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martedì 27 ottobre 2015

Tutti i santi


Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (Ap 7, 2-4 , 9-14)

Vidi poi un altro angelo che saliva dall’oriente e aveva il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli ai quali era stato concesso il potere di devastare la terra e il mare: «Non devastate né la terra, né il mare, né le piante, finché non abbiamo impresso il sigillo del nostro Dio sulla fronte dei suoi servi». Poi udii il numero di coloro che furon segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila, segnati da ogni tribù dei figli d’Israele: Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello». Allora tutti gli angeli che stavano intorno al trono e i vegliardi e i quattro esseri viventi, si inchinarono profondamente con la faccia davanti al trono e adorarono Dio dicendo: «Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen». Uno dei vegliardi allora si rivolse a me e disse: «Quelli che sono vestiti di bianco, chi sono e donde vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello.

 

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo (1 Gv 3,1-3)

Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.

 

Dal vangelo secondo Matteo (Mt 5,1-12)

Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi.

 

Le letture che la Chiesa ci propone in questa trentunesima domenica del tempo ordinario, non sono quelle consuete, riportate cioè dal messale alla voce “XXXI domenica del tempo ordinario”, bensì quelle che fanno riferimento alla festa di tutti i santi. Tale solennità infatti – che quest’anno ricorre proprio di domenica – è una delle poche, ritenute talmente importanti, da sostituire l’abituale liturgia domenicale.

Tale importanza, è presto spiegata, ricordando come questa festa implichi la memoria di tutti i santi che la storia della Chiesa ha prodotto, dunque la convocazione di tutto l’insieme di “uomini perfetti” che 2000 e più anni di vicenda cristiana hanno visto sfilare sul palcoscenico dell’umanità.

Questa ampia schiera di gente riuscita – le cui gesta e irreprensibilità sono ben note a tutti – suscita immediatamente grande reverenza e timoroso rispetto, soprattutto perché richiamano – almeno per come li presentano gli agiografi – toni eroici e note sovra umane (tipo super-man, il super-uomo appunto) per noi assolutamente impensabili e di certo irraggiungibili…

Paradossalmente però, a fronte di questa grande ammirazione, proprio la loro irraggiungibilità, li rende in qualche modo “fuori dalla realtà”, superflui, quasi inutili: se non possiamo far molto altro che venerarli, perché somigliargli è difficile ed eguagliarli impossibile, ad un certo punto non resta che appenderli a qualche muro, metterli su qualche mensola e lasciarli lì a prender polvere…

Rispetto alle nostre storie contorte e travagliate, problematiche e a volte tragiche, faticose e indaffarate, hanno infatti davvero poco da dire…

Inoltre – sempre che questo possa essere detto di un santo, anzi di tutti i santi – hanno il piccolo difetto di non suscitare nemmeno più grandi entusiasmi… Non solo la loro irraggiungibilità ha fatto rinunciare i più a incamminarsi sulla via della loro sequela, ma – tra le nuove generazioni – le loro scelte risultano quasi incomprensibili, le loro storie strane… fanno quasi ridere e di certo non accendono l’ardore di imitarli in nessuno…

Sarà colpa dei santi? Incartapecoriti nel loro perbenismo?

venerdì 7 febbraio 2014

V Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Isaìa (Is 58,7-10)

Così dice il Signore: «Non consiste forse [il digiuno che voglio] nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà. Allora invocherai e il Signore ti risponderà, implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”. Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio».

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (1Cor 2,1-5)

Io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso. Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione. La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.

 

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 5,13-16)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli».

 

In questa Quinta domenica del Tempo Ordinario (lo farà anche nelle prossime domeniche) la Liturgia ci presenta un brano tratto dal “Discorso della montagna” (Mt 5,1-7,29) – una delle sezioni più significative del vangelo – che settimana scorsa – se non fosse caduta di domenica la festa della Presentazione del Signore – avremmo sentito nel suo esordio (con la proclamazione delle beatitudini).

Oggi infatti ci ritroviamo fra le mani il proseguimento di quel medesimo discorso che Gesù fa alle folle e in particolare ai suoi. Sono loro quel “voi” a cui fa appello al termine dell’elenco delle beatitudini: «Voi siete il sale della terra… Voi siete la luce del mondo…».

Ma, dato che settimana scorsa non ci siamo potuti soffermare sulle beatitudini, faccio oggi una piccola digressione su quel testo, perché – vedremo – ha direttamente a che fare con questo.

Di per sé, le beatitudini, sostanzialmente, non sono molto più che un elenco di persone (o gruppi di persone) che Gesù definisce “beate”, dunque felici, contente…

Un elenco che chiunque di noi potrebbe stilare… anzi che sarebbe interessantissimo che ciascuno di noi stilasse… Chi è beato? Chi potremmo chiamare “felice”? Di chi potremmo dire che è contento?

Sarebbe interessantissimo, perché dalle proposte che ne risulterebbero, emergerebbe, per ciascuno, l’idea di felicità che ha in testa… l’idea di “buona riuscita” della vita… l’ideale di contentezza a cui aspira…

E il punto sta proprio qua: Quale idea di beatitudine, di felicità, di buona riuscita della vita, emerge dall’elenco di Gesù?

Beh… (letteralmente) è quella dei poveri in spirito, di quelli che sono nel pianto, dei miti, di quelli che hanno fame e sete di giustizia, dei misericordiosi, dei puri di cuore, degli operatori di pace, dei perseguitati per la giustizia.

Un elenco strano… Non tanto perché lontano da quello che formulerebbero i nostri adolescenti (o la parte più visibile e rumorosa dei nostri adolescenti – di tutte le età) – quindi un elenco in cui i beati sono i ricchi, i famosi, i calciatori, quelli che hanno tante donne, ecc… “Strano” dunque, non tanto per questo, quanto piuttosto perché, pur assomigliando – almeno in alcuni aspetti – all’elenco che formuleremmo anche noi alla ricerca di “ideali alti” (la mitezza, la giustizia, la pace, ecc…), in realtà ha in sé un elemento del tutto imprevisto (e che Luca radicalizzerà): quello degli afflitti, che ora la nuova traduzione rende con “quelli che sono nel pianto”…

Mentre infatti tutte le altre beatitudini di Matteo sono in qualche modo riconducibili ad un ideale accettabile e accettato – almeno a parole – da tutti noi, questa degli afflitti (e quelle di Luca: «Beati voi, poveri», « Beati voi, che ora avete fame», « Beati voi, che ora piangete»), ci risulta incompatibile da accostare ad un ideale di felicità…

Il punto è allora che – a dispetto di quanto sembrava all’inizio – l’ideale di felicità di Gesù, che in qualche modo non ci sembrava così lontano da quello (almeno teorico) che avremmo evinto anche da un nostro ipotetico elenco di beati, in realtà va ripensato… radicalmente…

Infatti forse l’inganno mentale in cui siamo caduti è stato quello di dare per scontato che cosa fosse la “beatitudine”, la “felicità” e, dunque, semplicemente far variare i percorsi per raggiungerla: perciò una vita bella, riuscita, felice non poteva essere quella dei ricchi, fannulloni, annoiati e soli… bensì quella di persone animate da grandi idealità e impegnate su quei versanti… la pace, la giustizia, la mitezza, ecc… pensando che questo fosse anche ciò che pensava / diceva Gesù…

Invece, la questione è più radicale… Quel “beati gli afflitti” insinua un necessario ripensamento che va a scavare fino al significato stesso di felicità… Detto con uno slogan: per Gesù i felici non sono necessariamente i sorridenti… Tra i beati Lui ci mette infatti anche quelli che piangono (di afflizione!).

Cosa vuol dire questo? Che la buona riuscita della vita per Gesù ha come elemento fondamentale qualcosa d’altro rispetto alla sensazione/emozione/condizione di ben-essere, di allegria, contentezza, soddisfazione, ecc… Per Lui infatti – e lo si evince da tutto il vangelo, da come vive e da come muore – una vita è beata se ha come unica preoccupazione quella di alzare il tasso d’amore nel mondo, testimoniando così l’inequivoca paternità di Dio. A quel punto non importa se le prendi, se ti perseguitano, se ti ritrovi nel pianto… non importa neanche se rimani da solo (come don Primo Mazzolari davanti allo specchio con un bicchiere di vino a dire: “Però c’abbiamo ragione noi!”)… la tua vita – a quel punto – è una vita “riuscita” secondo le logiche del Regno! E la felicità starà nel guardare alla consistenza della persona (amante) che si è diventati o si è tentato di diventare… il resto conterà… ma molto poco…

Ma – venendo al testo odierno – se l’idea di felicità che emerge dall’elenco dei beati che Gesù fa, è quella di chi nella vita si dà come unico e assoluto scopo quello di alzare il tasso d’amore nel mondo, anche l’essere “sale” e l’essere “luce” non può che andare in questo senso. Per Gesù il sapore da dare a questa nostra storia umana (personale e universale) e la luce sotto cui metterla è quella del bene dell’altro…

E questo per rendere «gloria al Padre vostro che è nei cieli».

È su questo punto che oggi vorrei soffermarmi… Su questa curiosa espressione “rendere gloria a Dio” (che Gesù chiama sempre Padre). Perché mi chiedevo… Cosa vorrà dire questo “rendere gloria”? Istintivamente mi saltano alla mente le teofanie dell’Antico Testamento, o gli incensi dei nostri riti religiosi, o momenti di particolare devozione…

Eppure le parole “stroncanti” di Gesù nel vangelo di Giovanni («Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. […] Viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità», Gv 4,22-23) giungono come un monito a frenare questo sviluppo semantico della locuzione “rendere gloria a Dio”.

Allora, forse, è meglio scendere un po’ più “terra terra” e provare a dire con parole nostre cosa potrebbe significare questa espressione… che a me, per esempio, diviene chiara se provo a sostituirla con quest’altra: “far contento il Padre”… che è molto diverso dall’accontentarlo! E in questo s. Teresina ci è maestra.

So che forse letteralmente non è proprio la stessa cosa e che gli studiosi del greco biblico e della filologia avrebbero qualcosa (di più preciso) da dire… Però, mi pare che tradurre “rendere gloria a Dio” con “farlo contento” renda bene l’idea di quello che voleva dire Gesù…

Soprattutto perché, se stiamo a vedere, ciò che invera questo invito sono – curiosamente – le «vostre opere buone» sulla terra! Esse fanno contento il Padre «che è nei cieli».

E in cosa consistano queste “opere buone” sulla terra, è lì a ricordarcelo in maniera inequivocabile la prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia: dividere il pane con l’affamato; introdurre in casa i miseri, senza tetto; vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti; togliere di mezzo l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio; aprire il cuore all’affamato; saziare l’afflitto di cuore.

