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martedì 13 maggio 2014

V Domenica di Pasqua


Dagli Atti degli Apostoli (At 6,1-7)

In quei giorni, aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca mormorarono contro quelli di lingua ebraica perché, nell’assistenza quotidiana, venivano trascurate le loro vedove. Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola». Piacque questa proposta a tutto il gruppo e scelsero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola, un prosèlito di Antiòchia. Li presentarono agli apostoli e, dopo aver pregato, imposero loro le mani. E la parola di Dio si diffondeva e il numero dei discepoli a Gerusalemme si moltiplicava grandemente; anche una grande moltitudine di sacerdoti aderiva alla fede.

 

Dalla prima lettera di san Pietro apostolo (1Pt 2,4-9)

Carissimi, avvicinandovi al Signore, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo. Si legge infatti nella Scrittura: «Ecco, io pongo in Sion una pietra d’angolo, scelta, preziosa, e chi crede in essa non resterà deluso». Onore dunque a voi che credete; ma per quelli che non credono la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata pietra d’angolo e sasso d’inciampo, pietra di scandalo. Essi v’inciampano perché non obbediscono alla Parola. A questo erano destinati. Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 14,1-12)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto». Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse. In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre».

 

Il vangelo che la Chiesa ci propone in questa V Domenica del Tempo di Pasqua, è – in un certo senso – l’ultima parola forte sul senso della Risurrezione che ci accompagna in queste settimane. Da settimana prossima (VI del Tempo di Pasqua) infatti inizieremo a sentir parlare dello Spirito santo, seguiranno la domenica dell’Ascensione e quella di Pentecoste, per reinserirci poi nel tempo ordinario.

Ma la parola dell’odierno vangelo di Giovanni non è “ultima” solo in senso cronologico-liturgico, ma lo è anche nel senso di “definitiva”: Gesù infatti – in questi versetti collocati dall’evangelista durante l’ultima cena – sta spiegando in cosa consiste la salvezza che ha operato nella sua vita, passione, morte e risurrezione: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore». È la dichiarazione più esplicita che il destino di Gesù non è solo suo: ma per tutti.

Il suo “vincere la morte” ha abilitato ciascuno alla nuova vita in Dio, che sgorga in noi già nella nostra vita terrena e che attraversa la “porta” della morte fisica, una “porta” che sull’altra faccia è Gesù (in proposito mi venivano in mente quelle porte che si aprono sia in un senso che nell’altro, non so bene che nome tecnico abbiano, ma insomma, quelle che non si possono aprire o solo verso l’interno o solo verso l’esterno, ma indistintamente).

Ecco perché “non deve essere turbato il nostro cuore”, perché nella storia di Gesù è iscritta questa promessa di vita.

Non mi piace chiamarla “vita eterna”, non perché sia scorretto, ma perché mi pare che – per come è stata intesa – rischi oggi di non farci capire in profondità quanto promette Gesù.

“Vita eterna” infatti da un lato ha portato a una dicotomia tra aldiqua/aldilà che ha scritto nella storia cristiana la logica distorta del “doversi meritare il paradiso”, come se la vita nuova promessa da Gesù non fosse già qui nella nostra vita terrena. E d’altro lato perché “vita eterna” ha fatto pensare a quello scorrere infinito di tempo che ha fatto temere addirittura a qualcuno di potersi poi annoiare…

Mi piace chiamarla piuttosto “vita nuova”, anche se non è espressione neotestamentaria come l’altra, ma sottolinea la discontinuità (vita nuova) ma non la cesura (è sempre vita, sono sempre io, è sempre Gesù) e lascia trasparire insieme la sua indisponibilità (è nuovadunque non analizzabile, ha il suo margine di riservatezza, di inconoscibilità, non si può speculare riguardo ad essa, addentrandosi in fantasiose ipotesi su “come è/sarà”) e la sua rassicurazione (è promessa di vita, non di morte, non fa dunque paura; ha in sé i caratteri del nascondimento di una sorpresa, non quelli di un agguato).

Dunque il testo odierno, il testo finale che la liturgia ci fa ascoltare sulla risurrezione, è il testo della promessa della vita nuova per noi, per ciascuno.

Molto spesso noi prescindiamo da questa promessa nell’impostazione della nostra vita e nel suo dispiegarsi. È un problema che non vogliamo mettere a tema, mettere a fuoco. La nostra mentre rifugge questo soffermarsi sulla morte e sul senso che essa assume alla luce della storia di Gesù, accontentandoci di conclusioni parziali quali: “cerchiamo di vivere bene questa vita, poi si vedrà… se c’è qualcosa, tanto meglio; se non c’è, pace…”.

Eppure questo rifuggire, senza che ce ne accorgiamo, è già un modo di porsi di fronte alla questione: è uno scegliere di nasconderla in fondo alla cantina, pensando che così – non vedendola – in qualche modo sparisca. In realtà essa continua a lavorare, come quei rifiuti tossici sotterrati dalla mafia nella terra dei fuochi che poi a lungo andare rilasciano la loro tossicità e vanno ad avvelenare tutto il territorio. Così è per la questione della morte, della vita nuova, delle promesse “incredibili” di Gesù.

Se non ci mettiamo a pensarci su, a farci attraversare dal dramma del morire, del nostro personale dover morire, se non ci mettiamo a discutere con Gesù e le sue promesse, urlandogli magari contro la nostra poca fede e le nostre angosciose paure, queste ultime nella loro tossicità, a lungo andare contamineranno tutto il terreno del nostro cuore portandoci ad essere, magari mascheratissimi anche a noi stessi, dei coacervi di atavica paura di morire che – per definizione – causa assassini: perché la paura di morire rende capaci di ammazzare (fisicamente e non) chiunque.

martedì 5 novembre 2013

XXXII Domenica del Tempo Ordinario


Dal secondo libro dei Maccabei (2Mac 7,1-14)

In quei giorni, ci fu il caso di sette fratelli che, presi insieme alla loro madre, furono costretti dal re a forza di flagelli e nerbate a cibarsi di carni suine proibite. Uno di loro, facendosi interprete di tutti, disse: «Che cosa cerchi o vuoi sapere da noi? Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le leggi dei padri». Allora il re irritato comandò di mettere al fuoco teglie e caldaie. Appena queste divennero roventi, il re comandò di tagliare la lingua a quello che si era fatto loro portavoce, di scorticarlo e tagliargli le estremità, sotto gli occhi degli altri fratelli e della madre. Dopo averlo mutilato di tutte le membra, comandò di accostarlo al fuoco e di arrostirlo quando ancora respirava. Mentre il fumo si spandeva largamente tutto intorno alla teglia, gli altri si esortavano a vicenda con la loro madre a morire da forti, dicendo: «Il Signore Dio ci vede dall’alto e certamente avrà pietà di noi, come dichiarò Mosè nel canto che protesta apertamente: “E dei suoi servi avrà compassione”». Venuto meno il primo, allo stesso modo esponevano allo scherno il secondo e, strappatagli la pelle del capo con i capelli, gli domandavano: «Sei disposto a mangiare, prima che il tuo corpo venga straziato in ogni suo membro?». Egli, rispondendo nella lingua dei padri, protestava: «No». Perciò anch’egli subì gli stessi tormenti del primo. Giunto all’ultimo respiro, disse: «Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna». Dopo costui fu torturato il terzo, che alla loro richiesta mise fuori prontamente la lingua e stese con coraggio le mani, dicendo dignitosamente: «Dal Cielo ho queste membra e, per le sue leggi, le disprezzo, perché da lui spero di riaverle di nuovo». Lo stesso re e i suoi dignitari rimasero colpiti dalla fierezza di questo giovane, che non teneva in nessun conto le torture. Fatto morire anche questo, si misero a straziare il quarto con gli stessi tormenti. Ridotto in fin di vita, egli diceva: «E` preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te non ci sarà davvero risurrezione per la vita”.

 

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi (2Ts 2,16-3,5)

Fratelli, lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene. Per il resto, fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore corra e sia glorificata come lo è anche tra voi e veniamo liberati dagli uomini corrotti e malvagi. La fede infatti non è di tutti. Ma il Signore è fedele; egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno. Riguardo a voi, abbiamo questa fiducia nel Signore: che quanto noi vi ordiniamo già lo facciate e continuerete a farlo. Il Signore guidi i vostri cuori all’amore di Dio e alla pazienza di Cristo.

 

Da vangelo secondo Luca (Lc 20,27-38)

In quel tempo, gli si avvicinarono alcuni sadducei – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

 

I testi che la liturgia di questa Trentaduesima Domenica del Tempo Ordinario ci propone, hanno come tematica centrale quella della risurrezione dei morti, pilastro della fede cristiana, ma anche questione tra le più assenti dalla sensibilità quotidiana del nostro vivere.

In parte forse per una motivazione che potremmo chiamare sociologica, per la quale l’uomo moderno e postmoderno si ritrova disilluso di fronte alla speranza di una vita che continua dopo la morte fisica (siamo tutti figli del razionalismo – che crede solo in ciò che è dimostrabile, misurabile, verificabile – della filosofia del sospetto – che lucidamente ha messo in discussione la religiosità illusoria della cristianità – delle grandi tragedie del Novecento – che hanno proposto con forza la domanda “Dov’è finito Dio?”…), in parte forse per una motivazione personale, nata ai piedi delle bare delle persone più care che lungo gli anni perdiamo per strada, senza che tornino, che si facciano sentire presenti, come se davvero fossero finite nel nulla…

Fatto sta che di fronte al dramma della morte, spesso la reazione più intima è proprio quella dell’incredulità nella risurrezione… Ci facciamo tanti discorsi, proviamo a convincerci – ciascuno nel dialogo profondo tra sé e sé –, ma in ultima analisi ci risulta in-credibile che la morte non sia la fine di tutto, ci risulta una pia illusione la speranza nella risurrezione della carne o perlomeno nell’immortalità dell’anima e ci ritroviamo a ripetere con santa Teresa di Gesù Bambino che sembra che «le tenebre assumendo la voce dei peccatori dicano, facendosi beffe di noi: “Tu sogni la luce... credi di uscire un giorno dalle brume che ti circondano. Vai avanti! Vai avanti! Rallegrati della morte, che ti darà non già ciò che tu speri, ma una notte più profonda, la notte del niente”» (C 278)…

Questa situazione – che i più piccoli tra noi ormai leggono come un’evidenza – non è scevra di conseguenze sul piano della vita nell’aldiqua. Sempre più infatti avvertiamo intorno a noi il bisogno di allungare la vita il più possibile, col grande sviluppo – che è sotto gli occhi di tutti – di una cultura “salutista”, “igienista”, “paurosa” verso tutto ciò che può arrecare danno alla salute, divenuto il primo dei beni da salvaguardare in vita… Un bisogno che vede nella malattia non più un normale aspetto della vita umana, ma ciò che radicalmente la dis-umanizza e dunque va aborrito, evitato, eliminato… Non a caso mentre per i nostri vecchi “ci si ammalava per morire”, oggi “si muore perché ci si ammala”… che non è un gioco di parole, ma quasi la traduzione del fatto che, essendo la malattia o l’invecchiamento (è la stessa cosa) la causa prima di morte, si vive pensando che eliminando o ritardando il più possibile (tendenzialmente all’infinito) questi aspetti della vita, appunto, si possa non morire…

