Pagine

ATTENZIONE!


Ci è stato segnalato che alcuni link audio e/o video sono, come si dice in gergo, “morti”. Se insomma cliccate su un file e trovate che non sia più disponibile, vi preghiamo di segnalarcelo nei commenti al post interessato. Capite bene che ripassare tutto il blog per verificarlo, richiederebbe quel (troppo) tempo che non abbiamo… Se ci tenete quindi a riaverli: collaborate! Da parte nostra cercheremo di renderli di nuovo disponibili al più presto. Promesso! Grazie.

Visualizzazione post con etichetta pace. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta pace. Mostra tutti i post

lunedì 16 aprile 2012

Il dito in ciò che fa paura. Ovverossia quando la Croce si fa Pace.


Ecco un Vangelo (Gv 20,19-31) che i secolari strati di precomprensione ideologica ci hanno impedito di gustare in tutta la sua freschezza originaria. Erasmo da Rotterdam ha scritto l’“Elogio della follia” forse sarebbe bene che qualcuno pensi a scrivere l’“Elogio della polemica”. Davanti al testo biblico, la lettura “passiva” ci impedisce di coglierne il significato autentico. Col testo biblico bisogna litigarci, contestandone spesso le affermazioni, rifiutando un lettura secondo i luoghi comuni. E spesso non credere al significato immediato che cogliamo alla prima lettura. In una parola “polemizzare”. Chi non polemizza vuol dire che non ha cervello da usare, idee da mostrare, verità da comunicare, vita da donare…

Per questo pretendiamo di chinarci sul testo… torturandolo!
E così leggiamo proprio all’inizio qualcosa che non quadra: “…mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei…”. Immediatamente pensiamo che i giudei dessero la caccia agli apostoli… e gli apostoli per paura si fossero barricati in casa! Sbagliato!

Intanto notare il lapsus: ho scritto apostoli… quando il testo invece usa un termine discepoli, che indica una platea più ampia dei Dodici, oramai Undici! Tutto il doppio racconto quindi non parla del gruppo ristretto degli apostoli ma di tutta la comunità credente. E infatti non solo agli apostoli ma a tutta la comunità credente si rivolgerà nel prosieguo Gesù stesso! Ci ritorneremo.
Poi la storia dei giudei che cercano i discepoli non è credibile! Da quando in qua i giudei davano la caccia ai discepoli di Gesù? In tutti i vangeli non ce traccia alcuna. E cominciano ora che hanno – mi si perdoni l’espressione –tagliato la testa al gruppo? Suvvia! A loro interessava solo Gesù. La paura degli apostoli quindi era infondata. Immaginaria. Sostanzialmente irrazionale, quindi stupida! Ma quel che è scritto è scritto e il testo non si può cancellare a nostro piacimento. Allora la domanda si approfondisce: quale senso dare all’affermazione dell’evangelista? Non certo quello immediato perché privo di logica. Certo la paura spesso è irrazionale… ma se l’annotazione ci volesse dare un indizio di ciò che la comunità dei discepoli e discepole stava vivendo? La risposta che dobbiamo cercare deve anche accordarsi col resto del racconto, che segue e che precede… Vediamo.

Un discepolo, e che discepolo, uno dei Dodici, aveva consegnato Gesù. Gli altri lo avevano abbandonato (tranne le donne!)… spergiurato di non conoscerlo… Immagino allora questi discepoli che si accusano l’un l’altro di avere tradito il Maestro. Di essere in fin dei conti la causa della sua morte. E che morte, da schiavo! Immagino il loro sguardo impaurito nel guardarsi reciprocamente: tra di loro c’era un nemico e non lo sapevano! E forse altri come Giuda potevano trovarsi in mezzo a loro? Una domanda sola li attanagliava: tra i discepoli c’erano degli “infiltrati”? Ecco di quali “giudei” avevano paura, non di quelli fuori, ma di quelli dentro al gruppo. Ancor più stupido allora era chiudersi dentro… ma si sa la paura è cattiva consigliera! E se anche non avevano paura degli altri discepoli, c’erano sufficienti ragioni per non fidarsi nemmeno più di se stessi: se la paura aveva addirittura spinto Pietro a tradire il Signore… cosa non avrebbe fatto contro gli altri discepoli? Come lo stesso Pietro, poteva fidarsi di Pietro? Aveva giurato fedeltà e si era ritrovato a spergiurare tradimento!
Questa paura era così forte che il “vedere e credere” di Giovanni e Pietro al mattino non era stato sufficiente a sciogliere quella morsa che li attanagliava alla bocca dello stomaco. La testimonianza di Maria Maddalena non era stata di maggior aiuto a sciogliere il cuore. E in questo stato arrivano a sera. Come sempre in Giovanni, il buio di fuori, mostrava un buio ancor più fitto dei cuori. Il buio ancestrale (cfr Gn 1,2) della paura.
E mentre sono riuniti, uniti come potrebbero esserlo due che si accapigliano, “venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!»”. Gesù arriva, sta, in mezzo, e dice. L’evangelista non dice “appare”, perché è un arrivare, un stare, un stare in mezzo e un dire, che appartiene all’ordine della fede. Mai in tutto il vangelo (e nella bibbia) c’è qualcosa che esula dalla fede. Lo stesso Gesù vive nella fede il suo rapporto col Padre. Non diversamente i suoi discepoli di ieri e di oggi. Anche la resurrezione non sfugge alla stessa logica. Se vedono, “vedono” solo nella fede. Quella dei discepoli è e sarà sempre una esperienza di fede, non tangibile e dimostrabile. Gesù è presente in mezzo ai suoi… la morte non lo ha separato da loro. Per questo “sta”. E non a fianco, ma “in mezzo” come ponte che li unisce dentro ogni conflitto, divergenza, sospetto… E dice, cioè dona facendola, l’unica cosa che quel gruppo (ogni gruppo) ha veramente bisogno: la Pace! Il dissolvimento di ogni paura non basta, perché sotto forme diverse ritornerebbe. Occorre di più, occorre la Pace (cfr Gn 1,3). E come fa a donarla? Mostra i segni che i discepoli – indirettamente, ma non meno responsabilmente – gli hanno inflitto! Forse temevano che Gesù tornasse per vendicarsi? Se anche l’avessero pensato, con questo gesto Gesù dissolve ogni dubbio. E ogni paura. E finalmente i discepoli gioiscono nella pace.

Curioso questo presentarsi di Gesù. Ma forse è vero, che noi siamo le nostre ferite. Accolte senza rancore. Mostrate in perdono. Normalmente noi le nascondiamo, perché ce ne vergogniamo. E viviamo nel rancore di chi ce le ha inflitte. Gesù invece per sempre se ne vanterà, per sempre sarà riconosciuto come “Il Crocifisso”, per queste è venuto. Anche i discepoli col tempo impareranno a vantarsene (Atti 5,41; 2Cor 11,30; 1Cor 1,23). Forse sbagliamo a passare il tempo a rimarginare le nostre ferite. Forse anche le nostre, saranno per l’eternità i segni della nostra identità (cfr 2Cor 11,25-28; ). Tutto sta allora, sebbene inflitteci dagli altri (o dalla nostra immaturità), di accoglierle come nostre. Come il nostro modo di fare giustizia rompendo la catena del disprezzo. Allora sebbene non rimarginate, non ci abbrutiranno più, ma saranno occasione di un di più di umanizzazione diventando ciò che ci abbelliscono. Per noi e per gli altri.

E allora Gesù può dare di nuovo la Pace: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Se accogliere le ferite (le Sue e le nostre), sono il primo passo della pace, il secondo è “spalancare le porte” che avevamo sbarrato! Già altre volte i discepoli erano stati inviati in missione (cfr Mt 10,15; Lc 9.1ss; 10,1ss). Non è qui che il Signore “dà il mandato” anche se così appare nella struttura del vangelo di Giovanni. Semmai ora c’è bisogno di ribadirlo (come in Mt 28,19s; cfr anche Mc 16,20 e Lc 24,47), perché la paura glielo aveva fatto dimenticare. Non sono stati chiamati a seguire Gesù per stare al chiuso. Il mondo ha bisogno di pace. E non è lasciandoci vincere dalle sue paure che potremo donarla. Dei discepoli che hanno paura del “mondo”, sono già stati vinti dal “mondo”. La paura non appartiene al cristiano, appartiene a coloro che sono sotto il potere di satana (Eb 2,15 )! Ecco chi è satana, è la paura che ci abita. Ma c’è chi ha vinto satana: “Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo»”. Lo Spirito del Risorto è Colui che ha vinto ogni paura. Anche di Dio! perché ce lo ha mostrato Padre misericordioso. Figuriamoci del resto!