Dove la cosa curiosa è lo strano modo che il Padre ha di chiedere una corrispondenza al suo amore: “Io ti amo” – dice il Padre (e questo è indubbio, è la buona notizia del vangelo per tutti, anche per i più peccatoracci di tutti! È ciò che è ‘fuori discussione’ per Gesù, che ha speso tutta la sua vita solo per dirci questo, senza arretrare mai di un passettino, neanche quando lo scontro s’è fatto duro e per testimoniare fino alla fine solo l’amore, ha deciso di farsi male solo lui – nessun altro si fa male durante la sua passione, perché anche il servo a cui viene tagliato l’orecchio, lui lo guarisce! Nessuno viene nemmeno maledetto: Gesù muore perdonando i suoi carnefici: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno», Lc 23,34… Solo lui muore della morte dei maledetti: «l’appeso è una maledizione di Dio», Dt 21,23. È la vittoria dell’inappellabilità del suo amore: non lo ha smentito mai, nemmeno quando – umanamente parlando – avrebbe avuto il diritto di dire “adesso basta”… e invece no… il basta non arriva mai…). “Io ti amo – dice dunque il Padre – se vuoi accogliere il mio bene e ricambiarlo, beh, fallo ricircolare su un altro, ama tuo fratello, il tuo prossimo, chi ti si pone sul cammino…”.

Ecco l’inedito! Come se io avessi un moroso e gli dicessi: “Sì, però ricambia il mio bene amando un’altra…”… Ma come!!?!? È un po’ strano… Ma è così perché per Lui ogni “altro”, ogni “altra” è suo/sua! Cosa che a noi, invece, risulta una logica inconcepibile, o perlomeno molto difficile da accettare e incarnare… per questo ci facciamo continuamente la guerra (e non solo quella con le armi… ma quella dell’affermazione dell’io…).

Invece Lui che è nei cieli, ma è molto più “terra terra” di noi, ci invita a sostenere lo sguardo di fronte a questo inaudito modo di stare al mondo, perché è quello vero, è quello che porta alla beatitudine di cui parlavamo domenica scorsa… È l’invito a non perderci in tante parole e cerimonie, incensi e devozioni, ma a far vedere che accogliamo e ricambiamo il suo amore, amando i nostri fratelli, suoi figli: «Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20). Non a caso, quando Gesù invia i suoi ad annunciare il vangelo (cioè la buona notizia che Dio è un Padre che ama i suoi figli), li manda a due a due, convinto com’è che renderanno testimonianza non per le grandi parole che diranno o per le grandi opere che faranno, ma per l’amore con cui si ameranno: questo persuaderà le genti: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).

Ma è evidente che per fare tutto questo è necessaria una conversione… perché noi ancora non siamo persuasi che Dio sia sempre e solo un Padre da cui viene sempre e solo il bene per l’uomo (anche peccatore, come me!). È per questo che Gesù vi insiste tanto e non fa nient’altro – praticamente – nella vita che ribadire, nelle parole e nei gesti, nelle scelte e nelle reazioni, nelle relazioni e nei modi di porsi, che il Dio vero è il Papà (l’Abbà) degli uomini, Colui che li abilita a vivere e dal quale non hanno niente da temere. Vi insiste tanto, soprattutto coi suoi, perché sa che «Si è immagine per gli altri solo di quel Dio che si ha dentro» [Giuliano] e se si vuole arrivare fino ai confini del mondo col vangelo, è per dare l’annuncio lieto di un Dio così, non di un altro, fatto a nostra immagine…

sabato 29 gennaio 2011

IV Domenica del Tempo Ordinario: Tra i beati Gesù mette anche quelli che piangono (di afflizione)?!

In questa quarta domenica del Tempo Ordinario, ecco che puntuale arriva il testo di Matteo 5, che ci propone l’inizio del cosiddetto “Discorso della montagna”, ossia quello che ci narra le beatitudini che Gesù elenca ai suoi discepoli e alle folle sul monte…


È un testo difficile… per tanti motivi… sicuramente per il contenuto, ma prima ancora forse, perché è uno di quei testi che subisce il doppio rischio dei brani “troppo” conosciuti: quello cioè di essere ormai dato per scontato o – viceversa – quello di essere così minuziosamente analizzato (per trovarci qualcosa di nuovo da dire) da risultare snaturato…

Mi pare allora che – forse – il modo migliore, quest’oggi, per approcciarsi al testo sia quello di far emergere con sincerità e trasparenza tutto il disagio che il ritrovarselo – ancora una volta – “tra i piedi”, suscita…

Perché il punto è proprio questo… ritrovarsi ancora una volta di fronte a questo brano e scoprire che ancora non lo si è capito, non lo si è incarnato… Infatti il “contenutisticamente difficile” a cui si faceva riferimento in precedenza, non sta tanto nell’individuazione del significato del testo (che è fin troppo chiaro), ma nell’attuare una conversione alla logica che propone…

Esso, infatti, sostanzialmente non è molto più che un elenco di persone (o gruppi di persone) che Gesù definisce “beate”, dunque felici, contente… Un elenco che chiunque di noi potrebbe stilare… anzi che sarebbe interessantissimo che ciascuno di noi stilasse… Chi è beato? Chi potremmo chiamare “felice”? Di chi potremmo dire che è contento?

E dalle proposte che ne risulterebbero, emergerebbe, per ciascuno, l’idea di felicità che ha in testa… l’idea di “buona riuscita” della vita… l’ideale di contentezza a cui aspira…

E il punto sta proprio qua: Quale idea di beatitudine, di felicità, di buona riuscita della vita, emerge dall’elenco di Gesù? Perché se abbiamo deciso di dargli credito, se abbiamo deciso di porre in Lui (cioè nella Parola di Dio, fatta carne) la nostra fiducia, se siamo alla ricerca di risposte credibili e fondative per orientare il percorso della nostra vita, è proprio questo che dobbiamo chiederci e chiarirci… Qual è il futuro che ci prospetta? Qual è l’ideale verso cui ci conduce? Qual è la vita che pensa, dovremmo condurre per essere felici?

Beh… è quella dei poveri in spirito, di quelli che sono nel pianto, dei miti, di quelli che hanno fame e sete di giustizia, dei misericordiosi, dei puri di cuore, degli operatori di pace, dei perseguitati per la giustizia (e non dalla giustizia! A scanso di equivoci…)…

Un elenco strano… Non tanto perché lontano da quello che formulerebbero i nostri adolescenti (o la parte più visibile e rumorosa dei nostri adolescenti – di tutte le età) – quindi un elenco in cui i beati sono i ricchi, i famosi, i calciatori, quelli che hanno tante donne, ecc… “Strano” dunque, non tanto per questo (perché, credo e spero, un ideale del genere mostri da sé tutta la sua meschinità e bassezza…), quanto piuttosto perché, pur assomigliando – almeno in alcuni aspetti – all’elenco che formuleremmo anche noi alla ricerca di “ideali alti” (la mitezza, la giustizia, la pace, ecc…), in realtà ha in sé un elemento del tutto imprevisto (e che Luca radicalizzerà): quello degli afflitti, che ora la nuova traduzione rende con “quelli che sono nel pianto”…

Mentre infatti tutte le altre beatitudini di Matteo sono in qualche modo riconducibili ad un ideale accettabile e accettato – almeno a parole – da tutti noi e da quella che riconosciamo come la parte “nobile” e “sana” della società, questa degli afflitti (e quelle di Luca: «Beati voi, poveri», « Beati voi, che ora avete fame», « Beati voi, che ora piangete»), ci risulta incompatibile da accostare ad un ideale di felicità…

Ma, come sempre in questi casi, non pare una buona prassi metodologica il mettere tra parentesi ciò che fa problema alla sintesi riflessiva che ci siamo fatti, facendo finta che questo elemento di eterogeneità non ci sia… Molto più serio è rimettere in discussione la sintesi trovata a partire dall’elemento che non fa tornare i conti… perché se non tornano, non tornano… è inutile far finta di niente…

Il punto è allora che – a dispetto di quanto sembrava all’inizio – l’ideale di felicità di Gesù, che in qualche modo non ci sembrava così lontano da quello (almeno teorico) che avremmo evinto anche da un nostro ipotetico elenco di beati, in realtà va ripensato… radicalmente…
Infatti forse l’inganno mentale in cui siamo caduti è stato quello di dare per scontato che cosa fosse la “beatitudine”, la “felicità” e, dunque, semplicemente far variare i percorsi per raggiungerla: perciò una vita bella, riuscita, felice non poteva essere quella dei ricchi, fannulloni, annoiati e soli… bensì quella di persone animate da grandi idealità e impegnate su quei versanti… la pace, la giustizia, la mitezza, ecc… pensando che questo fosse anche ciò che pensava / diceva Gesù…

Invece, la questione è più radicale… Quel “beati gli afflitti” insinua un necessario ripensamento che va a scavare fino al significato stesso di felicità… Detto con uno slogan: per Gesù i felici non sono necessariamente i sorridenti… Tra i beati Lui ci mette infatti anche quelli che piangono (di afflizione!).

Cosa vuol dire questo? Che la buona riuscita della vita per Gesù ha come elemento fondamentale qualcosa d’altro rispetto alla sensazione/emozione/condizione di ben-essere, di allegria, contentezza, soddisfazione, ecc… Per Lui infatti – e lo si evince da tutto il vangelo, da come vive e da come muore – una vita è beata se ha come unica preoccupazione quella di alzare il tasso d’amore nel mondo, testimoniando così l’inequivoca paternità di Dio. A quel punto non importa se le prendi, se ti perseguitano, se ti ritrovi nel pianto… non importa neanche se rimani da solo (come don Primo Mazzolari davanti allo specchio con un bicchiere di vino a dire: “Però c’abbiamo ragione noi!”)… la tua vita – a quel punto – è una vita “riuscita” secondo le logiche del Regno! E la felicità starà nel guardare alla consistenza della persona (amante) che si è diventati o si è tentato di diventare… il resto conterà… ma molto poco…

È per questo che dicevo all’inizio che è brutto ritrovarsi “tra i piedi” un’altra volta questo testo… Perché è su di esso che continuamente dovremmo fare la verifica della nostra vita, delle nostre giornate, dei criteri che guidano le nostre scelte, i nostri umori, le nostre reazioni… la nostra felicità… e la verifica non dà grandi esiti: ci ritroviamo infatti, guardandoci, a vedere quello che Paolo vedeva nelle prime comunità, «dove d’istinto emergeva l’affermazione mondana della forza, della cultura, del potere, come criteri di valore e d’importanza in comunità» [Giuliano]… dove cioè, ancora una volta, è la pienezza dell’io a determinare la felicità… e non la pienezza del tu…

Forse allora, all’inizio di questo nuovo anno liturgico, è bene ripartire da questa necessità di convertirci noi al vangelo e non di convertire lui a noi… Partendo proprio dal chiederci: Che cosa è per me la beatitudine? E che cosa invece mi suggerisce il Signore per arrivare alla fine e, guardandomi indietro, non dire “che schifo di vita ho vissuto, che brutta persona sono diventata”, ma piuttosto “ho voluto bene più che ho potuto”?

