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mercoledì 14 maggio 2014
martedì 15 aprile 2014
giovedì 13 marzo 2014
Sole di Giustizia
postato da
Mario
Salta all’occhio il fatto che nel corso della storia si siano moltiplicati — e continuino a moltiplicarsi anche oggi — i fondamentalismi. In sostanza si tratta di sistemi di pensiero e di condotta assolutamente imbalsamati, che servono da rifugio. Il fondamentalismo si organizza a partire dalla rigidità di un pensiero unico, all’interno del quale la persona si protegge dalle istanze destabilizzanti (e dalle crisi) in cambio di un certo quietismo esistenziale. Il fondamentalismo non ammette sfumature o ripensamenti, semplicemente perché ha paura e — in concreto — ha paura della verità. Chi si rifugia nel fondamentalismo è una persona che ha paura di mettersi in cammino per cercare la verità. Già «possiede» la verità, già l’ha acquisita e strumentalizzata come mezzo di difesa; perciò vive ogni discussione come un’aggressione personale.
La nostra relazione con la verità non è statica, poiché la Somma Verità è infinita e può sempre essere conosciuta maggiormente; è sempre possibile immergersi di più nelle sue profondità. Ai cristiani, l’apostolo Pietro chiede di essere pronti a «rendere ragione» della loro speranza; vuol dire che la verità su cui fondiamo l’esistenza deve aprirsi al dialogo, alle difficoltà che altri ci mostrano o che le circostanze ci pongono. La verità è sempre «ragionevole», anche qualora io non lo sia, e la sfida consiste nel mantenersi aperti al punto di vista dell’altro, senza fare delle nostre convinzioni una totalità immobile. Dialogo non significa relativismo, ma «logos» che si condivide, ragione che si offre nell’amore, per costruire insieme una realtà ogni volta più liberatrice. In questo circolo virtuoso, il dialogo svela la verità e la verità si nutre di dialogo. L’ascolto attento, il silenzio rispettoso, l’empatia sincera, l’autentico metterci a disposizione dello straniero e dell’altro, sono virtù essenziali da coltivare e trasmettere nel mondo di oggi. Dio stesso ci invita al dialogo, ci chiama e ci convoca attraverso la sua Parola, quella Parola che ha abbandonato ogni nido e riparo per farsi uomo.
Così appaiono tre dimensioni dialogiche, intimamente connesse: una tra la persona e Dio — quella che i cristiani chiamano preghiera — , una degli esseri umani tra loro, e una terza, di dialogo con noi stessi. Attraverso queste tre dimensioni la verità cresce, si consolida, si dilata nel tempo. […] A questo punto dobbiamo chiederci: che cosa intendiamo per verità? Cercare la verità è diverso dal trovare formule per possederla e manipolarla a proprio piacimento.
Il cammino della ricerca impegna la totalità della persona e dell’esistenza. È un cammino che fondamentalmente implica umiltà. Con la piena convinzione che nessuno basta a sé stesso e che è disumanizzante usare gli altri come mezzi per bastare a sé stessi, la ricerca della verità intraprende questo laborioso cammino, spesso artigianale, di un cuore umile che non accetta di saziare la sua sete con acque stagnanti.
Il «possesso» della verità di tipo fondamentalista manca di umiltà: pretende di imporsi sugli altri con un gesto che, in sé e per sé, risulta autodifensivo. La ricerca della verità non placa la sete che suscita. La coscienza della «saggia ignoranza» ci fa ricominciare continuamente il cammino. Una «saggia ignoranza» che, con l’esperienza della vita, diventerà «dotta». Possiamo affermare senza timore che la verità non la si ha, non la si possiede: la si incontra. Per poter essere desiderata, deve cessare di essere quella che si può possedere. La verità si apre, si svela a chi — a sua volta — si apre a lei. La parola verità, precisamente nella sua accezione greca di aletheia, indica ciò che si manifesta, ciò che si svela, ciò che si palesa attraverso un’apparizione miracolosa e gratuita. L’accezione ebraica, al contrario, con il termine emet, unisce il senso del vero a quello di certo, saldo, che non mente né inganna. La verità, quindi, ha una duplice connotazione: è la manifestazione dell’essenza delle cose e delle persone, che nell’aprire la loro intimità ci regalano la certezza della loro autenticità, la prova affidabile che ci invita a credere in loro.
Tale certezza è umile, poiché semplicemente «lascia essere» l’altro nella sua manifestazione, e non lo sottomette alle nostre esigenze o imposizioni. Questa è la prima giustizia che dobbiamo agli altri e a noi stessi: accettare la verità di quel che siamo, dire la verità di ciò che pensiamo. Inoltre, è un atto d’amore. Non si costruisce niente mettendo a tacere o negando la verità. La nostra dolorosa storia politica ha preteso molte volte di imbavagliarla. Molto spesso l’uso di eufemismi verbali ci ha anestetizzati o addormentati di fronte a lei. È, però, giunto il momento di ricongiungere, di gemellare la verità che deve essere proclamata profeticamente con una giustizia autenticamente ristabilita. La giustizia sorge solo quando si chiamano con il loro nome le circostanze in cui ci siamo ingannati e traditi nel nostro destino storico. E facendo questo, compiamo uno dei principali servizi di responsabilità per le prossime generazioni.
La verità non s’incontra mai da sola. Insieme a lei ci sono la bontà e la bellezza. O, per meglio dire, la Verità è buona e bella. «Una verità non del tutto buona nasconde sempre una bontà non vera», diceva un pensatore argentino. Insisto: le tre cose vanno insieme e non è possibile cercare né trovare l’una senza le altre. Una realtà ben diversa dal semplice «possesso della verità» rivendicato dai fondamentalismi: questi ultimi prendono per valide le formule in sé e per sé, svuotate di bontà e bellezza, e cercano di imporsi agli altri con aggressività e violenza, facendo il male e cospirando contro la vita stessa.
Francesco, Vescovo di Roma
(via repubblica.it)
lunedì 4 novembre 2013
sabato 2 novembre 2013
Per una giustizia vera
postato da
Mario
Il dibattito sulla telefonata della ministra Cancellieri a favore della sola Giulia Ligresti – e non degli altri componenti della famiglia arrestati! – in carcere preventivo e a rischio di vita, la dice lunga sulla vera natura dell’essere o non essere cristiano autentico. O se volete è illuminante su che cosa consista concretamente per il cristiano “avere fede”. Qui naturalmente mi riferisco al “dibattito in sé” e non mi riferisco ai fatti concreti di come si siano svolte le cose. Che riguardano la magistratura e/o la correttezza della sua azione dal punto di vista istituzionale.
All’interno del dibattito emerge preponderante ciò che ciascuno intende per “giustizia”! Cosa è giusto? Salvare una vita anche a costo di violare le norme non scritte di una morale politica o per non rischiare una possibile interpretazione ambigua mettere a rischio la vita delle persone?
È più giusto il “tutti o nessuno” o “almeno qualcuno”? E tra questi “qualcuno”, vanno esclusi sempre e comunque gli “amici”? Soprattutto se “ricchi e potenti”? Soprattutto e comunque sia, se amici di un politico?
Qual è la differenza tra la telefonata di Berlusconi e quella di Cancellieri?
L’accettare l’una (Cancellieri) costringe ad accettare l’altra (Berlusconi)? (così Pdl e alleati). Il condannare l’una (Berlusconi) costringe a condannare l’altra (Cancellieri)? (così parte del PD, M5S, Sel). Ma non è compito della ragione umana (e si spera anche politica) saper distinguere i piani e i fatti?
A mio avviso appare evidente il diverso concetto di “giustizia” che emerge dal Vangelo e mi porta a non condividere minimamente entrambe le posizioni sopra esposte. Sia quelle del Pdl sia quelle della “sinistra”. E semmai a condividere, al di là delle sue vere intenzioni, l’azione “umanitaria” di Cancellieri. Non l’unica peraltro stando a quanto da lei dichiarato.
Perché? Perché il mio concetto di giustizia è altro rispetto al loro. Provo a spiegarmi.
Normalmente dividiamo il mondo tra credenti e non credenti, o anche tra cristiani e “laici” (nel senso laicista di “non credente”). In realtà nel Vangelo la vera discriminante non si pone mai a questo livello. La parabola del fariseo e del pubblicano, mostra con tutta evidenza che la differenza non si trova né al livello della religiosità, né a livello – udite, udite – del concreto comportamento etico della persona! Il pubblicano (esattore) è agli antipodi etici, morali, religiosi, politici, esistenziali non solo del fariseo, ma di ogni nostro riferimento di “giustizia”! Eppure è lui il salvato! Il finale della parabola ci dice qualcosa che sconvolge tutto il nostro concetto di “giusto” e di giustizia e quindi di giustificazione! Ma allora o Dio è ingiusto o è ingiusta la nostra giustizia!