Il cristiano è colui che non ho paura di Dio, perché Dio è suo amico; non ha paura del diavolo, perché Dio l’ha sconfitto; non ha paura del peccato perché in Cristo è stato perdonato; non ha paura della morte perché ora non può che dargli la vita; non ha paura di niente, perché niente può essergli tolto. (cfr Rm 8,31ss)

Finché vive nel perdono, accolto e donato, la paura non lo possederà: “A coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”. Ecco qui un’altra bella espressione che per secoli abbiamo travisato. Qui Gesù non sta dando nessun potere ai preti. Il sacramento della confessione qui non c’entra niente. Infatti si rivolge a tutti i discepoli, uomini e donne, e non a una categoria ben precisa. D’altronde a pensarci bene che me ne faccio del perdono di Dio o del sacerdote, se quando torno a casa, le persone che amo, con cui vivo, con cui lavoro, sono incapaci di perdonarmi? È del loro perdono che ho bisogno! Vero sacramento di quello di Dio (Mt 5,23ss). Abbiamo relegato il perdono negli angoli bui delle nostre chiese, e abbiamo dimenticato che se quel sacramento esiste il suo scopo è trasformare tutta la nostra vita in una continua riconciliazione.
Per questo l’evangelista ci avverte della responsabilità che i cristiani hanno nel “vanificare” storicamente la passione di Cristo. Gesù sta dicendo: aprite quella benedetta porta, andate ad annunciare al mondo la pace della riconciliazione degli uomini tra di loro e con Dio. Se questo non accadrà (non saranno perdonati), questa sarà la vostra responsabilità perché non siete stati capaci di perdonare (a coloro a cui non perdonerete). Può un discepolo non perdonare quando il Cristo nel mostrare le sue ferite e nel dono dello Spirito di Dio, rivela il perdono senza limiti del Padre? Assolutamente no! Se non perdona è perché si lascia vincere dalla paura (del mondo). In tal modo cesserà di essere testimone della gioia pasquale. Se il mondo non ha pace – e il mondo in quanto “mondo” non può darsi pace – è perché i cristiani non si lasciano guidare dalla gioia pasquale. Una chiesa che passa il tempo a stilare nuovi elenchi di peccati è una chiesa che rinuncia ad annunciare nuovi modi di accoglienza e perdono. È una chiesa non più pasquale.
Se c’è un “peccato contro lo Spirito Santo” (cfr Mc 3,28s) che non può essere perdonato è proprio questo: colui che non perdona, non può essere perdonato. Lo proclamiamo anche nel “Padre Nostro”. La chiesa riceve lo Spirito per donarlo, se non lo dona per paura, tradisce la propria missione!
Insomma la pace nel mondo dipende dalla nostra capacità di perdonare, e se il mondo non troverà pace è e sarà colpa di coloro che non sanno comunicarla perdonando sempre e comunque. Credere nella Risurrezione è creare sempre e comunque cammini di riconciliazione.

Ma Tommaso non c’era… simpatico questo Tommaso. Intanto subito una qualità: lui non aveva paura! E lo dimostra anche con le sue pretese. Ovvio che se i discepoli erano rinchiusi per paura e Tommaso non c’era, Tommaso era “fuori”. In mezzo a quei giudei che gli altri temevano. Una fatto in più che giustifica quanto dicevamo sopra: la paura degli altri discepoli era immaginaria. Tommaso infatti va e viene. Passa una settimana a discutere (gli dicevano). Ma la fede non si trasmette con ragionate parole, ma mostrando il cuore cambiato dalla gioia della pace. Ed è quella che Tommaso doveva cercare di vedere negli altri discepoli: le paure che si erano trasformate in gioia. Ammesso che perdurasse! Perché stranamente otto giorni dopo, ancora le porte erano chiuse… Forse i dubbi di Tommaso rendevano meno salda la gioia degli altri? Possibile! Nessuna nostra certezza è così insensata da essere priva di dubbi, se poi qualcuno ce li mostra, allora le nostre certezze sono incapaci di testimoniare gioia, ma solo ostinate convinzioni. Che non convincono nessuno. E allora anche qui come prima, all’apoteosi del diverbio, quando sembra di non poterne venire a capo, col rischio di perdere altri discepoli e sfaldare ulteriormente la già indebolita comunità, Gesù si presenta “in mezzo”. E tutta la comunità credente, nelle mani di Tommaso, può finalmente infilare le dita nelle piaghe che facevano tanto paura e che ora invece donano la pace della fede nel perdono.

Il grido di Tommaso deve diventare il nostro grido, se solo osassimo fare altrettanto! Eh sì! Perché anche questo episodio mi sembra sia stato travisato non poco. Intanto senza vedere non si può credere (cfr Gv 20,8)… i segni del quarto vangelo sono tutti lì a ricordarcelo. E non bastano! Il problema allora non è tanto cosa vedere, ma soprattutto come guardare!
E allora mi sembra che tutto il racconto sia una pedagogia alla fede. Si illude di poter credere colui che pensa di poterlo fare senza guardare le “piaghe” del Signore. Si illude di poter credere colui che passa oltre le piaghe del fratello (Lc 10,33ss). Si illude di arrivare alla fede colui che non infila le dita e le mani nelle ferite della storia. Guardare non basta: è bastato poco per spazzare via la gioia che i discepoli avevano sperimentato (la porta era ancora chiusa!). Occorre infilare le dita, tendere la mano sulle ferite. Solo quel gesto ci fa capire il senso della sofferenza che abbiamo inflitto all’altro ed è stata inflitta a noi. E chiedere e offrire il perdono. Non abbiamo bisogno di uscire dalla storia per credere (Perché mi hai veduto, tu hai creduto… beati quelli che non [mi] hanno visto…). Per fare esperienza della gioia pasquale (beati) è necessario chinarsi sulle piaghe con cui Gesù si è identificato: beati quelli che non hanno preteso di vedermi per credermi presente in mezzo a loro nelle piaghe del fratello ferito! Beato colui che non si scandalizza della fragilità di una comunità (credente o non credente) per scoprire la mia presenza in mezzo alle ferite di questa stessa comunità.

L’itinerario della fede comincia dalla capacità (ricevuta!) di vedere attraverso le ferite del fratello, le ferite stesse del Dio di Gesù Cristo. Che mi liberano.
Colui che passa il tempo a recriminare contro le ingiustizie del mondo, dimentica che Dio ha mandato proprio lui per rimuoverle. In attesa che lui si decida a scegliere l’impotenza del proprio agire (questa è la Croce!), Dio ha scelto di condividere l’avventura della vittima (anche per questo Gesù mostra le piaghe: solo quelle sono vincenti!). Per salvare anche il carnefice. Se si vuole che Dio per noi risorga (Mio Signore e mio Dio!), lo si liberi dalla morte liberando il fratello da ciò che lo uccide…
Questa esperienza è l’unico modo di conoscere il Risorto.

