In questa sesta domenica del tempo ordinario, l’ultima prima che inizi la Quaresima, la Chiesa ci invita a riflettere su uno dei brani più famosi, ma più difficili del vangelo di Luca: quello delle beatitudini. Famoso, perché tutti sanno che Gesù ha proclamato delle beatitudini; difficile, perché la sua interpretazione non pare essere così immediata come a volte si preferisce credere…
Per tentare di delinearne una possibile comprensione, cerchiamo allora innanzitutto di collocarlo all’interno dell’organizzazione che Luca – scrivendo il suo vangelo – dà al materiale che ha a disposizione. Siamo all’interno del capitolo 6. Dopo i primi 2 capitoli – dedicati all’infanzia di Gesù (che dovremmo avere nelle orecchie perché sono quelli che abbiamo meditato nel tempo natalizio appena trascorso) – e dopo il cosiddetto “trittico sinottico” (battesimo di Giovanni Battista, battesimo di Gesù, tentazioni nel deserto) che occupa i capitoli 3,1-4,12, Gesù torna nella sua regione, la Galilea e lì inizia il suo ministero pubblico. Prima di questo nostro capitolo 6, sono quindi già avvenuti diversi episodi importanti della vita di Gesù, alcuni dei quali (ma non tutti!) ripresi dalle letture delle domeniche passate: insegna nelle sinagoghe, suscitando lo stupore e l’ammirazione di molta gente; vive l’esperienza negativa della predicazione a Nazaret, dove pronuncia la famosa frase «Nessun profeta è bene accetto nella sua patria»; guarisce molti malati e scaccia i demoni; inizia a suscitare scandalo, guadagnandosi l’antipatia degli scribi e dei farisei per l’autorità e la libertà con cui interpreta la legge di Israele – in particolare le norme sul sabato e sul digiuno; mostra di avere un rapporto personale ed intensissimo col Padre – si ritira a pregare, è accompagnato dalla «potenza dello Spirito Santo»; chiama i discepoli.
In particolare questi due ultimi momenti, sono quelli che significativamente precedono in maniera immediata il discorso che Gesù fa alle folle e nel quale sono contenuti i versetti di cui ci occupiamo noi oggi:
- v. 12: «In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio»;
- vv. 13-16: «Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore». Gesù dunque proclama le beatitudini dopo aver pregato tutta la notte e aver chiamato a sé i Dodici.
Precisamente a questo punto (v. 17), inizia infatti il cosiddetto “discorso della pianura” – chiamato così per sottolineare la differenza del passo parallelo di Matteo che colloca invece il discorso sulla montagna (il famoso “discorso della montagna”), per richiamare l’esperienza di Mosè che ricevette le tavole della legge sul monte Sinai: «Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti impuri venivano guariti. Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti. Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva» (Lc 6,17-20).
Prima però di approfondire il cosa diceva Gesù, è forse utile soffermarsi un momento sui suoi interlocutori, su coloro ai quali diceva; perché, se è vero che è il contenuto che fa il discorso, è anche vero che anche l’uditorio concorre a delinearne i tratti. E soprattutto nella nostra condizione di lettori (assenti al momento della proclamazione delle beatitudini), diventa importantissimo ricostruire il contesto delle parole, per evitare che esse – prese a-storicamente e in maniera de-contestualizzata – vengano travisate, fraintese, manipolate.
Dunque gli interlocutori: essi sono delineati al v. 17, di loro infatti il vangelo dice che sono «una gran folla di suoi discepoli e una gran moltitudine di gente [...], che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie». Gente dunque che – avendo sentito parlare di Lui – aveva come intuito che in quell’uomo c’era qualcosa di promettente, qualcosa che poteva far bene alla loro vita, qualcosa che poteva “aggiustare” la loro vita. Non era dunque gente già risolta, con la vita sistemata, con i conti che tornavano... Era gente che – ognuna per i motivi più disparati (bisogni fisici, psichici, affettivi, esistenziali, ecc...) – anelava a una Vita che non aveva. E questo è molto interessante anche per noi... Per noi che se ci guardiamo con un po’ di onestà ci scopriamo inesorabilmente gli incompiuti della nostra stessa storia, eppure gli stessi che, per mascherarlo, continuamente si ritrovano sempre molto preoccupati di “essere all’altezza”, di “essere capaci”, di “essere pronti”, di “essere bravi”, di “essere apposto” davanti agli altri e davanti a Dio...
Il contesto del vangelo delle beatitudini sembra invece andare su un’altra strada (una strada molto pacificante): per ascoltare il Signore infatti, sembrano molto più avvantaggiati gli incompiuti, quelli che sistemati non sono, quelli che – come noi – hanno in cuore la perenne trepidazione sul senso delle cose, sul senso della vita, sul senso dell’esserci... Anzi… più paradossalmente ancora… non solo gli incompiuti sono gli avvantaggiati per ascoltare il Signore… ma addirittura sono loro l’oggetto delle beatitudini che Gesù proclama: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo».
Ciò che di queste parole emerge subito come interessante, soprattutto se si hanno nelle orecchie le beatitudini di Matteo (dove i poveri, sono i poveri in spirito; gli affamati, sono gli affamati di giustizia, ecc…), è vedere come Luca non riferisca l’incompiutezza ad un’idealità spirituale, ma la radichi alla realtà vera: non parla di povertà, fame, lacrime metaforiche, ma di povertà, fame e lacrime vere; parla di incompiutezze vere! Gli incompiuti veri sono beati!