«Magari sono piccolissimi assaggi o (minuscole beatitudini!), soltanto squarci di un cielo e di una prospettiva che di solito vediamo e desideriamo da lontano, ed invece già adesso, ci è promessa e seminata in cuore, anche se rimane sempre ingovernabile e imprendibile…come ogni dono dello Spirito. E si annebbia presto, lungo la giornata, nei ritmi alterni dei nostri umori. Però è vera, e ne rimane la memoria e l’attenzione premurosa, perché le troppe distrazioni ed urgenze del nostro vivere non ci allontanino dall’essenziale!

… e così imparare, o almeno cominciare a tentare qualche gesto, arrischiare di rispondere alle asprezze della vita e degli uomini con qualche sbilanciamento di amore, di tenerezza, di assorbimento del male, invece che di ritorsione:

• quando la desolazione ci devasta il cuore e vorremmo anche noi consolazione, e siamo tentati di amarezza

• quando la reazione violenta ci preme dentro come l’unica soluzione, e vorremo esser capaci di seminare mitezza

• quando la rabbia triste per l’ingiustizia ci rode l’anima e la vorremo subito eliminata… a costo di altra violenza

• quando la miseria è cosi grande che bisognerebbe contenerla e accudirla con ancor più grande misericordia

• quando ci si offuscano gli occhi del cuore e non vediamo più la benevolenza del Padre in chi ci fa del male

… portando sempre pace e perdono dove c’è conflitto e odio, perché questo è il mestiere di Dio e dei suoi figli» [Giuliano].

venerdì 12 febbraio 2010

Beato te, incompiuto

In questa sesta domenica del tempo ordinario, l’ultima prima che inizi la Quaresima, la Chiesa ci invita a riflettere su uno dei brani più famosi, ma più difficili del vangelo di Luca: quello delle beatitudini. Famoso, perché tutti sanno che Gesù ha proclamato delle beatitudini; difficile, perché la sua interpretazione non pare essere così immediata come a volte si preferisce credere…
Per tentare di delinearne una possibile comprensione, cerchiamo allora innanzitutto di collocarlo all’interno dell’organizzazione che Luca – scrivendo il suo vangelo – dà al materiale che ha a disposizione. Siamo all’interno del capitolo 6. Dopo i primi 2 capitoli – dedicati all’infanzia di Gesù (che dovremmo avere nelle orecchie perché sono quelli che abbiamo meditato nel tempo natalizio appena trascorso) – e dopo il cosiddetto “trittico sinottico” (battesimo di Giovanni Battista, battesimo di Gesù, tentazioni nel deserto) che occupa i capitoli 3,1-4,12, Gesù torna nella sua regione, la Galilea e lì inizia il suo ministero pubblico. Prima di questo nostro capitolo 6, sono quindi già avvenuti diversi episodi importanti della vita di Gesù, alcuni dei quali (ma non tutti!) ripresi dalle letture delle domeniche passate: insegna nelle sinagoghe, suscitando lo stupore e l’ammirazione di molta gente; vive l’esperienza negativa della predicazione a Nazaret, dove pronuncia la famosa frase «Nessun profeta è bene accetto nella sua patria»; guarisce molti malati e scaccia i demoni; inizia a suscitare scandalo, guadagnandosi l’antipatia degli scribi e dei farisei per l’autorità e la libertà con cui interpreta la legge di Israele – in particolare le norme sul sabato e sul digiuno; mostra di avere un rapporto personale ed intensissimo col Padre – si ritira a pregare, è accompagnato dalla «potenza dello Spirito Santo»; chiama i discepoli.
In particolare questi due ultimi momenti, sono quelli che significativamente precedono in maniera immediata il discorso che Gesù fa alle folle e nel quale sono contenuti i versetti di cui ci occupiamo noi oggi:
- v. 12: «In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio»;
- vv. 13-16: «Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore». Gesù dunque proclama le beatitudini dopo aver pregato tutta la notte e aver chiamato a sé i Dodici.
Precisamente a questo punto (v. 17), inizia infatti il cosiddetto “discorso della pianura” – chiamato così per sottolineare la differenza del passo parallelo di Matteo che colloca invece il discorso sulla montagna (il famoso “discorso della montagna”), per richiamare l’esperienza di Mosè che ricevette le tavole della legge sul monte Sinai: «Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti impuri venivano guariti. Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti. Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva» (Lc 6,17-20).

Prima però di approfondire il cosa diceva Gesù, è forse utile soffermarsi un momento sui suoi interlocutori, su coloro ai quali diceva; perché, se è vero che è il contenuto che fa il discorso, è anche vero che anche l’uditorio concorre a delinearne i tratti. E soprattutto nella nostra condizione di lettori (assenti al momento della proclamazione delle beatitudini), diventa importantissimo ricostruire il contesto delle parole, per evitare che esse – prese a-storicamente e in maniera de-contestualizzata – vengano travisate, fraintese, manipolate.
Dunque gli interlocutori: essi sono delineati al v. 17, di loro infatti il vangelo dice che sono «una gran folla di suoi discepoli e una gran moltitudine di gente [...], che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie». Gente dunque che – avendo sentito parlare di Lui – aveva come intuito che in quell’uomo c’era qualcosa di promettente, qualcosa che poteva far bene alla loro vita, qualcosa che poteva “aggiustare” la loro vita. Non era dunque gente già risolta, con la vita sistemata, con i conti che tornavano... Era gente che – ognuna per i motivi più disparati (bisogni fisici, psichici, affettivi, esistenziali, ecc...) – anelava a una Vita che non aveva. E questo è molto interessante anche per noi... Per noi che se ci guardiamo con un po’ di onestà ci scopriamo inesorabilmente gli incompiuti della nostra stessa storia, eppure gli stessi che, per mascherarlo, continuamente si ritrovano sempre molto preoccupati di “essere all’altezza”, di “essere capaci”, di “essere pronti”, di “essere bravi”, di “essere apposto” davanti agli altri e davanti a Dio...
Il contesto del vangelo delle beatitudini sembra invece andare su un’altra strada (una strada molto pacificante): per ascoltare il Signore infatti, sembrano molto più avvantaggiati gli incompiuti, quelli che sistemati non sono, quelli che – come noi – hanno in cuore la perenne trepidazione sul senso delle cose, sul senso della vita, sul senso dell’esserci... Anzi… più paradossalmente ancora… non solo gli incompiuti sono gli avvantaggiati per ascoltare il Signore… ma addirittura sono loro l’oggetto delle beatitudini che Gesù proclama: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo».
Ciò che di queste parole emerge subito come interessante, soprattutto se si hanno nelle orecchie le beatitudini di Matteo (dove i poveri, sono i poveri in spirito; gli affamati, sono gli affamati di giustizia, ecc…), è vedere come Luca non riferisca l’incompiutezza ad un’idealità spirituale, ma la radichi alla realtà vera: non parla di povertà, fame, lacrime metaforiche, ma di povertà, fame e lacrime vere; parla di incompiutezze vere! Gli incompiuti veri sono beati!
E qui ci troviamo di fronte all’incomprensibile (inaccettabile) paradossalità delle beatitudini: al di là di ogni nostro tentativo di spiegazione, di interpretazione, di ammorbidimento, ci risulta interiormente insopportabile che i poveri siano detti beati, che gli affamati siano detti beati, che chi piange sia detto beato, che noi stessi quando siamo poveri delle nostre povertà, affamati delle nostre fami, piangenti tutte le nostre lacrime, siamo detti beati. “Non è vero” ci nasce detto dentro. E non solo “non è vero”, ma addirittura è irrispettoso per chi è povero, affamato e piangente, dire di lui che è beato. Come può Gesù dire questa cosa di fronte alla folla di incompiuti che gli sta dinnanzi? Come può dirlo, oggi, di fronte ad un mondo così lacerato dai milioni di uomini che muoiono di fame, di fronte ai miliardi che sono sotto la soglia di povertà, di fronte agli innumerevoli, che afflitti dai mille mali di sempre, piangono la loro infelicità, i loro figli, i loro padri, la cattiveria del cuore degli uomini, la loro sfortuna, il loro non senso? Come può dirlo a noi dilaniati interiormente da una vita che non regala la compiutezza che promette?
Ma forse la domanda più pertinente è: Con che sguardo guarda Gesù per vedere in quegli e in questi incompiuti (in noi) dei beati? Con gli occhi di chi? Gesù certo non è un illuso e non è nemmeno uno che si prende gioco della sofferenza altrui… Se li/ci dichiara “beati” è perché li/ci vede, li/ci pensa, li/ci considera “beati”. Ma appunto, questo è il punto: Come fa a giudicare “beato” chi piuttosto è considerato “maledetto” dalla storia degli uomini; o se “maledetto” oggi è termine in disuso, diciamo “non riuscito”, “incompiuto”, “fallito”, “insignificante”, “irrilevante”, ecc…?
Una possibile via d’uscita potrebbe essere quella di domandarsi se davvero su questa terra c’è qualcuno che può dirsi, o essere detto, escluso da questa incompiutezza… e più radicalmente se da questa incompiutezza ci si può affrancare… o ci si debba affrancare…
Forse infatti ha ragione A. Rizzi quando nel suo Dio in cerca dell’uomo scrive: «L’uomo è povertà. In quanto oggetto e destinatario dell’agape l’uomo è l’essere-di-bisogno; dove bisogno dice a un tempo la relazione a un insieme di beni da fruire e la problematicità del possesso di quei beni. Nella prima faccia il bisogno dice ricchezza, almeno virtuale, potenzialità di espansione e di felicità; nella seconda, dice che ogni bene conquistato non è mai garantito, che ogni ricchezza acquistata è sempre insicura, ogni espansione precaria, ogni felicità fragile. Non siamo mai le cose che abbiamo, neppure le più intime: il nostro modo di essere è l’avere, in un senso più profondo di quanto dica l’abituale distinzione tra essere e avere. Infatti quella distinzione si istituisce sul piano valutativo, come discriminazione tra beni autentici e beni estranianti; ma sia gli uni che gli altri non diventano mai noi stessi al punto da essere inalienabili, rimangono sempre sotto il segno dell’aleatorietà. Qui non siamo più sul piano della valutazione, ma della struttura dell’esistenza umana, di quella che possiamo chiamare povertà radicale dell’uomo. […] Povertà non è sinonimo di finitezza. Un essere finito potrebbe avere tutto ciò che gli compete, e averlo in maniera così salda e sicura da non correre pericoli per la propria realizzazione: […] parlare di povertà in questo caso avrebbe senso soltanto misurando l’uomo su un metro, a lui estrinseco, di infinito. […] Povertà non è limite del proprio essere; è limite dentro il proprio essere. […] Ma abbiamo detto povertà radicale. E con questo intendiamo porre una distinzione tra le situazioni attuali, effettive, di povertà e quella condizione di base, quella fragilità che permane anche nelle situazioni di opulenza e di esteriore sicurezza, e che nessun possesso o potere può superare. […] È questa crepa che chiamo povertà radicale; quella che una famosa immagine biblica chiama i piedi d’argilla che reggono la statua di metalli preziosi. […] Ma: gloria Dei vivens pauper. Quest’espressione di Oscar Romero, che riprende e precisa quella di Ireneo (gloria Dei vivens homo), costituisce la definizione dell’essere umano alla luce dell’agape divina. Dire che Dio ama l’uomo come altro da sé equivale a dire che nell’uomo egli ama il povero: non ciò che l’uomo ha ed è, ma quell’essere-di-bisogno che è bisogno di avere e di essere. […] Ma proprio questa povertà, che in sé non ha né è nulla di amabile, viene amata da Dio e da lui colmata: e in questo gesto Dio si rivela Dio. Dunque, la volontà di colmare il povero – ogni uomo in quanto povero – è la parola originaria che Dio dice su di sé: è la sua gloria. Quando parliamo della predilezione di Dio per i poveri non tracciamo un limite al suo amore – quasi Dio amasse soltanto coloro che sono attualmente poveri – ma indichiamo il luogo privilegiato in cui riconoscere questo amore. Nella preferenza di Dio per i poveri attuali si testimonia la qualità del suo amore per tutti gli uomini nella loro povertà radicale».
Forse allora la parola “beato” detta al povero, all’affamato, al piangente, è la parola “beato” detta all’uomo, detta a me: perché risuoni come l’incontrovertibile prendere posizione di Dio sia quella che autorizza l’incompiutezza umana alla beatitudine della vita. Anche per me allora, dentro a questa incompiutezza mortificante, è possibile la Vita (= vita beata, quaggiù!).

