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lunedì 26 ottobre 2009
J'assume moi aussi!

sabato 13 giugno 2009
Mani schifate

Quei guanti di lattice, che servono a non toccare l'orrore, sono come il nostro pensiero, come i nostri ragionamenti sull'immigrazione-sì e l'immigrazione-no, le quote, i conteggi, i controlli, le leggi. Le guardie di finanza usano guanti di gomma e noi usiamo guanti mentali. Proprio come loro li indossiamo per non entrare in contatto con il male fisico, con la sofferenza dei corpi.
Ma bastano una, due, tre foto come queste per farci scoprire la fisicità. Le guardiamo infatti senza più la mediazione della logica, ne percepiamo l'efferatezza e la bruttura. E saltano i ragionamenti, non c'è più bibliografia, spariscono i distinguo del "però questo è un problema complesso". Ecco dunque la banalissima verità che sta dietro ai nostri dibattiti, al nostro accapigliarci sull'identità e sulle frontiere: stiamo buttando fuori a calci in faccia dei poveretti che ci pregano in ginocchio stringendo le mani delle nostre guardie di finanza, mani schifate e dunque inguantate.
E ci cade a terra anche la penna perché l'occhio è molto più veloce e diretto dell'intelligenza con la quale siamo abituati a mentalizzare il mondo. Ci cade la penna perché capire e spiegare è già tradire l'orrore, significa infatti infilarsi il guanto dell'orientamento politico, dei libri che abbiamo letto, della nostra battaglia contro la xenofobia, significa parlare dell'esplosione demografica e del deflusso inarrestabile dell'umanità dai paesi dell'infelicità a quelli dell'abbondanza... E invece qui non si tratta né di cultura né di generosità, qui il pensiero si mostra per quel che è: un guanto di lattice, appunto.
Qui ci sono da un lato i corpi tozzi, grassi e forti della Legge, la nostra legge, e dall'altro lato i corpi umiliati e maltrattati dei disperati che non vogliamo in casa nostra e che respingiamo. E nella loro sofferenza c'è un surplus di mistero che non si esprime necessariamente nella magrezza e nelle cicatrici perché - guardateli bene - quei corpi avviliti sono ben più vigorosi dei corpi sformati degli aguzzini che ci rappresentano, degli italiani "brava gente" con il manganello. Sembrano addirittura più sani, certamente sono più vivi.
Dunque ancora una volta è l'occhio l'organo vincente. Ancora una volta scopriamo che la mente ci abitua a non vedere le cose. E' infatti facile dire che in casa nostra devono entrare solo quelli che hanno un permesso di lavoro e che ci vuole un legge per facilitare le espulsioni dei clandestini. Grazie alle foto dei reporter di Paris Match ora sappiamo che tutto questo significa una scarponata sulle dita di una mano aggrappata alla murate di un'imbarcazione, o un pugno sui denti o...
A Porta a Porta o a Ballarò si può trovare una motivazione per tutto, si può spiegare ogni cosa. Ma davanti a queste foto ragionare diventa un crampo. Guardate che cosa è la fisicità della politica della dolce e bella Italia: respingere a calci, prendere di peso gli infelici e buttarli fuori dalla Bovienzo che fa servizio da Lampedusa a Tripoli, portarli davanti alle coste libiche e far credere loro che è ancora Italia, trascinarli a terra nudi. E non sono foto di scena, immagini di un film, non sono finzioni. E' davvero questa la nostra politica, con un rapporto stretto tra quello che qui stiamo vedendo e quello che qui non si vede. La nave Bovienzo infatti è come le nostre strade di notte dove piccole creature nere si vendono ai camionisti. La Bovienzo è la violenza sulle donne, anche quella che ci viene restituita in forma di stupro. La Bovienzo sono i soprusi e il disprezzo per i miserabili. La Bovienzo sono le ronde razziste e i barboni bruciati. La Bovienzo è l'Italia dei mille divieti e dei mille egoismi. La Bovienzo è l'Italia generosa che è diventata feroce per paura. La Bovienzo è l'Italia che guardando queste foto si riconosce irriconoscibile: ma davvero siamo noi? di Francesco Merlo in Repubblica.it
lunedì 25 maggio 2009
New Italian Style... ciò che i media italiani si guardano bene dal mostrare...

Foto di Enrico Dagnino, acquisite dalla rivista francese Paris Match, n° 3130 del 14-20 maggio 2009. Cliccare sulla foto per ingrandirle.
New Italian Style... Immigrati: il sogno infranto

Dal nostro inviato speciale a bordo del “Bovienzo”, François de La Barre – ParisMatch
Credeva di lasciare l’inferno, ma ci è riaffondato. L’Italia lo riporta nel continente da cui è fuggito con i suoi 79 compagni di sventura. Per la prima volta, degli immigrati africani vengono respinti col manganello e restituiti alla brutalità degli aguzzini libici, sotto gli occhi dei nostri reporter. Nel 2008, 36.900 “naufraghi” si sono arenati nei pressi dell’isola di Lampedusa. Per arginare quest’ondata, Silvio Berlusconi ha fatto votare una legge, in spregio ai diritti dell’uomo, che riqualifica la domanda d’asilo come reato passibile di 18 mesi di reclusione. L’anno scorso 3 immigrati su 4 avevano depositato una richiesta di asilo politico: il 50 per cento di esse era stato accettato. Poi è stato siglato un accordo con Gheddafi, gli espulsi vengono riportati a Tripoli senza che la loro sicurezza e la loro dignità venga minimamente garantita. Ma non c’è nessun argine alla miseria. A Tripoli, non ci saranno più fotografi a testimoniare…
La scaletta! Bisogna raggiungere questo pezzo di ferraglia e venir fuori dal canotto pneumatico in panne, che si sgonfia, beccheggia e, con un’ondata, sbatte contro la fiancata dell’imbarcazione della guardia di finanza. Questa scaletta è il percorso più breve tra l’Africa e l’Europa. Tra la miseria e la speranza. Sul fondo dello Zodiac alla deriva, prostrata, incastrata, c’è una ragazza di cui si vedono solo gli occhi spalancati. Lo sgardo è spaventato…Il pigia-pigia ai piedi della scala, l’assalto per sfuggire al relitto, l’abbordaggio della disperazione ha qualche cosa di dantesco. Spaventoso, anche per i marinai del “Bovienzo”, che non sono al loro primo salvataggio di disperati nel Mediterraneo. Uno di loro grida: “Aspettate! Uno alla volta!” Non serve a niente. Come ci può essere disciplina? Sono dei sopravvissuti. Gli ordini del comandante Christian Acero non ottengono migliore effetto. D’altronde, la sua voce roca è coperta dal rumore assordante di un elicottero che sorvola la scena. Il comandante è esasperato: “ Se ne va di qui o no, quello?” Un membro dell’equipaggio picchia col manganello sulle sbarre della scaletta., per tentare di dissuadere i fuggitivi dal precipitarsi tutti assieme. Se ne fregano, del suo manganello. Salgono come possono, gli uni sugli altri, rischiando di cadere in mare, di annegare. E l’angoscia si impadronisce dell’equipaggio del “Bovienzo”.