Dove sta il problema? Il problema si capisce meglio forse con la figura di Barabba.
Mentre il “laico” vorrebbe la liberazione del giusto Gesù e la condanna del brigante Barabba (così il politico Pilato!), il cristiano pur non gioendo, anzi esecrando la detenzione e esecuzione di Gesù (voluta dai religiosi), non può non compiacersi e gioire della liberazione del brigante Barabba!
Qui sta la vera discriminante tra uomo e uomo. Si può discutere quanto si vuole con un credente o con un “laico” ma prima o poi bisogna vedere se abbiamo lo stesso concetto di giustizia! Il cristiano fa sua quella del Padre, che pur di vedere tutti i suoi figli liberi (anche se ricco, esattore, potente, brigante…) è disposto a subire e patire sulla sua carne la morte dell’innocente. Perché l’innocente è già un uomo libero e niente e nessuno potrà imprigionarlo, neanche la morte!
Cristiano non è colui che crede che Gesù è Figlio di Dio, non basta e in ogni caso non lo qualifica ancora come cristiano (anche i demoni lo sanno). Né può bastare la sua irreprensibilità etica (ammesso che esista un uomo del genere) o dogmatico-dottrinale. Il cristiano diventa tale se crede, vive e accoglie quella giustizia lì! Scandalosa per un pio ebreo, follia per un razionale greco farà capire san Paolo.
Ciò che ci divide non è che io sono credente e tu ateo, io cristiano e tu musulmano, io cattolico e tu protestante, io moralmente irreprensibile e tu no… o viceversa! Ciò che ci divide o ci unisce è il concetto di giustizia che abbiamo e che cerchiamo di attuare nel mondo!
Tornando alla telefonata di Cancellieri, tutto il problema verte sul quei “criminali” della famiglia Ligresti, per di più ricchi, potenti, corrotti, e chi più ne ha più ne aggiunga… che proprio per questo secondo il comune senso di giustizia, non avevano diritto ad essere aiutati, nonostante tutti riconoscano i limiti dell’ordinamento giudiziario e carcerario italiano. Poco importa se la vita di qualcuno che non fosse povero, indifeso, impotente e forse innocente, fosse in pericolo! Prima non viene colui che mi capita di poter soccorrere, prima viene l’idea astratta di soccorrere tutti o nessuno!
Di questo egalitarismo, in fondo elitario anche se pauperistico, ne stiamo raccogliendo i frutti avvelenati in una giustizia giustizialista che non sa farsi carico dei propri limiti anche quando questi, piacciano o non piacciano, riguardano coloro che riteniamo nostri aguzzini! Ma così facendo non siamo diversi dai Ligresti che condanniamo.
martedì 22 ottobre 2013
XXX Domenica del Tempo Ordinario
postato da
Mario
Dal libro del Siràcide (Sir 35,15-17.20-22)
Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone. Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano, né la vedova, quando si sfoga nel lamento. Chi la soccorre è accolto con benevolenza, la sua preghiera arriva fino alle nubi. La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo (2Tm 4,6-8.16-18)
Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione. Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 18,9-14)
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Il vangelo che questa Trentesima Domenica del Tempo Ordinario ci propone, è la diretta continuazione di quello di domenica scorsa, sulla necessità di pregare sempre. Oggi il testo lucano, ci propone – in una nuova parabola di Gesù – due esempi di preghiera: quella del fariseo e quella del pubblicano.
Ma se la preghiera, come dicevamo la volta scorsa, non è tanto un dire preghiere, ma il collocarsi nella relazione col Signore, allora forse, i due protagonisti non sono tanto due tipi umani – di cui saremmo bravissimi a trovare esemplificazioni contemporanee tra le persone che conosciamo, ma sono due possibilità di porsi in relazione col Signore e quindi coi fratelli, che si ripresentano attimo dopo attimo in ogni momento della nostra vita. Noi possiamo essere e siamo il fariseo – con l’intima presunzione di essere giusti e sprezzanti verso gli altri – e il pubblicano – incapaci di alzare gli occhi al cielo, con la mano che ci batte sul petto.
L’immagine che dovrebbe venirci in mente non è quindi tanto quella di quel fratello che assomiglia al fariseo affiancata da quell’altra che ha il volto di quel fratello che assomiglia al pubblicano della parabola… quanto piuttosto quella di noi stessi, alle prese con la decisione sul chi essere…
A proposito, mi sono ricordata di un’immagine della mia infanzia, quella dei fumetti di paperino…
Il fariseo e il pubblicano sono dentro di noi, impegnati nella continua lotta tra il sentirsi giusti e l’incapacità di alzare lo sguardo verso il Signore.
È questa la posta in gioco della parabola di Gesù: la nostra giusta collocazione di fronte al Signore (e ai fratelli).
Da questo punto di vista, non v’è dubbio che Gesù indichi come corretta la posizione del pubblicano: si posiziona in maniera giusta colui che si riconosce peccatore.
Ma – onde evitare fraintendimenti – vorrei specificare i termini in gioco.
Da un lato la doppia valenza che ha il termine “giusto” e dall’altra quella che ha il termine “peccatore”.
La parola “giusto”, infatti, ha significati diversi nelle locuzioni da me usate: ha una valenza quando dico “sentirsi giusti”, ne ha un’altra quando dico “collocarsi nella posizione giusta”.
Nel primo caso infatti, l’intonazione del termine è etica, fa cioè riferimento al comportamento del soggetto in causa, che nella finzione parabolica è ben esplicitato: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo».
Nel secondo caso, invece, con il termine “giusto” non si fa immediatamente riferimento ad un comportamento moralmente corretto, ma all’esattezza e alla precisione di una determinata posizione: è la stessa valenza che il termine ha in una frase come la seguente “la giusta posizione per vincere la partita di scacchi è fare scacco matto”, oppure “la giusta combinazione per aprire la cassaforte è digitare la password esatta”.
Mentre nel primo caso alla “giustezza” si può concedere una sorta di gradazione (si può essere più o meno giusti), nel secondo no: o si è nella posizione corretta, che abilita a qualcos’altro (la precisa posizione degli scacchi, che consente la vittoria; o la password esatta che permette di accedere alla cassaforte) oppure non lo si è.
Considerato tutto questo e tornando alla parabola, riesce bene il gioco di parole per cui non è detto che essere giusti (moralmente) coincida con la giusta collocazione di fronte al Signore. Anzi, sembra che il giusto posizionarsi di fronte a Dio (quello che abilita ad una relazione consapevole con Lui, che altrimenti non si dà) coincida con il non essere giusti (moralmente).
Questo evidentemente non vuol dire che allora bisogna porsi in una condizione moralmente ingiusta per entrare in relazione col Signore o che non sia necessario lottare contro le ingiustizie di cui siamo artefici; piuttosto questo gioco di parole, suggerito dal vangelo stesso («Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti [in greco, dikaioi] e disprezzavano gli altri» - «Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato [in greco, dedikaiomenos]»), propone il riconoscimento di Dio come unico giusto e una ricollocazione nostra di fronte a Lui: nessuno di noi è giusto, noi siamo tutti peccatori.
Ed ecco entrare in gioco il secondo termine dalla doppia valenza che richiamavamo prima: “peccatore”.
Secondo un primo senso “peccatore” è chi commette dei peccati: preso in questa prima accezione il termine sembra contraddire quanto appena detto. In effetti esistono persone capaci di non fare peccati (almeno per un certo lasso di tempo) e dunque che potrebbero – come il fariseo della parabola – ritenersi giusti (moralmente).
Ma vi è una seconda intonazione che questo termine può avere: “peccatore” è colui che esistenzialmente è abitato dal peccato, cioè che in tutto ciò che fa (anche le cose giuste) porta con sé la contraddizione, la viscosità, la necessità della sua storia, del suo mondo, della storia che è e del mondo che è.