venerdì 30 ottobre 2009

Santo secondo il calendario o secondo il vangelo?

Le letture che la Chiesa ci propone in questa trentunesima domenica del tempo ordinario, non sono quelle consuete, riportate cioè dal messale alla voce “XXXI domenica del tempo ordinario”, bensì quelle che fanno riferimento alla festa di tutti i santi. Tale solennità infatti – che quest’anno ricorre proprio di domenica – è una delle poche, ritenute talmente importanti, da sostituire l’abituale liturgia domenicale.
Tale importanza, è presto spiegata, ricordando come questa festa implichi la memoria di tutti i santi che la storia della Chiesa ha prodotto, dunque la convocazione di tutto l’insieme di “uomini perfetti” che 2000 e più anni di vicenda cristiana hanno visto sfilare sul palcoscenico dell’umanità.
Questa ampia schiera di gente riuscita – le cui gesta e irreprensibilità sono ben note a tutti – suscita immediatamente grande reverenza e timoroso rispetto, soprattutto perché richiamano – almeno per come li presentano gli agiografi – toni eroici e note sovra umane (tipo super-man, il super-uomo appunto) per noi assolutamente impensabili e di certo irraggiungibili…
Paradossalmente però, a fronte di questa grande ammirazione, proprio la loro irraggiungibilità, li rende in qualche modo “fuori dalla realtà”, superflui, quasi inutili: se non possiamo far molto altro che venerarli, perché somigliargli è difficile ed eguagliarli impossibile, ad un certo punto non resta che appenderli a qualche muro, metterli su qualche mensola e lasciarli lì a prender polvere…
Rispetto alle nostre storie contorte e travagliate, problematiche e a volte tragiche, faticose e indaffarate, hanno infatti davvero poco da dire…
Inoltre – sempre che questo possa essere detto di un santo, anzi di tutti i santi – hanno il piccolo difetto di non suscitare nemmeno più grandi entusiasmi… Non solo la loro irraggiungibilità ha fatto rinunciare i più a incamminarsi sulla via della loro sequela, ma – tra le nuove generazioni – le loro scelte risultano quasi incomprensibili, le loro storie strane… fanno quasi ridere e di certo non accendono l’ardore di imitarli in nessuno…
Sarà colpa dei santi? Incartapecoriti nel loro perbenismo?


O forse sarà colpa di quel lento, ma progressivo scivolamento verso l’imbalsamazione affettiva che le loro storie, in realtà pienamente umane, carnali, fatte di sudore e sangue, come le nostre, hanno lentamente subito quando si è deciso di innalzarli agli onori degli altari?
Perché, stando all’effettività della storia, uno non diventa mai santo da solo: e non semplicemente nel senso che la santità è un dono di Dio, che uno per diventare santo deve aver avuto genitori santi, ecc… ecc… ecc… Ma molto più concretamente, perché, per finire sul calendario, ciascun santo ha avuto bisogno di almeno un altro uomo che gli riconoscesse questa sua santità.
In altre parole: chi ha vissuto accanto a quegli uomini e a quelle donne che noi domenica ricordiamo come i santi e le sante della storia della Chiesa, non può averne ricevuto il rimando asettico che spesso le loro storie – riviste e corrotte da chi le ha redatte – suscitano in noi. Questi sono uomini e donne capaci di dare la vita, di pensare modi inediti di vivere il vangelo, di scontrarsi con le gerarchie, di essere lasciati soli, di smuovere la coscienza di intere generazioni (pensiamo all’immensa diffusione della proposta di vita di san Francesco, con lui ancora vivente; o al pullulare di monasteri carmelitani riformati con santa Teresa di Gesù; o all’adesione alla cura per i giovani suscitata da san Giovanni Bosco, per citare solo i più famosi)… Nelle diversissime modalità della loro santità, questi sono quindi uomini e donne che hanno creato intorno a sé fervore e passione, ardore e coraggio, amore e dedizione… almeno in quelle persone che – alla loro morte – hanno iniziato a dire: “Questo merita davvero di essere additato come esempio di vita cristiana”…
Tra l’altro – come sta a ricordarci il vangelo delle beatitudini di Mt 5 («Beati i poveri in spirito… Beati gli afflitti… Beati i perseguitati per causa della giustizia) – non perché risultassero “riusciti” (quanti sono morti soli, uccisi, senza vedere i frutti del loro spendersi… quanti hanno indossato stracci, dormito per strada, saltato i pasti… quanti sono stati incompresi, reietti, processati…), ma perché – guardati dall’impensabile sguardo amoroso di Dio – hanno iniziato a guardare con gli stessi occhi anche la gente e il mondo… e qualcuno se n’è accorto…
Infatti, quando Gesù chiama beati quelli che ha di fronte e attribuisce tale “titolo” ai diseredati della terra, sta dicendo qualcosa di molto lontano da quello che le rivisitazioni e agiografie pie dei santi ci insegnano… e sta invece dicendo qualcosa a cui le vite reali di questi uomini e donne che noi chiamiamo santi, si approssima molto: nelle beatitudini infatti Gesù sta presentando il mondo come Dio lo vede…
Il problema infatti sta tutto nella logica che conduce a chiamare uno “santo” o “beato”. È evidente che se per me “beato” è uno che ha tanti soldi, sto usando una logica diversa che se chiamo “beato” uno che di soldi non ne ha nemmeno mezzo… così come è diversa la prospettiva di chi chiama “santo” uno che passa l’esistenza a mortificare le sue passioni, rispetto a quella di chi attribuisce tale qualifica a uno che si dedica ai drammi dei derelitti della terra…
In questo senso, non possono avere alle spalle la stessa logica, i santi presentati nei nostri calendari, con i beati che sta individuando Gesù sulla montagna… Ma la domanda vera è: i santi veri – non il racconto della loro vita che ne hanno fatto poi – assomigliano di più alla logica di Gesù o a quella del calendario? E soprattutto perché si è preferito portare avanti la prospettiva “da calendario”, nel raccontare le loro vite, piuttosto che quella evangelica, che invece incarnavano (preferenza che nessuno può negare e che sarebbe immediatamente dimostrabile uscendo per strada e intervistando sul concetto di “santità/beatitudine” le prime persone che si incontrano)? Perché, cioè, si è preferito l’ideale stoico a quello del discorso della montagna?
Forse perché ad un certo punto insegnare che per Gesù (dunque per Dio) “beati” fossero gli incompiuti è sembrato davvero troppo paradossale; troppo difficile da comprendere; troppo immorale da proporre… si è di certo pensato che Gesù, lì, ragionasse “per iperbole”, che usasse cioè queste categorie estreme, per dare invece ben più applicabili consigli morali… e pian piano si è iniziato a depotenziare – quasi senza accorgersene – il carattere eversivo della proposta evangelica.
Gesù infatti, con quel suo discorso, ben più che dare consiglietti morali, voleva invece rompere con la logica mondana, per cui i “beati” sono i ricchi; ma anche con la logica religiosa, per cui i “beati” sono gli irreprensibili, gli stoici, gli im-passibili, i pii… esattamente quelli che invece tutti abbiamo presenti perché continuamente ripresentati su quelli che – non a caso – si chiamano “santini”… quegli uomini e donne con l’aureola, il giglio bianco e le mani congiunte in preghiera…
Gesù cioè, sia verso il mondo, sia verso la religione (che è solo una riproposizione indorata/incensata della logica del mondo), ha rotto con la prospettiva per cui “beato” è chi riesce a tirarsi fuori dalla condizione umana: o perché – mondanamente – è fuori dalla viscosità fangosa in cui stanno gli altri (i ricchi, i potenti, i dominatori…); o perché – spiritualmente – si “elevano”, cioè si tolgono dalla condizione in cui tutti gli altri si trovano (gli asceti, gli eremiti, i sacerdoti…).
Per lui piuttosto, “beati”, sono coloro che nella loro condizione umanamente umana ci stanno; coloro che non vogliono tirarsi fuori da ciò che sono; che non vogliono essere ciò che non sono; essere dei per dominare sugli altri. Ma che riconoscono che nel loro essere uomini e donne non manca niente per essere beati!
E Gesù ha creduto talmente questa cosa, che lui –che era Dio – si è immerso in questa umanità umana… insegnando all’uomo che per fare l’uomo non c’è bisogno di diventare dio; e che “essere Dio” – quello vero – vuol dire far essere l’uomo, uomo!
E i santi sono santi precisamente perché hanno colto ed incarnato questo! Non perché erano “santini”, come voleva ridurli una certa prospettiva ecclesiastica, che in questo modo disinnescava il detonatore della proposta evangelica di Gesù che metteva in discussione il loro essere fuori dalla storia, sopra gli altri; ma perché – immersi nella storia del loro tempo – l’hanno saputa guardare e abitare con lo sguardo del Padre.