venerdì 17 aprile 2009

…comincia la chiesa, col dono della Pace

Scambiatevi un segno di pace!
…pace a voi!
La mattina presto del ‘primo giorno della settimana’, come tutti gli evangelisti ricordano, il Signore è apparso prima alle donne, a cominciare da Maria Maddalena, che è mandata ad “evangelizzare gli apostoli”, ma “quelli, avendo sentito che lui viveva ed era stato visto da lei, non credettero… (Mc 16,11). Ecco allora la prima apparizione ai discepoli “insieme”, estremamente importante, perché da qui inizia la manifestazione ufficiale della missione salvifica di Gesù risorto. Qui si racconta come fluisce la chiesa nascente, allo stato germinale, dalla passione umana e divina del cuore di Gesù. Il quale arriva adesso alla vita dalla tomba della morte, tornato alla luce del nostro sole dagli inferi, dove “andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione (1Pt 3,19)”. E cosa ci porta? La pace! Quella che è esplosa ormai e ha preso pieno possesso di lui, attraverso tutte le vicissitudini della sua vita terrena, finita atrocemente, ma consegnata infine alle braccia invisibili del Padre. Una pace totale e vera, “non come la dà il mondo”. Proprio l’abbandono, la tortura e la morte che il mondo gli ha dato, sono state il luogo dove questa pace si è consolidata e ha provato se stessa, perché nell’infuriare dell’odio contro di lui, il suo amore ha avuto il respiro più lungo (Balthasar). Questo è il suo regalo “personale”, perché adesso, del tutto pacificato nella sua carne gloriosa, “egli è la nostra pace”! (Ef 2,14). E si rende credibile ai discepoli mostrando loro le sue ferite e invitandoli… ad entrarci! È delicatissimo! non c’è nessuna scena di riconciliazione con loro, che l’hanno ignominiosamente rinnegato e abbandonato. Offre loro di sprofondare gioiosamente, ormai, nella pace del suo cuore trafitto e svuotato, ma tornato a pulsare la sua passione di amore! Come uno, appunto, che ha rischiato la vita fino alla morte per noi, ci ha amato ‘fino alla fine e adesso è vivo e vuole comunicarci, anzi contagiarci con la sua pace!
… come il Padre ha mandato me, io mando voi
La “missione” che costituisce il Figlio nel mondo come nostro salvatore, diventa “trasmissione”, perché è proprio dell’amore diffondersi per contagio. Perciò egli alita su di loro e dona ad essi lo spirito della sua propria missione, nella quale anche loro vengono costituiti capaci e autorizzati a trasmettere a loro volta agli uomini la pace ricevuta. Il dono che Gesù dona non è statico, è una forza dinamica. Pace e capacità di pacificare. Davvero un germe divino vitale in noi, che cresce e riproduce il perdono ricevuto, perché lo distribuiamo attorno a noi. Nella verità di uomini liberi e responsabili, certamente, e non nell’incoscienza! Quindi questo “perdono” comprende anche “la negazione del perdono”, come “giudizio” sull’eventuale incapacità momentanea di accoglierlo. Non come condanna, ma come dilazione che ha per scopo la preparazione più matura a riceverlo!
Non c’era Tommaso con loro…
Questa dinamica nuova, preziosa e delicata, trasmessa ai discepoli, non è una magìa riservata, un potere esoterico, ma il passo fondante della fede… Perciò, per metterlo in luce, ecco il racconto dell’episodio di Tommaso. Questa “pace dello Spirito”, questo “dono” che d’ora in avanti è il nucleo dinamico dell’essere cristiani, non ha come presupposto l’esperienza fisica visiva del Crocifisso risorto, dal quale proviene, ma la dedizione della fede, che è l’affidamento totale di sé a Lui. La condizione dell’accoglienza del dono divino non è infatti il vedere o il toccare. Anche di fronte al Cristo risorto, è necesssario comunque rinunciare ai “ragionamenti che salgono nel cuore” (Lc 24,38) e che vorrebbero che ogni decisione fosse la conclusione della propria esperienza ragionata:: “se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi… se non metto il mio dito…”. Questo è un vicolo cieco, almeno nel senso che lascia l’uomo dov’è, in balia delle sole sue forze, che sono impotenti al passo della fede! Si tratta invece di rispondere ad un saluto (pace a voi!) che nessun altro può dare, perché contiene la partecipazione alla “sua” missione, l’effusione dello Spirito e il perdono dei peccati: realtà (rapporti personali!) che vengono proposti e donati da fuori dell’uomo, che ne è assolutamente incapace! Perché Tommaso crolla? Questa “presenza” di fronte a lui è così piena, totale, talmente inerme e avvincente… che i suoi ragionamenti si sbriciolano. Il dito e la mano non lo toccano neanche, ma è il suo cuore che è toccato… e capisce! Capisce in un istante chi ha davanti e l’insensatezza della sua pretesa, di fronte a tanto amore! Capisce quello che noi dovremmo maturare nel corso della nostra peregrinazione di fede: questa pace coinvolgente solo il Signore la può dare – anzi, è lui! In lui è la riconciliazione universale delle cose che sono in cielo e in terra e negli inferi, da cui la nostra piccola pace dipende. In lui è la “riconciliazione” interna a noi e tra gli uomini di ogni popolo, stirpe e lingua, la riconciliazione con Dio e con il cosmo… Vera perché totale! È lì, davanti a lui, implosa in quel corpo torturato e glorificato, che dunque … è Dio stesso – che lo chiama personalmente. E risponde con totale riconoscenza e appartenenza: mio Signore e mio Dio!
… beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!
Anche quelli che “hanno visto” infatti, hanno per poco goduto di quelle scintille di apparizioni e di incontri con il loro amico e maestro crocifisso e risorto (oltretutto colmi di ansietà, trepidazioni e dubbi). Scintille, a loro date per poter essere poi testimoni convinti della sua resurrezione, fino agli estremi confini del mondo. Ma dopo, Lui se ne è andato, e non lo hanno più visto… e l’essenziale è rimasto lo stesso “dono” fatto a noi, il processo interiore che la resurrezione di Gesù accolta in loro ha provocato: Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. Dunque una visione nuova globale della vita e del suo senso, seminata in noi dalla Spirito di Gesù, che non è quella del mondo, ma le è antitetica. Il mondo ha una forza pervasiva irresistibile attraverso la cultura che ci ha permeati e ci condiziona strutturalmente … e che è contraria allo Spirito di Gesù. Non si tratta tanto di un conflitto di moralità con il mondo, anche se questo ne è la conseguenza, ma di una visione e percezione dell’uomo e del senso della sua vita fondate su una logica interna al mondo, dove il primato discriminante è affidato totalmente alla ragione. Una ragione, ancor più oggi, soggiogata dal modello delle verifiche sperimentali proprie del campo scientifico e tecnologico, escludendo come indimostrabile qualsiasi altro orizzonte umano o trascendente che non sia l’interesse, l’efficacia, il profitto! Cioè il raggiungimento degli obiettivi programmati dalla ragione stessa, chiusa nel perimetro del suo io. Sicché, non solo nel rapporto con Dio, ma con gli uomini e il mondo, diventa sempre più arduo fare affidamento ad altri sensori o percezioni od orizzonti – al di fuori di quell’unico modo di conoscere che è la ragione dimostrativa (la propria! chiusa nei ferrei confini culturali ed esperienziali). Così diminuisce e si ottunde la grande qualità che ci fa umani: si riduce la potenza di amore! Cioè di relazione, di coinvolgimento e allargamento del proprio cuore e della propria mente. Qui è la grande scelta della fede, che ci fa beati, senza aver visto, ma per esserci affidati alla Parola, testimoniata dagli apostoli! O accettiamo di entrare ed essere coinvolti in una visione del mondo e in una qualità di vita che è l’universo del Vangelo, la cui conoscenza non avviene primariamente per via di ragione deduttiva, ma per altri modi di conoscenza ed esperienza da lui indicati alla chiesa nascente, o saremo inevitabilmente attratti e assorbiti dalla logica della ragione mondana: egocentrica – cioè chiusa nell’io, personale, tribale o culturale o religioso. E la subdola logica del mondo ci vincerà, anche dentro la chiesa! E diventeremo incapaci di amare!
… perché, credendo, abbiamo la vita nel suo nome!
… i nuovi modi di conoscenza e di esperienza vitale sono evidenti nella chiesa che nasce:
- la celebrazione del “giorno del Signore”: fin dagli inizi gli apostoli sono insieme il primo giorno della settimana, a pregare, a ripensare, ascoltare e nuovamente ricevere e riannunciare il Signore e la sua eucaristia, e tutta la vita ‘feriale’ ne rimane illuminata e orientata verso il punto di sintesi che è Lui, e il dono della sua pace!
- nessuno di loro diceva qualcosa sua proprietà – tanto era forte e entusiasmante un’altra identità, il riferimento al crocifisso risorto, divenuto “proprietà comune unificante”: Signore mio e Dio mio! Questa comune appartenenza a lui, che ci ha conquistati con il suo sangue, è il legame ecclesiale, la relazione d’amore che mi apre all’altro e che ha il primato su ogni altra logica;
- la sollecitudine dei poveri e dei malati… Non c’era infatti tra loro nessun bisognoso, perché ciò che ognuno aveva era messo a disposizione di tutti, a cominciare dalla capacità di ascoltare, accudire ed amare… perché questo ha fatto il Signore con noi.
Questi ed altri segni che il Risorto ha trasmesso alla sua chiesa continuano a compiersi nella vita della chiesa e del cristiano, giorno per giorno… e non sono narrati nel Vangelo, ma sulla pagina bianca del piccolo vangelo che a ciascuno e ad ogni generazione è dato dallo Spirito di scrivere “nel suo nome”!