Finendo così per elaborare una cultura che, illudendo le persone su una speranza di vita sempre più lunga, sostanzialmente censura la morte dagli argomenti di discussione quotidiani: ne sono esempio il fatto che sempre più nascondiamo ai bambini questa realtà (non gli facciamo vedere i morti), trovandoci – quando più bambini non siamo e di fronte alla morte inevitabilmente ci ritroviamo – assolutamente spiazzati, inebetiti, inconsolabili… Che è la medesima logica che sottosta agli strumenti mediatici (come i TG o i film), che – certo – propongono continuamente davanti ai nostri occhi scene di morte, ma così rapide e istantanee, che impediscono una vera riflessione in proposito, soprattutto l’acquisizione heideggeriana per cui il problema vero della vita non è che “si deve morire”, ma che “io devo morire”…

Con questi pochi accenni, anche se un po’ velocemente, la situazione odierna pare però ben tratteggiata nelle sue linee fondamentali: la caduta dell’“illusione” della vita dopo la morte; la concentrazione conseguente sulla vita nell’aldiqua, che – dunque – deve essere il più lunga possibile; la censura della questione del morire…

È su questo tessuto sociologico-personale che irrompe il messaggio evangelico («I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui») e il racconto – un po’ leggendario, ma di certo emblematico – dei sette fratelli Maccabei («E` preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati»). Annuncio, anch’esso non scevro di conseguenze per la vita (dell’aldiqua)… basti pensare all’esperienza stessa di Gesù e alla sua consegna alla vita e (poi) alla morte… possibile solo perché alimentata dalla fede che quella consegna – in ultima analisi – era la consegna al Padre, che tutto tiene e custodisce, e dalle cui mani nulla va perso per sempre…

Come sempre, allora, di fronte a questo tipo di problematiche per l’uomo si pone la questione “da che parte stare”, “per quale posizione decidere”, “a cosa credere”… sapendo che la scelta di astenersi – percorsa oggi da troppe persone perché la Chiesa non si faccia carico del problema – è già una scelta…

La cosa interessante è che – a differenza di quel che si pensa di solito, e cioè che da una parte stanno quelli dis-illusi (nel senso di realistici, legati alla mentalità razionalistica, quantificabile, dimostrabile), mentre dall’altra gli illusi (i creduloni, i bigotti) – né l’uno né l’altro versante ha in mano la dimostrazione per la sua posizione: non si può dimostrare che Dio esista e che ci aprirà la vita eterna, certo; ma non si può dimostrare nemmeno il contrario… Per entrambe le posizioni si tratta di “credere in” qualcosa, cioè – ultimamente – di una fede…

La fede dei Sadducei (di ieri e di oggi) ha come base l’osservazione (smagata, dicono loro) della realtà, per cui tutta una serie di elementi testimoniano che la vita finisce nella tomba.

La fede dei cristiani invece si fonda sulla Parola di Dio – anche se è interessante che, soprattutto sul versante cattolico, ancora oggi siamo di fronte ad un’ignoranza abissale da questo punto di vista (sarà anche per questo che non sappiamo più rendere ragione della nostra fede? Tanto che i nostri ragazzi – pur battezzati e cresimati e tutto il resto – accettano senza sobbalzare che “tanto dopo la morte non c’è niente”, come dicono di solito?).

La fede dei cristiani si fonda sulla Parola di Dio, che come ha insegnato il Concilio Vaticano II e in particolare la Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione (Dei Verbum), è, sì, materialmente contenuta nel testo biblico, ma è eminentemente rintracciabile nella vita di Gesù, cioè nel modo in cui lui – vivendo – ha impegnato la sua libertà, ha deciso di sé, ha deciso chi essere…

Ecco perché la credibilità dell’annuncio della risurrezione della carne è da “misurare” sulla credibilità della persona di Gesù… come a dire che è sulla base di quanto riteniamo affidabile (degno di fede) Gesù, che dobbiamo dar credito al suo vangelo, cioè alla buona notizia che non solo Dio c’è, ma è un Padre che vuole la salvezza (cioè la Vita piena) per ciascun uomo… una Vita piena che non ha fine.

Il problema è quindi a questo livello… Quanto valgono, di fronte alle ragioni che porta il sadduceo che c’è in me (o la sua versione post-moderna) e che mi suscita così tanta angoscia, le ragioni di credibilità di Gesù di Nazareth, della sua vita, del suo vangelo?

E se ritengo Gesù credibile, come la fiducia in una vita che non finisce nella tomba riscrive la mia vita nell’aldiqua?

Per tanti secoli, una certa predicazione ha portato avanti l’idea che se esiste la vita eterna, allora tutto l’aldiqua si gioca nel “guadagnarsi” il paradiso, accumulando meriti presso Dio…

Ma – tornando nuovamente all’annuncio di Gesù – la prospettiva evangelica sembra essere altra: Gesù non insiste mai sulla necessità dell’uomo di meritarsi qualcosa da Dio. Piuttosto la sua insistenza è perché l’uomo accolga il messaggio di un Dio-Padre che porta la salvezza, non che chiede di guadagnarsela.

E non chiede che l’uomo l’accolga, per dire che – conseguentemente – chi non la accoglie non si merita il paradiso, ma perché chi la accoglie ha già la possibilità nell’aldiqua di vivere una vita da salvato: una vita cioè che l’uomo non ha bisogno di redimere, ma che ha solo la preoccupazione di vivere; senza quella competizione con l’altro che ogni meta (foss’anche quella della salvezza eterna) ingenera tra fratelli/concorrenti, ma quella di chi – proprio perché la sua vita è già salvata da un Altro – può dedicarsi alla costruzione del mondo come Dio lo vuole, un mondo in cui ciascuno trovi la sua pienezza umana. Solo per questo motivo il cristiano è disposto a privarsene personalmente (addirittura a perdere la sua vita), come Gesù: che proprio per testimoniare l’amore di Dio per tutti, ha accettato di morire. Nient’altro può giustificare una morti-ficazione della propria vita o l’insegnamento della morti-ficazione della vita altrui.

domenica 22 aprile 2012

I segni della vergogna

Graffito di Alessameno

Più leggo e rileggo questi racconti apostolici della resurrezione di Gesù, e più mi convinco che noi troppo presto saltiamo alla verità della resurrezione senza soffermarci adeguatamente sulla paura dei discepoli. Eppure tutti gli evangelisti sono concordi nel testimoniare questa paura dei discepoli.
Vorrà pur dire qualcosa. Perché la saltiamo? Abbiamo paura delle nostre paure?
Abbiamo già visto come le “ragioni” che i diversi racconti danno dà di questa paura non reggono a uno sguardo attento.
Già altre volte gli apostoli hanno assistito alla “resurrezione” dai morti (Lazzaro, la fanciulla morta)… certo non si può parlare propriamente di resurrezione in quanto poi sono (ri)morti.
Ma insomma se un amico che credevo morto poi lo scopro ancora vivo e vegeto… più che la paura mi invaderebbe la gioia.
Abbiamo provato a trovare alcune spiegazioni di questa paura:
L’insistenza nel masso che copriva il sepolcro ci ha fatto riflettere su quale sconvolgimento profondo nella visione religiosa del mondo dei morti questo comportava: la scoperta che il mondo dei morti non esiste perché scoperto vuoto! Il superamento della divisione dell’aldiquà e dell’aldilà con una visione nuova: essere in Dio, o non essere in Dio! Così che in realtà le cose stanno in ben altri termini: è morto anche se vivo chi non è in Dio, è vivo anche se morto chi è in Dio!

Anche il mostrarsi di Gesù a partire dalle mani e dei piedi ci insegna qualcosa. Una persona non la si riconosce che dal volto, dalla corporatura… le mani di un crocifisso assomigliano a quelle di un qualunque crocifisso: perché non poteva essere scambiato per uno dei ladroni? Forse i discepoli che lo avevano tradito, temevano una vendetta? Anche per questo che Gesù mostra le ferite: per mostrare in quelle mani ferite e disarmate la totale assenza del rancore nel dono della pace del perdono totale …
Notavamo però che è anche vero che forse noi siamo le nostre ferite. Accolte senza rancore. Mostrate in perdono. Normalmente noi le nascondiamo, perché ce ne vergogniamo. E viviamo nel rancore di chi ce le ha inflitte. Gesù invece per sempre se ne vanterà, per sempre sarà riconosciuto come “Il Crocifisso”, per queste è venuto. Anche i discepoli col tempo impareranno a vantarsene (Atti 5,41; 2Cor 11,30; 1Cor 1,23). Forse sbagliamo a passare il tempo a rimarginare le nostre ferite. Forse anche le nostre, saranno per l’eternità i segni della nostra identità (cfr 2Cor 11,25-28). Tutto sta allora, sebbene inflitteci dagli altri (o dalla nostra immaturità), di accoglierle come nostre. Come il nostro modo di fare giustizia rompendo la catena del disprezzo. Allora sebbene non rimarginate, non ci abbrutiranno più, ma saranno occasione di un di più di umanizzazione diventando ciò che ci abbelliscono. Per noi e per gli altri.

Ora però in questo racconto di Luca che la liturgia ci propone, i discepoli lo scambiano addirittura per un fantasma… Ma non c’erano anche i discepoli di Emmaus che lo avevano riconosciuto allo spezzare del pane?…
Poco credibile anche questa esposizione di Luca… È evidente che tutto il suo racconto ha come scopo principale di far capire ai pagani greci convertiti al cristianesimo che credevano ai fantasmi, che la resurrezione di Gesù non aveva niente a che vedere con le visite degli ectoplasma come la credenza popolare anche italiana immagina: i morti non hanno messaggi “divini” da darci diversi da quelli che già sappiamo (cfr Il racconto del ricco e del povero Lazzaro in Lc 16,19-31). Infatti mangia e beve: i fantasmi non mangiano e bevono! È una argomentazione rischiosa quella che Luca utilizza: perché non fa cogliere la differenza che pure c’è sebbene nella continuità della stessa persona, tra il corpo risorto di Cristo e il corpo di Gesù di Nazareth! Evidentemente a lui premeva semmai sottolineare l’identità… Più prudentemente san Paolo usa la metafora del seme (1Cor 15,13): perché come è il nostro ferito corpo alla sua completa risurrezione non ci è dato sapere, certamente però non può essere più soggetto alla logica “corruttibile” della chimica e della fisica, della fame e della sete…
Vorrei però ancora una volta soffermarmi sul fatto della “paura” dei discepoli testimoniata da Luca (tra l’altro anche qui come abbiamo visto in Giovanni, sebbene divisi in tre gruppi – discepoli di Emmaus, gli Undici, e gli altri – tutto il discorso si riferisce alla totalità della comunità credente e non solo agli Undici).
Credo infatti che per noi uomini dell’oggi, non abbiamo considerato a sufficienza il dramma e la vergogna dei discepoli davanti non tanto alla morte di Gesù, ma a quel tipo di morte!
Infatti non basta dire che Gesù è morto per i nostri peccati, perché Gesù non è semplicemente stato torturato e ucciso.
Spesso nelle nostre meditazioni sulla Passione ci soffermiamo sull’ingiustizia subita da Gesù e sulla sua sofferenza. Questo è certamente vero, buono e giusto… Forse però sarebbe più proficuo soffermarci di più sul tipo di morte che Gesù ha accettato di subire. Anche perché si potrebbe obiettare che un ragionamento del genere rischia di pensare che quel tipo di morte sarebbe stato giusto se Gesù fosse stato colpevole. Come rischia ancora una volta di far comprendere Lc 23,41: in realtà l’ingiustizia di una tale morte non la subisce solo Gesù ma anche i cosiddetti ladroni. Di ieri e di sempre.