Da questo punto di vista nessuno di noi è “senza peccato”; per prendere solo un aspetto della questione ricordo quanto ci ricordava il prof. Moscatelli in un incontro sulla giustizia nella Bibbia: le nostre “vite giuste” galleggiano su fiumi di sangue di altri uomini… quello di coloro che abitano nel Terzo mondo e sulla cui ricchezza si fonda la nostra opulenza, quello di mia madre che mi ha dato alla luce, quello dei martiri della patria che mi consentono di vivere in un paese libero dalla dittatura, e via discorrendo…
Non si tratta del solito discorso – piuttosto abusato negli ambienti cattolici – che vuole insistere sulla peccaminosità dell’uomo, mettendola quasi al centro della lettura teologica della storia: non credo nella logica della mortificazione, delle penitenze e dei sacrifici atti a castigare la nostra natura cattiva. È infatti quella stessa logica che genera sedicenti giusti, che disprezzano gli altri.
Si tratta piuttosto della proposta (che a me pare nasca dalle pagine evangeliche) di guardarsi onestamente come un miscuglio (i cui elementi quasi mai sono ben rintracciabili) di caso, fortuna, grazia, necessità, precarietà, eredità, gratuità, bisogni, assoluto e chi più ne ha più ne metta… con due centimetri di libertà…
Se ci pensiamo così, come un grumo di sangue accanto ad altri grumi di sangue, siamo nella giusta posizione per una relazione consapevole col Signore, che col tempo ci insegna che la giustizia che disprezza il fratello, non sarà mai la sua giustizia… perché Lui, l’unico giusto, i suoi figli-miscuglietti non li ha mai disprezzati.
domenica 20 ottobre 2013
Chi la dura la vince
postato da
Mario
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contagio di luce |
A una prima lettura appare evidente nella liturgia di oggi il riferimento all’impegno costante sia nella preghiera che nell’annuncio missionario…
Così nel libro dell’Esodo, Mosè con le braccia alzate appare il vero autore della vittoria di Giosuè contro i nemici di Israele. Non è la forza di Giosuè ma la costante preghiera di Mosè – e in ultima analisi, Dio – ciò che fa vincere Israele!
La conclusione appare quindi ovvia: Senza la preghiera non riusciamo a vincere (Esodo)… e ad ottenere giustizia (Vangelo)! A questo livello di interpretazione, avere fede è perseverare con la preghiera incessante, fiduciosi nella promessa di Dio. Fiducia in Dio che salverà il suo fedele nonostante la storia sembri smentirla! Riappare quindi nel Vangelo il tema della costanza nella preghiera che abbiamo visto in un Mosè stanco e sostenuto dalla comunità (rappresentata da Aronne e Cur)… Esortazione alla costanza (a “tener duro”, endurance) che ritroviamo in san Paolo nella lettera a Timoteo!
Fin qui la lettura “tradizionale” (In questa chiave anche la preghiera iniziale della Colletta: O Dio, che per le mani alzate del tuo servo Mosè hai dato la vittoria al tuo popolo, guarda la Chiesa raccolta in preghiera; fa’ che il nuovo Israele cresca nel servizio del bene e vinca il male che minaccia il mondo, nell’attesa dell’ora in cui farai giustizia ai tuoi eletti, che gridano giorno e notte verso di te).
Tutte cose belle e giuste e che ci hanno guidato per anni e guidano ancora la vita di molti cristiani. Ma mi chiedo, “sperare contro ogni speranza” anche quando i fatti sembrano contraddirla, è ancora speranza? È questo il senso che intendeva Paolo? Non siamo davanti a «un ottimismo che toglie alle decisioni morali e alle nostre azioni quel senso acuto di responsabilità che invece dovremmo avere»? (Ernesto Balducci). Tanto Dio – si badi bene: Dio! – prima o poi vince(rà)! E l’uomo? Personalmente penso che una fede siffatta non sia molto diversa da quella del bambino che crede alla Fatina delle favole. Non è fede, è fideismo! L’ottimismo della volontà contro il pessimismo della ragione (Antonio Gramsci) è da schizofrenici, non da uomini che fondano sulla lucidità del pensiero l’agire della volontà.
Leggendo e rileggendo passi interi della bibbia e del vangelo abbiamo imparato a conoscere la figura di Mosè, di Paolo e di Gesù. E così decidiamo di non sorvolare più su certe sue espressioni fino a ieri oscure, perché pian piano sembrano illuminarsi di luce propria mentre altre assumono riflessi di significato nuovo. Cosa vorrà dire per esempio la frase spiazzante di Gesù: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». Di che fede sta parlando?
E allora rifacciamo il percorso che abbiamo fatto tante volte, cercando di guardare con occhi diversi i testi che abbiamo imparato a conoscere!
E ci accorgiamo che nella prima lettura l’unico che prega, se prega, è Mosè… e gli altri? Ma sta proprio pregando? Almeno nel senso nostro di preghiera. Cioè se Mosè prega, che preghiera è? In cosa si differenzia dalla nostra?… C’è forse qualcosa nel nostro modo di pregare che non sia preghiera?
Già sappiamo dalla bibbia che c’è un modo di pregare che Dio non sopporta, perché non ci umanizza, perché ci rende schiavi di ritualità vuota. Le invettive di Isaia ci fanno tremare: 1,4 «Guai, gente peccatrice, popolo carico d’iniquità! Razza di scellerati, figli corrotti!» 1,11 «Perché mi offrite i vostri sacrifici senza numero?… Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di pingui vitelli. Il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. 12 … chi richiede a voi questo: che veniate a calpestare i miei atri? 13 Smettete di presentare offerte inutili; l’incenso per me è un abominio, i noviluni, i sabati e le assemblee sacre: non posso sopportare delitto e solennità. 14 Io detesto i vostri noviluni e le vostre feste; per me sono un peso, sono stanco di sopportarli. 15 Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei: le vostre mani grondano sangue». Di che sangue grondano le nostre mani?
Torniamo a Mosè: Mosè non aveva bisogno di pregare… almeno non nel senso nostro! Salvato dalle acque, poteva ringraziare la figlia del faraone se era ancora in vita! Crescendo avrà fatto le sue offerte rituali al dio Rha insieme a tutta la famiglia del Faraone. Aveva tutto Mosè: forza, ricchezza, salute, giovinezza e potere… Che cosa poteva dargli di più un dio? Ci viveva in casa (Faraone)! Certo aveva un grosso difetto Mosè che gli uomini potenti credono di non potersi permettere perché temono di perdere il loro potere (tirannico): aveva un forte senso di giustizia che lo porterà ad uccidere pur di difendere l’operaio ebreo vittima dell’arroganza di un egiziano. E così come Caino, fuggirà nel deserto! Forse in quella vita da fuggitivo il rischio di Mosè era che vivesse di nostalgia… ma in fondo aveva una vita tranquilla… s’era persino sposato!
E qui, rifugiato nel deserto, che accade a Mosè? Un Dio fino ad allora a lui sconosciuto, gli parla attraverso un roveto ardente! Se qualcuno l’avesse visto l’avrebbe preso per matto: parlare con un rovo in fiamme!
Ma il dialogo tra Mosè e il “roveto” è significativo: è il “rovo” (e non un albero maestoso!) che si rivolge a Mosè e gli chiede di esaudire un suo desiderio che aveva coltivato da sempre: libera il mio popolo! Sembra una fiaba! Ma non racconta favole: La vita di Mosè cambia radicalmente per la terza volta e la sua vita consisterà nell’impegno – fino alla morte – ad esaudire la richiesta di Dio. Anzi non Dio, ma Yhwh! Non è Yhwh che esaudisce le sue richieste ma lui che esaudisce le richieste di Yhwh! Se Mosè chiederà qualcosa a Yhwh, sarà solo per realizzare efficacemente ciò che Egli gli aveva chiesto. Ecco perché quando Mosè si arrabbia – dice il testo – è punito da Yhwh. Come a dire: Mosè, non è mica un tuo progetto! Se ti arrabbi stai trasformando il progetto di liberazione di Yhwh in un tuo progetto di potere!
La vita di Mosè insomma ci insegna che la preghiera non è quella “cosa” con cui chiediamo a Dio di esaudire le nostre esigenze, ma è preghiera quella che cerca di comprendere i desideri di Dio per poterli esaudire nella storia! Anzi non di Dio, ma del Padre!
La vita dell’uomo si realizza, l’uomo si umanizza, nell’appagamento dei desideri dell’altro (Padre, prossimo) non dei propri! Perché i propri sono solo progetti di potere!
Yhwh sa che il popolo di Israele è la propria “memoria” storica. Se viene distrutto Israele, viene distrutta la sua presenza storica e Yhwh sparisce dalla storia! – Ogni antisemitismo mira a questo e anche per questo non potrà vincere mai! – Tra Israele e Yhwh c’è un solidum esistenziale sancito con Alleanza eterna mai superata e superabile. Così la storia dell’uno dipende dalla vita dell’altro e viceversa! La richiesta di Yhwh a Mosè, agli israeliti, a ogni uomo, in fondo è: “Fammi vivere”! Che è ciò che invece siamo soliti chiedere noi a Dio!