I primi sono a bordo. Si siedono subito, si stendono col dorso contro la lamiera del cockpit. Gambe stese, braccia spenzoloni, fiato corto. Nessuno si sdraia, tranne Adill, che ha barcollato ed è crollato. Adesso, si trascina gemendo per avvicinarsi ad Amal, un altro naufrago con un cappello beige, suo amico. Amal lo prende tra le braccia, lo stringe. Adill ci squadra, le sue labbra tremano. “Acqua”, chiede Amal. Gli si tende una bottiglia. Discretamente, cosparge Adill, poi la bottiglia passa di mano in mano, e in qualche secondo è vuota. Non finiscono più di invadere il ponte. Quanti sono? Dieci, venti, trenta… E continua. I marinai ordinano loro di stringersi per fare posto a quelli che stanno imbarcando. Dirigono gli uomini in avanti – adesso sono 68, e le donne dietro, sono 12. 80 esseri umani che erravano da giorni e notti in quel maledetto Zodiac, che i marinai del “Bovienzo” lasciano affondare senza recuperare quello che galleggia sul fondo. Non c’è nulla che valga la pena: tessuti a brandelli, magliette sporche, una bottiglia di plastica vuota.Non avevano più niente, né acqua né cibo né benzina. Per arrivare in Sicilia, avrebbero dovuto percorrere ancora più di 100 miglia nautiche. Senza viveri, non avevano la minima possibilità. “Gli abbiamo salvato la vita”, sussurra un membro dell’equipaggio. Per lui, è un salvataggio. Il comandante tace, si accende una sigaretta e torna a prendere il timone della nave…
Sul ponte, Amal aiuta Adill a riprendersi. Adill è nato nel 1983. “Il 1 aprile”, dice. “Sono designer. Voglio lavorare, andare a scuola non importa in che paese d’Europa. Farò tutto ciò che volete”. Gesticola, Amal lo calma. Amal viene dal Ghana, ha 26 anni. Ha trascorso 4 anni in Libia, tempo di guadagnare 1500 dollari, il prezzo della traversata. Vuole raggiungere suo fratello in Spagna. Non gli piace parlare del suo tentativo di traversata, bisogna quasi cavargli fuori le parole. Uno sconosciuto che ha incontrato al mercato di tripoli gli ha proposto di imbarcarsi. Di notte, Amal è salito in un pick up con degli altri africani. Gli hanno bendato gli occhi. Si è ritrovato in una casa dove gli hanno preso i suoi soldi. Poi, una spiaggia, lo Zodiac, la partenza…
Nessuno può valutare quanto tempo hanno passato in mare
“Quanto tempo avete passato in mare?” Amal non lo sa. Uno dei suoi compagni, in tee short arancio, con un orecchino, alza la mano con due dita alzate e dice;”tre giorni. Poi, non c’era più benzina”. Si chiama Franck. Gli occhi arrossati, le labbra gonfie e tagliate a causa del sole e del sale, è confuso come gli altri. Qualcuno afferma che il viaggio è durato cinque giorni. Un marinaio dice che è impossibile:” Dopo cinque giorni in queste condizioni, nessuno avrebbe più la forza di parlare”. Nessuno di essi sembra capace di valutare con esattezza il tempo passato in mare. Hanno imparato una storia che si sono ripetuti sullo Zodiac, da raccontare alla polizia e ai giudici. Una storia incredibile di un lungo viaggio, di una guida caduta in mare che ci racconta una giovane nigeriana con i capelli arruffati. Si chiama Gift, porta un jeans scolorito e mi chiede cosa succederà adesso.
Le rispondo ciò che ho già visto, ciò di cui sono convinto. Ciò che si aspetta, d’altronde. Ci si dirige al porto nuovo di Lampedusa, dove la Croce Rossa, la Caritas e l’unhcr [l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati] si occuperanno di loro. Verranno loro offerti del the, dei biscotti, delle coperte, un’assistenza legale, delle cure, dei vestiti ed anche una carta telefonica. Tutta l’Africa sa che quelli che approdano a Lampedusa sono trattati come dei naufraghi, non come dei clandestini. Anche se questo esaspera la maggior parte degli abitanti dell’isola, che non amano vedersi sfilare davanti tutta la miseria del mondo e detestano che la loro spiaggia si trasformi in cimitero a cielo aperto. Comunque, la consueta umanità. Il minimo di solidarietà, di carità. Allora dico a Gift e agli altri: “Non preoccupatevi…non preoccupatevi…”
Però sono preoccupato anch’io: risalendo nella cabina di pilotaggio, vengo a sapere che la destinazione è cambiata. Lampedusa è a un’ora di mare, ad ovest. E la vedetta della guardia di finanza naviga direzione sud. Cala la notte, comincia a fare freddo. I naufraghi indeboliti sono ghiacciati, mancano di sonno, hanno fame. “Ieri” dice Amal”ha piovuto, siamo ancora tutti inzuppati”. Fa un tiro della sigaretta che gli hanno dato, poi la passa ai suoi compagni. Un uomo smilzo domanda del cibo. Non avrà nulla. Un altro, con la maglietta di Francesco Totti, dell’as Roma, chiede dei vestiti asciutti, ma non ce n’è. E nemmeno delle coperte. Dappertutto sul ponte, delle figure sedute o sdraiate, avviluppate in pezzi di stoffa luridi. Dei piedi sporgono. L’odore è forte e nauseabondo. Meglio non immaginare come 80 persone si liberavano in mare. A volte, qualcuno si alza per andare a vomitare; un marinaio l’accompagna.
Nel retro, un militare napoletano distribuisce alle donne delle bottiglie d’acqua e dei biscotti farciti al cioccolato, e del cotone per tapparsi le orecchie. Sono sistemate al di sopra dei due motori di 3000 cavalli ciascuno. Fa meno freddo di prima, ma il rumore è insopportabile.
Gift è accovacciata, lo sguardo vuoto e spento. Ha infilato le mani nelle tasche del vestito. Ha mal di denti e non riesce ad inghiottire niente. Per un istante, esce da questo stato semi comatoso, contempla il cielo, la luna a babordo, la stella polare che brilla in cielo. “Dove siamo?” domanda Gift. Dove andiamo? Non ottiene risposta. È mezzanotte. Si avvistano due battelli della guardia costiera , che portano anch’essi dei clandestini. Via radio, il comandante del “Bovienzo” chiede delle coperte di sopravvivenza e un aiuto medico. Qualche minuto più tardi, il medico giunge a bordo. Senza coperte di sopravvivenza. Piccolo uomo raggrinzito, dallo sguardo deciso, il dr. Arturo porta un berretto e l’uniforme rossa dell’ordine della croce di Malta ( Corpo italiano soccorso di Malta). Porta una valigetta di medicinali, roba da rimettere tutti in forma. Parla solo italiano; Enrico, il nostro fotografo, gli fa da interprete assieme a me. Due malati si sono rifugiati nello Zodiac del “Bovienzo”. “Fuel burn”, dice uno di loro indicando i genitali. “Ho i guanti sporchi”, dice il medico. Mi chiede di prendere dalla sua borsa un prodotto spray. Ne cosparge i genitali del paziente, che fa una smorfia prima di riallacciarsi i jeans.