Infatti il problema per i romani, per i giudei, per i greci e per i… giapponesi e per noi non è tanto morire, ma morire dignitosamente! Ci sono molti casi nella storia in cui un giusto si dà la morte pur di non sottomettersi ai voleri di un tiranno. I monaci buddisti pur di salvaguardare la loro dignità non esitano a darsi pubblicamente fuoco! Sono immolazioni a cui va tutto il nostro deferente rispetto, solidarietà e orante silenzio.
Ma per Gesù siamo davanti a un altro tipo di morte: Gesù non fa harakiri! Non beve la cicuta come Socrate, o come qualche nobile senatore romano, non muore martire come i Maccabei… Gesù muore peggio di un lapidato: neanche per mano giudea, ma per mano pagana, crocifisso!

La sua morte in croce, è la più disumana morte possibile per quell’epoca. E per quel che rappresentava, di ogni epoca! Non è un caso che una delle prime testimonianze del simbolo della croce in ambito cristiano sia proprio un graffito blasfemo: indica veramente il senso di profonda ripulsa per quel tipo di morte, persino considerato indegno dagli schivi (cfr immagine).
Noi oggi non abbiamo la minima possibilità di capire il ribrezzo e il dramma davanti a quella morte. Noi ci soffermiamo sull’atrocità delle sofferenze inflitte. Ma a quei tempi quella morte era la morte di un non-uomo, la morte di un “maledetto da Dio”. Era la punizione estrema riservata agli schiavi. Nessun uomo libero – gli unici considerati “uomini” – poteva essere crocifisso. Nemmeno gli animali venivano crocifissi. Sgozzati, ma non crocifissi!

«Reietto!» Lo pronunciamo e ne conosciamo il significato, ma in realtà non riusciamo a capire la profondità del disprezzo che questa parola esprime in un crocifisso. Gesù è morto veramente della morte tipica di un uomo “dannato”, ripudiato da Dio e dagli uomini!
Se così è, come è, perché questo rappresentava la croce, dobbiamo ora porci la domanda che certamente i primi discepoli si sono posti: “Come è possibile che ora Dio lo risusciti?”.
C’è da diventar pazzi… altro che fantasma!
La resurrezione di Gesù da parte di Dio, fa saltare tutti gli schemi di giusto/ingiusto, benedetto/maledetto, del puro/impuro, valore/disvalore…
Che Dio è un Dio che resuscita un maledetto, un dannato, un reietto? Ma Gesù non è stato condannato secondo la Legge, secondo i precetti del Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe e Mosè?… Risuscitandolo Dio rimette tutto in discussione: fin dalle fondamenta.

I segni della croce che Gesù mostra sono i segni della maledizione storica non solo degli uomini ma anche di Dio! E ora Vive?!
Vive perché era giusto noi subito diciamo, perché era innocente…
Non ne sono così sicuro! In ogni caso questo esige una riflessione ulteriore se vogliamo prendere seriamente la Croce! La nostra risposta (apparentemente identica a quella degli apostoli che erano semmai interessati a mostrare la “continuità” di Gesù col Dio di Israele) censura il fatto che Gesù nel suo morire così è veramente morto “assumendosi i peccati di tutta l’umanità! È veramente morto da “dannato” Gesù. Anche per Dio Padre, il cui silenzio deve farci pensare…
Gesù è in quella morte, identificato a ogni peccatore, a ogni possibili inimmaginabile peccato. Gesù non è morto da giusto è morto da ingiusto, assumendosi colpe da lui mai commesse. Questa è la sua giustizia! E quella di Dio.

Noi tendiamo a separare troppo Gesù in croce, dalle dannazioni quotidiane in cui il nostro e altrui peccato ci inchioda!
Ebbene il problema che fa saltare i nostri schemi di giustizia è che proprio questo “mostro di peccato” che è Gesù in croce, riceve nella risurrezione il perdono del Padre.
Ecco perché è così importante il mostrare “i segni della vergogna”: mani e piedi crocifissi!
Ed ecco perché nell’assoluzione che Dio dà al Cristo risuscitandolo (H. U. von Balthasar) c’è l’assoluzione di ogni peccatore e la liberazione da ogni dannazione umana o presunta divina! La cancellazione definitiva di ogni possibile debito. Producendo nel cuore di ognuno la Pace del perdono pasquale!

Tutte e tre le letture hanno proprio questo punto centrale: l’uomo non può più utilizzare la maledizione di Dio come scusante della propria e altrui inanità. L’uomo ora è un uomo libero da ogni possibile senso di colpa; schiodato da ogni permanente rimorso; assolto da ogni immaginabile pena…

Ecco perché è così importante – ce lo mostrano sempre i testi – ricominciare a rileggere proprio a partire da questa “assoluzione generale” che è la risurrezione di Cristo, la propria storia anche di peccato attraverso questo definitivo abbraccio del Padre: per riscoprirla sacra!

Come gli apostoli, sentono l’esigenza di rileggersi a partire dalla storia di Cristo, tutta la propria storia fin dalle origini, così ogni uomo e donna deve imparare a specchiare la propria storia in quella che il Padre ha realizzato in Cristo come compimento di quella del popolo ebraico.
Perché la Pasqua diventi anche “nostra pasqua” c’è bisogno di rielaborare il racconto della propria storia personale, familiare e comunitaria, ad imitazione quel processo narrativo che gli apostoli fanno sulla loro storia: Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture.

Lasciamoci aprire la mente perché attraverso la comprensione della storia scritta da Dio col popolo di Israele fino a Gesù, noi possiamo cominciare a comprendere la storia scritta da Dio insieme a noi in Gesù.

lunedì 16 aprile 2012

Il dito in ciò che fa paura. Ovverossia quando la Croce si fa Pace.


Ecco un Vangelo (Gv 20,19-31) che i secolari strati di precomprensione ideologica ci hanno impedito di gustare in tutta la sua freschezza originaria. Erasmo da Rotterdam ha scritto l’“Elogio della follia” forse sarebbe bene che qualcuno pensi a scrivere l’“Elogio della polemica”. Davanti al testo biblico, la lettura “passiva” ci impedisce di coglierne il significato autentico. Col testo biblico bisogna litigarci, contestandone spesso le affermazioni, rifiutando un lettura secondo i luoghi comuni. E spesso non credere al significato immediato che cogliamo alla prima lettura. In una parola “polemizzare”. Chi non polemizza vuol dire che non ha cervello da usare, idee da mostrare, verità da comunicare, vita da donare…

Per questo pretendiamo di chinarci sul testo… torturandolo!
E così leggiamo proprio all’inizio qualcosa che non quadra: “…mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei…”. Immediatamente pensiamo che i giudei dessero la caccia agli apostoli… e gli apostoli per paura si fossero barricati in casa! Sbagliato!

Intanto notare il lapsus: ho scritto apostoli… quando il testo invece usa un termine discepoli, che indica una platea più ampia dei Dodici, oramai Undici! Tutto il doppio racconto quindi non parla del gruppo ristretto degli apostoli ma di tutta la comunità credente. E infatti non solo agli apostoli ma a tutta la comunità credente si rivolgerà nel prosieguo Gesù stesso! Ci ritorneremo.
Poi la storia dei giudei che cercano i discepoli non è credibile! Da quando in qua i giudei davano la caccia ai discepoli di Gesù? In tutti i vangeli non ce traccia alcuna. E cominciano ora che hanno – mi si perdoni l’espressione –tagliato la testa al gruppo? Suvvia! A loro interessava solo Gesù. La paura degli apostoli quindi era infondata. Immaginaria. Sostanzialmente irrazionale, quindi stupida! Ma quel che è scritto è scritto e il testo non si può cancellare a nostro piacimento. Allora la domanda si approfondisce: quale senso dare all’affermazione dell’evangelista? Non certo quello immediato perché privo di logica. Certo la paura spesso è irrazionale… ma se l’annotazione ci volesse dare un indizio di ciò che la comunità dei discepoli e discepole stava vivendo? La risposta che dobbiamo cercare deve anche accordarsi col resto del racconto, che segue e che precede… Vediamo.

Un discepolo, e che discepolo, uno dei Dodici, aveva consegnato Gesù. Gli altri lo avevano abbandonato (tranne le donne!)… spergiurato di non conoscerlo… Immagino allora questi discepoli che si accusano l’un l’altro di avere tradito il Maestro. Di essere in fin dei conti la causa della sua morte. E che morte, da schiavo! Immagino il loro sguardo impaurito nel guardarsi reciprocamente: tra di loro c’era un nemico e non lo sapevano! E forse altri come Giuda potevano trovarsi in mezzo a loro? Una domanda sola li attanagliava: tra i discepoli c’erano degli “infiltrati”? Ecco di quali “giudei” avevano paura, non di quelli fuori, ma di quelli dentro al gruppo. Ancor più stupido allora era chiudersi dentro… ma si sa la paura è cattiva consigliera! E se anche non avevano paura degli altri discepoli, c’erano sufficienti ragioni per non fidarsi nemmeno più di se stessi: se la paura aveva addirittura spinto Pietro a tradire il Signore… cosa non avrebbe fatto contro gli altri discepoli? Come lo stesso Pietro, poteva fidarsi di Pietro? Aveva giurato fedeltà e si era ritrovato a spergiurare tradimento!
Questa paura era così forte che il “vedere e credere” di Giovanni e Pietro al mattino non era stato sufficiente a sciogliere quella morsa che li attanagliava alla bocca dello stomaco. La testimonianza di Maria Maddalena non era stata di maggior aiuto a sciogliere il cuore. E in questo stato arrivano a sera. Come sempre in Giovanni, il buio di fuori, mostrava un buio ancor più fitto dei cuori. Il buio ancestrale (cfr Gn 1,2) della paura.
E mentre sono riuniti, uniti come potrebbero esserlo due che si accapigliano, “venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!»”. Gesù arriva, sta, in mezzo, e dice. L’evangelista non dice “appare”, perché è un arrivare, un stare, un stare in mezzo e un dire, che appartiene all’ordine della fede. Mai in tutto il vangelo (e nella bibbia) c’è qualcosa che esula dalla fede. Lo stesso Gesù vive nella fede il suo rapporto col Padre. Non diversamente i suoi discepoli di ieri e di oggi. Anche la resurrezione non sfugge alla stessa logica. Se vedono, “vedono” solo nella fede. Quella dei discepoli è e sarà sempre una esperienza di fede, non tangibile e dimostrabile. Gesù è presente in mezzo ai suoi… la morte non lo ha separato da loro. Per questo “sta”. E non a fianco, ma “in mezzo” come ponte che li unisce dentro ogni conflitto, divergenza, sospetto… E dice, cioè dona facendola, l’unica cosa che quel gruppo (ogni gruppo) ha veramente bisogno: la Pace! Il dissolvimento di ogni paura non basta, perché sotto forme diverse ritornerebbe. Occorre di più, occorre la Pace (cfr Gn 1,3). E come fa a donarla? Mostra i segni che i discepoli – indirettamente, ma non meno responsabilmente – gli hanno inflitto! Forse temevano che Gesù tornasse per vendicarsi? Se anche l’avessero pensato, con questo gesto Gesù dissolve ogni dubbio. E ogni paura. E finalmente i discepoli gioiscono nella pace.