giovedì 26 marzo 2009

Lo j’accuse dell’Africa

L'Africa ci accusa
Perché è stata importante la missione africana di Benedetto XVI, nonostante le tante e ingenerose critiche che gli sono piovute addosso da ogni parte? Perché il Papa ha confermato di essere l’unico autorevole difensore del continente africano presso il resto del mondo. Ma attenzione: non dei Governi africani, per lo più corrotti [da noi!], ma dei popoli africani. Molti leader, saldamente al potere da anni, come in Camerun e Angola, si arricchiscono a dismisura sulla pelle della gente, senza alcun rispetto per le regole della democrazia. Oligarchi senza pietà all’arrembaggio dei propri popoli.
Di fronte ai gravissimi problemi del continente (guerre, sfruttamento, carestie, malattie...), nessun leader occidentale alza mai la voce. Lo fa solo la Chiesa. A Luanda il Papa ha dato una lezione di democrazia all’inossidabile presidente Dos Santos, al potere da 1979 e con nessuna intenzione di mollare, prima marxista e ora campione del "turbocapitalismo" senza pietà, con l’aiuto di Pechino. Ma i soldi del petrolio e dei diamanti di questa nazione ricchissima di risorse finiscono nelle tasche del presidente e di 120 famiglie sue fedelissime, mentre 15 milioni di angolani sono ridotti alla fame.
Nel palazzo del presidente un Papa coraggioso ha dettato le regole: trasparenza, rispetto, onestà, media liberi e magistrati indipendenti. Preoccupazioni diplomatiche? Nessuna, perché l’unico riferimento è il Vangelo.
L’Africa è un continente dimenticato e rapinato. Il Papa è il solo a esortare gli africani a «non svendere la propria dignità», al contrario di quanto sollecita il ricco Occidente. E la Chiesa, oggi, pubblica un documento coraggiosissimo per il prossimo Sinodo speciale dei vescovi africani. Testo che andrebbe letto per intero, non soltanto in Africa. È una lezione geopolitica, un esame di coscienza, per noi e i governanti africani, mette in crisi l’egoismo dell’Occidente, che spesso scivola nel razzismo.
Il viaggio del Papa aveva lo scopo di consegnare quel testo ai vescovi del continente. Forse, dovrebbero leggerlo per primi tutti coloro che, nel nome di una globalizzazione tragica, operano autentiche nefandezze, depredando l’Africa delle sue ricchezze. Sono gli stessi che paracadutano milioni di preservativi, a pioggia, illusi d’aver trovato la scorciatoia per debellare l’Aids. E per mettersi a posto la coscienza.
Intellettuali e politici di tutto il mondo hanno gridato allo scandalo, hanno dato del «leggermente folle» al Papa, perché ha osato mettere in dubbio che il profilattico sia la soluzione di tutti i mali. Davvero non c’è dietro la sollecitazione delle multinazionali del condom? Domanda legittima, anche perché i medici del Camerun e dell’Angola ritengono sia meglio abbassare il prezzo del cibo che quello dei profilattici. Lo stesso vale per le cure, che non ci sono. I successi del progetto "Dream" della Comunità di Sant’Egidio sono lì a dimostrare che con acqua pulita, cibo e una sanità che funziona, la carica del virus può calare.
L’investimento solo sul preservativo condanna a morte 22 milioni e mezzo di africani che l’Aids ce l’hanno già. È una soluzione minimale, che nasconde gli interessi di industrie, Governi e grandi Ong. Distribuire preservativi – dicono medici e associazioni africane – blocca nella gente una riflessione seria sulla sessualità, la violenza sessuale, la dignità della donna. Evidentemente, a chi ha dimezzato gli aiuti allo sviluppo e alla cooperazione, e nega dignità ai popoli dell’Africa, va bene così.

domenica 1 febbraio 2009

Dare credito a uno così!

Certo rimanere nel sonno mentre c’è una bufera di vento e l’acqua invade la barca continuamente, è proprio sorprendente. Andavo a scuola tutte le mattine da ragazzetto in barca al mio paesello, e una scena così è assolutamente inimmaginabile: quando c’era vento altroché si era svegli, tutti, anzi, con una paura enorme.
Ma l’intento, appare evidente quando entriamo in preghiera di fronte a questo Vangelo (Lc 8, 22-25), l’intento non è quello di dire una cosa scioccante, che stupisce, è piuttosto quello di regalare una certezza: anche nei momenti duri di bufera e di tempesta, Lui c’è e dà pace. Mi pare proprio questo il cuore di questa pagina bellissima di Luca, tant’è che anche quando si apre un dialogo tra Gesù e i suoi discepoli che sono impauriti e nel panico nella barca, il dialogo non avviene su cose eccezionali che sono accadute, ma su qualcosa che poi si decide nel cuore: sono due le espressioni che emergono. La prima è quella dei discepoli: “Chi è costui?”, “Mai vista una cosa così: chi è costui?”. L’augurio di Luca, che ci consegna questo racconto, è: “fallo il cammino per capire chi è Costui e fallo fino in fondo, e fallo con amore, perché uno così merita davvero di essere conosciuto, e bene, e da vicino. “Chi è costui?”, una domanda che questa mattina è bello tenere nel cuore, come regalo di questa celebrazione domenicale. E poi, l’altra espressione è di Gesù: “Ma, dov’è la vostra fede?”. Ecco, domanda la libertà della fiducia: “Sono qui, fidatevi però”. La vicinanza che sceglie di aver con i suoi, gli legittima la domanda: “Ma abbiate fiducia, abbiate fiducia!”. E qui avvertiamo subito che il Vangelo, questo Vangelo, è andato oltre questo episodio, è andato oltre quel momento, oltre quell’episodio, tant’è che questa mattina è impossibile udire questa pagina come se fosse un racconto che ha toccato altri. Certo che li ha toccati, ma questa pagina la stiamo udendo noi, noi adesso, e questa pagina, proprio per quello che esprime e che consegna, parla a noi, adesso: “Anche nelle situazioni più difficili Io ci sono, contateci!”. E’ dentro, facciamola fiorire la voglia di rispondere: “Chi è costui?” perché è, perché lo cerchiamo, perché camminiamo verso di Lui, perché ci lasciamo attrarre e persuadere dalla parola del suo Vangelo, perché la nostra vita diventa cammino, diventa ricerca, diventa viaggio. Vogliamo vederlo da vicino Costui a cui i mari e i venti obbediscono.
Del resto ci direbbe il testo antico che abbiamo ascoltato dal libro della Sapienza (19, 6-9), del resto aveva già dato prova, meritava una fiducia così: quando in quella situazione del tutto improbabile ha fatto uscire all’asciutto attraversando il mare il popolo schiavo e gli ha dato la gioia di intraprendere l’esperienza dell’Esodo. Questo è il Signore: fedele nella sua Parola, che adempie le sue promesse. Veniva da lontano, quindi, un annuncio come questo; il Vangelo, certo, lo conduce a compimento, molto più in là di quanto noi avremmo osato sperare e tanto meno pretendere.
Ma è bello anche sentire con quale animo ce lo dice Paolo (Rm 8, 28-32) che vale la pena di fidarsi del Signore e vale la pena di cercare in tutte le nostre risorse, di intelligenza e di cuore, chi è il Signore. Questa pagina bellissima del capitolo 8 della lettera ai Romani enumera, quasi in una successione incalzante di verbi tutti i doni ricevuti, perché chiamati, conosciuti, predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio, e poi ancora, chiamati, giustificati, glorificati. Ha fatto questo, ha fatto questo, non l’ha solo promesso, questo è accaduto, questo è il dono della Pasqua. “Questo è accaduto in me, Paolo, che vi sto parlando”. E io a uno così non do credito? A una promessa che si compie in questo modo, non apro il cuore con una disponibilità vera? Ecco il dono della Parola di questa domenica, della Scrittura Santa che ci accompagna nell’Eucaristia e che fa da faro di riferimento per l’intera settimana.
Oggi è anche bello sentirsi in una comunione di preghiera con tutte le Chiese: celebriamo la domenica per la vita. E come mi piace dire soltanto questo: questo è davvero il Dio della vita, questo, il Dio dei viventi, e l’amore alla vita, e la custodia del dono della vita appassionata e intelligente, fraterna e sincera, trova qui la sua radice più profonda, che “Tu sei il Dio della vita! E da Te non l’abbiamo ricevuta. E a Te noi faremo ritorno, perché la vita non termina, nella Tua casa la vita continua definitivamente, ed è nella tua casa. Noi di questo, Signore, ti rendiamo grazie.”

don Franco Brovelli, omelia al Carmelo di Concenedo, 1 feb ’09, IV domenica dopo l’Epifania

venerdì 16 gennaio 2009

Se la chiesa avesse coraggio...

Non posso non dedicare il primo post ad Alex Zanotelli...:

«Se la chiesa avesse il coraggio di scomunicare chi fa la guerra…»
Intervista a padre Alex Zanotelli sul pensiero pacifista di don Milani. A cura di Mario Lancisi (contenuta nel libro «No alla guerra!», Piemme Edizioni 2005 - pagg. 208)

Quando ha letto L’Obbedienza non è più una virtù?

Ho letto il libro in Sudan, ed è stato per me una delle letture chi mi ha più colpito e influenzato della letteratura religiosa italiana del secolo scorso.

In particolare cosa la colpì di quel testo?

Prima di tutto per me era assolutamente nuovo il tema dell’obiezione di coscienza. Così come, prima di don Milani, non ho mai pensato alla guerra, al sistema militare e alla minaccia atomica come peccato. La dimensione etica di quei problemi non mi apparteneva. È stataL’Obbedienza non è più una virtù ad aprirmi gli occhi.

Nella Lettera ai Cappellani militari don Milani si rifiuta di considerare la patria come una divisione tra italiani e stranieri e sostiene che l’unico concetto di patria che gli appartiene è quello che divide il mondo in oppressi e oppressori.

Quando per la prima volta ho letto quella frase mi ha molto impressionato. A Milani va dato il merito di aver posto per primo il problema dei poveri in chiave planetaria. Secondo il Vangelo il povero, l’emarginato, chi soffre non è mai straniero. Per cui per il cristiano la patria non è un concetto che esclude - come fa la legge Bossi-Fini, ad esempio - ma include. Don Milani si sentiva «patriota» di tutti i poveri del mondo. L’«I care», mi preme, scritto sulle pareti di Barbiana significava il superamento dei rigidi confini geografici per allargarsi al mondo dei bisogni e delle povertà.

Nella Lettera ai giudici sono contenuti temi di grande attualità come il rifiuto della guerra, anche di quella «giusta» perché i conflitti armati nell’èra contemporanea colpiscono i civili. Il «mai più guerra» di don Milani che influenza ha avuto nel movimento della pace e della non violenza?