Nella Bibbia, i poli della preghiera quindi sono capovolti rispetto ai “nostri”! E scopriamo che solo esaudendo i desideri di Dio, possiamo esaudire i nostri! La radice dell’uomo immagine di Dio, sta a questo livello. Mangiare dell’albero della conoscenza del male (e del bene) è mangiare un frutto che nemmeno Dio mangia: l’uomo se vuol vivere non può che mangiare solo ciò che Dio mangia. Perché può nutrirsi solo se si nutre di ciò di cui si nutre Dio.
Le mani alzate di Mosè quindi non sono le preghiere di Mosè a Dio, ma l’esaudimento (da parte di Mosè) della preghiera fatta da Yhwh a Mosè: salva/libera il mio popolo e così salverai anche me e te con noi! Mosè accetta di essere strumento di questa liberazione di Yhwh e di Israele. E così costruisce la propria. Ha il “bastone di Dio” in mano, ma il vero bastone è lui, le sue braccia, la sua fragilità, la sua ostinata passione per l’avventura di Dio. Su cui Dio e la storia si appoggiano.
Tutto il popolo di Israele, e noi con lui, dobbiamo imparare questo passaggio per vivere la “preghiera” – il modus orandi – di Mosè: passare dalla preghiera dello schiavo (Dio liberami, salvami, guariscimi, dammi…), alla preghiera dell’uomo libero che si prende cura della libertà altrui (di Dio e dell’uomo).
A partire da questa rapida comprensione rinnovata, noi possiamo accedere alle altre letture con uno sguardo nuovo: la missione, l’annuncio del vangelo, se non vuole essere la realizzazione di un proprio progetto di potere, non può non partire da un ascolto assiduo della Parola di Dio! «Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture» (Paolo) per attuarle nella storia! Se c’è preghiera di domanda non può che essere in questa direzione: e infatti Paolo prega Timoteo di attuarla! Paolo non scrive come un padrone ai suoi sudditi… come un Cesare a Pilato…! Non ordina, supplica!
La parabola di Gesù non si discosta da questa logica: la preghiera non è relazione intimistica con Dio! Non è un abbraccio tra due narcisisti! E ancor meno un “volemose bene”, ma è il lavoro (braccia, gambe, lingua, sguardi…) diuturno di attuazione della giustizia del Padre nella storia: solo così il Padre vive e l’uomo con lui.
Il Padre non è colui che deve attuare la nostra giustizia, ma è colui che è giustizia già attuata. La sua! E che prega, supplica, sprona ciascuno di noi a farla propria! Storicizzandola!
Il linguaggio paradossale della parabola non può contraddire ciò che nella storia biblica è stato un guadagno culturale e cultuale dell’umanità!
Dire che Dio attua prontamente, significa che Dio da parte sua ha già attuato questa giustizia, semmai tocca all’uomo farsene carico! Dio c’è, è l’uomo che a volte, troppe volte, non c’è! Non siamo stati a Lampedusa come non siamo stati ad Auschwitz; non siamo a San Vittore come non ci siamo a Guantanamo; non siamo a Bruxelles perché non vogliamo essere ad Atene; non siamo a Wall Street come non siamo a Francoforte; fingiamo di esserci al Palazzo di Vetro come fingiamo di esserci a Palazzo Madama; eliminiamo ogni presenza umanizzante a Torino come la togliamo a Pomigliano… Crediamo di poterla difendere nella propria casa (“ah! casa, dolce casa”) ignorandola nel quartiere!...
E ci stupiamo poi di trovare tanto acida la casa che credevamo così dolce!
Ecco i luoghi (alcuni) dove avremmo dovuto custodire la fede nella giustizia e nei quali invece rischiamo di perderla! Per sempre!
Come l’ultimo gradino indifeso della scala sociale e religiosa della vedova; come il balbuziente Mosè; come il fragile e perseguitato Paolo (2Cor 11,23-12,10), l’attuazione di questa giustizia di Yhwh/Padre nella storia, non sta nella nostra forza, ma nella nostra disponibilità a rompere gli indugi e gli schemi sociali e culturali per farci incessanti rompiscatole. “Maggioranza rumorosa” contro ogni forma di ingiustizia e facitori di giustizia nuova. Nuova perché non nostra ma del Padre!
Solo così il “giudice dell’imperatore”, se non per convinzione, per spossatezza (spossatezza che il facitore della giustizia del Padre – seppur stanco – non ha! cfr 2Cor 4,8ss), vinto come il Faraone, diventa “giudice del Padre”. Attuatore storico – suo malgrado – della misericordia di Yhwh!
Giustizia che è già presente nella storia, accolta inizialmente solo dai poveri di Yhwh quale la vedova (che a mio avviso qui rappresenta Dio che ottiene soddisfazione da noi uomini cattivi cfr Mt 7,11)! Poveri che non badando alla propria insignificanza storica, e senza voler diventare “politicamente significativi” (sarebbe una lotta di potere!), se ne fanno audace istanza senza scoraggiarsi. E vincono sempre!
Al giudice iniquo infatti, come ad ogni promotore di ingiustizia restano dunque tre strade: o elimina il “disturbatore” della sua falsa quiete (con la certezza di diffondere ulteriormente la protesta dilazionandola), o accetta di lasciarsi perennemente disturbare (col risultato di minare la propria autorità), o più furbescamente cominciare, seppur controvoglia, ad ascoltare il popolo che sta opprimendo! In ogni caso, come si può notare qualunque scelta faccia, è scacco matto!
A una condizione però, lo ribadisco perché a mio parere è di decisiva importanza: La vedova bussa alla porta, non gliela sfonda! La rivendicazione della giustizia non può usare il metodo dell’ingiustizia che vuol combattere, altrimenti l’oppresso non solo giustificherebbe la propria eliminazione da parte del potere costituito, ma nel gioco della inversione delle parti, in caso di vittoria dell’oppresso non sarebbe eliminata l’ingiustizia! Il fallimento di ogni rivoluzione violenta è tutta qui!
La preghiera dopo questo percorso perde così ogni tradizionale connotazione spirituale per assumere una dimensione nuova in cui l’accoglienza del Sogno (cfr Lc 11,13) di Gesù e del Padre diventa discernimento operativo, fattualità storica!
Pregare vuol dire allora, non incrociare le dita o le braccia, ma assumersi la responsabilità di una ostinata, pacifica quanto scomoda “guerriglia” di rivendicazione della giustizia del Padre. Perché anche nella fede come nella vita, “chi la dura la vince”! E… non conosco nessuno più ostinato di Dio!
venerdì 18 ottobre 2013
XXIX Domenica del Tempo Ordinario (C)
postato da
Mario
Dal libro dell’Èsodo (Es 17,8-13)
In quei giorni, Amalèk venne a combattere contro Israele a Refidìm. Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio». Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalèk, mentre Mosè, Aronne e Cur salirono sulla cima del colle. Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk. Poiché Mosè sentiva pesare le mani, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. Giosuè sconfisse Amalèk e il suo popolo, passandoli poi a fil di spada.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo (2Tm 3,14-4,2)
Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona. Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento.
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 18,1-8)
In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
Le letture che la Chiesa ci offre in questa Ventinovesima Domenica del Tempo Ordinario, sono tutte e tre molto belle e molto ricche e mi pare che riescano – meglio che in tanti altri casi – a tracciare un arco di senso facilmente individuabile e comprensibile, perché molto vicino all’esperienza che anche noi spesso ci troviamo a vivere.
Innanzitutto Mosè… è l’uomo nelle cui mani sta la sorte dei suoi… mani fragili, mani di uomo, mani di un uomo solo… che prima o poi iniziano a pesare.
Anche noi spesso ci sentiamo così – a torto o a ragione – con il peso dei “nostri”, con il peso degli altri, con il peso delle situazioni, tutto sulle nostre spalle… spalle fragili, spalle di uomini e donne… spesso soli…
La Parola ci intercetta qui… nella pesantezza di una condizione che – ci pare – non siamo in grado di sos-tenere…
E ci intercetta con tre grandi sottolineature, che riescono forse a ridarci la forza che lungo i giorni si è logorata… o, se non altro, a ridarci la lucidità con cui guardare alla vita:
1- Innanzitutto la sottolineatura del libro dell’Esodo… Non è vero che siamo soli! Nella comunità di chi ha passione per l’annuncio evangelico c’è sempre un Aronne e un Cur che può sostenere le nostre mani… qualcuno che ci dà una pietra su cui sederci e che “tiene su” con noi le sorti altrui…
Che è stata anche la scoperta del presuntuoso Elia, quando alle sue parole «Io sono rimasto solo, come profeta del Signore, mentre i profeti di Baal sono quattrocentocinquanta», il Signore stesso aveva risposto dicendo, piuttosto ironicamente: «Io, poi, ho riservato per me in Israele settemila persone»… (1 Re 18).