Curioso questo presentarsi di Gesù. Ma forse è vero, che noi siamo le nostre ferite. Accolte senza rancore. Mostrate in perdono. Normalmente noi le nascondiamo, perché ce ne vergogniamo. E viviamo nel rancore di chi ce le ha inflitte. Gesù invece per sempre se ne vanterà, per sempre sarà riconosciuto come “Il Crocifisso”, per queste è venuto. Anche i discepoli col tempo impareranno a vantarsene (Atti 5,41; 2Cor 11,30; 1Cor 1,23). Forse sbagliamo a passare il tempo a rimarginare le nostre ferite. Forse anche le nostre, saranno per l’eternità i segni della nostra identità (cfr 2Cor 11,25-28; ). Tutto sta allora, sebbene inflitteci dagli altri (o dalla nostra immaturità), di accoglierle come nostre. Come il nostro modo di fare giustizia rompendo la catena del disprezzo. Allora sebbene non rimarginate, non ci abbrutiranno più, ma saranno occasione di un di più di umanizzazione diventando ciò che ci abbelliscono. Per noi e per gli altri.

E allora Gesù può dare di nuovo la Pace: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Se accogliere le ferite (le Sue e le nostre), sono il primo passo della pace, il secondo è “spalancare le porte” che avevamo sbarrato! Già altre volte i discepoli erano stati inviati in missione (cfr Mt 10,15; Lc 9.1ss; 10,1ss). Non è qui che il Signore “dà il mandato” anche se così appare nella struttura del vangelo di Giovanni. Semmai ora c’è bisogno di ribadirlo (come in Mt 28,19s; cfr anche Mc 16,20 e Lc 24,47), perché la paura glielo aveva fatto dimenticare. Non sono stati chiamati a seguire Gesù per stare al chiuso. Il mondo ha bisogno di pace. E non è lasciandoci vincere dalle sue paure che potremo donarla. Dei discepoli che hanno paura del “mondo”, sono già stati vinti dal “mondo”. La paura non appartiene al cristiano, appartiene a coloro che sono sotto il potere di satana (Eb 2,15 )! Ecco chi è satana, è la paura che ci abita. Ma c’è chi ha vinto satana: “Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo»”. Lo Spirito del Risorto è Colui che ha vinto ogni paura. Anche di Dio! perché ce lo ha mostrato Padre misericordioso. Figuriamoci del resto!

Il cristiano è colui che non ho paura di Dio, perché Dio è suo amico; non ha paura del diavolo, perché Dio l’ha sconfitto; non ha paura del peccato perché in Cristo è stato perdonato; non ha paura della morte perché ora non può che dargli la vita; non ha paura di niente, perché niente può essergli tolto. (cfr Rm 8,31ss)

Finché vive nel perdono, accolto e donato, la paura non lo possederà: “A coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”. Ecco qui un’altra bella espressione che per secoli abbiamo travisato. Qui Gesù non sta dando nessun potere ai preti. Il sacramento della confessione qui non c’entra niente. Infatti si rivolge a tutti i discepoli, uomini e donne, e non a una categoria ben precisa. D’altronde a pensarci bene che me ne faccio del perdono di Dio o del sacerdote, se quando torno a casa, le persone che amo, con cui vivo, con cui lavoro, sono incapaci di perdonarmi? È del loro perdono che ho bisogno! Vero sacramento di quello di Dio (Mt 5,23ss). Abbiamo relegato il perdono negli angoli bui delle nostre chiese, e abbiamo dimenticato che se quel sacramento esiste il suo scopo è trasformare tutta la nostra vita in una continua riconciliazione.
Per questo l’evangelista ci avverte della responsabilità che i cristiani hanno nel “vanificare” storicamente la passione di Cristo. Gesù sta dicendo: aprite quella benedetta porta, andate ad annunciare al mondo la pace della riconciliazione degli uomini tra di loro e con Dio. Se questo non accadrà (non saranno perdonati), questa sarà la vostra responsabilità perché non siete stati capaci di perdonare (a coloro a cui non perdonerete). Può un discepolo non perdonare quando il Cristo nel mostrare le sue ferite e nel dono dello Spirito di Dio, rivela il perdono senza limiti del Padre? Assolutamente no! Se non perdona è perché si lascia vincere dalla paura (del mondo). In tal modo cesserà di essere testimone della gioia pasquale. Se il mondo non ha pace – e il mondo in quanto “mondo” non può darsi pace – è perché i cristiani non si lasciano guidare dalla gioia pasquale. Una chiesa che passa il tempo a stilare nuovi elenchi di peccati è una chiesa che rinuncia ad annunciare nuovi modi di accoglienza e perdono. È una chiesa non più pasquale.
Se c’è un “peccato contro lo Spirito Santo” (cfr Mc 3,28s) che non può essere perdonato è proprio questo: colui che non perdona, non può essere perdonato. Lo proclamiamo anche nel “Padre Nostro”. La chiesa riceve lo Spirito per donarlo, se non lo dona per paura, tradisce la propria missione!
Insomma la pace nel mondo dipende dalla nostra capacità di perdonare, e se il mondo non troverà pace è e sarà colpa di coloro che non sanno comunicarla perdonando sempre e comunque. Credere nella Risurrezione è creare sempre e comunque cammini di riconciliazione.

Ma Tommaso non c’era… simpatico questo Tommaso. Intanto subito una qualità: lui non aveva paura! E lo dimostra anche con le sue pretese. Ovvio che se i discepoli erano rinchiusi per paura e Tommaso non c’era, Tommaso era “fuori”. In mezzo a quei giudei che gli altri temevano. Una fatto in più che giustifica quanto dicevamo sopra: la paura degli altri discepoli era immaginaria. Tommaso infatti va e viene. Passa una settimana a discutere (gli dicevano). Ma la fede non si trasmette con ragionate parole, ma mostrando il cuore cambiato dalla gioia della pace. Ed è quella che Tommaso doveva cercare di vedere negli altri discepoli: le paure che si erano trasformate in gioia. Ammesso che perdurasse! Perché stranamente otto giorni dopo, ancora le porte erano chiuse… Forse i dubbi di Tommaso rendevano meno salda la gioia degli altri? Possibile! Nessuna nostra certezza è così insensata da essere priva di dubbi, se poi qualcuno ce li mostra, allora le nostre certezze sono incapaci di testimoniare gioia, ma solo ostinate convinzioni. Che non convincono nessuno. E allora anche qui come prima, all’apoteosi del diverbio, quando sembra di non poterne venire a capo, col rischio di perdere altri discepoli e sfaldare ulteriormente la già indebolita comunità, Gesù si presenta “in mezzo”. E tutta la comunità credente, nelle mani di Tommaso, può finalmente infilare le dita nelle piaghe che facevano tanto paura e che ora invece donano la pace della fede nel perdono.

Il grido di Tommaso deve diventare il nostro grido, se solo osassimo fare altrettanto! Eh sì! Perché anche questo episodio mi sembra sia stato travisato non poco. Intanto senza vedere non si può credere (cfr Gv 20,8)… i segni del quarto vangelo sono tutti lì a ricordarcelo. E non bastano! Il problema allora non è tanto cosa vedere, ma soprattutto come guardare!
E allora mi sembra che tutto il racconto sia una pedagogia alla fede. Si illude di poter credere colui che pensa di poterlo fare senza guardare le “piaghe” del Signore. Si illude di poter credere colui che passa oltre le piaghe del fratello (Lc 10,33ss). Si illude di arrivare alla fede colui che non infila le dita e le mani nelle ferite della storia. Guardare non basta: è bastato poco per spazzare via la gioia che i discepoli avevano sperimentato (la porta era ancora chiusa!). Occorre infilare le dita, tendere la mano sulle ferite. Solo quel gesto ci fa capire il senso della sofferenza che abbiamo inflitto all’altro ed è stata inflitta a noi. E chiedere e offrire il perdono. Non abbiamo bisogno di uscire dalla storia per credere (Perché mi hai veduto, tu hai creduto… beati quelli che non [mi] hanno visto…). Per fare esperienza della gioia pasquale (beati) è necessario chinarsi sulle piaghe con cui Gesù si è identificato: beati quelli che non hanno preteso di vedermi per credermi presente in mezzo a loro nelle piaghe del fratello ferito! Beato colui che non si scandalizza della fragilità di una comunità (credente o non credente) per scoprire la mia presenza in mezzo alle ferite di questa stessa comunità.

L’itinerario della fede comincia dalla capacità (ricevuta!) di vedere attraverso le ferite del fratello, le ferite stesse del Dio di Gesù Cristo. Che mi liberano.
Colui che passa il tempo a recriminare contro le ingiustizie del mondo, dimentica che Dio ha mandato proprio lui per rimuoverle. In attesa che lui si decida a scegliere l’impotenza del proprio agire (questa è la Croce!), Dio ha scelto di condividere l’avventura della vittima (anche per questo Gesù mostra le piaghe: solo quelle sono vincenti!). Per salvare anche il carnefice. Se si vuole che Dio per noi risorga (Mio Signore e mio Dio!), lo si liberi dalla morte liberando il fratello da ciò che lo uccide…
Questa esperienza è l’unico modo di conoscere il Risorto.

lunedì 9 aprile 2012

Il dramma pasquale



Anastasis
S. Salvatore in Chora
Gioia e Paura
Tutta la Pasqua è una festa, la più grande festa cristiana… e la liturgia ci invita alla gioia e ci testimonia questa gioia in un continuo esaltante “Alleluia!”.
È giusto che sia così, perché come ricordiamo durante la Veglia Pasquale, la luce di Cristo ha vinto le tenebre del Male. La Vita ha definitivamente prevalso sulla morte…

Tutta questa gioia, lo ribadisco, è legittima, giusta, santa… Ma… c’è un “ma” che forse ci sfugge: Come mai la Risurrezione di Cristo non riesce a incidere nella nostra vita come vorremmo? Eppure… quante Pasque abbiamo già festeggiato? Non è che forse in questa gioia e di questa gioia ci stia sfuggendo qualcosa?