Gli altri clandestini capiscono che il prodotto allevia il dolore. La benzina si era riversata nel relitto dove sono rimasti seduti senza muoversi per lunghe ore, a mollo nel carburante. Soffrono di bruciori alle natiche. Si alzano uno dopo l’altro, abbassano i pantaloni mostrando le natiche. Quelli che ne hanno ancora la forza ridono. Un senegalese in giacca zippata nera dice in francese che ha continui nausea e vomito. “Lo vedremo più tardi” dice il dottore. Qualcuno ha mal di testa. “Da quanto tempo?” “Due mesi”. “Non posso farci niente, sono qui solo per le urgenze”. Un altro apre una vecchia borsa di plastica e fa vedere due boccette vuote. “Le mie medicine, sono asmatico e nel mio paese non ci sono più medicine. Mio padre mi ha detto di andare”… “Che cos’ha?” interrompe il medico prima di voltarsi. “Andiamo a vedere le donne…” Una di loro sembra stare male. Si tocca i fianchi ed il petto facendo smorfie. Non parla inglese e Gift non ha più la forza di tradurre. Il dottore l’ausculta un momento, sospira e passa alla vicina, che abbassa i pantaloni :“fuel burn”…
Gift parla del suo mal di denti. “Vedremo dopo” dice di nuovo il medico. Dopo cosa? Non risponde. Delle lacrime scendono sulle guance di Gift. Il medico termina il suo giro: “Non posso mica occuparmi di tutti!” Rivolto a me, aggiunge: “ È sempre così, si lamentano delle irritazioni dovute all’acqua di mare. Questi qua sembra che stiano bene invece”. Gli restituisco la sua valigetta. Era piena di garze, siringhe e medicine che non sono servite a niente. Ha almeno portato dei sacchi dell’immondizia. I marinai li distribuiscono. Gli uomini li tagliano e se li infilano come delle giacche. Dietro, le donne, rannicchiate le une contro le altre, le usano come coperte.
Grazie a Sam per la traduzione
sabato 23 maggio 2009
New Italian Style...
E gli faceva eco il ministro Frattini: "non hanno mai usato la forza". "Non c'è stato alcun ordine al capo di Stato maggiore della Marina o al comandante della nave Spica, che è quella che ha fatto i riaccompagnamenti, ad usare la forza. E la forza non è mai stata usata, non c'è stata mai alcuna azione coercitiva, si è rispettata l'antica legge del mare che è un dovere per un marinaio: quello di accompagnare nel porto più vicino chi è in difficoltà, se vuole essere accompagnato. Questo è successo e io sentirmi dire che l'Italia, attraverso i marinai, si comporta in modo inumano...".
Ecco la delicatezza ammirabilmente umanitaria con cui i marinai, e persino il comandante (il primo con gli occhiali a destra) della nave "Bovienzo" hanno gentilmente accompagnato "chi è in difficoltà"... appare anche con tutta evidenza quale bramosia avessero queste persone in difficoltà di essere aiutate dai nostri marinai...!
Giudicate voi, quanto siano affidabili le parole di due ministri della Repubblica italiana...
L'articolo, per ora in francese in attesa di trovare il tempo di tradurlo, lo trovate qui sul sito di ParisMatch e sono di Enrico Dagnino, pubblicate nel N° 3130 del 14 al 20 maggio 2009...
Io oltre alle foto del sito, aggiungo nel tempo quelle scannarizzate dalla rivista acquistata in edicola... Credo che le foto possano ampiamente anticipare il contenuto stesso dell'articolo e forse ne rendono persino inutile la traduzione...
Qui sotto vi riporto i tre links con cui potete direttamente leggere l'articolo e vedere il filmato che commenta le foto... (in attesa che concluda la pubblicazione)...
Immigrati: il sogno infranto
Il dramma dei clandestini
I segreti di uno scoop


venerdì 8 maggio 2009
Diventare suoi discepoli: il frutto della risurrezione

Sull’immagine biblica della Vigna converge il fascino dell’antica appassionata promessa di Dio di accudire l’uomo e insieme lo scoramento del cuore dell’uomo nel rifiuto di Dio o comunque nell’incapacità a intendersi con lui e dare frutti adeguati al suo amore! Piantare una vigna è una sfida di amore alla vita, al futuro, perché esige cura e passione, fa parte della casa e del pasto, si eredita come bene prezioso di famiglia, è luogo di lavoro e di incontro, di fatica e di gioia… per la vendemmia, il mosto, il vino! Ma la vigna è anche il luogo della delusione suprema di Dio e dell’uomo, il luogo del conflitto insanabile che porta all’uccisione del figlio del Signore della vigna, dopo lo sterminio dei suoi profeti (Mc12,1 e paralleli)! Dopo millenni, ancora, al nostro sguardo e alla nostra esperienza, rimane drammatico e insolubile il male nel mondo, ed ha ancora uno strascico tragico nella nostra storia l’antica disperazione di Dio, secondo il profeta: Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?... Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha fatto uva selvatica? Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi (Is 5,4ss). La vigna è uno delle grandi similitudini che Gesù ha scelto per dirci con linguaggio umano, nel contesto vitale della nostra cultura mediterranea, chi è lui per noi: “IO SONO” il pane, la luce, la porta, il pastore, la via, la verità … e la vita! Oggi ci dice: io sono la “vite” vera! come ci ha detto: io sono il pane vero ,la vita vera, il vero pastore… Per annunciare che in Lui finisce la storia dell’ infedeltà dell’uomo al suo stesso Padre, che l’ha piantato nel mondo. L’Agricoltore vede finalmente una vite fedele e feconda nel Figlio, nel quale tutti noi diventiamo, come discepoli, i suoi rami, la sua vigna – il popolo nuovo, redento e fedele per sempre
… io sono la vera vite e il Padre mio è l’agricoltore!
Proprio per la sua densità di significato nel linguaggio biblico, la similitudine della vigna nel Vangelo di Giovanni contiene questa eccezionale garanzia: che da qualche parte, nel misterioso progetto di benevolenza di Dio, noi siamo radicati, vitalmente desiderati e legati da amore indissolubile, come nelle profondità della terra la vite è abbarbicata alle sue radici, che la nutrono e la fanno vivere. Non siamo orfani, isolati e abbandonati alla nostra sorte da un creatore inafferrabile e invisibile. Non siamo destinati a esaurirci nel nulla da cui siamo provenuti. Ma ancor più! L’annuncio (il Vangelo) che si fonda su questa garanzia di un legame vitale, va ben oltre. Tutta la vita di Gesù e la sua predicazione è mirata a coinvolgere l’uomo in questo progetto del Padre, realizzato finalmente nel Figlio, mandato nel mondo per salvarci. La fede dei discepoli consiste nel prendere atto di questa sorgente vitale da cui proveniamo e “rimanere” saldamente connessi ad essa. Gesù ci implora che rimaniamo in lui (8 volte in positivo e in negativo), perché solo così la sua opera di salvezza si comunica ai discepoli, i tralci di ieri e di oggi. Solo uniti al figlio siamo anche noi intimi a Dio. Rimanete in me… allora io rimango in voi … perché senza di me non potete far nulla! L’esigenza è così vitale e discriminante che sembra una minaccia, ma si tratta di conseguenza non punitiva ma naturale, vitale, come è appunto del tralcio se si stacca dalla vite: non è la vite che lo punisce, ma presto gli mancherà la linfa e si seccherà. Tutto è contenuto in un’unità di progetto, di amore vitale, di dedizione: un attaccamento esistenziale reciproco tra noi e Dio, in Cristo, che ne fa il mistero centrale del mondo e della sua storia, la convergenza in lui di tutto ciò che esiste.