2- La seconda sottolineatura è la parola di Paolo a Timoteo… La parola della saldezza, della fondatezza e della giustezza del nostro essere lì a tener su, per tutti, le mani… una fondatezza (e una giustezza) che, quando le mani iniziano a pesare, è la prima ad andare in crisi… Perché siamo qui? Per chi? Con la smaniosa voglia di lasciar perdere, abbassare le mani e lasciare che tutto vada allo scatafascio, con l’autogiustificazione ingannatrice che “ci stavano chiedendo troppo” e dunque che “era proprio inevitabile lasciar stare e pensare un po’ a noi stessi (alla nostra sopravvivenza)”… E invece Paolo ci riporta (ci butta – forse – un po’ in faccia) il modo giusto con cui guardare la realtà: «Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia»!
Come a dire: “Figlio/a, tu sai perché sei lì a tener su le mani per tutti! Tu sai che sono degni di fede coloro che lì – attraverso questa storia di uomini (e donne) – ti hanno posto. Tu sai che ha una fondatezza ciò in cui hai creduto e che ora ti è andato in crisi… Una fondatezza che, ancora (e sempre), è rintracciabile, mantiene aperto il suo accesso… perché la Scrittura rimane, anche quando chi te l’ha insegnata non c’è più!”.
3- E infine la terza parola, quella del vangelo, «sulla necessità di pregare sempre»… non la preghiera per quel dio che abbiamo dentro (costruito da noi! E che dunque è un idolo!), che assomiglia così tanto al giudice «senza religione e senza pietà» del racconto lucano, ma «La preghiera capace di ottenere tutto da Dio», «quella che ci insegna Gesù: che ha cambiato il volto di Dio in “Padre nostro” – e prima si preoccupa anzitutto di lui, del suo nome, del suo regno della sua volontà… perché questa è la nostra salvezza, affidarsi a Lui» [Giuliano] a cui diamo del “tu”.
Ecco dunque tratteggiato, brevemente, il percorso che le letture ci invitano a fare questa domenica… perché i Mosè a cui pesano le mani, la vedova abbandonata senza più l’appoggio di nessuno, siamo noi!
Siamo noi quelli sostenuti – finora – da un’ostinazione invincibile che adesso invece pare aver perso la sua imbattibilità, per lasciarci nel «l’abbandono della partita, per ateismo o agnosticismo»…
Siamo noi quelli a cui – con il Salmo 41,5 – vien da dire: «Questo io ricordo, e il mio cuore si strugge: attraverso la folla avanzavo tra i primi fino alla casa di Dio, in mezzo ai canti di gioia di una moltitudine in festa». Ma ora…
Siamo noi quelli tentati di fare come «l’Ivan di Dostojevski e restituire dignitosamente a dio il biglietto da visita» dicendo «non mi interessa più, non voglio aver più niente a che fare con lui!»…
Siamo noi quelli che Gesù ha voluto portare con sé, «a questa barriera estrema oltre la quale inoltrarsi, per continuare a pregare…» [Giuliano].
Siamo noi quelli immersi in una situazione che biblicamente si chiama la “prova” e che è radicale proprio perché mette in discussione Dio, il suo volto, il nostro modo di pensare la storia, il giusto e l’ingiusto, il buono e il cattivo, la sensatezza e l’insensatezza… e che il Signore chiama a ri-decidersi per Lui e a non fare come Israele, che ogni volta che ha sperimentato qualcosa che mandava in crisi l’idea che si era fatto di Dio, passava a qualcun altro, costruendosi vitelli d’oro…
Ecco perché le sottolineature così pressanti sulla necessità della preghiera, della Parola e della Chiesa, come alveo da cui non sottrarsi quando il germe della sfiducia, della stanchezza e dell’insensatezza si insinua nei nostri interstizi e inizia a rodere le fondamenta del nostro essere… Perché la prova in cui la vita mette l’uomo, non si trasformi nella prova in cui l’uomo mette Dio, che – non a caso – in queste situazioni viene identificato immediatamente con il giudice sordo della parabola, o con colui che ci lascia soli a tener su le mani per tutti… comunque quello della cui parola si inizia a diffidare…
«… a meno di prendere l’altra strada, suggerita da Gesù : cambiare il volto di Dio!» [Giuliano], anzi ri-accedere a quello autentico, tornare a sbilanciarsi con fiducia verso il volto di Dio a cui la Parola dà una fondatezza e al quale – come dice un bellissimo canto liturgico - «A te fratello chiedo di credere con me…».
Che proprio quest’altra strada, quella del cambiare volto di Dio, suggerita da Gesù, sia quella indicata dalla parabola lo mostrano alcune piccole osservazioni.
Come scrive Nigel Warburton nel suo Libertà di parola, «Mill raccomandava di recitare il ruolo di avvocato del diavolo contro le proprie idee» perché «qualora i motivi a sostegno di un’opinione non fossero regolarmente sfidati, Mill riteneva che si rischiasse di perdere con essi il significato stesso dell’opinione. Risultato: dove c’era in precedenza una convinzione vivente, ci sarà solo il cadavere del significato».
In effetti, a ben vedere, un’interpretazione della nostra parabola che vi rilevasse semplicemente un’esortazione a «pregare sempre, senza stancarsi mai» come “ciò che basta” per essere esauditi, cade immediatamente sotto i nostri colpi “avvocateschi”… Perché non è vero che bastapregare incessantemente e senza stancarsi, nemmeno per una causa sacrosanta, per essere esauditi! La storia di tante, troppe sofferenze, ingiustizie, morti ci racconta di innumerevoli preghiere inascoltate… di innumerevoli madri, mogli, figli che di fronte alla frase evangelica: «Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui?» debbono amaramente rispondere “No”; e, viceversa a quell’altra «Li farà forse aspettare a lungo?» debbono rispondere “Sì”. In troppe occasioni all’affermazione di Gesù «Io vi dico che farà loro giustizia prontamente», dobbiamo dire “Non è vero”.
E dunque? O ammettiamo che Gesù abbia avuto torto, oppure dobbiamo lasciarci scavare da una sua parola che non ha riscontri nella storia.
Nemmeno l’interpretazione che poniamo in seconda battuta – necessaria, visto il crollo della prima sotto l’evidenza della storia – regge. La seconda interpretazione (quella appunto che arriva per seconda) suona più o meno in questi termini: a volte il pregare incessantemente “funziona”. A volte capita che qualcuno sia esaudito. Perché lui sì e un altro no? Non è dato saperlo… Qualcuno scabrosamente dice “Avrà pregato meglio di quell’altro”… Qualcun altro, più pudico, si rifugia nel “è un mistero, è il mistero di Dio”… non rendendosi troppo conto, forse, che, così facendo, stanno veicolando un’idea di Dio lontana da quella proposta da Gesù: infatti essi, implicitamente, ammettono l’idea di un Dio ambiguo, un po’ buono e un po’ cattivo (mentre Gesù ci dice che Dio è il solo buono), oppure arbitrario che concede grazie “a caso” (mentre Gesù ci dice che Egli è solo Padre per tutti), oppure ingiusto perché non sempre quelli che ricevono l’esaudimento sono più meritevoli di chi non lo riceve, anzi… (mentre Gesù ci dice che Dio è giusto).
Ma, allora, che dire di queste parole di Gesù?
Innanzitutto dobbiamo toglierci dalla testa l’identificazione del giudice della parabola con Dio. Infatti, nonostante tutta la parabola sia una contrapposizione tra Dio e il giudice, nel nostro inconscio l’identificazione tra i due avviene immediatamente!
Inoltre ciò su cui ruota tutto il discorso è la locuzione “fare giustizia” («Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti?» - «farà loro giustizia prontamente») che fa da pendant con il pubblicano della parabola che segue immediatamente la nostra, del quale si dice «tornò a casa giustificato» in contrapposizione al fariseo.
Ciò che vi è in gioco nella preghiera dunque non è l’esaudimento, ma la giusta collocazione nel rapporto col Signore.