Se leggiamo i Vangeli questa gioia che noi stiamo celebrando, non sembra contagiare immediatamente i discepoli e le discepole di Gesù! Se leggiamo i quattro racconti della risurrezione notiamo proprio questo: coloro che si recano al sepolcro, vivono un’esperienza “spaventosa”, che incute loro timore… i discepoli appaiono comunque ora pieni di stupore (che a differenza della meraviglia ha in sé un sentimento di paura, trasmessa da un’esperienza che supera e schiaccia chi la vive), ora disorientati, ora increduli…

Oppure – come nel vangelo di oggi (Gv 20,1-9)– c’è una totale assenza di manifestazione esplicita di gioia…
Cosa gli costava a Giovanni scrivere “videro e credettero e furono colmi di gioia”?... Invece no! C’è solo un freddo “videro e credettero”!

Non entro nei dettagli ma vi faccio solo notare un’altra incongruenza sempre in Giovanni: se Giovanni e Pietro “videro e credettero” perché mai nel brano che segue (Gv 20,11ss) Maria Maddalena deve annunciare la Risurrezione agli apostoli? Senza contare che lei come donna, per la cultura di allora, era una testimone inattendibile!
Forse, come il seguito del vangelo lascia intendere, perché sebbene credettero, il loro credere, come il nostro, era ancora incapace di farsi storia. Infatti l’evangelista annota, nel versetto immediatamente successivo al nostro brano, che i discepoli “se ne tornarono di nuovo a casa” (Gv 20,10). Ci chiediamo: Come se niente fosse? Così sembra stando all’evangelista. Infatti li ritroviamo più avanti intenti a pescare (Gv 21,3ss): erano ritornati alla vita di prima di conoscere Gesù!

Insomma la Chiesa in questi giorni ci vuole aiutare a credere nella Risurrezione di Cristo ma dobbiamo prendere coscienza che allora non si possono omettere certi versetti scomodi. Perché credere nella Risurrezione di Cristo, non vuol tanto dire credere in una dottrina (che non basta sembra dirci l’evangelista), ma vuol dire mettersi a fare tutto il faticoso cammino che gli apostoli hanno fatto. Passando attraverso la loro “paura pasquale”!

Ma allora per smascherare la nostra incredulità (che si traduce nella sterilità delle nostre Pasque) dobbiamo forse prendere coscienza della nostra paura della Risurrezione come ci rivelano in un modo o nell’altro tutti gli evangelisti.
E questo è continuamente sottolineato nei vangeli nel fatto che sia l’angelo, sia Gesù nelle sue apparizioni, devono continuamente calmare gli animi: “non abbiate paura”; “la pace sia con voi”, “non temete”…

Ora ci chiediamo, questa “paura” è un genere letterario per dire che siamo di fronte a una manifestazione divina? o è un espediente con cui indirettamente si vuol sottolineare che Gesù era veramente morto?...
Certo ci può stare anche questo, è certamente anche un genere letterario ma se è solo questo, tutto si riduce a una specie di finzione teologico-letteraria…

E allora siamo tenuti a pensare che gli apostoli vogliono obbligarci a capire come la Risurrezione di Gesù Cristo, la Pasqua che stiamo festeggiando, sia anche un fatto realmente sconvolgente, al punto che umanamente non si può non averne paura! Almeno all’inizio e molto prima di suscitare gioia!
Ripeto umanamente! È utile osservare come Matteo mette insieme appunto “timore e gioia grande” (Mt 28,8)… oltre a sottolineare che le guardie che custodivano il sepolcro e di cui avevano sigillato (!) la roccia, furono prese da un tale spavento da rimanere “come morte” (Mt 28,4). Uno spavento il loro che però non arriva a maturare in gioia! Anche questo è possibile davanti alla Risurrezione.

Mi sembra quindi che emerga con forza questo insegnamento a noi “lettori” già credenti ma non ancora posseduti da una vera gioia. E che come Giovanni e Pietro rischiamo di ritornare a casa alle proprie quotidiane occupazioni senza che questa Pasqua abbia inciso nella nostra quotidianità.
Per poter fare veramente esperienza di una gioia pasquale che ci cambi la vita, dobbiamo quindi prendere coscienza di questa paura anch’essa pasquale dei discepoli.
Insomma è vero che nella Veglia Pasquale abbiamo gioito il passaggio dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita. Ma dobbiamo prendere coscienza che a ciascuno di noi, non fa solo paura il “buio” ma anche la luce, soprattutto se intensa… Non ci fa solo paura la morte, ma anche la vita, soprattutto un certo tipo di vita…

Davanti a racconti di cronaca in cui apprendiamo che una persona che è creduta morta ritorna in vita, ci viene spesso descritta la gioia dei familiari nell’apprendere quello che i giornali non esitano spesso a definire “miracolo”… E questa gioia è testimoniata anche nei vangeli per i miracoli di Gesù! E in fin dei conti scorrendo i vangeli osserviamo che per i discepoli non è il primo “ritorno dai morti” a cui avevano assistito… Gesù aveva strappato dalla morte altre persone: Lazzaro, la fanciulla anoressica…

Ora perché invece nei racconti della Risurrezione, quando proprio ci aspetteremmo solo la gioia dei discepoli di sapere Gesù vivo, essi hanno paura? Dove sta qui la differenza?
E in cosa consiste propriamente questa paura? Cosa c’è di veramente nuovo in questa Risurrezione – quella di Gesù dico – da incutere immediatamente paura? Al punto che in un certo senso i discepoli la fuggono (Mc 16,5-8), proprio come sono fuggiti dalla sua morte?

Eppure essere cristiani vuol dire essere testimoni del Risorto. La storia ci insegna che non è necessario essere cristiani per fare del bene, anche eroicamente. Per amare fino al dono della vita, con la grazia dello Spirito ogni uomo di buona volontà può farlo, ma solo i cristiani possono essere testimoni della Risurrezione di Gesù.

Ma questo concretamente cosa vuol dire?
Proviamo allora anche noi a chinarci e ad entrare nel sepolcro.

La pietra del sepolcro
Il modo con cui una civiltà elabora una cultura sulla morte e sui morti (da imbalsamare, da tumulare, da bruciare…), dice anche la propria visione del mondo, dell’uomo e di Dio.

Vi siete mai chiesti per quale ragione gli ebrei seppellivano i morti nella roccia? Scavare la roccia non è facile come scavare la terra. Perché non li seppellivano nel suolo? Perché complicarsi la vita a scavare nella viva roccia? E in più scolpire un enorme masso di pietra circolare che viene fatto rotolare all’entrata del sepolcro?
Evidentemente questo obbediva a una ben determinata visione del mondo.
Anche per gli ebrei il mondo dei vivi era radicalmente separato dal mondo dei morti. E andavano tenuti separati! Cosa di meglio di una caverna artificiale scavata nella dura roccia e con un masso inamovibile che ne impedisce l’apertura col rischio di comunicazione tra i due mondi? Cosa sarebbe accaduto se il mondo dei morti avesse invaso quello dei vivi? Certi film dell’horror riprendono questa paura ancestrale…

Per gli ebrei, Dio stesso, il mondo di Dio, il Dio che ha parlato ad Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, ai profeti… non ha niente a che fare con questo mondo dei morti! Dio è il vivente… che c’entra con i morti? Quindi per l’ebreo il mondo di Dio era incomunicabile con questo Sheol ( così gli ebrei chiamavano il mondo dei morti). Era un mondo immaginato, non molto diversamente dal nostro inferno, come un luogo di oscurità, di polvere, di una vita che però non era vera vita.
I morti non lodano il Signore ripetono i salmi e Giobbe (cfr anche Isaia 38,18ss)! Eppure questo era il destino dell’umanità e prima o poi ciascuno sarebbe entrato a farvi parte.
Per questo la fede nella risurrezione dei farisei non cambiava le carte in gioco: perché era una risurrezione non molto diversa dalla maledizione di continue reincarnazioni delle religioni orientali.

Solo la Risurrezione di Gesù cambia radicalmente la visione delle cose. Ed è proprio questo che testimoniano i racconti evangelici con pochi ma significativi indizi che sorprendono i discepoli.
Ecco la sorpresa o meglio le sorprese: Il masso che teneva ben separati i due mondi era stato rotolato via. I due mondi comunicano, diventano un mondo solo! Non esiste più il mondo dei vivi e il mondo dei morti. Potete ben immaginare ora la paura? E come la fantasia galoppasse…
Ma ecco la seconda sorpresa: il mondo dei morti è vuoto! È un mondo svuotato dal Cristo… Lo Sheol, l’Ade, gli Inferi, non sono più il destino dell’umanità…
In Cristo Dio ha inaugurato un nuovo mondo, il mondo di Dio. Dove l’uomo può fare esperienza non della “vita eterna” (che nell’immaginario comune noi concepiamo come una vita “da morto”), ma della vita dell’Eterno. La vita dell’Eterno non è più appannaggio di coloro che vivono nell’aldilà ma offerta a ogni uomo, in qualunque inferno o mondo si trovi.
Da qui la grande gioia di cui parla Matteo e che pian piano fa capolino anche nel vangelo di Giovanni.

Il regno di Dio
Annunciare il Cristo risorto allora vuol dire uscire da questo schema dualista fatto di aldilà e aldiquà, perché non c’è più l’aldilà o l’aldiquà, ma ce solo l’essere in Dio. Un mondo che siamo chiamati a riscoprire pian piano e che tutti ci accomuna vivi e morti. Dove possiamo ben capire, non ha più importanza essere vivi o morti, ma ciò che conta essere “in Dio”.

Significativa a questo proposito è proprio la seconda lettura tratta dalla lettera ai Colossesi (3,1-4) di san Paolo e che fa propria questa nuova visione che facciamo così fatica a fare nostra:

Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.