se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi…
Rimanere in lui non è un riferimento sentimentale, un simbolico legame di riconoscenza, ma una spinta propulsiva intima che sconvolge il cuore e la mente con un preciso nuovo progetto di vita, che è forza e modello insieme: lui e le sue Parole, lui e i suoi comandamenti, lui e il suo legame vitale al Padre. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui! Una comunione di assimilazione vitale interiorizzata dall’uomo, non una precettistica morale dall’esterno. Il discepolo si trova coinvolto attraverso questa comunione dinamica vitale, in un tessuto di relazioni vive, dove i personaggi della similitudine giocano ognuno il proprio ruolo, assumono un volto preciso nell’intreccio di amore, conoscenza e liberazione dell’uomo, che è il Regno di Dio, che cresce nella storia. Il Padre, è l’Agricoltore. Gesù, è la vite nuova nella vigna ostile del mondo. Noi, siamo i tralci chiamati a “divenire” suoi discepoli, proprio perché coinvolti e immersi nella dinamica di Cristo crocifisso e risorto, che si ripete e si comunica a noi. Lo Spirito, è il sigillo di garanzia di questa nuovo contesto di relazioni vitali, di cui dice la lettera di Giovanni: in questo riconosciamo che lui rimane in noi: dallo Spirito che ci è dato! La descrizione della presenza misteriosa di questo vitale intreccio trinitario nella nostra umile storia è descritta da Gesù con parole forti e insistenti, che possono apparire similitudini oscure, ma a chi si arrischia in quest’avventura fanno ben capire cosa gli sta avvenendo:
rimanere … in lui, anzitutto, nella sua parola, nel suo legame, che attraverso di lui ci collega al Padre. Rimanere nelle conseguenze talora dolorose della sequela del suo Vangelo. Ma rimanere anche nella scoperta progressiva e liberante che davvero quanto succede (e ci succede!) per quanto possa sembrare così avverso ed ostico, va ricompreso, pregato e vissuto come sua vera quanto imprevista risposta a ciò che chiediamo: Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. Non tanto perché esaudisca i nostri desideri, che la sua Parola ci rivela piccoli e di corto respiro, ma perché li dilata secondo le sue promesse, rimettendoci in cammino verso i suoi orizzonti e dilatandoci il cuore secondo le sue misure. E così finiremo per chiedere quello che vuole lui… ed essere quindi sempre esauditi noi che, man mano che cresciamo, sappiamo sempre meno cosa domandare, e ci affidiamo all’anelito del suo Spirito, che geme in noi l’attesa del Padre nostro!
potare – Gesù stesso è stato potato così drasticamente da morirne… e solo così è stato abilitato nostra guida e salvatore. La potatura fa piangere la vite… gli taglia ogni illusione di estendersi dove la linfa naturale la spingerebbe: delusioni, lutti, malattie, ma soprattutto contrasti e conflitti e … incomprensioni, proprio con coloro che camminano con noi, nella stessa fede. Per S. Paolo il tormento dell’incomprensione delle esigenze superiori della fede da parte di chi faceva chiesa con lui, è stata la scarnificazione incessante di una vita. Il più delle volte ci ribelliamo, cerchiamo di proiettare ogni colpa nei vari soggetti coinvolti e perdiamo l’occasione di vedere la mano del Padre che taglia, pota, lega e slega, per non lasciarci nascondere ed illudere dietro il nostro fogliame infruttuoso. Una mano, la sua, talora indiscreta, se taglia non solo il tralcio che non porta frutto, ma anche ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto! Anche le opere buone può essere bene che siano tagliate!
produrre i frutti : c’è infine una realtà, sottesa tacitamente a tutta la similitudine evangelica della vite ed essenziale nella realizzazione vitale del cammino del discepolo: la linfa! Cioè lo Spirito, con il quale il Padre e il Figlio si amano, che ci tiene in vita nel legame alla Vite e al Vignaiolo, lo Spirito che piange con noi nelle nostre potature, il vero produttore dei “nostri” frutti … Solo lui può verificare in noi (come ha fatto in Gesù!) che… non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità. Così si avvicina la meta di ogni cammino: In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. La trasformazione che il rimanere in Gesù e l’accogliere le potature della storia, induce nel credente, lo fa “diventare” sempre più discepolo di Gesù. Vuol dire che sempre più si identifica (come il figlio) nella volontà del Padre, sempre più aumenta la sua disponibilità riconoscente ad accogliere nella vita i “diversi” progetti di Dio, che portano la salvezza al mondo… La preghiera diventa l’implorazione che attende e che fa … il Nome – il Regno – la Volontà del Padre. Questo vuol dire glorificare il Padre suo e nostro!
… la chiesa era in pace… si consolidava e camminava!
In tempi difficili e conflittuali, per la comunione ecclesiale (anche i nostri!) ci suona provocatoria e consolante insieme questa annotazione di Luca. La Chiesa si cui parla era appena uscita dalla persecuzione di Paolo stesso, e stava entrando nel conflitto interno drammatico dell’accesso dei pagani alla fede e nella persecuzione esterna di Erode, con l’assassinio di Giacomo e la dispersione dei discepoli… Ma di che pace si tratta? La chiesa vive entro una dialettica generata dai due fuochi che la tengono viva nella storia: il legame vitale al Cristo nel suo corpo che è la chiesa, attraverso la quale ci e donato Battesimo, Parola ed Eucaristia e la sollecitudine appassionata per chi è fuori della chiesa, la missione inarrestabile verso chi è lontano e diverso e rifiutato, e, proprio per questo, intimo a Gesù, che sulla croce coinvolge nell’amore del Padre persino i suoi uccisori! Infatti non saremo in pace finché non riusciremo a fare dell’umanità una sola famiglia, con tutte le creature, liberate dalla corruzione e dalla morte. Allora c’è una pace profetica, già disponibile prima della pace finale, mentre siamo ancora immersi nella complessità conflittuale e talora oppressiva della storia: purché sia sempre orientata all’universalità dell’amore. Non è la pace auto centrata e aggressiva di una setta. È una pace che per adesso è unilaterale ed eccentrica, perché non ha il baricentro in sé, ma lancia instancabilmente il ponte della benevolenza lontano da sé, presso l’altro che è ostile, dove il Padre ci aspetta. Per questo anche se i sentimenti sono feriti, le risposte deludenti, amare o aggressive… e spesso il nostro cuore ci rimprovera, perché ci sentiamo incapaci a reggere, sappiamo che Dio è più grande del nostro cuore. E tiene fede alle sue promesse!
martedì 17 febbraio 2009
Testimonianza cristiana...

Le settimane appena trascorse saranno sicuramente ricordate come “giorni cattivi” da molti cristiani, ma anche da molti uomini e donne non cristiani che tentano ogni giorno di rinnovare la loro ricerca di senso, soprattutto attraverso la faticosa lotta dell’amare in verità e dal lasciarsi amare da quanti sono loro accanto. “Giorni cattivi” è un’espressione biblica che indica tempi privi di una parola da parte di Dio, da parte dei suoi profeti e quindi anche privi di parole umane sincere, vere, autentiche: tempi in cui si fa silenzio per non aumentare il rumore, la rissa, l’aggressione nella comunità umana e per evitare che parole sensate vengano triturate insieme alle insensate e non si riesca poi più a recuperarle per giorni migliori. Per questo molti hanno preferito il silenzio. Da parte mia confesso che, anche se il direttore di questo giornale mi ha invitato più volte a scrivere, ho preferito fare silenzio anzi, soffrire in silenzio aspettando l’ora in cui fosse forse possibile – ma non è certo – dire una parola udibile.
