conforme al suo pensiero: un Dio un po’ egocentrico, diremmo… Ma dicendo così – ancora una volta – mostriamo di dimenticare di che Dio stiamo parlando e di riempire questa categoria linguistica con i significati che gli diamo noi e non con quelli che emergono dalla sua auto-Rivelazione. Perché è logico che se pensiamo a un dio alla maniera umana, come se fosse uno come noi, rimarremmo subito risentiti e irrigiditi nel sentirci dire che il male è allontanarsi da Lui e dal suo progetto, dal suo Regno. Immediatamente infatti ci verrebbe da pensare: “Siamo capaci di stare in piedi da soli”; “Non ci vorrà mica togliere la libertà di decidere?”; “Chi è per dirci cosa è bene e cosa è male?”.
Ma se proviamo a mettere da parte tutti i preconcetti su Dio e a stare a ciò che dice il vangelo, vedremmo che Lui e il suo progetto non sono mai autoreferenziali come i nostri, o oscuri in alcuni aspetti, vantaggiosi per certi lati, ambigui in altri, ecc… Ma che inequivocabilmente la sua posizione di fronte all’uomo è quella dell’essere dalla sua parte, dalla parte della sua Vita, della sua riuscita, della sua umanizzazione, della sua felicità: il Regno di Dio sono gambe storte che si raddrizzano, occhi ciechi che ci vedono, vite imprigionate che si liberano, persone povere a cui è annunciata una lieta notizia, ecc… Questo e solo questo è il progetto di Dio.
A questo il divisore interiore (il diavolo) – che poi siamo noi stessi – invita a sottrarsi; da questo progetto suggerisce di dividersi; da questo Dio; confondendo l’uomo con illusorie salvezze, illusorie felicità, illusorie gratificazioni… Per questo è spesso stato associato all’idea della falsità: perché nessuna persona che avesse lucidamente in testa e in cuore chi sia Dio e chi Egli sia per l’uomo si lascerebbe abbindolare dalle mezze verità del diavolo; egli invece ci riesce perché continuamente confonde l’immagine vera del volto di Dio. Non a caso tutte le tentazioni che subisce Gesù fanno riferimento a una falsificazione delle intenzioni di Dio, della sua identità, della sua volontà: addirittura il diavolo fa questo lavoro citando la Bibbia!
E per questo il diavolo è spesso stato associato all’idea della morte: perché lasciarsi convincere da lui, vuol dire davvero andare incontro alla propria morte, sottrarsi cioè a Dio e al suo progetto, che – come dicevamo – coincide precisamente e solo con la Vita dell’uomo.
Questo discorso, se da un lato ci libera da ingenue paure su mostri o simili che costellano la nostra immaginazione, dall’altro permette di provare a riflettere un po’ più seriemente sul problema del male e del suo insinuarsi nel nostro animo: come dicevamo infatti il problema non è quello dei peccati (al plurale), ma quello dell’orientamento interiore di fronte al Dio di Gesù e al suo progetto di Vita per l’uomo, per ciascun uomo. In questo senso, potremmo chiederci: In chi io ripongo la mia fiducia? A chi dò retta quando devo decidere e non so cosa decidere? Le mie reazioni non programmate (quelle che inevitabilmente si hanno di fronte a situazioni inaspettate) rivelano il mio essere per la Vita o per la sopravvivenza? Cos’è che mi determina? La paura della morte o la fiducia nella vita?
Perché il diavolo molto più che a un gigante con le corna, assomiglia a quell’angoscia che ci si insinua dentro quando ci fermiamo a pensare che prima o poi moriremo… e che forse resteremo nella tomba… e che nessuno – al di là delle belle parole dei preti – verrà a tirarci fuori… e dunque la nostra vita ha proprio poco senso… che forse non val la pena impegnarsi per essere un uomo migliore, per costruire un mondo migliore… il diavolo, in altre parole, siamo noi quando ci diciamo e ci convinciamo che non è possibile Vivere, che non è possibile amare, che non è possibile guardare fraternamente ad ogni uomo...
Gesù – dentro a questa dinamica – è chi non ha ceduto a questa insinuazione e ha continuato a credere anche quando tutto e tutti sembravano dire il contrario che era possibile sempre credere nella Vita, abbandonarsi fiduciosamente ad essa, consegnarsi ad essa, amando chi lo tradiva, perdonando chi lo crocifiggeva, mantenendo il cuore pulito di fronte a chi gli faceva del male, in modo da poterlo poi riaccogliere e fargli trovare – nel proprio spazio interiore – una casa anche a lui…
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