Finché penseremo alla preghiera come esaudimento, non usciremo dai vicoli ciechi in cui il vangelo ci fa bloccare. La preghiera non è quello! Essa è piuttosto e solamente la relazione “cuore a cuore” – “spirito a spirito” dell’uomo con il suo Signore: è ciò che permette la giustacollocazione di fronte al Dio Padre, solo buono e solo giusto, che Gesù ci ha raccontato.
martedì 1 ottobre 2013
Abolire l'abisso
postato da
Mario
In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”». Lc 16,19-31
Vangelo difficilissimo questo, non tanto perché rischiamo di essere depistati dalla lettura del brano tratto dal libro del profeta Amos (Am 6,1.4–7) o perché secoli di interpretazione ci tentano a una lettura moralistica, ma perché è veramente lontanissimo dal nostro modo di percepire la realtà. E fin da subito: da quando in qua non si conoscono i nomi degli “arrivati” e si conoscono invece quelli dei “falliti”?...
Bisogna anche tener conto del brano che la precede (Lc 16,1–13) che parla del cosiddetto “amministratore infedele”!
La difficoltà maggiore però sta nel riuscire a capire (cioè accettare: le cose spesso vanno di pari passo!) per quale ragione il ricco si trovi dopo la morte “nei tormenti” e Lazzaro invece si trovi “nella consolazione” a fianco di Abramo.
Perché una cosa è certa il ricco della parabola non è un “epulone”! Contrariamente a quanto indicano alcune bibbie nei titoli (“Il ricco cattivo e il povero Lazzaro” in BJ) niente nella parabola fa capire che il ricco fosse “cattivo”, anzi!
Né ci può aiutare l’AT dove, ad es., il contadino Amos chiamato da Dio a profetizzare, lancia, otto secoli prima di Cristo, invettive contro i ricchi del paese: Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria! [con Sion e Samaria si intende il popolo di Israele]. Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla. Canterellano al suono dell’arpa, come Davide improvvisano su strumenti musicali [quindi recitano salmi, sono molto religiosi questi ricchi!]; bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano [ecco l’accusa], . Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti.
Ma tutto questo disinteresse, nella parabola del ricco non lo troviamo: non viene detto “e il ricco ignorava Lazzaro”. Anzi possiamo dire che se Lazzaro è stato alla porta del ricco fino alla propria morte, evidentemente qualche vantaggio ne aveva, mangiava le briciole certo, ma aveva di che appagare la propria “bramosia”. Non solo, nel dialogo con Abramo che segue dopo la morte vediamo il ricco che si preoccupa della sorte del suo popolo. I “5 fratelli” stanno proprio a indicare l’insieme del popolo di Israele. Quindi non si può applicare a questo ricco l’anatema di Amos!
Ma tutto questo disinteresse, nella parabola del ricco non lo troviamo: non viene detto “e il ricco ignorava Lazzaro”. Anzi possiamo dire che se Lazzaro è stato alla porta del ricco fino alla propria morte, evidentemente qualche vantaggio ne aveva, mangiava le briciole certo, ma aveva di che appagare la propria “bramosia”. Non solo, nel dialogo con Abramo che segue dopo la morte vediamo il ricco che si preoccupa della sorte del suo popolo. I “5 fratelli” stanno proprio a indicare l’insieme del popolo di Israele. Quindi non si può applicare a questo ricco l’anatema di Amos!
Nella parabola non viene detto niente di negativo sul ricco: non che non pagasse le tasse, che non pagasse gli operai, non che rubasse, nemmeno che non pregasse, certo gli piaceva il lusso ma non si fa menzione di “orge di dissoluti”, amava vestire all’ultima moda, fare festa con gli amici, ma non che sperperasse e comunque sia, usava del frutto del proprio lavoro! Insomma non c’è qui nessun ricco cattivo! C’è semplicemente un ricco! Punto!
E Lazzaro? Chi l’ha detto che fosse buono? anzi a ben pensare potremmo immaginare il contrario. Perché era povero? Forse un fannullone, forse un incapace… E le piaghe? Da dove gli venivano?… forse da una vita dissoluta che l’ha portato ad ammalarsi? Dopotutto nella mentalità dell’epoca dietro una malattia c’era sempre un peccato magari occulto!
Neanche di lui sappiamo se pregasse, se facesse del bene… Insomma l’unica caratteristica di Lazzaro era quella di essere povero! Punto!
Muoiono entrambi, come accade ad ogni uomo!
Lazzaro da povero, possiamo immaginarlo morire come un cane in mezzo ai cani. Il ricco da ricco, immaginiamolo pure attorniato dai suoi cari e magari con funerali di Stato!
Ma ecco che nell’aldilà le sorti son capovolte: il ricco nei tormenti e Lazzaro beato a fianco di Abramo. Perché? Abbiamo detto – stando al racconto – senza colpe del ricco e senza meriti di Lazzaro!
Il dialogo fantastico tra il ricco della parabola e l’Abramo della parabola è la chiave della parabola stessa e sbaraglia i nostri riferimenti etici. Intanto diciamo subito che dobbiamo stare attenti a non trarre dal linguaggio e dalle immagini della parabola (di ogni parabola!) conclusioni teologiche. Dobbiamo usarle per decifrare il senso della parabola, per trarre poi dal senso – e mai dalle immagini – conseguenze nell’agire. Insomma in questa parabola non c’è nessuna teologia dell’inferno, del diavolo, della dannazione o di qual si voglia idea dell’aldilà. Gesù parla il linguaggio di allora (storie del genere i rabbini ne raccontavano a iosa per consolare e impaurire), per voler dire qualcosa di più serio e meno fantasioso che riguardi piuttosto l’«aldiqua» (altrimenti rischiamo di vanificare il senso dell’Incarnazione!). D’altronde si chiama “parabola” per questo. Perché il movimento del pensiero e del cuore deve seguire un andamento parabolico: partire dalla riva del fiume e berne il contenuto immergendosi in esso (testo della parabola) e risalire sull’altra riva (vissuto esistenziale del lettore/ascoltatore)! Per questo il suo significato non è mai immediato.
Dobbiamo sapere anche che per il pio israelita, Abramo era un po’ come per noi è la Madonna, a lui si ricorreva per intercessioni e la sua intercessione presso Dio era considerata così potente che aveva il potere di ottenere la liberazione del povero israelita da qualunque tormento dello Sheol (regno dei morti).
Ebbene qui Abramo non solo non libera il ricco che a ben vedere è persino pentito (semmai avesse colpe che però non sono esplicitate), ma gli rifiuta una semplice goccia d’acqua! Pensate a Gesù che invita a dar da bere agli assetati o all’esigenza di perdonare sempre e capirete come i personaggi della parabola sono piegati alla necessità del messaggio che Gesù vuole trasmettere!
Ma insomma se il ricco è senza colpe e il povero senza meriti perché – tanto per usare categorie a noi comuni – il ricco è “all’inferno” e il povero “in paradiso”? La risposta è tanto semplice quanto per noi sconcertante: perché il ricco è ricco e il povero è povero!
Per Gesù infatti non esiste il “ricco buono”! Il “ricco benefattore” è una categoria culturale che non appartiene alla logica evangelica ma è funzionale al sistema di potere che l’ha creata fino a giustificarla teologicamente! (Provate a leggervi l’enciclica di Leone XIII Diuturnum Illud del 1881 – che trovate nel sito del Vaticano – e capirete cosa intendo).
Ed è per questa ragione che per secoli abbiamo censurato questa parabola rendendola moralisticamente inoffensiva!
Contrariamente alle traduzioni comuni nel Vangelo non si parla mai di ricchezza “disonesta” ma di ricchezza “ingiusta” (cfr Lc 16,1–13). “Ingiusto” nella bibbia è antitetico a “giusto”! Ove “giusto” è sempre e solo Dio (e coloro che mettono in pratica la sua Parola). Il giudizio teologico sulla ricchezza è quindi senza appello: la ricchezza è sempre idolatria, negazione di Dio e del suo Vangelo. È il vero Anticristo. O se volete il vero ateo (sarebbe interessante vedere come alcuni atei oggi, sono atei perché si rifiutano di credere nel “dio dei ricchi”).
Perché? Le ragioni sono molteplici e coinvolgono vari aspetti della dimensione umana: politico, sociale, economico, religioso e anche ecologico.
Brevissimamente ne elenco alcuni:
È ingiustizia sociale, economica e politica: se tu hai più del necessario, ciò che possiedi è di fatto rubato a chi non ha di che vivere! E poco importa se chi non ha, non ha per colpe sue (considerarle contraddirebbe il perdono e lasciarli in miseria una forma di vendetta)!