Attorno all’agonia lunga diciassette anni di una donna, attorno al dramma di una famiglia nella sofferenza, si è consumato uno scontro incivile, una gazzarra indegna dello stile cristiano: giorno dopo giorno, nel silenzio abitato dalla mia fede in Dio e dalla mia fedeltà alla terra e all’umanità di cui sono parte, constatavo una violenza verbale, e a volte addirittura fisica, che strideva con la mia fede cristiana. Non potevo ascoltare quelle grida – “assassini”, “boia”, “lasciatela a noi”... – senza pensare a Gesù di Nazaret che quando gli hanno portato una donna gridando “adultera” ha fatto silenzio a lungo, per poterle dire a un certo punto: “Donna (non “adultera”), neppure io ti condanno: va’ e non peccare più”; non riuscivo ad ascoltare quelle urla minacciose senza pensare a Gesù che in croce non urla “ladro, assassino!” al brigante non pentito, ma in silenzio gli sta accanto, condividendone la condizione di colpevole e il supplizio. Che senso ha per un cristiano recitare rosari e insultare? O pregare ostentatamente in piazza con uno stile da manifestazione politica o sindacale?
Ma accanto a queste contraddizioni laceranti, come non soffrire per la strumentalizzazione politica dell’agonia di questa donna? Una politica che arriva in ritardo nello svolgere il ruolo che le è proprio – offrire un quadro legislativo adeguato e condiviso per tematiche così sensibili – e che brutalmente invade lo spazio più intimo e personale al solo fine del potere; una politica che si finge al servizio di un’etica superiore, l’etica cristiana, e che cerca, con il compiacimento anche di cattolici, di trasformare il cristianesimo in religione civile. L’abbiamo detto e scritto più volte: se mai la fede cristiana venisse declinata come religione civile, non solo perderebbe la sua capacità profetica, ma sarebbe ridotta a cappellania del potente di turno, diverrebbe sale senza più sapore secondo le parole di Gesù, incapace di stare nel mondo facendo memoria del suo Signore.
E’ avvenuto quanto più volte avevo intravisto e temuto: lo scontro di civiltà preconizzato da Huntington non si è consumato come scontro di religioni ma come scontro di etiche, con gli effetti devastanti di una maggiore divisione e contrapposizione nella polis e, va detto, anche nella chiesa. Da questi “giorni cattivi” usciamo più divisi e non certo per quella separazione in nome di Cristo che, con il comandamento nuovo dell’amore da estendersi fino ai nemici, può provocare divisione anche tra genitori e figli, all’interno della famiglia o della “casa” di appartenenza. Abbiamo invece conosciuto divisione in nome di quel male che affligge l’umanità e che trasforma la diversità in demonizzazione dell’altro, muta l’avversario in nemico, interrompe o nega il confronto e il dialogo, dando origine a posizioni ideologiche capaci di violenza prima verbale poi fisica e sociale. Da un lato il fondamentalismo religioso che cresce, dall’altro un nichilismo che rigetta ogni etica condivisa fanno sì che cessi l’ascolto reciproco e la società sia sempre più segnata dalla barbarie.
Per chi come me ha pensato di dedicare tutte le fatiche alla ricerca del dialogo, del confronto, del faticoso cammino verso la comunione, innanzitutto nello spazio cristiano e poi tra gli uomini, e in questo sforzo sentiva di poter rendere conto della speranza cristiana che lo abita e di annunciare il vangelo che lo anima, questi giorni sono davvero cattivi. Come ignorare anche gli altri segni di barbarie cui stiamo assistendo in questa amara stagione? Leggi che chiedono ai medici di segnalare alle forze dell’ordine la presenza di clandestini che necessitano di cure mediche, vanificando così il diritto alla salute riconosciuto a qualunque essere umano; episodi ormai ricorrenti di giovani e ragazzi che danno fuoco a immigrati o a mendicanti; senzatetto di cui si prevede la schedatura mentre li si lascia morire di freddo; esercizio della violenza in branco verso donne o disabili...
Sì, ci sono state anche voci di compassione, ma nel clamore generale sono passate quasi inascoltate. L’Osservatore romano ha coraggiosamente chiesto – tramite le parole del suo direttore, il tono e la frequenza degli interventi – di evitare strumentalizzazioni da ogni parte, di scongiurare lo scontro ideologico, di richiamare al rispetto della morte stessa. Ma molti mass media in realtà sono apparsi ostaggio di una battaglia frontale in cui nessuno dei contendenti si è risparmiato mezzi ingiustificabili dal fine. Eppure, di vita e di morte si trattava, realtà intimamente unite e pertanto non attribuibili in esclusiva a un campo o all’altro, a una cultura o a un’altra. La morte resta un enigma per tutti, diviene mistero per i credenti: un evento che non deve essere rimosso, ma che dà alla nostra vita il suo limite e fornisce le ragioni della responsabilità personale e sociale; un evento che tutti ci minaccia e tutti ci attende come esito finale della vita e, quindi, parte della vita stessa, un evento da viversi perciò soprattutto nell’amore: amore per chi resta e accettazione dell’amore che si riceve. Sì, questa è la sola verità che dovremmo cercare di vivere nella morte e accanto a chi muore, anche quando questo risulta difficile e faticoso. Infatti la morte non è sempre quella di un uomo o una donna che, sazi di giorni, si spengono quasi naturalmente come candela, circondati dagli affetti più cari. No, a volte è “agonia”, lotta dolorosa, perfino abbrutente a causa della sofferenza fisica; oggi è sempre più spesso consegnata alla scienza medica, alla tecnica, alle strutture e ai macchinari...
Che dire a questo proposito? La vita è un dono e non una preda: nessuno si dà la vita da se stesso né può conquistarla con la forza. Nello spazio della fede i credenti, accanto alla speranza nella vita in Dio oltre la morte, hanno la consapevolezza che questo dono viene da Dio: ricevuta da lui, a lui va ridata con un atto puntuale di obbedienza, cercando, a volte anche a fatica, di ringraziare Dio: “Ti ringrazio, mio Dio, di avermi creato...”. Ma il credente sa che molti cristiani di fronte a quell’incontro finale con Dio hanno deciso di pronunciare un “sì” che comportava la rinuncia ad accanirsi per ritardare il momento di quel faccia a faccia temuto e sperato. Quanti monaci, quante donne e uomini santi, di fronte alla morte hanno chiesto di restare soli e di cibarsi solo dell’eucarestia, quanti hanno recitato il Nunc dimittis, il “lascia andare, o Signore, il tuo servo” come ultima preghiera nell’attesa dell’incontro con colui che hanno tanto cercato... Negli anni più vicini a noi, pensiamo al patriarca Athenagoras I e a papa Giovanni Paolo II: due cristiani, due vescovi, due capi di chiese che hanno voluto e saputo spegnersi acconsentendo alla chiamata di Dio, facendo della morte l’estremo atto di obbedienza nell’amore al loro Signore.
Testimonianze come queste sono il patrimonio prezioso che la chiesa può offrire anche a chi non crede, come segno grande di un anticipo della vittoria sull’ultimo nemico del genere umano, la morte. Voci come queste avremmo voluto che accompagnassero il silenzio di rispetto e compassione in questi giorni cattivi assordati da un vociare indegno. La chiesa cattolica e tutte le chiese cristiane sono convinte di dover affermare pubblicamente e soprattutto di testimoniare con il vissuto che la vita non può essere tolta o spenta da nessuno e che, dal concepimento alla morte naturale essa ha un valore che nessun uomo può contraddire o negare; ma i cristiani in questo impegno non devono mai contraddire quello stile che Gesù ha richiesto ai suoi discepoli: uno stile che pur nella fermezza deve mostrare misericordia e compassione senza mai diventare disprezzo e condanna di chi pensa diversamente.