Siete risorti con Cristo: Paolo sta parlando ai vivi, dei vivi: dunque noi non abbiamo più bisogno di essere morti per risorgere (mentre noi pensiamo alla risurrezione come un avvenimento post-mortem). Certo anche i morti risorgono in Cristo, ma questo non vuol dire che non risorgano anche i vivi.
Cristo seduto alla destra di Dio: non nell’aldilà, in un altro mondo quello dei morti, ma nel modo di essere di Dio.
Voi infatti siete morti: sta parlando ai vivi e li chiama “morti”. Invita a superare la visione dei due regni: esiste un solo mondo, vivi o morti che siamo, il mondo di Dio (vita … in Dio)!
Sarà manifestato… apparirete: tutto questo al compimento della storia sarà manifesto e verrà rivelato il senso della storia di ciascuno. Ecco perché ora “la vita in Dio” è nascosta. La prospettiva è storica, sebbene nel suo significato escatologico e trascendente ma esclude radicalmente, smontandola, la prospettiva “pagana” dei mondi separati. C’è una sola separazione: vivere (da vivi o da morti) in Dio o “vivere” (da vivi o da morti) non in Dio.
Il passaggio successivo sarà che morti non sono i morti ma coloro che non vivono in Dio anche se vivi, e vivi sono non i vivi ma coloro che vivono in Dio anche se defunti.

Compreso questo, possiamo verificare concretamente come nella nostra visione delle cose, noi siamo ancora troppo prigionieri del vecchio schema, per cui Cristo è assente da questo mondo, lo concepiamo come vivente altrove, in un altro mondo, in un aldilà del regno dei morti, sebbene nella gloria del Paradiso… E allora che Pasqua è? Che Pasqua festeggiamo? Con questa nostra visione delle cose, noi la vanifichiamo!
Dobbiamo invece cominciare a riscoprire – perché la nostra gioia sia piena – questa novità della Pasqua, che non è semplicemente la storia di un morto che cammina… ma la possibilità data ad ogni uomo di vivere già ora – vivo o defunto che sia – nel “ tempo del mondo di Dio”.

Se questo è vero allora si può ben capire quanto sia legata ai vecchi schemi tutta la nostra paura di morire, di far parte del regno dei morti. Quanto sia pagano tutto il nostro affannarci per ritardarne il momento. Ma se ciò che conta è essere “nel regno di Dio”, essere in quello dei vivi o dei morti non importa. Ed è proprio questo l’“ultimo” capovolgimento della Pasqua per noi che cerchiamo disperatamente di fuggire a una morte che si fa ogni giorno di più inevitabile.
Nella Risurrezione di Gesù è sancita definitivamente una verità che fa fatica ad entrarci nel cuore e nella mente perché capovolge la nostra prospettiva. Se c’è una vita riuscita è proprio la vita di Gesù, una vita che noi non seguiamo perché nel profondo del nostro cuore, siamo convinti (in un certo senso a ragione!) che se la mettessimo in pratica sarebbe – per quanto eroica – storicamente fallimentare.
Ebbene la Pasqua è la proclamazione di questa verità che ci fa paura: Tutto il successo che noi cerchiamo di avere nel nostro concreto vivere è dichiarato, lui sì, “definitivamente morto”. E ciò che “vive e dà vita” è quella vita e quella morte, sempre da riscoprire e ricomprendere, che Gesù ha vissuto.

I nostri maldestri tentativi di ridurre il dramma della Risurrezione dimenticano quindi che se Gesù non fosse risorto (perché “ridurre” è di fatto “negare”), avremmo forse pianto la morte ingiusta di un uomo eccezionale, avremmo forse anche cercato di custodirne gli insegnamenti e i valori… ma come tutti, avremmo continuato ad avere come destino la ricerca di un successo mondano che dopo aver fatto strage di ogni uomo o donna considerati rivali, si sarebbe comunque concluso nel “regno dei morti”.

Ora invece “il Signore è Risorto”, il regno dei morti non ci avrà perché ciò che ci irrompe semmai è il regno di Dio.

venerdì 27 maggio 2011

Quinta Domenica di Pasqua: La certezza di Gesù ci convince?

Il vangelo che la Chiesa ci propone in questa Quinta Domenica del Tempo di Pasqua, è uno di quei testi di fronte ai quali vien da dire: “È stato davvero già detto tutto… con chiarezza, senza possibilità di fraintendimenti… Ma allora perché tutto pare sempre così complicato, anche negli ‘affari’ della fede?”…


Perché se effettivamente guardiamo a quello che Gesù dice in questo testo che Giovanni riporta nel capitolo 14, durante l’ultima cena, non possiamo non rilevare come Egli abbia risposto in maniera inequivocabile all’eterna inquietudine del cuore dell’uomo: «Non sia turbato il vostro cuore» – dice Gesù – «Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via».

Dopo parole di questo tipo dovrebbe immediatamente crollare quella struttura di paura (di morire) che troppo in profondità determina il nostro vivere quotidiano, il nostro pensare al futuro, al nostro destino (alla nostra destinazione), al suo senso…

Eppure, chissà quante altre volte avevamo già incrociato questo vangelo (questa “buona notizia”, è proprio il caso di dirlo) senza che esso avesse poi avuto la forza di radicarsi in noi e abbattere le rigidità interiori che la paura ha pian piano sedimentato e calcificato nei nostri atteggiamenti, nelle nostre reazioni, nei nostri progetti, nelle nostre fughe, nel nostro modo di pensarci…

Ma perché ci succede tutto questo? Perché di fronte a questa incontrovertibile certezza di Gesù di essere Colui che – per noi! – vince la morte, noi fatichiamo a dargli credito e continuiamo a pensare alle sue parole come qualcosa che “sarebbe bello… se fosse vero”, ma “chi lo sa…”? Perché cioè su questo argomento (la vittoria sulla morte!) non riusciamo a dare piena fiducia a Gesù come su altri argomenti (per esempio quello per cui solo donandosi per amore si giunge alla pienezza della vita)?

Per provare a capire meglio, è forse utile provare ad allargare la domanda: Quali sono i motivi per cui togliamo il nostro credito verso ciò che qualcuno ci sta dicendo?

Io credo che i motivi possano essere diversi; ne vorrei sottolineare quattro (quelli che a me paiono più evidenti):

1- Si può non credere a ciò che qualcuno dice perché la persona che sta parlando non ha in sé titoli di credibilità, non è cioè una persona credibile (per tanti motivi…), dunque non lo è nemmeno ciò che dice;

2- Oppure si può non credere a qualcuno perché ci pare che lui stesso non sia troppo convinto di ciò che afferma…

3- Oppure si può non credere a qualcuno perché il messaggio che riferisce pare, appunto, troppo in-credibile (non credibile);

4- Infine si può non credere a qualcun altro perché – al di là di ogni considerazione – crediamo che “fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”… cioè perché non abbiamo costruito in noi (anche qui per mille motivi, non necessariamente colpevoli) una struttura fiduciale capace di affidarsi a qualcun altro…

Nel caso di Gesù, di queste sue parole che il vangelo ci propone e della nostra resistenza nei loro confronti, mi pare di poter dire che i primi due “motivi di sfiducia” citati siano non pertinenti… Il secondo perché è evidente, dal tono del discorso e da tutti gli altri riferimenti neotestamentari alla vittoria di Gesù sulla morte, che Gesù proclami con convinzione la sua Risurrezione e quella – in Lui – di tutti gli uomini!

Il primo – magari possibile per qualche ateo in fase adolescenziale che crede che Gesù sia stato solo un illuso – non è invece sostenibile, né sostenuto da chiunque (anche ateo) percorra la storia della vita di questo Uomo fino in fondo. Gli atei possono dire che Gesù era solo un uomo, ma di certo non possono dire che non si trattasse di una persona credibile… Se non altro per il fatto della coerenza – fino alla morte – delle sue idee!

Ci restano il terzo e il quarto motivo, quelli che forse – effettivamente – hanno più a che fare con noi – cristiani post moderni – così sempre “in ritardo” riguardo alla fede nella Risurrezione: è il messaggio ad essere troppo incredibile e siamo noi ad essere troppo disincantati!

A ben guardare, in entrambi i casi, si tratta di motivi di sfiducia (o di incredulità) non attribuibili a chi proclama il messaggio… Nemmeno al messaggio stesso… Piuttosto essi fanno entrambi riferimento alla qualità del “ricevente” il messaggio: è a lui che quest’ultimo risulta troppo in-credibile ed è lui che fatica a dar credito a qualcuno che non sia lui stesso…

Non voglio ora certo addentrarmi sulle innumerevoli cause e concause che possono portare o aver portato ciascuno di noi a nutrire delle resistenze in proposito, ma mi piacerebbe che ciascuno si soffermasse a ricercare le sue…

Perché rintracciarle, analizzarle, custodirle in cuore e – infine – rappacificarle, può davvero pian piano correggere quell’istintiva rigidità che proviamo nei confronti della speranza della risurrezione, quasi che essa fosse una cosa da illusi, una cosa su cui non contare, una cosa da non considerare nel momento in cui si pensa alla propria vita: non a caso noi diciamo “viviamo questa vita, poi si vedrà… se c’è qualcosa, tanto meglio; se non c’è, pace…”.

Io invece credo che la questione che poneva Gesù, in tutto ciò che diceva e faceva, avesse proprio nella Risurrezione il suo centro. Non arrivare fino a questo punto nella comprensione e nell’adesione al vangelo di Gesù (alla sua buona notizia) vuol dire – in una versione aggiornata e post-moderna (appunto) – ricadere nel riduzionismo del vangelo che, in varie forme, le generazioni del passato sono incappate, quando hanno fatto del vangelo un mero codice morale, o un libro di definizioni su Dio, o un itinerario ascetico riservato a chi aveva il coraggio della fuga mundi

Bisognerebbe invece provare davvero a rispondere alla domanda: Sto costruendo con Dio – in Gesù, via, verità e vita – la mia esistenza? Mi sto pensando in relazione a Lui e alla sua inequivoca paternità ogni volta che devo determinarmi come individuo (cioè ad ogni secondo, ad ogni reazione a ciò che mi accade, ad ogni pensiero, progetto, ecc…)?

Per meno di questo, anche il vangelo e l’appello ad esso non sarà altro che l’ennesimo riferimento da sottomettere alla nostra autoreferenzialità che – sapendo di avere scritta la scadenza nel DNA – non fa altro che tentare di “scampare il più possibile” a scapito di chiunque si metta come intralcio…

mercoledì 27 aprile 2011

II Domenica di Pasqua: La fatica di credere è la fatica di affidarsi

Dopo le celebrazioni del Triduo pasquale, culminate nella veglia di Sabato e nella messa solenne di Domenica, e dopo gli otto giorni in cui la Chiesa ha “dilatato” – come fosse un unico lungo giorno – la celebrazione della Risurrezione del Signore, Domenica veniamo introdotti “a tutti gli effetti” nel cosiddetto “Tempo di Pasqua”, un tempo forte in cui l’invito è quello di andare a ripercorrere e assimilare – pian piano – il mistero esplosivo condensatosi la Domenica di Pasqua.


Non a caso il vangelo che ci viene proposto riguarda l’apparizione di Gesù risorto ai suoi, avvenuta proprio «la sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei».