Una moltitudine innumerevole… e gridavano: la salvezza vien da Dio… e dall’Agnello!

…già fin d’ora siamo figli di Dio!
Vorrei tentare di trovare una risposta a una grave domanda che ci vien posta dal nostro tempo: «È possibile esser santi oggi?» e se sì: «Qual è la forma di santità possibile nel nostro tempo?». Comincio col precisare il concetto di santità e di santo, seguendo, naturalmente, quello che l’esperienza vissuta del Mistero divino può dirci. In tutti i tempi si è sempre ritenuto che Dio potesse compiacersi di qualche mortale, colmarlo di doni e favori speciali, così da separarlo dai suoi simili e da porlo in una situazione più vicina a Lui stesso. Anzi, si finì per ritenere il prescelto come un valido intercessore presso la divinità; si pensi, per rimanere nell’ambito della nostra religiosità, alle figure di Abramo, di Mosè, di Elia.
Questa scelta fatta da Dio nei confronti di un mortale fu chiamata santificazione, e santità la qualità peculiare che lo rendeva differente, separato, in una posizione di privilegio, dai suoi simili. A seconda dei tempi, delle idee religiose, le qualità che rendevano preferito un mortale di fronte alla divinità sono differenti. Uno Sciamano è differente da un Profeta, uno Stregone da un Santo indù; con il raffinarsi dell’intelletto d’amore, del senso morale, il concetto di santità fu individuato nella virtù, nella dedizione all’affermazione dei diritti dello spirito sopra la materia, nello sforzo costante e tenace per esprimere più e meglio l’interiore somiglianza divina, impressa in ogni uomo come un sigillo di predestinazione. Vale a dire: l’uomo deve compiersi in Dio, deve ascendere a Dio per poter assumere fino a Lui la materna materia. La santità è perciò la separazione dalla natura bruta. L’uomo è per sua natura predestinato alla santificazione e alla santità. Lentamente, ma sicuramente, assurgerà ad esse, anche suo malgrado. «La parola di Dio non torna alla sua sorgente senza aver recato i suoi frutti» (Is 55, 10)
[G. Vannucci].

… l’uomo – dunque – deve compiersi in Dio, deve ascendere a Dio per poter assumere fino a Lui la materna materia nella quale è nato e cresce… Che lo sappia o meno, questo è l’anelito che lo preme da dentro, che non lo lascia in pace, che lo spinge a cercare fuori di sé (che non è altrove dall’intimo di sé) ciò che soddisfi il suo desiderio senza confini. Bisogna che si accorga e si convinca attraverso dolorose frustrazioni, che nessuna “materia”, fatta di spazio e di tempo e di energia, nessun oggetto, neanche vivo e umano come lui, può chiudere l’orizzonte della sua fame di essere … perché bramerà sempre altro ancora, e dopo ancora altro, e ancora più compiuto. Una tensione viva e incoercibile sgorga dalle sorgenti profonde dell’uomo di carne e materia e lo affama di trascendenza o di ascesa o di compimento di sé. Alla responsabilità del singolo, ma in comunione intensa e solidale con ogni vivente, Gesù ha annunciato, davanti ad una folla di gente povera e semplice, le sue BEATITUDINI, le linee guida per leggere la santità nella storia, impregnate del lungo cammino biblico, ma inestirpabili dal cuore pur devastato di ogni uomo. Ed ha così sconvolto per sempre ogni schema o modello religioso o filosofico di “santità”! Queste situazioni esistenziali scelte o accolte sono adesso la “santità” nel Regno del Padre, che abita e si respira nella storia. Non sulle vette del pensiero o della ascesi eroica, ma dentro lo spessore pesante dell’umile storia delle faccende e sofferenze quotidiane sta il crinale basso dove si incontrano o si scontrano le scelte operative, le relazioni affettive, religiose, politiche, sociali, educative, professionali … di umilissima qualità divina, proposte da Gesù e inventate e suggerite dal suo Spirito dentro la nostra vita. Riguardano tutti noi fragili e incompiuti … ma sono l’augurio del Padre che ci coinvolge nel suo progetto di pienezza donata, sono le sue congratulazioni per la strada intrapresa, sono la sua empatia per le situazioni di dolore redentore. E dentro di loro che emerge l’invincibile spinta propulsiva del bene (o dell’essere), nel cuore dell’universo, ma soprattutto – data la sua consapevolezza e la sua libertà di unico vero interlocutore di Dio – nel cuore dell’uomo, come benevolenza del Padre, che vuole salvi, cioè “compiuti”, tutti i suoi figli, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Una benevolenza operativa che, nel cammino del tempo, ci preme dal presente al futuro, dal desiderio al compimento, dalla sofferenza alla pienezza della gioia. Da qui provengono le beatitudini! Seme e fermento, dono e conquista, profondamente umane e dono inaccessibile alle sole nostre forze … Le condizioni fertili della vita storica dell’uomo, secondo Gesù, che le ha sperimentate nella sua vita e ne ha fatto la proposta esistenziale per i suoi discepoli, non solo per sé (non è possibile una compiutezza per sé senza amore di relazione), ma per un coinvolgimento di salvezza di tutto il mondo: L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo (Rom 8,19ss).
… ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato.
Questa attesa di tutto l’universo, che attraverso la redenzione del corpo dell’uomo, spera nella propria liberazione, è dunque scandita dalle Beatitudini. “Santo” (cioè, nel vangelo, discepolo di Gesù!) è colui che si apre ad esse, perché in lui è scoccata la scintilla “divina”, la mozione dello Spirito che animava Gesù, il germe della seconda nascita, il punto impercettibile di contatto con l’assoluto, di cui magari neppure s’accorge, mentre si libera dalla paura di morire, propria della carne, con tutti i suoi residui di egocentrismo competitivo e aggressivo che la natura e la cultura del mondo in cui siamo cresciuti ci ha istillati, come legge universale di difesa armata della propria vita. Seguire Cristo vuol dire tendere ad una giustizia differente da quella della carne e del sangue. Esistono infatti due giustizie: quella della materia (o ‘carne’, direbbe S. Paolo) che è la legge del taglione, sempre comunque la sopraffazione del più forte; e la giustizia del cielo (quella del Padre), che è lo slancio dell’Amore, che reinventa le relazioni dell’uomo nella storia: la via crucis feconda delle beatitudini. Non è una via per specialisti della mistica o dell’ascesi: il regno di Dio è il rovesciamento radicale e quotidiano del mondo in cui viviamo, dover domina il “Principe di questo mondo”, che ne fa il regno del potere omicida di Mammona. Tuffarsi nel primo vuol dire emarginarsi dal secondo, dove il “cittadino” del mondo è invece accolto e applaudito. Non vi è legge, devozione, penitenza, virtù, non vi è miracolo che muti questa dinamica. Il vangelo di Gesù è micidiale per le forme mondane, che quindi reagiscono e si oppongono, come dice l’ultima beatitudine. E, addirittura, la sconfinata libertà che Cristo ci ha donato, il rifiuto di adorare e onorare gli idoli di questo mondo sarà considerata un’ingiuria al buon senso o addirittura all’ordine costituito.
Chi sono costoro… avvolti in veste candida?
Oggi il santo è chiamato alla solitudine del suo interiore laboratorio, ove può sperimentare che la trasfigurazione spirituale del corpo e la corporificazione dello spirito non sono un concetto ma una possibilità. Orgoglio? Più probabilmente coraggio e fedeltà al divino che è in ogni uomo (Vannucci). Le Beatitudini segnano il cammino del laborioso travaglio che ci porta all’assunzione della materia nella dinamica gratuita e creatrice dello Spirito. Raggiungere la santità significa ripartire dalle profondità interiori spesso intricate, ferite e poco conosciute, di ogni uomo e di ogni sua relazione. Perciò la costruzione instancabile di tessuti di fraternità è il necessario complemento della personale ricerca interiore. Lavoro faticoso, non conosciuto da altri che da Dio, lavoro di discesa nei propri personali inferi, perché l’Uomo vero risorga in ognuno. Chi sente l’appello a quell’aggiunta di apertura all’essere che è la santità, deve inoltrarsi per la via della sua personale liberazione, con generosità, senza speranza o desiderio di ricompensa alcuna, se non il dono di poter giungere alla perfetta statura di Cristo: l’Uomo vero. Il premio è il compimento perfetto dell’opera, nella libertà sconfinata e consapevole dei Figli di Dio che, partecipando all’esistenza, se ne sentono indipendenti, che, di fronte a tutte le sollecitazioni di intrupparsi sotto qualche vessillo, rimangono se stessi, liberi da ogni richiamo idolatrico, promotori di una nuova storia che questa nostra che viviamo non riesce a contenere – e durerà per sempre: … chi sono costoro, e da dove vengono?... «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello. Per questo … Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro. Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi».

venerdì 4 luglio 2008

I “piccoli” e la nostra salvezza

Si va manifestando sempre più l’identità vera di Gesù e quindi della sua missione tra di noi e la nostra difficoltà a capirla. Abbiamo visto Gesù che va a pranzo con i peccatori e i pubblicani …e i farisei si scandalizzano. Gesù si commuove di compassione per le folle perché erano stanche e sfinite come pecore senza pastore, e vuole che i suoi discepoli le consolino e le curino … In questo capitolo 11°, si intensificano incomprensioni e resistenze verso di lui: Giovanni Battista non ne coglie la novità, il popolo non lo comprende, i farisei lo dichiarano indemoniato, e i villaggi sul lago, dove più si è speso come amico, profeta, taumaturgo, sono refrattari al suo messaggio. Gesù ne rimane molto deluso…: ha nelle orecchie i commenti su di lui degli esperti delle Scritture: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori… e soffre per l’inutilità della sua predicazione: “si mise a rimproverare le città nelle quali aveva compiuto il maggior numero di miracoli, erché non si erano convertite…
È arrivato al fondo di un vicolo cieco ‑ e proprio qui, si apre uno squarcio inaspettato di gioia… si spalancano orizzonti nuovi luminosi, entro i quali addirittura brilla il volto del Padre e in lui Gesù sussulta di riconoscenza ed esulta nello Spirito Santo (Lc 10,21), perché ritrova il senso della sua avventura in questo mondo.