Direi profonda. Un’influenza che storicamente assume un valore profetico ancora maggiore se teniamo presente che siamo nel 1965 e il Concilio si era già concluso da un anno senza essere riuscito a fare propria la presa di posizione della Pacem in terris. Inoltre il Concilio non era riuscito a parlare della bomba atomica come peccato. Don Milani era tra coloro che avevano percepito come dopo il lampo di Hiroshima non ci poteva essere più una guerra giusta. È in questo contesto atomico che Milani rafforza il suo giudizio deciso contro la guerra. E non solo perché la guerra colpisce i civili ma soprattutto perché è intrinsecamente immorale. La guerra deve diventare un tabù come l’incesto, ad esempio.

Un altro tema molto forte è quello dell’analisi milaniana sulle guerre combattute dall’Italia, dal Risorgimento alla 2º guerra mondiale. La conclusione a cui perviene il priore di Barbiana è che tutte le guerre sono state fatte dalla classe dominante, dai ricchi, dai potenti mentre i poveri sono stati mandati al fronte a morire per i loro oppressori.

Sì, tema forte, fortissimo. Uno degli aspetti che mi aveva colpito di più, leggendo la «Lettera» fu proprio la differente lettura della storia italiana tra me e don Milani. La storia dipende infatti dal punto di vista in cui uno decide di leggerla. Don Lorenzo la leggeva dalla parte dei poveri, degli sconfitti mandati ad esempio allo sbando sul fronte delle prima guerra mondiale. Tutto questo ha pesato moltissimo sul movimento per la pace italiana.

Ho parlato a lungo con Tonino Drago, dell’università di Napoli, uno dei grandi ispiratori della non violenza attiva in Italia.

Gli ho chiesto come mai proprio a Napoli si è sviluppata questa attenzione? E lui mi ha risposto che tutto nasce negli anni Sessanta dalle posizioni dei pacifisti cattolici, da Dorothy Day, la pasionaria americana, cattolica, che fondò il giornale «Catholic Worker», da Lanza Del Vasto, dalle piccole sorelle del Vangelo che si trovavano a digiunare davanti a San Pietro per cercare di attirare attenzione e di portare la non violenza attiva all’interno del Concilio e bollare la guerra atomica. In questo contesto si inquadra anche l’apporto fondamentale di don Milani.

Don Milani scrive che «nessun cristiano può partecipare alla guerra nemmeno come cuciniere» e, riprendendo Gandhi, contesta anche la Croce Rossa. Questo è un tema molto sentito, che si pone spesso, anche Gino Strada, del fatto cioè che non si può fare la guerra e poi andare dietro con le autoambulanze e fare i cuochi o i cappellani.

Io penso che anche in questo Milani è stato chiarissimo, soprattutto sui cappellani militari che, per come sono oggi concepiti e strutturati, sono parte integrante della guerra, perché sono militari a tutti gli effetti, pagati dall’esercito.

Come mai 40 anni dopo la Chiesa è ancora così titubante incerta e non ha la forza per gridare, come Paolo VI all’Onu: «Mai più guerra»?

La ragione fondamentale è questa: la Chiesa potrà dire questo solo quando finalmente farà il passo finale, rinunciare all’essere religione civile. Purtroppo la Chiesa per tanti secoli è diventata religione civile, ha benedetto imperi ecc. Non è questo il suo compito, ma quello di essere coscienza critica per la società. Nasce da questo contesto la richiesta che più volte ho avanzato, cioè se la Chiesa vuole uscire da questa eredità di religione civile, una delle cose importanti da fare è che il Vaticano rinunci ad essere Stato.

Non è concepibile che il Papa sia anche Capo di Stato, questo mette in moto tutta una serie di trappole, la diplomazia ecc. Per cui è chiaro che bisogna barcamenarsi poi da tutte le parti. Il magistero della Chiesa deve avere il coraggio di proclamare come dogma di fede il fatto che è stato Gesù di Nazareth ad inventare la non violenza attiva. Non è stato Gandhi.

Gandhi lo ha imparato dal Vangelo e se la Chiesa ha il coraggio di proclamare questo apertamente, produrrà nel cuore della gente una rivoluzione enorme, un salto di qualità incredibile, e soprattutto in questo momento gravissimo aiuterebbe l’umanità ad uscire da questa follia bellicista in cui si trova.

L’obiezione al «No guerra» è questa: come si dirimono i conflitti internazionali e come si combatte il terrorismo se si rinuncia alla forza armata?

Ormai è sempre più chiaro che il terrorista più lo combatti con la guerra, più diventa terrorista, la violenza produce violenza, fango produce fango. Dobbiamo ritornare a credere al Vangelo della non violenza. Il male si vince con il bene, con la logica della non violenza. Qualcuno dirà che questo può valere a livello personale mentre non si può obbligare a questo un paese, tutta la società.

Ma noi siamo convinti che a questo punto della storia, l’umanità deve fare un salto di qualità. Dalle ultime statistiche abbiamo letto che abbiamo abbastanza bombe atomiche da far saltare 4 volte il mondo per aria. Stati Uniti e Russia hanno dimezzato del 50 % armi nucleari, chimiche e batteriologiche, ma abbiamo ancora abbastanza armi per uccidere la popolazione mondiale 5 mila volte. Abbiamo oltre 340 tonnellate di plutonio. Ne bastano 150kg per uccidere tutti. È la follia totale in cui ci siamo cacciati. Pertanto o l’umanità riesce ad uscire fuori dalla follia totale della guerra oppure ne saremo tutti travolti.

Che cosa deve fare il cristiano per essere costruttore di pace?

Credo che la strada sia stata indicata da Giovanni Paolo II, il 30 novembre 2003, quando all’Angelus, ha detto: «Rinnovo il mio appello ai responsabili delle grandi religioni: uniamo le forze nel predicare la nonviolenza, il perdono e la riconciliazione! ‘Beati i miti, perché erediteranno la terra’ (Matteo 5,5)». In queste parole è indicata la strada per i credenti nel senso che per le religioni e per le Chiese non è più tempo di silenzi e connivenze di fronte ai conflitti bellici e all’instaurarsi del «pensiero unico» della guerra, intesa ormai come unico mezzo per risolvere le controversie e per far girare l’economia.

Inoltre il papa indica un intreccio tra nonviolenza, perdono e riconciliazione. Si tratta di tre tappe dello stesso percorso, per il quale non si dà l’una senza le altre. Ai cristiani spetta il compito di diventare «maestri» della pedagogia della nonviolenza e i portatori sani di quella che Bernard Häring definiva la «forza terapeutica» della nonviolenza.

Il papa fa un richiamo preciso alla beatitudine della mitezza. Perché?

Non credo che il Papa l’abbia utilizzata come un abbellimento letterario. Sono convinto, che la nonviolenza ha la sua radice proprio nella Parola di Dio e nello stesso Cristo, modello di nonviolenza. Essa non è una delle tante teorie prodotte nella storia dell’umanità o da qualche personalità eccezionale, come Gandhi o Martin Luther King. Al contrario, la nonviolenza evangelica è la sintesi di quel comandamento nuovo, cioè di quell’ordine nuovo, di amarci come Dio ci ama e, addirittura, di amare i propri nemici.

Cos’era in definitiva per Gesù la non violenza?

Per Gesù la nonviolenza rappresentava il superamento della logica del vecchio Testamento dell’ ‘occhio per occhio, dente per dente’. «Se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli l’altra» (Mt 5,39), diceva Gesù. Per colpire uno sulla guancia destra bisogna usare il manrovescio e al tempo di Gesù veniva usato dal padrone per umiliare lo schiavo. Gesù dice: «Mettiti in piedi fratello, tu sei un uomo, non uno schiavo! E porgigli la guancia sinistra».

Se chiude la mano o usa il pugno della mano, il padrone è costretto a trattare lo schiavo come suo pari. In un mondo di onore e umiliazioni, si è impedito a un pre-potente di svergognare un «inferiore» in pubblico. Gli è stato sottratto il potere di disumanizzare l’altro. Come insegnava Gandhi, «il primo principio dell’azione nonviolenta è la non cooperazione con tutto ciò che si prefigge di umiliare”.

Il compito della Chiesa?

La nonviolenza attiva deve diventare una dimensione essenziale della sequela cristiana. Le Chiese devono avere il coraggio di proclamare che è Gesù che l’ha praticata nella sua vita. Se la Chiesa scomunica chi abortisce o dice che non può fare la comunione una donna che usa i contraccettivi, non dovrebbe scomunicare chi va a bombardare in una guerra come quella contro l’Iraq ritenuta «immorale» dal cardinale Martino e «criminale» dal cardinale Tauran?