Vive di diffidenza: La struttura dei beni materiali e le dinamiche di una relazione hanno obiettivi e cammini esattamente contrapposti: ogni bene esige e domanda di essere salvaguardato, ogni relazione esige e domanda di potersi “consumare” per l’altro.
Vive di conflitto e guerra (che chiama a volte concorrenza!): L’altro è visto come nemico/ostacolo mai come alleato. L’accaparramento dei beni entra necessariamente in conflitto con le dinamiche di accaparramento altrui: la guerra non è banale possesso dei beni dell’altro o difesa dei propri, ma tentativo di annientamento del “concorrente” identificato necessariamente come “nemico”!
L’amicizia si trasforma in complicità: ogni forma di associazione economica che si fonda sull’accumulo del profitto, per sé o per il gruppo (anche religioso), sottrae beni alla collettività ed è contraria alla vera comunione.
Ci si affida e ci si fida solo di se stessi o meglio dei propri beni: La dinamica del ricco è la dinamica di chi vuole assicurarsi il futuro, ma così facendo diventa schiavo della paura del futuro! Insomma contraddice tutto il processo di liberazione che comprende non solo la liberazione dal passato (Egitto prima, perdono poi) ma anche dalle angustie del futuro (conquista Terra Promessa prima, salvezza – in senso lato – poi). Il ricco, per quanto devoto egli sia, uccide in sé ogni possibile dinamica religiosa di Speranza nella Promessa, per affidarsi solo alle proprie ricchezze. E chiudersi in esse ad ogni relazione come unica àncora di salvezza… Non è molto diverso dal vitello d’oro! Chi deve “lodare” infatti se non le proprie capacità e i propri beni (oro) per il proprio benessere?
Ci si affida e ci si fida solo di se stessi o meglio dei propri beni: La dinamica del ricco è la dinamica di chi vuole assicurarsi il futuro, ma così facendo diventa schiavo della paura del futuro! Insomma contraddice tutto il processo di liberazione che comprende non solo la liberazione dal passato (Egitto prima, perdono poi) ma anche dalle angustie del futuro (conquista Terra Promessa prima, salvezza – in senso lato – poi). Il ricco, per quanto devoto egli sia, uccide in sé ogni possibile dinamica religiosa di Speranza nella Promessa, per affidarsi solo alle proprie ricchezze. E chiudersi in esse ad ogni relazione come unica àncora di salvezza… Non è molto diverso dal vitello d’oro! Chi deve “lodare” infatti se non le proprie capacità e i propri beni (oro) per il proprio benessere?
Sia detto per inciso: ciò che è detto qui per i beni cosiddetti “materiali” vale anche per quelli cosiddetti “spirituali”. Ma qui apriremmo un discorso troppo lungo, rimando solo a tutta l’esperienza testimoniata dalle opere di san Giovanni della Croce!
Insomma – per non dilungarmi oltre (pensate solo all’aspetto ecologico, di “non sfruttamento” della natura…) – il ricco, proprio perché ricco è secondo il Vangelo strutturalmente al di fuori di ogni dinamica del Regno di Dio. Nella parabola è espresso chiaramente dall’«abisso» che lo separa dal mondo dei poveri (‘anawim) unici eredi del Regno!
Qual è il giudizio storico-esistenziale che si trae dalla parabola?
Abbiamo già detto che lo scopo della parabola non è parlare dell’aldilà, quindi questo abisso se per esigenze di logica interna alla parabola è posto oltre la morte, in realtà rimanda a quella porta alla cui anta chiusa (se non per buttare la spazzatura) Lazzaro muore!
L’abisso dell’aldilà, è una trasposizione “favolistica” di un abisso che noi sperimentiamo nella nostra vita e che crea incomunicabilità (E. Balducci). Non a caso il ricco si rivolge ad Abramo e non a Lazzaro che pur vede – e riconosce! – accanto a lui! Notate il gioco letterario del ricco che dice ad Abramo di mandare lo “schiavetto” Lazzaro ad attingere acqua: evidentemente era così che lo considerava in terra!...
La cultura che nasce nella consorteria dei ricchi à una cultura che legittima la separazione (E. Balducci). I muri, l’abisso, sono cercati, voluti, costruiti! A difesa del proprio status sociale e culturale e religioso… Ed è proprio questa cultura che succhiamo fin dal seno materno, che ci ha impedito per secoli di scoprire il senso autentico e rivoluzionario e persino eversivo (dal punto di vista del potere costituito) del Vangelo.
Per il ricco non c’è salvezza! Su questo il Vangelo è chiaro senza ombra di dubbio e non tanto nell’aldilà a mo’ di vendetta postuma, ma proprio in quell’aldiqua che il ricco voleva garantirsi! La sua totale incapacità di comunicazione autentica (che si porta incollata, strutturandolo definitivamente fin oltre la morte!), lo condanna definitivamente “hic et nunc”, qui ed ora!
Che fare allora?
Le tracce dove ciascuno può percorrere un cammino di conversione – mai definitivamente compiuto – non possono che venire dal Vangelo stesso. È “buona/bella notizia” per questo no?
Non esistono soluzioni meccaniche, automatiche, ciascuno deve cercare, a partire da un esame che sia culturalmente libero dal codice interpretativo dei soloni della Bocconi, ciò che può fare perché nel mondo sia abolito l’abisso!
Per prima cosa quindi è necessario cominciare ad avere una mentalità che integri in sé una specie di sospetto pregiudiziale per tutte le parole che scendono dagli uomini responsabili i quali, in quanto responsabili del potere, sono costretti ad usare il codice interpretativo dei ricchi (E. Balducci)…
E in questo il Vangelo – e la Bibbia in generale – correttamente letti sono uno strumento formidabile di purificazione della e dalla cultura dominante! Che altrimenti rischia di inquinare persino la nostra preghiera.
Il finale della parabola a questo proposito è sconvolgente per noi che crediamo nella resurrezione di Cristo: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”. Questa espressione, la cui implicazione non poteva sfuggire agli Apostoli, spazza via ogni “spiritualismo magico”: La resurrezione di Cristo non converte nessuno, se non si lascia modellare dalla sua Parola. La fede nella resurrezione non è una fede “a priori” ma è una “scoperta” che ciascuno constata nella propria storia nel vedersi “liberare” giorno dopo giorno nell’ascolto (messa in pratica!) della sua Parola. Altrimenti – perdonatemi il linguaggio – è un credere alle favole! O il minimo che si possa dire è che “non mi/ci serve a niente” (cf i demoni che riconoscono inutilmente che Gesù è l’Unto di Dio)!
Seconda cosa: occorre diffidare delle caricature storiche di ciò che potremmo chiamare Amore, Carità! E cominciare a capire, che seppur necessaria nell’urgenza, deve finire il tempo dell’elemosina!
Perché l’elemosina, invece che abolire l’abisso, lo giustifica in quanto rende tranquilli i ricchi che attraverso elargizioni, fatte per di più anche in maniera vistosa e proclamata, si sentono sulla buona strada, con la coscienza tranquilla (E. Balducci).
Terzo passo è cominciare a vederci e sentirci “amministratori” e non padroni dei beni che “possediamo” (e sempre provvisoriamente: anche perché con la morte dobbiamo tutto riconsegnare!). La manna che non può essere accumulata, il pane che è “quotidiano”, stanno a sottolineare che tutto è dono di Dio per tutti e non per qualcuno in particolare. E di questa gestione, la storia, la coscienza, Dio, il fratello, ci chiederanno conto!
Quarto: il fratello appunto. Curioso che mentre noi – credendoci religiosi e spirituali – pensiamo al giudizio di Dio, Dio ci rimanda sempre al giudizio del fratello! Questa per il Vangelo è la vera spiritualità, la vera trascendenza: la comunione col fratello (peccatore! E non quello che ci piace e compiace).
Se non abbiamo il coraggio di “donare tutto ai poveri” e di seguire Gesù (Lc 18,18ss), almeno facciamoci furbi e cerchiamo di farci degli amici (poveri!: erano in debito verso il ricco) con la ricchezza ingiusta! Non per fare l’elemosina però ma per smantellare le strutture che la rendono necessaria.