Tramite “i piccoli”!

Cosa vuol dire? Cosa ha scoperto?
Ha scoperto … come è fatto suo Padre! E quindi come sarà la sua propria storia di figlio mandato da lui a salvare il mondo. Quello che nell’eternità del loro amore è vero da sempre, adesso si sta incarnando nelle vicende difficili della sua storia umana: Ha scoperto come suo Padre vede e patisce le cose del mondo diversamente da lui, come considera inevitabile il rifiuto del mondo, ma anche del suo popolo. E come invece (e a chi) “gli piace” rivelarsi e nascondersi! Quant’è diverso dalle aspettative di gloria e onnipotenza dell’uomo, il suo misterioso agire di Padre nella storia, dentro i conflitti, i rifiuti, i fallimenti, la ingenua effimera buona volontà dei “buoni”… e la refrattarietà radicale di “tutti” al suo amore!
Non se ne accorge forse nessuno, ma sotto lo sguardo stupito e smarrito dei discepoli più vicini, questo sussulto di consapevolezza “riconoscente” di Gesù verso il Padre segna un salto di qualità e di prospettiva nel cammino culturale dell’umanità intera… come è avvenuto per il suo battesimo o la morte in croce. Su questo mistero “paterno” sta o crolla la fede dei suoi discepoli lungo i millenni. Lo si vedrà poco dopo quando il fondamento stesso della sua Chiesa, Pietro, dopo aver accolto felicemente l’ispirazione del Padre sulla messianicità di Gesù, di fronte a questo discrimine della sofferenza, diviene ‘satana’! Come tutti i discepoli, che appena il loro messia diventerà “piccolo e inerme” lo abbandoneranno tutti. Su questa scelta preferenziale dei piccoli come depositari delle “cose” del Regno si gioca il prestigio “a rovescio” dei discepoli di Gesù! – che ciascuno di noi, come la chiesa intera, fa una fatica immensa ad accettare. Ma il messaggio è chiaro!
1. La rivelazione del Padre passa attraverso i “piccoli” (in/fanti – non hanno neanche la parola!). L’esperienza di Gesù con i sapienti e gli intelligenti non è stata felice e arriverà ad uno scontro mortale…. ma la sua dichiarazione non è una condanna contro di loro: è invece un’esperienza di profonda coincidenza con le scelte del Padre, come a dire: è proprio così! è vero e bello così! Sono i poveri di spirito, i malati, le folle stanche, i bambini… coloro insomma che non sanno come salvarsi, che possono aprirsi davvero alla benevolenza del Padre, che preme sul cuore di tutti… Gesù capisce che lui stesso, pur continuando per ora tutti gli sforzi, le discussioni, i segni di salvezza, sarà spinto nell’abisso dell’impotenza…
2. l’uomo Gesù, (e Gesù soltanto) è il rivelatore del Padre in terra, proprio per aver capito questo ed esserne trasformato nel nodo della sua (nostra) umanità. Al punto di riconoscere nel Padre il proprio segreto più intimo: tutto mi è stato dato dal Padre mio… Questo mistero inaudito è stato scritto lì, certamente, con parole così profonde e intense che gli esegeti dicono che sembra un testo di Giovanni. Gesù sta spalancando a noi il circuito trinitario (nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio)… per dirci che questo circuito non si può ormai più chiudere storicamente (su questa terra come in cielo) se non attraverso questo anello mancante: i piccoli! Questa è l’intima rivelazione del segreto messianico del Padre, nel quale Gesù coinvolge colui al quale lo vuole rivelare ‑ per associarlo alla sua missione di salvezza del mondo!
3. venite a me voi tutti affaticati e oppressi! …fiumi di inchiostro si sono spesi per difendere Dio dal male del mondo, per proclamare tutti (credenti di ogni fede, atei, agnostici) che i piccoli, soprattutto, non devono soffrire. Gesù accoglie invece la contraddizione e ci si sprofonda, ma non la risolve storicamente, come tutti si aspetterebbero... Propone un modo di viverla nuovo, riferito a lui e alla sua esperienza del Padre nella storia: Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e piccolo di cuore, e troverete sollievo per le vostre anime. Il mio giogo infatti è utile e il mio carico leggero. Dunque la sua croce rimane un peso smisurato sulle sue spalle, e neanche sarà leggera la croce di chi lo segue! Il segreto sembra essere nella mitezza e inermità con cui si affida alla benevolenza del Padre che in lui (loro!) sta portando avanti la salvezza del mondo. Qui c’è un abisso, un vuoto, nel quale si inoltra chi lo segue senza resistenze, chi il Padre ha chiamato, chi ne riceve il regalo terribile di sofferenza, impotenza, infermità… mantenendo in cuore la mitezza. Dal suo intimo sgorgherà lo zampillo d’acqua, il barlume di luce sufficiente a sperimentare …che il Padre ha ragione!
...via verità e vita…
Gesù dunque taglia via dalla conoscenza dei misteri del Regno (queste cose!) gli specialisti della teoria (teologi, scienziati, scribi e farisei… chierici) e gli specialisti della prassi (asceti, santi… galantuomini) coloro insomma che hanno accesso a Dio e ai grandi problemi dell’uomo e della sua storia… Saranno anche competenti e tocca a loro condurre il mondo e le chiese… ma Gesù continua imperterrito ad affermare che il Padre si è compiaciuto di “rivelare” i veri segreti del senso della storia, ai piccoli. Rivelare “queste cose” – cioè effettuarle storicamente, vuol dire… ‘Lui’, da che parte sta! da dove salva il mondo! con i piccoli!
Tutta la lotta che segna la vicenda umana, a livello personale e sociale, tra legge della carne (carri e cavalli - risorse della legge e della morale… potenza delle capacità umane) e legge dello spirito (un puledro di asina, la fatica e l’oppressione, la piccolezza e l’insignificanza) … è raccolta e simboleggiata anche da Zaccaria e a Paolo … nei piccoli del Vangelo, salvati per grazia dello Spirito: per dare vita anche ai loro corpi mortali (Inutili! noi pensiamo… censurando che la sorte del nostro corpo è, alla fine, uguale).
Nella sua avventura umana - nel suo corpo! nel loro corpo! - abitati dall’interno da una dinamica dello Spirito totalmente diversa dalla legge della carne, Gesù si propone via e forza di salvezza. Come a dire: imparate da me (come ho imparato io!) la potenza della mitezza e della piccolezza: nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a colui che poteva liberarlo dalla morte… e fu esaudito per la dolce consegna di sé . Pur essendo figlio, imparò l'obbedienza dalle cose che patì, e divenuto perfetto, divenne causa di salvezza per tutti quelli che gli obbediscono!… (Eb 5,7s).
il punto cieco - il corpo mancante della chiesa e della società …
… lo statuto dei mistici è di non raggiungere mai il dio per cui vivono, quello dei piccoli è di non raggiungere… niente! Ma di essere abitati da un Padre inerme… che li rende “il vangelo vivo” che, in ogni cultura, si fa fermento e seme di ciò che non c’è ancora, la profezia della salvezza ricercata, la denuncia della insensatezza di ogni violenza e reazione aggressiva.
Il Dio mondano, intuito dalla nostra intelligenza, ricercato dalla nostra orfanità affamata di onnipotenza,viene incessantemente e inevitabilmente ingabbiato nelle teologie e liturgie di noi intelligenti, sapienti, e clericali… E così intercetta e impedisce il contatto con il Padre, sperimentato e rivelato da Gesù. Censura, quindi il vero scandalo! Elimina l’anello storico del circuito trinitario: i piccoli, che sono in mezzo a noi, senza importanza, pietre scartate, ma sono le chiavi di volta della salvezza della storia. Perché la salvezza è indivisibile: se non si salva il più piccolo non si salva nessuno!
… i cristiani si affannano cercando come presentare meglio Dio nella società e cultura secolarizzata di oggi, correndo avanti o indietro, aggiornando (o ripristinando) abiti e linguaggi…
Dio… non so dove sia! Ma il Padre di Gesù Cristo, forse è nascosto negli accampamenti zingari, in fila con i “piccoli” rom, a farsi schedare e prendere le impronte – e chi si accorgerà che sono le impronte di Dio?!