Siccome ogni anno la Chiesa – indipendentemente dal fatto che si tratti dell’anno liturgico A,B o C – nella seconda domenica di Pasqua, ci propone questo vangelo, dopo aver buttato giù qualche appunto, sono andata a rileggermi quanto negli anni scorsi avevo scritto in proposito. L’intento era duplice: cercare qualche spunto e contemporaneamente evitare di ripetermi…

Purtroppo o per fortuna, mi sono accorta che – tranne qualche eccezione – ciò che in maniera piuttosto costante tornava come idea guida era la stessa che avevo abbozzato nelle mie annotazioni previe, e cioè il fatto che – immediatamente dopo Pasqua – la Chiesa ci invita a leggere un testo evangelico che, nel suo svolgersi, ci sposta dalla domenica della Risurrezione… e ci colloca otto giorni più in là (gli stessi che – non a caso – son passati per noi dalla celebrazione della Pasqua).

Se infatti il testo inizia con una prima apparizione ai discepoli la sera stessa della Risurrezione, esso poi però prosegue con una seconda apparizione «otto giorni dopo», dove l’annotazione temporale, accompagnata dall’assenza (prima) di Tommaso e dalla sua successiva presenza, apre la strada al problema dell’accesso alla fede per chi non era lì in quei giorni. Dunque per tutti gli assenti, per tutti quelli della generazione successiva (per i quali, infatti, sta scrivendo Giovanni) e per quelli di tutte le generazioni successive…

Il problema è messo bene in luce dall’affermazione che Gesù rivolge a Tommaso – «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!», dove l’indisponibilità di Tommaso a credere nonostante l’assenza, diventa il comportamento da biasimare, mentre quello di chi non pone come condizione per la fede l’annullamento di una distanza fisica, diventa quello da lodare –, ma anche dal finale del testo: «Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome», dove è evidente la convinzione dell’evangelista che per accedere alla fede in Gesù non sia necessaria la contiguità cronologica alla vita storica di Gesù.

Questo era (è) infatti il problema… Lo stesso messo in luce dalla seconda lettura: «Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, in vista della salvezza che sta per essere rivelata nell’ultimo tempo. Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove, affinché la vostra fede, messa alla prova, molto più preziosa dell’oro – destinato a perire e tuttavia purificato con fuoco –, torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà. Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui».

Il problema è cioè quello della fede di chi non ha conosciuto di persona Gesù – di chi non ha potuto mettere le sue mani sulle sue piaghe – che – altrimenti detto – equivale a quest’altro problema (quello vero, che sta sotto l’altro e in esso si nasconde): il problema di doversi fidare di qualcun altro nella propria fede… “avere fede sulla fede di un altro”, come piace ripetere al nostro p. Mario.

Questa è la prima difficoltà dei discepoli della seconda generazione (quelli per cui scriveva Giovanni), ma poi anche della terza, della quarta… fino a noi. È il problema dell’affidabilità e dell’affidamento… Questioni delicate per l’uomo di sempre, tanto più – io credo – per l’uomo di oggi, che sempre più sembra gettato in un mondo di estraneità, competizione, paura dell’altro; tant’è che la domanda ricorrente è “Come si fa a fidarsi (di uno così, si una così, di chi ti fa un lavoro in casa, del tuo padrone, del tuo operaio, del tuo vicino, del tuo stesso amico…)? Come si fa a fidarsi?”.

Figurarsi fidarsi di questa manciata di uomini spauriti, vissuti più di 2000 anni fa, che parlavano una lingua stranissima, vivevano in terre lontane e avevano una cultura così diversa dalla nostra… Cosicché su queste considerazioni, oggi, i più se ne vanno scettici (soprattutto i nostri ragazzi, la prima generazione atea, come li chiamano i giornali), altri cercano di non pensarci, portando avanti il loro tran tran quotidiano (spesso scisso tra tempo profano e piccolissime parentesi di tempo sacro), altri si lanciano in una fede cieca, pochi provano a pensarci…

Io – che come dicevo prima ogni volta che mi imbatto in questo vangelo mi faccio sempre le stesse domande (si vede che c’è lì un neurone che s’inceppa…), ma ho l’ambizione di voler provare a pensare alle risposte – mi/vi chiedo se tutta questa sfiducia non derivi forse da due fonti:

- innanzitutto la mancanza di valutazione sull’affidabilità/attendibilità della fede degli altri, di quelli su cui noi ci appoggiamo per credere… cioè, io credo che un primo problema sia la scarsa conoscenza e la poca passione per la Parola di Dio… In questo non si possono dimenticare le colpe storiche dell’istituzione chiesa, ma è anche vero che oggi per tutti c’è la possibilità di un accesso alla lettura, allo studio, all’incontro con il testo biblico… che però spesso ci trova restii, latitanti, stanchi…

Cosicché ci ritroviamo incapaci di rendere ragione della fede che è in noi (1Pt 3,15), soprattutto a noi stessi…

- inoltre mi/vi chiedo se non è il caso di provare a pensare in maniera un po’ seria alla continua e soffocate aria di sfiducia negli altri in cui culturalmente siamo così immersi. Anch’essa ha tante radici, che non possiamo certo ora ripercorrere, ma che – se lasciate nell’ombra – rischiano di agire in noi senza che nemmeno ce ne accorgiamo, rendendoci passivi recettori, ma anche inconsapevoli complici, di quell’atmosfera per cui nel nostro mondo sembra impossibile fidarsi di qualcuno, affidare la nostra vita ad un A/altro, legare incondizionatamente il nostro destino a quello degli altri uomini…

Io credo che su queste due polarità si stia giocando il fallimento dell’annuncio della Risurrezione del Signore, che infatti – per troppe persone – non è più significativo e capace di trasformare la vita. E su questo, la distanza delle nostre esperienze ecclesiali da quella della prima comunità cristiana (descritta dalla prima lettura) è un segnale chiaro!

venerdì 8 aprile 2011

V Domenica di Quaresima: L’amore più forte della morte

Anche questa quinta domenica di Quaresima ci propone un brano di vangelo assai lungo e assai impegnativo: la risurrezione di Lazzaro. Anche questa domenica allora, preferisco non dilungarmi troppo e lasciare che a parlare sia la Parola. Accenno solo all’elemento che mi ha colpito di più… Il testo racconta di tutta la vicenda che riguarda la morte di un amico di Gesù, Lazzaro… una vicenda che – attraverso la notizia che raggiunge Gesù, il suo cammino per raggiungere Betania, i suoi dialoghi con i discepoli e con le sorelle Marta e Maria – arriva fino al miracolo della risurrezione…


Di fronte ad un episodio del genere, mi è venuto da pensare: “Io avrei subito fatto un’intervista a Lazzaro!”. Avrei voluto infatti sapere da lui cosa ha voluto dire morire e restare morto… Cosa ha sentito, cosa ha provato, cosa ha visto… sempre ammesso che qualcosa abbia sentito, provato e visto… E invece nel testo Lazzaro non dice niente! Niente! Né qui, né più avanti, quando Gesù tornerà in questa casa poco prima della sua morte.

A nessuno viene in mente di chiedergli niente! Com’è possibile??!!?? Passiamo tutta la vita preoccupati (angosciati?) dalla prospettiva che prima o poi tutti (tutti!) muoiono (anche i nostri cari, anche noi)… e quando c’è lì uno che è tornato indietro dal regno dei morti, non gli chiedono niente… Strano! Troppo strano! Ci deve essere una spiegazione…
E io credo sia questa: ancora una volta, al centro della scena c’è Gesù, non Lazzaro; c’è la sua Verità, non le nostre paure.

Come scrive un biblista – infatti – in questo testo «Alla base vi è senza dubbio un’antica tradizione su un miracolo di risurrezione compiuto da Gesù, nettamente riconoscibile anche entro gli sviluppi teologici del racconto giovanneo. Nel quale tuttavia alcuni particolari svolgono un’importante funzione interpretativa del “segno” operato da Gesù. […] Come sempre, Giovanni è fedele alla concretezza dei ricordi, anche se la sua massima aspirazione è quella di interpretarli per un’efficace educazione alla fede dei suoi lettori» [M. Làconi, il racconto di Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi 1989, 219]. In gioco, allora, vi è nuovamente l’identità di Gesù. Esattamente come nel brano del cieco nato, che non a caso, fa da pendant con questo («Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato» / «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio»); anche qui infatti troviamo una confessione di fede su Gesù da parte, stavolta di Marta, accompagnato ad un dire qualcosa di sé da parte di Gesù stesso: «Gesù le disse: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?”. Gli rispose: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo”».

«L’atto di fede di Marta riprende tutti quelli che l’hanno preceduto: quello di Natanaele (1,49: “il Figlio di Dio, il Re d’Israele”), dei samaritani (4,29.41: “Il Messia… il Salvatore del mondo”), di Pietro (6,69: “Il Santo di Dio”), del cieco guarito (9,35-38: “Il Figlio dell’uomo”)» [Ivi, 228] e ci riporta al centro del testo: chi è Gesù? È colui che vince la morte!

Questo è quello che deve catturare la nostra attenzione. Questo è quello che cattura l’attenzione degli astanti. Questo è quello che Giovanni vuole sottolineare nel suo vangelo. Noi invece ce ne dimentichiamo perché lo diamo per scontato… talmente scontato che – se fossimo stati giornalisti – avremmo intervistato Lazzaro e non Gesù… talmente scontato che quasi non gli diamo più peso… forse anche perché il «… se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» di Marta e Maria «vale per tutti i morti, tanto più per quelli che non hanno neanche uno che li piange e che prega per loro! È un lamento che si può rivolgere solo a Dio. È il lamento che fonda ogni religione e la rende indistruttibile, come la morte che lo genera. Tiene viva la religione, ma ne è anche è la spina mortale, che la rende debole, sostanzialmente inaffidabile, perché non è nei poteri di Dio di impedire che gli uomini muoiano... E infatti continuano a morire, nonostante questa implorazione salga a Dio milioni di volte al giorno. E gli uomini ne concludono sempre più che… Dio è inaffidabile! Ancora una volta però il volto di Dio rivelato da Gesù (il volto di suo Padre, che solo lui conosce… e quelli a cui vuole rivelarlo!) non assomiglia per niente al volto del Dio che ci hanno trasmesso e pure rimane così difficilmente sradicabile dal nostro cuore» [Giuliano]. Infatti… In che modo Gesù è tutto questo?

«Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro», «Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: “Dove lo avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere!”. Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: “Guarda come lo amava!”. Ma alcuni di loro dissero: “Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?”. Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra».