Senza parole 2



Ecco la foto scattata nella notte del 29 settembre 2008 al comando di via del Taglio dei vigili urbani: uno degli indagati si mette in posa vicino al ragazzo ghanese fermato, pestato e insultato dopo essere stato scambiato per uno spacciatore. Il vigile gli tiene la testa con la mano mentre il giovane (Emmanuel Bonsu), umiliato, guarda a terra. Fonte Repubblica.it

mercoledì 31 dicembre 2008

Giornata mondiale della pace

In occasione della Giornata mondiale della pace, sulla quale non saprei dire nessuna parola che non suoni retorica per chi la vive davvero, raccolgo l'invito di un'amica anarchica a dare spazio a quanto segue. Forse che sul nostro blog appaiano parole di chi indubbiamente "ha la maglia di un'altro colore" stupirà qualcuno, ma io credo sia davvero ora che chiunque sogna un mondo migliore si dia da fare insieme per costruirlo... almeno un po'...
Dunque grazie a Gaia!

"Cari, vi segnalo anche questo articolo da PeaceReoporter... Potreste dargli spazio, se potete... visto che domani (per i cattolici) è anche la giornata mondiale per la pace.... e qui si dice con precisione cosa significa una guerra... non ci sono teorie o diplomazie, ma cosa è una guerra... a me, nel '94, l'ha fatta capire la guerra, un signore in un piccolo paese vicino a Mostar (Bosnia), Cjaplina, durante i bombardamenti, quando ha voluto mostrarmi che dalla 'vita' in giù era fatto tutto in gialla e calda vetroresina.... poichè era saltato su una mina con il suo trattore... non ha fatto discorsi... mi ha preso la mano, intanto che si beveva una rakkia (grappa), me l'ha messa sul suo bacino, passando dal sorridente al terribile serio... e dicendomi, ancora con sorriso... vedi tu sei italiano, come questa protesi che mi hanno fatto a biella: La guerra è questa roba qui!! Tutto il resto sono manovre politico-economiche..."

mercoledì 24 dicembre 2008

Se Dio, per farsi Dio, si fa uomo...

Buon Natale a tutti, Buon Natale a voi che siete presenti e siete venuti qui a cercare un po' di pace vera, un po' di tenerezza pura, un po' di gioia nuova, un po' di festa che duri anche quando questa è finita…

E portate anche il Buon Natale di Dio a chi non ha potuto venire, perché forse qualcosa o qualcuno glielo ha impedito, o forse perché oramai alla pace non ci crede proprio più.

Ma anche per loro e per noi tutti oggi, stanotte, è pace: pace sulla terra tutta agli uomini che egli ama, non: agli uomini di buona volontà, perché di uomini di buona volontà ce ne sono forse sempre meno (ricordate la domanda? Quando il figlio dell'uomo verrà sulla terra, troverà ancora la fede-la speranza?), ma gli uomini che Dio ama, crescono ogni volta che sentiamo un nuovo vagito.

Pace quindi agli uomini tutti, perché tutti egli ama: questa è la Gloria di Dio nel più alto dei cieli e nel più profondo degli abissi della terra. Ma una pace vera, una pace nuova, una pace viva, una pace non come la dà il mondo, ma come la sa dare solo Dio. Non quella pace che sappiamo darci anche noi, ma una pace umanamente impossibile e che col trascorrere degli anni forse neanche noi riusciamo più a desiderare. Quale è questa pace? È la pace tra ladro e derubato, pace tra assassino e ammazzato, pace tra tradito e traditore, pace tra la preda e il predatore, pace tra ricco e povero, pace tra eterosessuale e omosessuale, pace con chi non riesce a nascere, pace con chi non riesce a morire… Pace tra destra e sinistra, pace tra il credente e l'eretico, pace tra il vivente e il morente…

Pace tra Dio (sempre più diverso da come lo vogliamo) e l'uomo (sempre più diverso da come lo vuole Dio)… Pace nel cuore di ciascuno. Ciascuno se lo dica: pace tra me e me, pace tra ciò che io sono realmente e cioè che io sogno di essere e non riesco ad essere…

Come trovare questa pace, come trovare la luce in queste tenebre? Non ci sono soluzioni magiche… Dobbiamo fare come i pastori, obbedire all'annuncio che l'angelo anche a noi stasera rivolge: «troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».
Troverete: Trovare è il verbo in cui trova riposo la fatica del verbo cercare. Solo alla fine del cercare si trova il riposare. Forse abbiamo smesso di cercare, e abbiamo certo le nostre più che buone ragioni per aver smesso. Ma in tutta la Storia sacra risuona un ordine, proprio quando noi ormai non ne abbiamo più voglia: alzati e cammina, alzati e cerca, alzati e trova… Non è il momento di riposare, riposeremo! Ora alzati e cerca!

Cercare cosa? Cercare, non qualcosa di strano o di raro o di prezioso o di fenomenale o di miracoloso, ma cercare quanto di più quotidiano: un uomo e una donna obbligati dalla prepotenza umana e dalla sua mania di grandezza, a un viaggio che non volevano fare; cacciati da un alloggio umano e costretti a rifugiarsi in un ricovero dove trovavano riparo le bestie: le pecore e capre, in italiano si chiama ovile; ma se fossero maiali in italiano si direbbe porcile: cambiano le parole ma il risultato non cambia… Sembra di vederli quei viaggiatori forzati di clandestini stipati come bestie, sembra di vederli quegli uomini e quelle donne anche italiani, forse anche in parrocchia, a cui la vita, la storia, non ha dato la possibilità di vivere da uomini…

E se cominciassimo ad andarli a trovare? e se cominciassimo ad accoglierli in mezzo a noi?

E là in mezzo un bambino, avvolto in fasce e in una mangiatoia… Sappiamo che questa espressione è già un'allusione dell'evangelista Luca sul destino di questo bambino, morirà come nasce, avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia, e continua a donarsi nella mangiatoia dell'altare…

Un bambino appena nato, una donna e un uomo appena scacciati… Ecco cosa c'è da vedere, ma non con gli occhi superficiali della nostra avidità! Infatti quale miracolo? Nessuno! Quale segno? Apparentemente nessuno… proprio come la nostra vita, senza miracoli, senza niente di speciale, a volte persino banale… Ma se crediamo ai pastori che hanno creduto all'angelo… avremo anche noi modo di vedere, quello che nessun altro ha saputo vedere… In questa famiglia di Betlemme, nella nostra famiglia, in ogni famiglia, in noi, negli altri, in Dio: nel puzzo della nostra vita… come scintilla che si fa sempre più grande una gioia diversa illuminerà la nostra vita.

E allora scopriremmo le tante assurdità che si siamo lasciati mettere in testa…

Se Dio, nel farsi una casa, prende una stalla, scomoda e puzzolente, chi ci ha convinti che per essere uomini dobbiamo avere una reggia con tutti i comfort e i migliori profumi?

Se Dio, per farsi Dio, si fa uomo… perché noi uomini per farci uomini dobbiamo farci dio? Ecco la liberazione di questa notte: non dobbiamo fuggire quello che siamo per essere come Dio! Perché Dio non è lontano da noi, dalla nostra sete, dalla nostra miseria…

Mi direte, che appartiene al pensiero della tradizione cristiana, l'espressione che Dio si è fatto uomo per farci Dio. (Sant'Atanasio di Alessandria, De Incarnatione, 54, 3: SC 199, 458 (PG 25, 192) citato anche dal n° 460 del Catechismo della Chiesa Cattolica).

Già, ma quale Dio? Se l'uomo vuole lasciarsi fare Dio da Dio, deve lasciarsi fare Dio come Dio si fa Dio. Non è uno scioglilingua è qualcosa che scioglie il cuore in una gioia che non ha mai fine. Perché Dio, nella storia, si fa Dio così: si lascia avvolgere in fasce, adagiare in una mangiatoia, in una stalla per animali. La nostra storia e quella di Dio, da stanotte, cominciano a coincidere!


martedì 4 novembre 2008

Il conflitto cristiano e gli anticristi


Durante una riflessione sul “rinnovamento” di una coscienza missionaria cristiana, mi sono incamminato verso prospettive sempre più nuove che aprono a un’accoglienza ulteriormente dell’annuncio evangelico. Ancora una volta, ciò che è in gioco è il coraggio a lasciarci convertire fino al capovolgimento culturale del nostro modo di intendere e di volere come dice già Isaia 55,8: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri né le vostre vie sono le mie vie»…

Fin dall’inizio mi sono “focalizzato” in quel momento sorgivo dell’azione storica di Dio inaugurato nel movimento nuovo di liberazione che avviato in Mosè si compie, senza esaurirsi perché storicamente continuo, in Gesù di Nazareth… Questo è l’orizzonte fondamentale che non ho mai dimenticato e che ho sempre cercato di ripercorrere…

Cerco qui di approfondire ulteriormente questo “fatto”, riprendendo un discorso che ho maturato col tempo, proprio grazie alle difficoltà che ho dovuto affrontare e “sciogliere” in me prima di tutto. D'altronde le mie riflessioni non possono essere che la continuazione di ciò che io stesso vivo e ho vissuto, non potendo dare altro cibo se non quello di cui io stesso mi nutro…

Già da tempo mi ero presto reso conto, che tutte le difficoltà che incontriamo sono chiaramente “presenti” nella stessa vita di Gesù così come ce la descrive il Vangelo. Arrivai così ben presto a vedere come tutta la storia dell’umanità, come anche quella di ogni vita di ogni uomo e donna, presa nella sua totalità e in ogni suo frammento, nel tempo e nello spazio, è “riassunta” e “rivelata” nelle sue dinamiche più profonde proprio dal Vangelo, attraverso la vicenda storica di Gesù di Nazareth.