Allora, da una millenaria tradizione di amore per la vita, di accettazione della morte e di fede nella risurrezione possono nascere parole in grado di rispondere agli inediti interrogativi che il progresso delle scienze e delle tecniche mediche pongono al limitare in cui vita e morte si incontrano. Così le riassumeva la lettera pontificale di Paolo VI indirizzata ai medici cattolici nel 1970: “Il carattere sacro della vita è ciò che impedisce al medico di uccidere e che lo obbliga nello stesso tempo a dedicarsi con tutte le risorse della sua arte a lottare contro la morte. Questo non significa tuttavia obbligarlo a utilizzare tutte le tecniche di sopravvivenza che gli offre una scienza instancabilmente creatrice. In molti casi non sarebbe forse un’inutile tortura imporre la rianimazione vegetativa nella fase terminale di una malattia incurabile? In quel caso, il dovere del medico è piuttosto di impegnarsi ad alleviare la sofferenza, invece di voler prolungare il più a lungo possibile, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi condizione, una vita che non è più pienamente umana e che va naturalmente verso il suo epilogo: l’ora ineluttabile e sacra dell’incontro dell’anima con il suo Creatore, attraverso un passaggio doloroso che la rende partecipe della passione di Cristo. Anche in questo il medico deve rispettare la vita”.
Ecco, questo è il contributo che con rispetto e semplicità i cristiani possono offrire a quanti non condividono la loro fede affinché la società ritrovi un’etica condivisa e ciascuno possa vivere e morire nell’amore e nella libertà.
martedì 4 novembre 2008
Il conflitto cristiano e gli anticristi

Fin dall’inizio mi sono “focalizzato” in quel momento sorgivo dell’azione storica di Dio inaugurato nel movimento nuovo di liberazione che avviato in Mosè si compie, senza esaurirsi perché storicamente continuo, in Gesù di Nazareth… Questo è l’orizzonte fondamentale che non ho mai dimenticato e che ho sempre cercato di ripercorrere…
Cerco qui di approfondire ulteriormente questo “fatto”, riprendendo un discorso che ho maturato col tempo, proprio grazie alle difficoltà che ho dovuto affrontare e “sciogliere” in me prima di tutto. D'altronde le mie riflessioni non possono essere che la continuazione di ciò che io stesso vivo e ho vissuto, non potendo dare altro cibo se non quello di cui io stesso mi nutro…
Già da tempo mi ero presto reso conto, che tutte le difficoltà che incontriamo sono chiaramente “presenti” nella stessa vita di Gesù così come ce la descrive il Vangelo. Arrivai così ben presto a vedere come tutta la storia dell’umanità, come anche quella di ogni vita di ogni uomo e donna, presa nella sua totalità e in ogni suo frammento, nel tempo e nello spazio, è “riassunta” e “rivelata” nelle sue dinamiche più profonde proprio dal Vangelo, attraverso la vicenda storica di Gesù di Nazareth.
Per “dinamiche” non intendo semplicemente “i fatti”, la storia, il “ciò che accade”, ma l’intellezione cioè la “comprensione profonda dell’intelligenza e del cuore” attraverso lo svolgimento degli avvenimenti, del «“perché” “accade ciò che sta accadendo”»! Fondamentalmente esso risponde alla domanda: «Qual è il “meccanismo” che genera gli avvenimenti? In me, negli altri, in noi… in Dio?»
Mi è parso subito significativo a questo proposito, la dinamica del conflitto tra Gesù e gli altri (compreso il tradimento dei suoi discepoli) così come si manifesta nel periodo che va dal giovedì santo fino alla domenica di risurrezione… Questi “tre giorni”, me ne rendo conto sempre di più, sono la chiave d’interpretazione, la “cifra ermeneutica” di ogni “fatto” storico! Questo conflitto “è” il perno su cui ruotano anche le diatribe presenti nel Vangelo, sia prima di questi “tre giorni” (andando quindi indietro nel tempo fino agli inizi della storia), sia dopo, nella storia della chiesa nascente fino alla fine della storia umana stessa, passando per quella che stiamo vivendo noi. Insomma, è lo stesso dramma che stiamo rivivendo. Sempre!… Cambiano cioè le persone, cambiano i nomi, cambia e avanza la storia, ma è sempre “la stessa storia” che stiamo vivendo nelle sue rappresentazioni esistenziali. E ciò su cui noi dobbiamo deciderci, è scegliere quale “ruolo” interpretare: questa è, e sarà, la sfida e lo scontro permanente, in noi, negli altri e nel nostro rapporto reciproco.
È assolutamente fondamentale abituarci a leggere la nostra vita e la Storia a partire da questa chiave di lettura. Altre letture non arrivano veramente a dare ragione fino in fondo della radicale “fatica di vivere”… e di morire!
Il nostro “unico” lavoro quotidiano è quello di continuamente leggere e rileggere lo stesso Vangelo e anche tutta la Bibbia in questa prospettiva, per comprendervi questa “struttura” in tutta la sua ampiezza e profondità (Ef 3,18)… E constateremo che la nostra storia, non è altro che la continuazione di quella.
Questo dramma sarà sempre presente nella storia tutte le volte che ci sarà un uomo sulla faccia della terra… fino all’ultimo respiro dell’ultimo uomo. Pertanto è illusorio ogni tentativo di voler eliminare questo conflitto: il “Dio tutto in tutti” (1Cor 9,22) è proprio del “tempo escatologico” cioè di quel “tempo senza tempo” proprio della fine di questo mondo e di questa storia che solo il Padre conosce (Mc 13,32).
E non solo è illusorio ma è anticristiano, in quanto è possibile solo con la soppressione della novità del messaggio evangelico di Cristo e di Mosè…
Ecco perché il Faraone, biblicamente parlando, non è affatto una figura marginale, in quanto ci aiuta a capire, sintetizzandolo in sé, non solo “da” cosa il Signore vuole liberarci ma anche, seppur negativamente, il “come” deve farlo.
Dio infatti, sebbene la sua azione liberatrice non possa non scatenare in coloro che non l’accolgono un’avversione violenta, non può “riprodurre”, nemmeno come reazione, le dinamiche proprie del Faraone, altrimenti non ci sarebbe vera liberazione, ma semplicemente un traslocare da un padrone a un altro Padrone, da una schiavitù ad una ben peggiore… E Dio non sarebbe più un Dio liberatore… Nasce così un itinerario educativo dell’umanità in cui Dio ci trasmette non solo la propria libertà ma ci aiuta a vivere una modalità nuova di libertà: quella specifica del Padre!
La figura storica del Faraone, presa anche nel suo significato simbolico, ci aiuta inoltre a comprendere perché la Buona Novella della liberazione incarnandosi nella storia, entra “necessariamente” in conflitto con quelle dinamiche schiavizzanti e antisalvifiche proprie di ogni “faraone”, (di ieri, di oggi e di domani, sia in noi che negli altri), che si oppongono all’azione liberante di Dio. Proprio come la luce con le tenebre (cfr Gv 1,5)! Lo ribadisco ancora, perché culturalmente non siamo abituati a rifletterci: L’eliminazione del conflitto esigerebbe la soppressione della luce, ma in questo caso ripiomberemmo nelle tenebre e finirebbe ogni speranza di salvezza-liberazione per l’umanità…
Dico “necessariamente” non in senso deterministico (indipendentemente cioè dalla volontà) ma per la logica profonda del cammino di liberazione: se “dove c’è lo Spirito c’è libertà” (2Cor 3,17), necessariamente cessa non solo ogni schiavitù, ma per così dire, anche ogni schiavista si trova disoccupato e ogni “faraone” si trova spodestato! (cfr i “potenti” nel Magnificat, ma anche la “caduta” di san Paolo in Atti 9,4; vedi anche quanto scrivo più sotto).