venerdì 8 febbraio 2008

Il lungo cammino per imparare ad amare

Nella vita di Gesù le beatitudini sono il traguardo luminoso della sua personale ricerca del volto paterno di Dio nelle vicende umane. Nella comunità di Matteo, diventano le “congratulazioni” di Dio che confortano il cammino difficile dei discepoli nella storia. Sono il nucleo esplosivo del messaggio cristiano. Analogamente le tentazioni sono le alternative diaboliche (de/vianti, per/verse) proposte alla sua libertà, nei passi determinanti del cammino di immersione nella storia degli uomini. Nei tre lapidari dibattiti con satana è concentrato simbolicamente il dramma di tanti scontri e collisioni della sua vita tra le due alternative, nella conquista interiore di un’assoluta consegna, (adora il Signore Dio tuo!...) consegna totale, senza remore, ma irta di trepidazione, di sofferenza, di preghiera, di audacia inventiva, spesso dissidente rispetto al contesto socio-religioso nel quale viveva, che fa emergere in ogni frangente lo sbilanciamento di Gesù per il Regno del Padre (...e il suo nome e la sua volontà!). Un’esperienza di guerra totale contro il male, pagata sulla sua pelle, per imparare ad amare sempre, senza cedere mai alla paura e all’egoismo, senza tentennamenti né pentimenti, tanto è totale il suo amore. Perché non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici. Ma dare la vita, “tutta una vita”, non è stata una passeggiata programmata sui sentieri della Palestina, con le sue tappe e le sue visite, gli incontri che si snodano quasi fossero sacre rappresentazioni, come lascia intendere talora una agiografia un po’ monofisita. Che non sembra molto convinta che Gesù ha condiviso in tutto, eccetto il peccato, la nostra condizione umana. Nella quale costruisce la propria identità solo progressivamente, nel travaglio della debolezza della carne, in una sfida rinnovata ogni volta nelle scelte drammatiche e dolorose, quando perfino sua madre e si suoi fratelli lo ritenevano “fuori di sé” (Mc 3,21). Quando la delusione per l’insuccesso del sogno di un Messia potente svuoterà la fede dei discepoli che lo lasciano solo, come nell’angoscia mortale che offrirà a Satana “il suo momento” per l’estrema tentazione (Lc 4,13).
I bisogni primari nella vita di Gesù… Non si trattava soltanto di sopravvivere, lui e si suoi...il mangiare, bere, vestirsi… la casa e gli affetti, e le varie necessità essenziali pur semplicissime, che dopo l’infanzia imparò a soddisfare con il lavoro duro delle sue mani, come la tradizione e le Scritture insegnavano. Ma soprattutto era in gioco la compassione per i bisogni ... disattesi o disprezzati, dei poveri, malati, oppressi …che costituiranno apertamente i suoi interlocutori preferiti degli anni della vita pubblica … L‘impazienza di intervenire e lo struggimento dell’impotenza di fronte al male, avranno fatto venire anche a Gesù un’umanissima voglia di miracolo, pur di soccorrere il disperato che non ha più dove sbattere la testa, il piccolo violentato nella sua crescita umana, l’affamato che si è smangiato ogni sentimento umano perchè non ha cibo per il suo stomaco né tenerezza per il cuore. Ecco il desiderio che il Padre trasformi non solo le pietre in pane, ma le rocce in case e il deserto in scuole e ospedali e rifugi d’accoglienza per chi ha perso ogni riparo… E invece gli tocca – anche a lui! imparare ad amare E anche lui dopo quel poco che può fare, dichiararsi servo inutile per questo tipo di bisogni. Ed abitare nella nostra stessa impotenza, accanto alla sofferenza senza rimedio. Ed imparare quanto è amaro e duro, rinunciare ad usare Dio per tappare i vuoti della nostra storia, cercando invece di accompagnare umilmente la gente nel deserto inospitale della vita. E ascoltare quale Parola esce dalla bocca di Dio, dentro le situazioni senza uscita nelle quali lascia vivere i suoi figli. E, infine, imparare ad amare, senza pretendere inutili miracoli!
L’ingombro dell’io nel cammino della consegna di sé al Padre. Si può chiamare questa tentazione in tanti modi, perchè plurime sono le modalità e le metamorfosi dell’io – il nostro “io” che è un intero ufficio di regìa, misteriosamente installato nella corteccia cerebrale, ma di fatto ‘signore’ del cuore dell’uomo. Dove, con tanta trepidazione e altrettanto irrefrenabile presunzione, cerca di imporre una strategia unitaria nella costruzione della nostra identità. In questo lavoro di una vita, il potere, il piacere, la fama, la cultura… perfino la santità, secondo la storia di ognuno, diventano il materiale di costruzione della “figura” di sé, questo idolo (o ideale!) da perseguire a tutti costi nella vita. Da qui nascono le nostre laboriose fabulazioni per rivestire il nostro personaggio di pregi e di successi, per non sentirci nudi nei vari campi in cui ci spendiamo, nei pochi anni che ci sono dati! Anche Gesù era un uomo, necessariamente in scoperta e costruzione progressiva della sua identità, nello specchio d’amore del Padre. È partito da una consapevolezza forte di Messia salvatore, che a breve avrebbe salvato Israele, come sembra di vedere al battesimo o nella sinagoga di Nazareth e in tanti incontri di guarigione e di perdono… nei primi mesi della sua missione di profeta e taumaturgo itinerante.
Il potere e la violenza. Ben presto, il fallimento della missione in Galilea e la tragedia finale che incombe lungo tutto il viaggio verso Gerusalemme, la durezza di cuore sempre più esplicita di avversari e discepoli, ma soprattutto la sua irrinunciabile fedeltà al primato dell’amore, gli rivelano sempre più aspramente la “sua” verità. E corrodono la “figura” fallace del Messia che la gente attendeva come profeta di gloria e potenza religiosa e politica, che doveva ricostituire finalmente il Regno di Israele. Sempre più lucidamente, invece, coglierà la perversione diabolica di questo miraggio, di conquistare il mondo al progetto del Padre con mezzi potenti, miracolosi e irresistibili. E gli nasce dentro la domanda lancinante i tutti i giusti: Sarà inevitabile la violenza contro il male, per poter instaurare un Regno di amore? Questa tentazione (la prima e l’ultima, la più tragica e irriducibile dell’uomo) si rivela come la vera alterativa antagonista, la più intelligente e subdola sul campo della dura logica della competizione: politica, economica, affettiva. Quella che ogni uomo, fin da bambino, impara e pratica per la propria sopravvivenza… per essere “qualcuno”. Quella che necessariamente fa abbandonare il debole per privilegiare chi ‘serve’ di più… Il potere è monopolistico! Non ammette concorrenti, e quindi si gioca sulla sottomissione di ogni altro contendente – per il primato, in una sfida che diventa sempre necessariamente spietata ed omicida.
Adora il Signore Dio tuo e lui solo servi vuol dire conquistare la libertà da ogni altro potere alternativo, per non sacrificargli mai nessuno. Vuol dire imparare ad amare Dio non perchè ti sostiene nei tuoi progetti, ma perché è lui il progetto di amore sul mondo. Affidarsi a questo Progetto, che non tollera piani di esecuzione che non siano amore e misericordia, porta Gesù ad immedesimarsi nel servo sofferente, condotto come pecora al macello, perché sulle sue spalle si abbattono i poteri minacciati dalla sua irriducibile disarmata verità, fino a dissanguarlo e ucciderlo. Quando la fine è imminente nessuno più oserà seguirlo su questa strada, e lo rinnegherà anche chi l’aveva confessato “Figlio di Dio” – Cefa, la pietra di fondazione della Chiesa … la quale non per niente patisce ancora oggi questa infezione di illudersi che il potere possa diventare strumento evangelico di libertà e di amore.
Anche il povero ”io umano” di Gesù una pulitissima e mitissima voglia di vivere!– quello che pregava il Padre di liberarlo da morte, ha sentito premere dentro di sé l’alternativa deviante (passi da me questo calice!). Ma ha scelto di mettere il suo destino nelle mani del Padre, pur sapendo che queste mani non l’avrebbero sostenuto dall’abisso. Ma proprio per la sua fedeltà al Padre (e ai suoi figli perduti), ha aperto la strada della nostra salvezza.

giovedì 31 gennaio 2008

Beato chi vince il male con il bene!

…dopo lunghi anni di silenzio e di lavoro,
Gesù – nuovo umile Mosè ‑ raccolti alcuni pescatori come suoi primi discepoli, davanti alle folle smarrite come pecore senza pastore, comincia ad insegnare. E condensa qui, secondo il racconto di Matteo – il nucleo di fuoco del suo vangelo (cap 5, 6 e 7). Quanto ha meditato e scoperto, sperimentato ed implorato negli anni nascosti della sua giovinezza, alla ricerca difficile dello sguardo di amore del Padre su un mondo colmo di dolore e ingiustizia, è espresso in poche righe sconvolgenti. Noi, in genere, siamo abituati dall’infanzia a sentire queste “beatitudini”, con le proposte radicali che seguono, e siamo convinti che siano, sì, una delle più sublimi pagine della storia dell’umanità, ma rischiamo di perderne il senso nella vita di Gesù. Mentre sono il frutto dello suo scontro con la sofferenza, con il peccato, la prepotenza, il non senso delle misteriose forze del male che soggiogano l’uomo… Le beatitudini sono il punto d’arrivo della ricerca inquieta della sua mente e del coinvolgimento struggente del suo cuore di uomo nelle vicende dello spaccato di storia umana, quale era il “piccolo mondo” in cui gli era capitato di andare ad abitare. Ha imparato a vedere le vicende degli uomini alla luce della benevolenza onnipresente del Padre, nella convinzione, imparata proprio dall’indefettibile amore del Padre (per Gesù è “la vita”!) che l’“amore” è l’unica possibilità di vincere il male nella storia.
la strategia del Padre per risolvere il male nel mondo…
Le proposte di soluzioni dei mali degli uomini, al tempo di Gesù erano tante, come oggi. E tutte le avrà vagliate ed soppesate, pur di trovare un modo di aiutare i sofferenti schiacciati dal loro dolore… in decenni di silenziosa solidarietà, anzi di “immersione” nell’avventura di essere uomo… Meditando la storia alla luce delle Scritture, pregando i salmi e le esperienze dei patriarchi antichi, Gesù, ha maturato un rovesciamento totale nella percezione delle gerarchie dei valori e dei beni di questo mondo. E si è convinto che questo rovesciamento è l’ottica del “Regno”, cioè è il progetto di amore del Padre. Per combattere il male nel mondo ogni altra strategia, che non si converta a questo progetto, precipiterà nell’alternativa tragica della competizione e della violenza, finendo per aumentare, invece che diminuire, la sofferenza degli uomini.
Quanto sia difficile per noi questo rovesciamento di strategia, questo metodo completamente im/politico di affrontare il male nella storia degli uomini, l’ha sperimentato Paolo nelle prime comunità di credenti, dove d’istinto emerge l’affermazione mondana della forza, della cultura, del potere, come criteri di valore e d’importanza in comunità. E Paolo sa, per amara esperienza personale, che il Vangelo del Signore è fondato su tutt’altri criteri: Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio (1Cor 1,27).
… le beatitudini
Le beatitudini sono dunque la buona notizia della compiacenza, come a dire, delle “congratulazioni” di Dio su quanti sono collocati, consapevoli o no, in questa ottica di amore, perché è l’unica risposta adeguata al male nella storia, anche se apparentemente debole e sconfitta. Il mistero del male e lo scandalo del dolore insensato che vi aggiungono la debolezza e talora la malvagità che gli uomini, è stato il problema più assillante e drammatico della prima parte della vita di Gesù, se poi la seconda, quella che conosciamo dai vangeli, è totalmente dedicata ad alleviare, guarire, perdonare, risanare i più piccoli e i più disperati, e ad esorcizzare le potenze del male che li opprimono… Ecco perché Gesù, quando finalmente prende la parola, comincia proclamando: Beati i poveri! che è la premessa e la sintesi di tutte le altre beatitudini. Come a dire: beato chi è povero ‘di spirito’ perché ha rinunciato alle soluzioni “forti” (potere, cultura, tecnica, soldi…) ma affronta i mali del mondo, esponendo se stesso, inerme, come proposta, testimonianza, ponte di pace …
non è una nuova legge,
che sarebbe altrettanto impraticabile alla gente che quella antica. Non si tratta infatti di esigenze morali nobili e difficili, e comunque inarrivabili per gli sprovveduti che sono solo ricchi di fame, bisogni e desideri inappagabili… e non hanno spazio umano per pensar ad altro (…i miliardi di uomini che sono passati “inutili” e non amati da nessuno, sulla faccia della terra). Le beatitudini sono piuttosto l’annuncio di come Dio vive ed è presente nelle condizioni difficili della storia degli uomini – come il suo progetto di amore (il Regno) è presente in mezzo a noi e impregna la sofferenza anonima di tutti i suoi figli, a cominciare dai più poveri. Le beatitudini non sono la promessa di interventi miracolosi che hanno lo scopo di cambiare le situazioni attuali. Altre, ad altri livelli, sono le possibilità politiche aperte a tutti gli uomini di buona volontà di cambiare ed evolvere le condizioni di sofferenza e di oppressione, e il vangelo altrove raccomanda di perseguirle.
Le beatitudini offrono piuttosto un significato nuovo dell’esistenza umana, suggeriscono criteri diversi di valutazione e di lettura della storia, totalmente disomogenei dai nostri. Gesù lancia a chi vuole ascoltarlo, una duplice sfida con la sua stessa vita, il cui significato è preannunciato nelle beatitudini.
1. L’immersione totale nella condizione umana, nelle situazioni più disagiate degli sventurati del mondo, senza escluderne mai nessuno... Non è un’esortazione morale, ma una proposta esistenziale. È lui, infatti, il primo povero, che si è spogliato di tutto per solidarietà di condivisione vera della nostra sorte “con forti grida e lacrime”. Solo così ha potuto capire dall’interno la nostra condizione… Ha faticosamente imparato, come noi, cosa significa “ascoltare e accogliere il disegno del Padre sulla storia…”. Infatti proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova (Eb 2,16). Ha scoperto con trepidazione ed angoscia (come si vedrà nel dramma finale della sua vita) il peso insopportabile della sofferenza, della persecuzione, del tradimento, che, accolto senza odio e trasformato in mitezza e indefettibile proposta di amicizia, ha ridonato vita, respiro e pace alla terra”: … imparò l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono (Eb 5,8s).
2. l’annuncio sorprendente che questa sofferenza può essere vissuta nella gioia: Le beatitudini (che sono già gioia per il Padre che le guarda con empatia) finiscono con la raccomandazione e l’augurio: “Rallegratevi e gioite”! Quale gioia? Nel discepolo di Gesù, avvolto da questa feriale beatitudine, tutto, all’esterno, rimane come prima, tutto diventa anzi ancor più autentico… le sofferenze e i vuoti, come la fragile bellezza e la relativa bontà dei volti e delle faccende del nostro contesto quotidiano, in cui rimaniamo immersi… Ma i volti e le loro vicende sono come avvolti e impregnati e “ricollocati” in un’altra dimensione, dove il Signore e il suo vangelo sono il riferimento ultimo di senso (beati!) – non come esclusione di nessuno, non come privazione ascetica o come distacco morale dal tessuto umano che è il nostro, ma come conversione radicale dell’asse profondo della vita, aperta ad una luce mai goduta prima, che passa dalla reazione violenta alla mitezza, dalla pretesa esigente al dono: è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità.(Gv 4,23s)
Magari sono piccolissimi assaggi o (minuscole beatitudini!), soltanto squarci di un cielo e di una prospettiva che di solito vediamo e desideriamo da lontano, ed invece già adesso, ci è promessa e seminata in cuore, anche se rimane sempre ingovernabile e imprendibile… come ogni dono dello Spirito. E si annebbia presto, lungo la giornata, nei ritmi alterni dei nostri umori. Però è vera, e ne rimane la memoria e l’attenzione premurosa, perché le troppe distrazioni ed urgenze del nostro vivere non ci allontanino dall’essenziale!
…e così imparare, o almeno cominciare a tentare qualche gesto, arrischiare di rispondere alle asprezze della vita e degli uomini con qualche sbilanciamento di amore, di tenerezza, di assorbimento del male, invece che di ritorsione:
  • quando la desolazione ci devasta il cuore e vorremmo anche noi consolazione, e siamo tentati di amarezza;
  • quando la reazione violenta ci preme dentro come l’unica soluzione, e vorremo esser capaci di seminare mitezza;
  • quando la rabbia triste per l’ingiustizia ci rode l’anima e la vorremo subito eliminata… a costo di altra violenza;
  • quando la miseria è cosi grande che bisognerebbe contenerla e accudirla con ancor più grande misericordia;
  • quando ci si offuscano gli occhi del cuore e non vediamo più la benevolenza del Padre in chi che ci fa del male;
  • …portando sempre pace e perdono dove c’è conflitto e odio, perchè questo è il mestiere di Dio e dei suoi figli.