Per “dinamiche” non intendo semplicemente “i fatti”, la storia, il “ciò che accade”, ma l’intellezione cioè la “comprensione profonda dell’intelligenza e del cuore” attraverso lo svolgimento degli avvenimenti, del «“perché” “accade ciò che sta accadendo”»! Fondamentalmente esso risponde alla domanda: «Qual è il “meccanismo” che genera gli avvenimenti? In me, negli altri, in noi… in Dio?»

Mi è parso subito significativo a questo proposito, la dinamica del conflitto tra Gesù e gli altri (compreso il tradimento dei suoi discepoli) così come si manifesta nel periodo che va dal giovedì santo fino alla domenica di risurrezione… Questi “tre giorni”, me ne rendo conto sempre di più, sono la chiave d’interpretazione, la “cifra ermeneutica” di ogni “fatto” storico! Questo conflittoè” il perno su cui ruotano anche le diatribe presenti nel Vangelo, sia prima di questi “tre giorni” (andando quindi indietro nel tempo fino agli inizi della storia), sia dopo, nella storia della chiesa nascente fino alla fine della storia umana stessa, passando per quella che stiamo vivendo noi. Insomma, è lo stesso dramma che stiamo rivivendo. Sempre!… Cambiano cioè le persone, cambiano i nomi, cambia e avanza la storia, ma è sempre “la stessa storia” che stiamo vivendo nelle sue rappresentazioni esistenziali. E ciò su cui noi dobbiamo deciderci, è scegliere quale “ruolo” interpretare: questa è, e sarà, la sfida e lo scontro permanente, in noi, negli altri e nel nostro rapporto reciproco.

È assolutamente fondamentale abituarci a leggere la nostra vita e la Storia a partire da questa chiave di lettura. Altre letture non arrivano veramente a dare ragione fino in fondo della radicale “fatica di vivere”… e di morire!
Il nostro “unico” lavoro quotidiano è quello di continuamente leggere e rileggere lo stesso Vangelo e anche tutta la Bibbia in questa prospettiva, per comprendervi questa “struttura” in tutta la sua ampiezza e profondità (Ef 3,18)… E constateremo che la nostra storia, non è altro che la continuazione di quella.

Questo dramma sarà sempre presente nella storia tutte le volte che ci sarà un uomo sulla faccia della terra… fino all’ultimo respiro dell’ultimo uomo. Pertanto è illusorio ogni tentativo di voler eliminare questo conflitto: il “Dio tutto in tutti” (1Cor 9,22) è proprio del “tempo escatologico” cioè di quel “tempo senza tempo” proprio della fine di questo mondo e di questa storia che solo il Padre conosce (Mc 13,32).
E non solo è illusorio ma è anticristiano, in quanto è possibile solo con la soppressione della novità del messaggio evangelico di Cristo e di Mosè…

Ecco perché il Faraone, biblicamente parlando, non è affatto una figura marginale, in quanto ci aiuta a capire, sintetizzandolo in sé, non solo “da” cosa il Signore vuole liberarci ma anche, seppur negativamente, il “come” deve farlo.

Dio infatti, sebbene la sua azione liberatrice non possa non scatenare in coloro che non l’accolgono un’avversione violenta, non può “riprodurre”, nemmeno come reazione, le dinamiche proprie del Faraone, altrimenti non ci sarebbe vera liberazione, ma semplicemente un traslocare da un padrone a un altro Padrone, da una schiavitù ad una ben peggiore… E Dio non sarebbe più un Dio liberatore… Nasce così un itinerario educativo dell’umanità in cui Dio ci trasmette non solo la propria libertà ma ci aiuta a vivere una modalità nuova di libertà: quella specifica del Padre!

La figura storica del Faraone, presa anche nel suo significato simbolico, ci aiuta inoltre a comprendere perché la Buona Novella della liberazione incarnandosi nella storia, entra “necessariamente” in conflitto con quelle dinamiche schiavizzanti e antisalvifiche proprie di ogni “faraone”, (di ieri, di oggi e di domani, sia in noi che negli altri), che si oppongono all’azione liberante di Dio. Proprio come la luce con le tenebre (cfr Gv 1,5)! Lo ribadisco ancora, perché culturalmente non siamo abituati a rifletterci: L’eliminazione del conflitto esigerebbe la soppressione della luce, ma in questo caso ripiomberemmo nelle tenebre e finirebbe ogni speranza di salvezza-liberazione per l’umanità…

Dico “necessariamente” non in senso deterministico (indipendentemente cioè dalla volontà) ma per la logica profonda del cammino di liberazione: se “dove c’è lo Spirito c’è libertà” (2Cor 3,17), necessariamente cessa non solo ogni schiavitù, ma per così dire, anche ogni schiavista si trova disoccupato e ogni “faraone” si trova spodestato! (cfr i “potenti” nel Magnificat, ma anche la “caduta” di san Paolo in Atti 9,4; vedi anche quanto scrivo più sotto).


Se l’annuncio missionario-cristiano non può non farsi carico di questa liberazione per cui Dio ci fa Apostoli, non solo non può impedire il conflitto, ma “deve” provocarlo! (Gv 7,7). Altrimenti non c’è evangelizzazione in quanto non si libera realmente e ancor meno si salva, ma si dicono parole e si compiono azioni che come pula, il vento della storia non potrà che disperdere (cfr Salmo 1), perché finiscono per favorire proprio ciò che si doveva eliminare. Tradendo così il proprio mandato!

L’azione di Dio invece, proprio perché “violenta” la struttura mondana del potere (anche religioso) senza riprodurla, estende la propria Paterna salvezza anche sui potenti che “costretti” a tornare umili (cfr “aborto” in 1Cor 15,8 e Mc 10,25), imparano la “grandezza” nella “piccolezza” trasformando la cecità del potere istituzionale nella creatività del servizio carismatico (Atti 9,8; 13,11; Lc 22,26; Mc 10,42)… Anche ai faraoni infatti è annunciata la liberazione (Es 3,10; 5,1; Mt 2,1ss; Lc 21,12ss) purché imparino a servire e non a farsi servire (Lc 22,26!); a non ridurre in schiavitù ma a liberare (Is 45,1ss)… Dopotutto, in ciò sarebbero in buona compagnia in quanto questo è proprio il “movimento” stesso di Dio che, in Gesù Cristo, da potente che era, “umiliò se stesso” … cioè, da potente si fece “piccolo”, “povero in spirito” (Fil 2,6-8; Magnificat; Beatitudini)…
Perché anche la pace di Dio, è una pace altra rispetto a quella che vuole offrire la logica del mondo dei faraoni (cfr Gv 14,27: «vi do la mia pace… non come la dà il mondo»)…

Possiamo capire allora con luce nuova quelle strane frasi del Vangelo in cui Gesù sembrano inneggiare alla guerra (Mt 10,34-36: «Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a mettervi la pace, ma la spada. Perché io sono venuto a mettere disaccordo tra figlio e padre tra figlia e madre, tra nuora e suocera, e i nemici dell'uomo saranno quelli di casa sua»; Lc 12,51ss). Esse non hanno niente a vedere con una distinzione morale tra buoni e cattivi e ancor meno giustifica una blasfema “guerra santa”, ma sono una rivelazione delle dinamiche conflittuali che la reazione al suo annuncio mette in atto! Necessariamente! E questo conflitto evangelico è storicamente essenziale per alimentare in noi la speranza certa di un “mondo nuovo”! Non solo perché se c’è, vuol dire che la pasta sta lievitando (Lc 13,21), ma anche perché non si potrebbe essere altrimenti “felici nella persecuzione” senza alienarsi dalla storia! (cfr 1Pt 1,6-9; 3,14ss; 4,14; e anche la perfetta letizia francescana).

Come insegnano anche le Beatitudini (Mt 5,3ss; Lc 6,20) mostrando che la “logica” che presiede alla gioia evangelica (makàrioi in greco è molto più che il nostro “beati”) è determinata dalla presenza attuale (notare il tempo presente) in Gesù Cristo del Regno di Dio (Mc 1,15; Mt 12,28!) accolto solo dai semplici (Mt 5,3: i poveri in spirito: i non-faraoni), provoca i conflitti descritti dai versetti successivi (soprattutto 5,11)… Conflitti la cui soluzione è rimandata al piano di Dio (si noti il seguito con i verbi al futuro) ma che è già presente là dove il Regno è accolto: che “cieli” di 5,12 non sia l’aldilà ma la pienezza del Regno nel “cuore” di ognuno lo si evince dal confronto tra Mt 5,12 e 12,28! Anche per questo i verbi successivi al versetto 5,3 sono al futuro in quanto indicano progressione storica e non semplice rinvio nell’oltre della storia in un aldilà disincarnato.