E qui ci troviamo di fronte all’incomprensibile (inaccettabile) paradossalità delle beatitudini: al di là di ogni nostro tentativo di spiegazione, di interpretazione, di ammorbidimento, ci risulta interiormente insopportabile che i poveri siano detti beati, che gli affamati siano detti beati, che chi piange sia detto beato, che noi stessi quando siamo poveri delle nostre povertà, affamati delle nostre fami, piangenti tutte le nostre lacrime, siamo detti beati. “Non è vero” ci nasce detto dentro. E non solo “non è vero”, ma addirittura è irrispettoso per chi è povero, affamato e piangente, dire di lui che è beato. Come può Gesù dire questa cosa di fronte alla folla di incompiuti che gli sta dinnanzi? Come può dirlo, oggi, di fronte ad un mondo così lacerato dai milioni di uomini che muoiono di fame, di fronte ai miliardi che sono sotto la soglia di povertà, di fronte agli innumerevoli, che afflitti dai mille mali di sempre, piangono la loro infelicità, i loro figli, i loro padri, la cattiveria del cuore degli uomini, la loro sfortuna, il loro non senso? Come può dirlo a noi dilaniati interiormente da una vita che non regala la compiutezza che promette?
Ma forse la domanda più pertinente è: Con che sguardo guarda Gesù per vedere in quegli e in questi incompiuti (in noi) dei beati? Con gli occhi di chi? Gesù certo non è un illuso e non è nemmeno uno che si prende gioco della sofferenza altrui… Se li/ci dichiara “beati” è perché li/ci vede, li/ci pensa, li/ci considera “beati”. Ma appunto, questo è il punto: Come fa a giudicare “beato” chi piuttosto è considerato “maledetto” dalla storia degli uomini; o se “maledetto” oggi è termine in disuso, diciamo “non riuscito”, “incompiuto”, “fallito”, “insignificante”, “irrilevante”, ecc…?
Una possibile via d’uscita potrebbe essere quella di domandarsi se davvero su questa terra c’è qualcuno che può dirsi, o essere detto, escluso da questa incompiutezza… e più radicalmente se da questa incompiutezza ci si può affrancare… o ci si debba affrancare…
Forse infatti ha ragione A. Rizzi quando nel suo Dio in cerca dell’uomo scrive: «L’uomo è povertà. In quanto oggetto e destinatario dell’agape l’uomo è l’essere-di-bisogno; dove bisogno dice a un tempo la relazione a un insieme di beni da fruire e la problematicità del possesso di quei beni. Nella prima faccia il bisogno dice ricchezza, almeno virtuale, potenzialità di espansione e di felicità; nella seconda, dice che ogni bene conquistato non è mai garantito, che ogni ricchezza acquistata è sempre insicura, ogni espansione precaria, ogni felicità fragile. Non siamo mai le cose che abbiamo, neppure le più intime: il nostro modo di essere è l’avere, in un senso più profondo di quanto dica l’abituale distinzione tra essere e avere. Infatti quella distinzione si istituisce sul piano valutativo, come discriminazione tra beni autentici e beni estranianti; ma sia gli uni che gli altri non diventano mai noi stessi al punto da essere inalienabili, rimangono sempre sotto il segno dell’aleatorietà. Qui non siamo più sul piano della valutazione, ma della struttura dell’esistenza umana, di quella che possiamo chiamare povertà radicale dell’uomo. […] Povertà non è sinonimo di finitezza. Un essere finito potrebbe avere tutto ciò che gli compete, e averlo in maniera così salda e sicura da non correre pericoli per la propria realizzazione: […] parlare di povertà in questo caso avrebbe senso soltanto misurando l’uomo su un metro, a lui estrinseco, di infinito. […] Povertà non è limite del proprio essere; è limite dentro il proprio essere. […] Ma abbiamo detto povertà radicale. E con questo intendiamo porre una distinzione tra le situazioni attuali, effettive, di povertà e quella condizione di base, quella fragilità che permane anche nelle situazioni di opulenza e di esteriore sicurezza, e che nessun possesso o potere può superare. […] È questa crepa che chiamo povertà radicale; quella che una famosa immagine biblica chiama i piedi d’argilla che reggono la statua di metalli preziosi. […] Ma: gloria Dei vivens pauper. Quest’espressione di Oscar Romero, che riprende e precisa quella di Ireneo (gloria Dei vivens homo), costituisce la definizione dell’essere umano alla luce dell’agape divina. Dire che Dio ama l’uomo come altro da sé equivale a dire che nell’uomo egli ama il povero: non ciò che l’uomo ha ed è, ma quell’essere-di-bisogno che è bisogno di avere e di essere. […] Ma proprio questa povertà, che in sé non ha né è nulla di amabile, viene amata da Dio e da lui colmata: e in questo gesto Dio si rivela Dio. Dunque, la volontà di colmare il povero – ogni uomo in quanto povero – è la parola originaria che Dio dice su di sé: è la sua gloria. Quando parliamo della predilezione di Dio per i poveri non tracciamo un limite al suo amore – quasi Dio amasse soltanto coloro che sono attualmente poveri – ma indichiamo il luogo privilegiato in cui riconoscere questo amore. Nella preferenza di Dio per i poveri attuali si testimonia la qualità del suo amore per tutti gli uomini nella loro povertà radicale».
Forse allora la parola “beato” detta al povero, all’affamato, al piangente, è la parola “beato” detta all’uomo, detta a me: perché risuoni come l’incontrovertibile prendere posizione di Dio sia quella che autorizza l’incompiutezza umana alla beatitudine della vita. Anche per me allora, dentro a questa incompiutezza mortificante, è possibile la Vita (= vita beata, quaggiù!).
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1 commento:
S.S.S.
Sono senza parole
T.F.
Troppo Forte
S.F.N.?
Se Fossimo Noi?
C? e Q?
Come? e Quando?
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