«È buona cosa tener ben ferme queste tre coordinate dell’animo di Gesù: pianto, fremito interiore, turbamento… Non si tratta solo di arricchire la conoscenza profonda del Gesù storico, ma soprattutto di prendere contatto con quella veemenza vitale che si agita in Lui, da cui scaturirà irresistibile il prodigio» [M. Làconi, il racconto di Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi 1989, 234]. È cioè perché ha questa empatia fortissima col dolore dell’uomo… (e delle donne, in particolare con Maria… la sua Maria – come si vedrà in Gv 12 e in Gv 20: Mentre infatti «Marta proclama di credere in Gesù Signore della vita (v. 22); Maria col suo atteggiamento prepara il gesto sovrumano di Gesù: col suo pianto provoca il pianto di Gesù (vv. 33-34), con le sue parole di amorevole protesta (v. 32: le stesse della sorella! [«Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!»]) pone la premessa per il miracolo di risurrezione» » [M. Làconi, il racconto di Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi 1989, 230])… è cioè perché ha questa empatia fortissima col dolore dell’uomo che Gesù può dargli la vita (in entrambi i sensi che può avere quest’espressione: non a caso siamo nell’anticamera del racconto della Passione!).

Ecco perché il volto di Dio rivelato da Gesù non è più quello inaffidabile della religione, ma quello affidabile della fede: «Gesù si oppone ad una specie di rassegnazione omertosa alle situazioni di malattia, di oppressione e schiavitù sociali o religiose o economiche… Non accetta l’acquiescenza all’insensatezza della morte, che anestetizza l’istintiva protesta elaborando il lutto attraverso razionalizzazioni e riti, ma che di fatto corrode la fiducia nella vita sbarrando all’amore il suo futuro. L’amore che cerca una strada per salvare a tutti i costi la vita non deve essere deviato nel mondo irreale dei sogni e delle ombre. […] La compagnia, la solidarietà, la compassione d’amore e d’amicizia sono il dono più grande che ci è fatto sulla terra, la spiaggia estrema della speranza. Perché hanno dentro appunto la pretesa mite e struggente della continuità (che i filosofi chiamano immortalità), altrettanto inestirpabile dentro di noi quanto la certezza della morte» [Giuliano]. Per questo, muore, amando i suoi fino alla fine! Non tradendo mai cioè la fede in quella continuità per cui l’amore è più forte della morte! E per questo Dio lo risusciterà… Perché in quell’amore lì, si riconoscerà in maniera definitiva. Ma che in quell’amore lì, Dio – suo Padre – si sarebbe riconosciuto, Gesù lo sapeva da sempre, perché sapeva che così era il Padre suo. Ecco perché può dire: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno». «Questa pretesa sbalorditiva è il cuore della vita e del messaggio di Gesù! La resurrezione di Lazzaro è solo l’occasione per la manifestazione del vero mistero di Gesù. Infatti quella di Lazzaro non è propriamente una risurrezione ma la rianimazione di un cadavere e Lazzaro non entra in un nuovo livello di vita (“eterna”, cioè non più mortale), ma morirà ancora! "La risurrezione della carne", che professiamo nel Credo, è " la vita eterna". Questo è il destino che ora Cristo restituisce all'uomo: non una rivivificazione (o una reincarnazione!), ma una pienezza di vita, la vita stessa di Dio! “Chiunque vive e crede in me non morirà in eterno. Credi tu questo?” Tale rimane per sempre la domanda che assilla il cristiano e la chiesa dentro la storia di questo mondo, e sulla fede in “questo!” si decide e si qualifica la sua vita e la sua morte. Infatti è la fede in Cristo che riscatta dalla morte, ieri come oggi. Gesù è risuscitato per essere "il primogenito dei risorti", non un caso unico. Ha fondato con la sua morte una nuova solidarietà creaturale, un’appartenenza eterna che non sarà mai più insidiata dalla morte: […] "quel medesimo Spirito che ha risuscitato Gesù dai morti darà vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi" (Rm 8,11)» [Giuliano].

sabato 13 novembre 2010

XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO: LA RISURREZIONE DEI MORTI: CREDIBILE O IN-CREDIBILE?

I testi che la liturgia di questa trentaduesima domenica del Tempo Ordinario ci propone, hanno come tematica centrale quella della risurrezione dei morti, pilastro della fede cristiana, ma anche questione tra le più assenti dalla sensibilità quotidiana del nostro vivere.


In parte forse per una motivazione che potremmo chiamare sociologica, per la quale l’uomo moderno e postmoderno si ritrova disilluso di fronte alla speranza di una vita che continua dopo la morte fisica (siamo tutti figli del razionalismo – che crede solo in ciò che è dimostrabile, misurabile, verificabile – della filosofia del sospetto – che lucidamente ha messo in discussione la religiosità illusoria della cristianità – delle grandi tragedie del Novecento – che hanno proposto con forza la domanda “Dov’è finito Dio?”…), in parte forse per una motivazione personale, nata ai piedi delle bare delle persone più care che lungo gli anni perdiamo per strada, senza che tornino, che si facciano sentire presenti, come se davvero fossero finite nel nulla…

Fatto sta che di fronte al dramma della morte, spesso la reazione più intima è proprio quella dell’incredulità nella risurrezione… Ci facciamo tanti discorsi, proviamo a convincerci – ciascuno nel dialogo profondo tra sé e sé –, ma in ultima analisi ci risulta in-credibile che la morte non sia la fine di tutto, ci risulta una pia illusione la speranza nella risurrezione della carne o perlomeno nell’immortalità dell’anima e ci ritroviamo a ripetere con santa Teresa di Gesù Bambino che sembra che «le tenebre assumendo la voce dei peccatori dicano, facendosi beffe di noi: “Tu sogni la luce... credi di uscire un giorno dalle brume che ti circondano. Vai avanti! Vai avanti! Rallegrati della morte, che ti darà non già ciò che tu speri, ma una notte più profonda, la notte del niente”» (C 278)…
Questa situazione – che i più piccoli tra noi ormai leggono come un’evidenza – non è scevra di conseguenze sul piano della vita dell’aldiqua. Sempre più infatti avvertiamo intorno a noi il bisogno di allungare la vita il più possibile, col grande sviluppo – che è sotto gli occhi di tutti – di una cultura “salutista”, “igienista”, “paurosa” verso tutto ciò che può arrecare danno alla salute, divenuto il primo dei beni da salvaguardare in vita… Un bisogno che vede nella malattia non più un normale aspetto della vita umana, ma ciò che radicalmente la dis-umanizza e dunque va aborrito, evitato, eliminato… Non a caso mentre per i nostri vecchi “ci si ammalava per morire”, oggi “si muore perché ci si ammala”… che non è un gioco di parole, ma quasi la traduzione del fatto che, essendo la malattia o l’invecchiamento (è la stessa cosa) la causa prima di morte, si vive pensando che eliminando o ritardando il più possibile (tendenzialmente all’infinito) questi aspetti della vita, appunto, si possa non morire…

Finendo così per elaborare una cultura che, illudendo le persone su una speranza di vita sempre più lunga, sostanzialmente censura la morte dagli argomenti di discussione quotidiani: ne sono esempio il fatto che sempre più nascondiamo ai bambini questa realtà (non gli facciamo vedere i morti), trovandoci – quando più bambini non siamo e di fronte alla morte inevitabilmente ci ritroviamo – assolutamente spiazzati, inebetiti, inconsolabili… Che è la medesima logica che sottosta agli strumenti mediatici (come i TG o i film), che – certo – propongono continuamente davanti ai nostri occhi scene di morte, ma così rapide e istantanee, che impediscono una vera riflessione in proposito, soprattutto l’acquisizione heideggeriana per cui il problema vero della vita non è che “si deve morire”, ma che “io devo morire”…

Con questi pochi accenni, anche se un po’ velocemente, la situazione odierna pare però ben tratteggiata nelle sue linee fondamentali: la caduta dell’“illusione” della vita dopo la morte; la concentrazione conseguente sulla vita nell’aldiqua, che – dunque – deve essere il più lunga possibile; la censura della questione del morire…

È su questo tessuto sociologico-personale che irrompe il messaggio evangelico («I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui») e il racconto – un po’ leggendario, ma di certo emblematico – dei sette fratelli Maccabei («E` preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati»). Annuncio, anch’esso non scevro di conseguenze per la vita (dell’aldiqua)… basti pensare all’esperienza stessa di Gesù e alla sua consegna alla vita e (poi) alla morte … possibile solo perché alimentata dalla fede che quella consegna – in ultima analisi – era la consegna al Padre, che tutto tiene e custodisce, e dalle cui mani nulla va perso per sempre…

Come sempre, allora, di fronte a questo tipo di problematiche per l’uomo si pone la questione “da che parte stare”, “per quale posizione decidere”, “a cosa credere”… sapendo che la scelta di astenersi – percorsa oggi da troppe persone perché la Chiesa non si faccia carico del problema – è già una scelta…

La cosa interessante è che – a differenza di quel che si pensa di solito, e cioè che da una parte stanno quelli dis-illusi (nel senso di realistici, legati alla mentalità razionalistica, quantificabile, dimostrabile), mentre dall’altra gli illusi (i creduloni, i bigotti) – né l’uno né l’altro versante ha in mano la dimostrazione per la sua posizione: non si può dimostrare che Dio esista e che ci aprirà la vita eterna, certo; ma non si può dimostrare nemmeno il contrario… Per entrambe le posizioni si tratta di “credere in” qualcosa, cioè – ultimamente – di una fede…

La fede dei Sadducei (di ieri e di oggi) ha come base l’osservazione (smagata, dicono loro) della realtà, per cui tutta una serie di elementi testimoniano che Dio non c’è e che la vita finisce nella tomba.

La fede dei cristiani invece si fonda sulla Parola di Dio – anche se è interessante che, soprattutto sul versante cattolico, ancora oggi siamo di fronte ad un’ignoranza abissale da questo punto di vista (sarà anche per questo che non sappiamo più rendere ragione della nostra fede? Tanto che i nostri ragazzi – pur battezzati e cresimati e tutto il resto – accettano senza sobbalzare che “tanto dopo la morte non c’è niente”, come dicono di solito?).

La fede dei cristiani si fonda sulla Parola di Dio, che come ha insegnato il Concilio Vaticano II e in particolare la Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione (Dei Verbum), è, sì, materialmente contenuta nel testo biblico, ma è eminentemente rintracciabile nella vita di Gesù, cioè nel modo in cui lui – vivendo – ha impegnato la sua libertà, ha deciso di sé, ha deciso chi essere…

Ecco perché la credibilità dell’annuncio della risurrezione della carne è da “misurare” sulla credibilità della persona di Gesù… come a dire che è sulla base di quanto riteniamo affidabile (degno di fede) Gesù, che dobbiamo dar credito al suo vangelo, cioè alla buona notizia che non solo Dio c’è, ma è un Padre che vuole la salvezza (cioè la Vita piena) per ciascun uomo… una Vita piena che non ha fine.

Il problema è quindi a questo livello… Quanto valgono, di fronte alle ragioni che porta il sadduceo che c’è in me (o la sua versione post-moderna) e che mi suscita così tanta angoscia, le ragioni di credibilità di Gesù di Nazareth, della sua vita, del suo vangelo? La fede sta tutta qua.
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