Se l’annuncio missionario-cristiano non può non farsi carico di questa liberazione per cui Dio ci fa Apostoli, non solo non può impedire il conflitto, ma “deve” provocarlo! (Gv 7,7). Altrimenti non c’è evangelizzazione in quanto non si libera realmente e ancor meno si salva, ma si dicono parole e si compiono azioni che come pula, il vento della storia non potrà che disperdere (cfr Salmo 1), perché finiscono per favorire proprio ciò che si doveva eliminare. Tradendo così il proprio mandato!
L’azione di Dio invece, proprio perché “violenta” la struttura mondana del potere (anche religioso) senza riprodurla, estende la propria Paterna salvezza anche sui potenti che “costretti” a tornare umili (cfr “aborto” in 1Cor 15,8 e Mc 10,25), imparano la “grandezza” nella “piccolezza” trasformando la cecità del potere istituzionale nella creatività del servizio carismatico (Atti 9,8; 13,11; Lc 22,26; Mc 10,42)… Anche ai faraoni infatti è annunciata la liberazione (Es 3,10; 5,1; Mt 2,1ss; Lc 21,12ss) purché imparino a servire e non a farsi servire (Lc 22,26!); a non ridurre in schiavitù ma a liberare (Is 45,1ss)… Dopotutto, in ciò sarebbero in buona compagnia in quanto questo è proprio il “movimento” stesso di Dio che, in Gesù Cristo, da potente che era, “umiliò se stesso” … cioè, da potente si fece “piccolo”, “povero in spirito” (Fil 2,6-8; Magnificat; Beatitudini)…
Perché anche la pace di Dio, è una pace altra rispetto a quella che vuole offrire la logica del mondo dei faraoni (cfr Gv 14,27: «vi do la mia pace… non come la dà il mondo»)…
Possiamo capire allora con luce nuova quelle strane frasi del Vangelo in cui Gesù sembrano inneggiare alla guerra (Mt 10,34-36: «Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a mettervi la pace, ma la spada. Perché io sono venuto a mettere disaccordo tra figlio e padre tra figlia e madre, tra nuora e suocera, e i nemici dell'uomo saranno quelli di casa sua»; Lc 12,51ss). Esse non hanno niente a vedere con una distinzione morale tra buoni e cattivi e ancor meno giustifica una blasfema “guerra santa”, ma sono una rivelazione delle dinamiche conflittuali che la reazione al suo annuncio mette in atto! Necessariamente! E questo conflitto evangelico è storicamente essenziale per alimentare in noi la speranza certa di un “mondo nuovo”! Non solo perché se c’è, vuol dire che la pasta sta lievitando (Lc 13,21), ma anche perché non si potrebbe essere altrimenti “felici nella persecuzione” senza alienarsi dalla storia! (cfr 1Pt 1,6-9; 3,14ss; 4,14; e anche la perfetta letizia francescana).
Come insegnano anche le Beatitudini (Mt 5,3ss; Lc 6,20) mostrando che la “logica” che presiede alla gioia evangelica (makàrioi in greco è molto più che il nostro “beati”) è determinata dalla presenza attuale (notare il tempo presente) in Gesù Cristo del Regno di Dio (Mc 1,15; Mt 12,28!) accolto solo dai semplici (Mt 5,3: i poveri in spirito: i non-faraoni), provoca i conflitti descritti dai versetti successivi (soprattutto 5,11)… Conflitti la cui soluzione è rimandata al piano di Dio (si noti il seguito con i verbi al futuro) ma che è già presente là dove il Regno è accolto: che “cieli” di 5,12 non sia l’aldilà ma la pienezza del Regno nel “cuore” di ognuno lo si evince dal confronto tra Mt 5,12 e 12,28! Anche per questo i verbi successivi al versetto 5,3 sono al futuro in quanto indicano progressione storica e non semplice rinvio nell’oltre della storia in un aldilà disincarnato.
Se capiamo questo capiremmo meglio anche “il Natale”, questo misto di luce e di notte, di gioia e di persecuzione, di piccolezza e grandezza, di ingenuità e malizia, dove la semplice presenza del Regno di Dio, sempre totalmente indifesa, ma non per questo non-conflittuale, scatena forze e dinamiche così ostili da sembrare sproporzionate (Mt 2,16; cfr anche l’azione non-violenta di Gandhi!)…
Altro che “dolce Natale”!… lo sarà per noi a cui è data la possibilità di vivere l’ebbrezza della libertà donata, ma per i nuovi Faraone-Erode e i nuovi Mosè-Gesù… lo scontro è appena cominciato… È nostro compito raccoglierne la sfida!
Il non farlo non sarebbe né “nobiltà d’animo”, né “carità”, né “buona educazione”; né “mitezza interiore”, né “vera lealtà e amicizia”, né “amore per la pace, la giustizia, il dialogo e la comunione”… Invece sarebbe “mascherata codardia”, “omertosa sottomissione”, “viscida adulazione”, “inconscio carrierismo”, vera “slealtà e inimicizia”, “subdola forma di disprezzo” complice di “guerre e ingiustizie”… Insomma “tradimento estremo di tutto il Vangelo” (1Cor 13,1-3)… In una parola nuovi-anticristi (1Gv 2,18; 2,22; 4,3; 2Gv 1,7).
venerdì 4 luglio 2008
I “piccoli” e la nostra salvezza
Si va manifestando sempre più l’identità vera di Gesù e quindi della sua missione tra di noi e la nostra difficoltà a capirla. Abbiamo visto Gesù che va a pranzo con i peccatori e i pubblicani …e i farisei si scandalizzano. Gesù si commuove di compassione per le folle perché erano stanche e sfinite come pecore senza pastore, e vuole che i suoi discepoli le consolino e le curino … In questo capitolo 11°, si intensificano incomprensioni e resistenze verso di lui: Giovanni Battista non ne coglie la novità, il popolo non lo comprende, i farisei lo dichiarano indemoniato, e i villaggi sul lago, dove più si è speso come amico, profeta, taumaturgo, sono refrattari al suo messaggio. Gesù ne rimane molto deluso…: ha nelle orecchie i commenti su di lui degli esperti delle Scritture: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori… e soffre per l’inutilità della sua predicazione: “si mise a rimproverare le città nelle quali aveva compiuto il maggior numero di miracoli, erché non si erano convertite…”
È arrivato al fondo di un vicolo cieco ‑ e proprio qui, si apre uno squarcio inaspettato di gioia… si spalancano orizzonti nuovi luminosi, entro i quali addirittura brilla il volto del Padre e in lui Gesù sussulta di riconoscenza ed esulta nello Spirito Santo (Lc 10,21), perché ritrova il senso della sua avventura in questo mondo.
Tramite “i piccoli”!
Cosa vuol dire? Cosa ha scoperto?
Ha scoperto … come è fatto suo Padre! E quindi come sarà la sua propria storia di figlio mandato da lui a salvare il mondo. Quello che nell’eternità del loro amore è vero da sempre, adesso si sta incarnando nelle vicende difficili della sua storia umana: Ha scoperto come suo Padre vede e patisce le cose del mondo diversamente da lui, come considera inevitabile il rifiuto del mondo, ma anche del suo popolo. E come invece (e a chi) “gli piace” rivelarsi e nascondersi! Quant’è diverso dalle aspettative di gloria e onnipotenza dell’uomo, il suo misterioso agire di Padre nella storia, dentro i conflitti, i rifiuti, i fallimenti, la ingenua effimera buona volontà dei “buoni”… e la refrattarietà radicale di “tutti” al suo amore!