Beati i precari...

Le letture di questa quarta domenica del tempo ordinario non lasciano dubbi interpretativi: c’è una predilezione del Signore per coloro che stanno nella precarietà, in qualsiasi forma essa si presenti! Secondo Sofonia infatti il resto che il Signore si preserva non è una elite morale o religiosa: non si tratta di preservare “il meglio” per attuare una rifondazione del popolo su di esso. Piuttosto l’attestazione della fedeltà eterna di Dio, che è il senso della custodia di un resto, poggia sulla predilezione per il povero: «Lascerò in mezzo a te un popolo umile e povero».
E questa è la stessa prospettiva che si ritrova anche in Paolo. Egli infatti attuando una sorta di metodologia fenomenologica dice che per capire la logica della chiamata di Dio, è necessario guardarsi addosso, guardare al dato della realtà che si dà da vedere. E ciò che esso mostra in modo evidente è che non siamo una elite né intellettuale («non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano»), né politica («non ci sono fra voi molti potenti»), né sociale («non ci sono fra voi molti nobili»). Anzi, esplicitamente Paolo dice che Dio sceglie «quello che per il mondo è stolto, quello che è debole, quello che è ignobile e disprezzato, quello che è nulla».
E il Vangelo insuperabilmente rincara la dose: le beatitudini infatti sono il fremito gioioso che sgorga dal cuore di Dio per l’umanità che vive un’esistenza precaria… Uso questo aggettivo, come sintetico di tutte le “categorie” presentate nel testo matteano, perché mi pare riesca a dire la realtà di tutti gli uomini lì presentati.
Non si tratta infatti solo di sfortunati o incompiuti o disagiati… La prospettiva, che certo tiene anch’essi, è però più ampia. Appunto, mi pare, sia quella di chi ad ogni modo sta nella vita come colui che è feribile e ferito e non come colui che ferisce. Ecco il senso della precarietà! I poveri in spirito, gli afflitti, i miti, gli affamati e assetati di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per la giustizia sono tutti coloro che per scelta loro o di altri si trovano dalla parte di chi “le prende”.
Nel mondo non si è mai visto infatti un povero in spirito su cui altri non abbiano prevaricato, un afflitto sul cui dolore altri non abbiano speculato, un mite di cui altri non abbiano approfittato, un affamato di giustizia che l’abbia definitivamente ottenuta, un misericordioso il cui cuore non sia trafitto dalla colpa subita, un puro di cuore di cui altri non abbiano abusato, un operatore di pace che non sia stato eliminato, un perseguitato su cui non sia stata usata violenza.
È per questo che istintivamente nessuno di noi vorrebbe ritrovarsi in quella situazione: perché porta alla morte. E noi, che come una consapevolezza arcaica, lo sappiamo, pur onorando a parole queste condizioni di vita, in realtà nelle piccole e grandi cose le rifuggiamo, e preferiamo scegliere, basandoci su quella che ci pare una ragione incontrovertibile, cioè la salvezza della nostra pelle (o più subdolamente, dei nostri figli), preferiamo scegliere di farci carnefici.
Gesù in tutto questo invece pone una parola diversa e facendolo rivela all’uomo un volto nuovo di Dio e di uomo. Egli, dichiarando beati coloro che si sono lasciati ferire dalla storia, o che la storia ha ferito, senza chiedergli il permesso, attesta nei loro confronti una benevolenza privilegiata. Privilegiata perché essi si trovano nella condizione di poter guardare le cose dal punto di vista di Dio, un punto di vista che lo stesso suo Figlio ci ha definitivamente rivelato. Gesù infatti vive proprio così; è Lui il primo che si getta in questa vita lasciandosi ferire dalla precarietà: lo si è visto bene negli inizi di questa sua avventura umana (gli umili natali, il rifiuto, il pericolo, il basso profilo dell’inizio della sua missione) e lo si vedrà ancora meglio nella sua fine.
Ma, in fin dei conti, in cosa consiste questa beatitudine? Perché… insomma… mi verrebbe da dire… va bene che Gesù ha vissuto così, ma a me piacerebbe comunque di più la tranquillità, il benessere, il non essere destinata prenderle e a morirci… E allora, cos’è che rende questa precarietà così necessaria? Perché Dio chiama “abilitati a Vivere” proprio coloro che ne fanno esperienza? Cos’è che la precarietà dischiude di così decisivo?
Forse il fatto che solo così la vita è Vita; solo così posso dedicarmi a viverla e non a dovermela salvare; solo così l’altro è fratello e non rivale.
Provo a spiegarmi… Sono i nuovi volti di Dio e dell’uomo cui accennavo:
1- Da un lato infatti la precarietà mi insegna che il fondamento della mia vita non può essere in me. È un Altro il riferimento su cui devo appoggiarmi. E la buona notizia è che questo fondamento (che l’uomo da sempre ha creduto ci fosse) ha un volto preciso: non è banalmente il più potente dei potenti della terra, che si limita a riproporre, potenziandole, le dinamiche di dominio dei tiranni del mondo; ma è il volto di un Padre che guarda con benevolenza le vicende dei suoi figli e le patisce con loro, innestandoci un anelito di risurrezione;
2- Dall’altro la precarietà mi rende avvicinabile a chiunque: i perfetti, i puri, i rispettabili non li tocca nessuno… incutono timore… e tanto meno loro toccano gli altri… per paura di contaminarsi… Il mio peccato invece, la mia paura, le mie ferite mi permettono di sentirmi a casa dentro all’umanità, a quella massa di uomini e donne che è peccatrice, malata, spaventata, inadeguata, incompiuta…
Ma non vorrei essere fraintesa… non è un osannare la sofferenza, un giustificare Dio di fronte al male del mondo o un legittimare lo status quo, ignorando quanto patire c’è in questa umanità precaria. È solo il ribadire che essa non è carne da macello per la vita di pochi, non è la parte del mondo nata sfortunata che non ha possibilità altra che il passare inutilmente e tristemente su questa terra… No! Per Gesù essa stessa è vita; anzi è proprio questa l’umanità che Dio, a dispetto delle logiche del mondo, crede l’unica veramente abilitata alla vita. Solo lì in effetti si può scrivere nella nostra carne la logica cristica: l’unica logica che, attraversando sì la morte, ma facendolo affidandosi al Padre e per i fratelli, incarna la vera vita beata!
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