Se capiamo questo capiremmo meglio anche “il Natale”, questo misto di luce e di notte, di gioia e di persecuzione, di piccolezza e grandezza, di ingenuità e malizia, dove la semplice presenza del Regno di Dio, sempre totalmente indifesa, ma non per questo non-conflittuale, scatena forze e dinamiche così ostili da sembrare sproporzionate (Mt 2,16; cfr anche l’azione non-violenta di Gandhi!)…
Altro che “dolce Natale”!… lo sarà per noi a cui è data la possibilità di vivere l’ebbrezza della libertà donata, ma per i nuovi Faraone-Erode e i nuovi Mosè-Gesù… lo scontro è appena cominciato… È nostro compito raccoglierne la sfida!

Il non farlo non sarebbe né “nobiltà d’animo”, né “carità”, né “buona educazione”; né “mitezza interiore”, né “vera lealtà e amicizia”, né “amore per la pace, la giustizia, il dialogo e la comunione”… Invece sarebbe “mascherata codardia”, “omertosa sottomissione”, “viscida adulazione”, “inconscio carrierismo”, vera “slealtà e inimicizia”, “subdola forma di disprezzo” complice di “guerre e ingiustizie”… Insomma “tradimento estremo di tutto il Vangelo” (1Cor 13,1-3)… In una parola nuovi-anticristi (1Gv 2,18; 2,22; 4,3; 2Gv 1,7).

giovedì 29 novembre 2007

IL SENSO DELLA STORIA È LA VITA

Le tre letture di questa prima domenica di Avvento ci introducono in modo deciso nel tema dell’attesa, della venuta del giorno del Signore, della fine (non tanto del tempo quanto) di un tempo. Per quanto riguarda il testo di Isaia mi rifaccio a quanto esposto dal prof. Rota Scalabrini don Patrizio durante il corso sull’escatologia profetica nell’A.a. 2006-2007:
“Il brano di Isaia presenta un meraviglioso poema sul compimento della storia, visto come pace universale, concessa da Dio agli uomini. Il profeta alza il suo sguardo per vedere un futuro lontano, verso il quale si muove tutto il cammino dell’uomo: la presenza di YHWH, del potere legittimo, del suo insegnamento, giudizio ed ammonimento, tutto tende verso l’instaurazione della pace, opposta a tutta la tensione e al caos che possono essere causati da una ragione religiosa (gli idoli), politica (la mancanza di autorità legittima), etica (la corruzione legale), economica (l’aumento indiscriminato delle ricchezze), psico-sociale (le pretese di un gruppo di potere).
«Alla fine dei giorni»: ciò che il nostro testo CEI traduce con fine significa fondamentalmente quello che viene dopo in senso assoluto o relativo. Se quel dopo non ha ulteriore determinazione può significare allora in futuro in senso ampio. Altre volte può riferirsi alla conclusione di un arco di tempo determinato ed in molti di questi casi noi potremmo tradurre con allora. «I giorni» non indica solo la durata di 24 ore o una qualità di tempo (giorni del dolore, della vita, della morte), ma anche tempo corrente nel presente. L’espressione «alla fine dei giorni» si può quindi intendere come «nel corso del tempo, ad un certo punto».
Dopo l’introduzione temporale segue la pericope con tre assi semantici fondamentali:
1) quello del movimento;
2) quello della pace universale;
3) quello della parola che attrae.
1) La prima direzione del movimento è ‘centripeta’: gli uomini convergono verso un centro, tornano ad essere uniti, la lontananza da Dio viene superata e dimenticata.
Il centro del movimento è il monte della casa del Signore; questo significa che la presenza del Signore nel suo popolo è il punto di attrazione per tutte le genti, che affluiscono , “fiumeggiano”, verso il centro. Il movimento primo della storia è quindi quello che Dio stesso imprime ad essa, è questa forza, che esce da Sion (il luogo della presenza di YHWH), a far camminare i popoli; più precisamente questa forza di attrazione è la volontà di Dio rivelata nella Legge, manifestata dalla sua parola, che mette in movimento i popoli: «Poiché da Sion uscirà la Legge, da Gerusalemme la parola del Signore».
Altro movimento della storia è quello ascensionale: la storia dell’uomo è un cammino guidato da Dio per elevare l’uomo, per nobilitarlo.
2) Per Isaia la salvezza di Sion non è da intendersi come una salvezza nazionalistica, ma è la distruzione del potere del male e della guerra ed è perciò anche salvezza delle nazioni. La proposta di Isaia trova dunque la sua sintesi nella promessa della pace, vista come ultima finalità della parola di Dio. E questo è da intendersi in tutta la gamma di significati che il termine assume e non solo nell’accezione che ha il termine pace riferito ai rapporti internazionali, che pure qui è il significato primario.
Il futuro che Dio sta preparando agli uomini, il mondo che egli ha messo in serbo per loro, è un mondo pacificato: governo giusto, pace internazionale, disarmo, armi da guerra che diventano attrezzi agricoli e simboleggiano assai bene un nuovo ordine e la pienezza di beni, che Dio vuole accordare loro. I popoli non impareranno più a fare la guerra, perché l’insegnamento umano è la guerra, l’insegnamento di Dio la pace. La pace tra i popoli è frutto della presenza della Parola e della Tôràh. Si tratta infatti non solo di smettere di fare guerra, ma di trasformare strumenti di guerra in attrezzi di lavoro. Tutto questo è frutto dell’avere ascoltato l’insegnamento di YHWH.
3) I popoli non salgono al monte per un sacrificio, bensì per essere istruiti da Dio con la Legge e con la Parola. Ciò che le genti troveranno sulla montagna è la Parola e la Tôràh, che vengono loro incontro e che li attirano. L’espressione è da intendersi come volontà di YHWH di manifestare il suo piano di salvezza”.
Il poema di Isaia allora non è una banale previsione del futuro, ma è una lettura teologica della storia: essa ha il suo senso, il suo polo attrattivo nella parola del Signore, intesa in senso forte, non come un insieme di precetti, ma come la volontà del Signore, il suo sguardo benevolo sull’umanità. Tant’è che il secondo movimento della storia è quello ascensionale, della nobilitazione dell’uomo, della sua piena umanizzazione! Essa ha come scenario la pace, la fattiva trasformazione di ciò che insegna la logica umana (la guerra, la morte) in Vita!
È la stessa dinamica che mette in campo Paolo parlando ai Romani: «Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce»!
Ma con l’avvento di Cristo tutto quanto Isaia prefigura è inevitabilmente ritradotto in termini cristici, per cui per Paolo, la scoperta che il senso della storia è la Vita e non la morte, coincide con il fatto che il senso della storia è Gesù. È lui la Vita annunciata dai profeti. È quella vita lì che ha vissuto lui, quel suo modo di stare nel mondo, di passare per le strade, di fermarsi di fronte alle facce degli uomini e delle donne, di amare teneramente e tenacemente, di morire affidando e affidandosi, di offrire il suo corpo e il suo sangue… è quel suo modo lì di essere uomo e di essere Dio la Vita per l’umanità tutta e in essa per ciascun uomo!
Ecco perché Paolo non può che dire: «Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo»! Rivestirsi, con-morire, conformarsi, partecipare… sono tutte categorie che l’Apostolo mette in campo per portare avanti quella che secondo lui è la verità della storia: è nell’intrecciare la propria libertà (il nostro esser-ci) con la sua che il nostro esistere diventa Vivere!
In questo senso il Vangelo (il cui linguaggio non deve ingannarci -appunto è un linguaggio- e farci pensare a chissà quale terribile selezione divina) vuole mostrare l’urgenza e la radicalità del porsi nella Vita (o meglio nel lasciarsi porre in essa). La questione, come sempre nel Vangelo, non è morale, non si tratta di un’etica da rispettare, di un codice deontologico da seguire: in gioco c’è tutto quello che siamo, l’opzione fondamentale della nostra vita, l’orizzonte di senso che ci orienta… è una scelta di campo! La questione è chi sono io? Chi sono alla luce del fatto che tutta la storia della salvezza, attraverso le sue Scritture, riecheggia la testimonianza che c’è la possibilità della Vita, di una vita buona, bella, piena… Chi sono io di fronte al fatto che questa è la buona notizia della storia? Nella consapevolezza che ciò che sono, ciò che scelgo di essere lo costruisco in tutta una vita… vivendola, giocandomi nella praxis.
Ecco che a questo punto, ma solo a questo punto, tolto (si spera…) il germe moralistico, hanno senso anche le indicazioni pratiche sul vivere: «camminiamo nella luce del Signore», «è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce», «comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie», «rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri», «vegliate», «state pronti».
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...

I più letti in assoluto

Relax con Bubble Shooter

Altri? qui

Countries

Flag Counter