Non se ne accorge forse nessuno, ma sotto lo sguardo stupito e smarrito dei discepoli più vicini, questo sussulto di consapevolezza “riconoscente” di Gesù verso il Padre segna un salto di qualità e di prospettiva nel cammino culturale dell’umanità intera… come è avvenuto per il suo battesimo o la morte in croce. Su questo mistero “paterno” sta o crolla la fede dei suoi discepoli lungo i millenni. Lo si vedrà poco dopo quando il fondamento stesso della sua Chiesa, Pietro, dopo aver accolto felicemente l’ispirazione del Padre sulla messianicità di Gesù, di fronte a questo discrimine della sofferenza, diviene ‘satana’! Come tutti i discepoli, che appena il loro messia diventerà “piccolo e inerme” lo abbandoneranno tutti. Su questa scelta preferenziale dei piccoli come depositari delle “cose” del Regno si gioca il prestigio “a rovescio” dei discepoli di Gesù! – che ciascuno di noi, come la chiesa intera, fa una fatica immensa ad accettare. Ma il messaggio è chiaro!
1. La rivelazione del Padre passa attraverso i “piccoli” (in/fanti – non hanno neanche la parola!). L’esperienza di Gesù con i sapienti e gli intelligenti non è stata felice e arriverà ad uno scontro mortale…. ma la sua dichiarazione non è una condanna contro di loro: è invece un’esperienza di profonda coincidenza con le scelte del Padre, come a dire: è proprio così! è vero e bello così! Sono i poveri di spirito, i malati, le folle stanche, i bambini… coloro insomma che non sanno come salvarsi, che possono aprirsi davvero alla benevolenza del Padre, che preme sul cuore di tutti… Gesù capisce che lui stesso, pur continuando per ora tutti gli sforzi, le discussioni, i segni di salvezza, sarà spinto nell’abisso dell’impotenza…
2. l’uomo Gesù, (e Gesù soltanto) è il rivelatore del Padre in terra, proprio per aver capito questo ed esserne trasformato nel nodo della sua (nostra) umanità. Al punto di riconoscere nel Padre il proprio segreto più intimo: tutto mi è stato dato dal Padre mio… Questo mistero inaudito è stato scritto lì, certamente, con parole così profonde e intense che gli esegeti dicono che sembra un testo di Giovanni. Gesù sta spalancando a noi il circuito trinitario (nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio)… per dirci che questo circuito non si può ormai più chiudere storicamente (su questa terra come in cielo) se non attraverso questo anello mancante: i piccoli! Questa è l’intima rivelazione del segreto messianico del Padre, nel quale Gesù coinvolge colui al quale lo vuole rivelare ‑ per associarlo alla sua missione di salvezza del mondo!
3. venite a me voi tutti affaticati e oppressi! …fiumi di inchiostro si sono spesi per difendere Dio dal male del mondo, per proclamare tutti (credenti di ogni fede, atei, agnostici) che i piccoli, soprattutto, non devono soffrire. Gesù accoglie invece la contraddizione e ci si sprofonda, ma non la risolve storicamente, come tutti si aspetterebbero... Propone un modo di viverla nuovo, riferito a lui e alla sua esperienza del Padre nella storia: Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e piccolo di cuore, e troverete sollievo per le vostre anime. Il mio giogo infatti è utile e il mio carico leggero. Dunque la sua croce rimane un peso smisurato sulle sue spalle, e neanche sarà leggera la croce di chi lo segue! Il segreto sembra essere nella mitezza e inermità con cui si affida alla benevolenza del Padre che in lui (loro!) sta portando avanti la salvezza del mondo. Qui c’è un abisso, un vuoto, nel quale si inoltra chi lo segue senza resistenze, chi il Padre ha chiamato, chi ne riceve il regalo terribile di sofferenza, impotenza, infermità… mantenendo in cuore la mitezza. Dal suo intimo sgorgherà lo zampillo d’acqua, il barlume di luce sufficiente a sperimentare …che il Padre ha ragione!
...via verità e vita…
Gesù dunque taglia via dalla conoscenza dei misteri del Regno (queste cose!) gli specialisti della teoria (teologi, scienziati, scribi e farisei… chierici) e gli specialisti della prassi (asceti, santi… galantuomini) coloro insomma che hanno accesso a Dio e ai grandi problemi dell’uomo e della sua storia… Saranno anche competenti e tocca a loro condurre il mondo e le chiese… ma Gesù continua imperterrito ad affermare che il Padre si è compiaciuto di “rivelare” i veri segreti del senso della storia, ai piccoli. Rivelare “queste cose” – cioè effettuarle storicamente, vuol dire… ‘Lui’, da che parte sta! da dove salva il mondo! con i piccoli!
Tutta la lotta che segna la vicenda umana, a livello personale e sociale, tra legge della carne (carri e cavalli - risorse della legge e della morale… potenza delle capacità umane) e legge dello spirito (un puledro di asina, la fatica e l’oppressione, la piccolezza e l’insignificanza) … è raccolta e simboleggiata anche da Zaccaria e a Paolo … nei piccoli del Vangelo, salvati per grazia dello Spirito: per dare vita anche ai loro corpi mortali (Inutili! noi pensiamo… censurando che la sorte del nostro corpo è, alla fine, uguale).
Nella sua avventura umana - nel suo corpo! nel loro corpo! - abitati dall’interno da una dinamica dello Spirito totalmente diversa dalla legge della carne, Gesù si propone via e forza di salvezza. Come a dire: imparate da me (come ho imparato io!) la potenza della mitezza e della piccolezza: nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a colui che poteva liberarlo dalla morte… e fu esaudito per la dolce consegna di sé . Pur essendo figlio, imparò l'obbedienza dalle cose che patì, e divenuto perfetto, divenne causa di salvezza per tutti quelli che gli obbediscono!… (Eb 5,7s).
il punto cieco - il corpo mancante della chiesa e della società …
… lo statuto dei mistici è di non raggiungere mai il dio per cui vivono, quello dei piccoli è di non raggiungere… niente! Ma di essere abitati da un Padre inerme… che li rende “il vangelo vivo” che, in ogni cultura, si fa fermento e seme di ciò che non c’è ancora, la profezia della salvezza ricercata, la denuncia della insensatezza di ogni violenza e reazione aggressiva.
Il Dio mondano, intuito dalla nostra intelligenza, ricercato dalla nostra orfanità affamata di onnipotenza,viene incessantemente e inevitabilmente ingabbiato nelle teologie e liturgie di noi intelligenti, sapienti, e clericali… E così intercetta e impedisce il contatto con il Padre, sperimentato e rivelato da Gesù. Censura, quindi il vero scandalo! Elimina l’anello storico del circuito trinitario: i piccoli, che sono in mezzo a noi, senza importanza, pietre scartate, ma sono le chiavi di volta della salvezza della storia. Perché la salvezza è indivisibile: se non si salva il più piccolo non si salva nessuno!
… i cristiani si affannano cercando come presentare meglio Dio nella società e cultura secolarizzata di oggi, correndo avanti o indietro, aggiornando (o ripristinando) abiti e linguaggi…
Dio… non so dove sia! Ma il Padre di Gesù Cristo, forse è nascosto negli accampamenti zingari, in fila con i “piccoli” rom, a farsi schedare e prendere le impronte – e chi si accorgerà che sono le impronte di Dio?!
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