Come in Lc 16,1ss: In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. Il padrone lodò quell’amministratore ingiusto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza ingiusta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne…
Concludendo: smettiamola di pensare alla fede come ad una adesione a verità astratte. La fede è fare, è combattimento prima di tutto in noi stessi perché lo sguardo d’amore del Padre su ogni persona diventi l’unico criterio che guida i nostri passi: “Combatti la buona battaglia della fede” dice san Paolo a Timoteo (1Tm 6,11ss)… Se non stiamo attenti, vigilanti, rischiamo di ridurla a una passeggiata domenicale in chiesa!
domenica 31 marzo 2013
Pasqua: la sconfitta di ogni giustizia
postato da
Mario
Questa omelia probabilmente non potrete comprenderla nella sua portata effettiva (rischierebbe di scandalizzarvi inutilmente) se non leggerete fino in fondo il post precedente, di cui è la naturale conseguenza. Promettetemi quindi di leggerla solo dopo averlo letto e… capito! Auguro a tutti voi una “Gioiosa Pasqua” (preferisco l’espressione francese: Joyeuse Pâques)
Proprio nei versetti precedenti alla prima lettura tratta dal libro degli Atti (At 10,37-43), leggiamo che “Pietro allora prese la parola e disse: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga” (vv 34 e 35). Dunque fino ad ora Pietro era convinto che Dio facesse preferenze di persone! Non si ricordava più che Gesù aveva detto che “Dio fa piovere sui buoni e sui cattivi” (Mt 5,45)!
E notare che tutta la chiesa si deve convertire! Infatti ritornato dai suoi, alla fine del brano che abbiamo ascoltato, la chiesa, gli apostoli, i discepoli, i credenti… “lo rimproverano: «Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato insieme con loro!»”.
La giustizia nuova, quella descritta da Pietro nel brano che ci è proposto dalla liturgia, è quella che scoperchia le tombe!
Siamo morti dentro? Nessuno di noi è più morto dentro di come sia morto Gesù! Reietto dagli uomini, abbandonato dai discepoli, con la madre costretta a vedere lo spettacolo della sua macellazione (Agnello condotto al macello), e il Padre che tace e non muove un dito!
Ma oggi il coperchio che doveva essere il sigillo definitivo alla sua e nostra disperazione è stato fatto saltare!
Da Dio diciamo noi! con una risposta un po’ sbrigativa. Vero! ma cosa vuol dire da Dio?
Il coperchio è saltato perché Gesù ha mandato in aporia Dio stesso: che giustizia è una giustizia che inabissa l’uomo, il giusto nel più profondo degli inferni? La morte di Gesù punta il dito anche contro un Dio che lascia morire un figlio in nome di una giustizia che ha bisogno di essere riparata.
Nell’assassinio di Gesù, l’Innocente, non solo è morta la morte, “o morte sarò la tua morte” ma è condannata ogni forma di giustizia, umana e divina! Perché la giustizia, ogni giustizia non può che mandare prima o poi al patibolo!
Gesù nel suo morire sulla croce ha insegnato non solo agli uomini, ma anche a Dio, che ogni giustizia, per quanto santa, perfetta, giusta, non può far altro che ricadere su un innocente: non si è mai colpevoli di morte! Questo Dio prima non lo sapeva! Questo gli uomini non l’hanno mai pensato! Era! ma ora è lievito vecchio (cf seconda lettura 1Cor 5,6-8)! Che non serve a niente! Che non fa fermentare più niente! Nella morte di Gesù, non c’è giustizia che tenga… non si può dire non lo sapevo! Nemmeno Dio ha scusanti! Nel giorno di Pasqua allora, muore definitivamente ogni giustizia e risorge la Misericordia… Sola! Come unico non-giudizio autenticamente vero, umano, divino!
Ricordate Noè e il diluvio universale? Dio lo provoca… ma poi se ne pente: ecco io oggi vedo così la Pasqua di risurrezione: Dio si è accorto di aver fatto una cavolata! E ricrea l’uomo, ricrea un mondo dove ora regna per sempre una nuova legge che ci governa: quella dell’amore, quella del perdono sempre comunque in ogni caso e senza fine! Perché se c’è una giustizia vera è quella che rinuncia a perseguire, rinuncia a rimproverare, rinuncia a imprigionare, rinuncia a seppellire, rinuncia a mortificare! Oggi i libri dei “Principi” (negoziabili o non negoziabili, fatte voi) sono stati definitivamente bruciati per lasciare spazio ai teli che asciugano le lacrime dell’uomo: e il sudario resta a eterna condanna di ogni giustizia umana e divina (cf vangelo di oggi Gv 20,1-9)!
Si chiama Chiesa, non quella che dice “Signore, Signore”, o rinnova principi che uccidono, ma quella che scoperchia le tombe, che spezza le catene, che slega e mai lega! Che abbraccia e mai condanna! Che vive risuscitata e incontra risuscitando… perché non fa differenze mai, nemmeno tra buoni e cattivi! Solo così la chiesa, i cristiani si possono convertire all’unica verità rimasta: la misericordia!
Il resto… è vecchio, puzzolente, lievito: spazzatura da bruciare.
Mi chiedono se l’inferno è vuoto… Ho cercato di rispondere come ho saputo, ma oggi mi è tutto più chiaro! No! l’inferno non è vuoto: vi brucia la G/giustizia!
Finalmente è Gioiosa Pasqua!
La Pasqua fa dell’uomo un inno vivente alla gioia!
postato da
Mario
Leggo su Twitter: Ve lo dico con tutta franchezza la #pasqua mi deprime quasi quanto il natale che, almeno, ha la piacevole parentesi dei regali…
E l’amica ha già la soluzione: ignoriamola!
Un altro si intrufola e per consolarla dice: ...e le UOVA di #Pasqua?? ;-))
Al che lei risponde: per carità una delle delusioni della vita è la sorpresa dell’uovo di #pasqua!!!!!!
Al di là dell’ilarità che può suscitare in molti cristiani, e convinto come sono che anche nel più grande errore c’è un frammento di verità, mi son domandato… “e se non avessero tutti i torti”?
Ce la prendiamo con il mondo che ha perso certi valori. Ma li ha persi veramente? o semplicemente sta esprimendo in modo diverso le domande di sempre?
Dopotutto cosa c’è da festeggiare? Guardiamoci intorno… Non vi faccio l’elenco della crisi profonda a tutti i livelli che stiamo vivendo… E in famiglia? Quante incomprensioni! Ed è il minimo che si possa dire…
E allora ripeto: cosa c’è da festeggiare?. Che gioia c’è da condividere?
Per tentare di rispondere, vorrei partire da che cosa NON è una festa! Perché ci sono anche gioie amare…
Se infatti leggiamo il libro dell’Esodo che di fatto è il vero libro genesiaco della Bibbia (come dicono gli esegeti il libro della Genesi è stato scritto dopo l’Esodo e serve a dare continuità logica, in una storia che risale fino alla creazione, all’avvenimento nativo di Israele come Popolo), vi possiamo trovare due vissuti esistenziali differenti: l’uomo prima dell’esodo e l’uomo dopo l’esodo (inteso come avvenimento storico).
Prima dell’esodo la vita di un israelita era una vita di lavoro duro (Es 1,13), una vita “amara” con un “dura schiavitù! (v14) e siccome non bastava, gli egiziani arrivarono a regolamentarne le nascite (1,15ss) da cui Mosè fu sottratto! La storia la conosciamo…
Ora mi chiedo: avranno avuto feste, compleanni, riti, nascite, matrimoni, da festeggiare! Con che animo? Che gioia è, la gioia di uno schiavo? Che feste celebra un oppresso?
Immagino non sia molto diversa da quella di un ubriaco che beve “alla salute di chi gli vuol male”, per dimenticare il male che patisce! E che riemergerà intatto appena passata la sbornia! Meccanismo consolatorio di rimozione illusoria!
A pensarci bene, guardando il nostro vissuto, non sono un po’ così anche le nostre feste? Le nostre gioie non ci appaiono spesso effimere?
Ecco però che a un certo punto accade qualcosa di completamente nuovo: (3,7s) Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conoscole sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Cananeo, l’Ittita, l’Amorreo, il Perizzita, l’Eveo, il Gebuseo (prospettiva di guerra!). Senza Dio l’uomo non è capace di propria e altrui liberazione…
Conosciamo la storia. A fatica ottengono dal Faraone il permesso di lasciare il Paese che poi ci ripensa, ma Dio interviene e taglia definitivamente il cordone ombelicale che li legava alla schiavitù (successivamente le cose non furono però così semplici) e il Popolo può finalmente festeggiare… e siamo al 15° capitolo!
Allora Mosè e gli Israeliti cantarono questo canto liberatorio e liberante al Signore e dissero:
«Voglio cantare al Signore,perché ha mirabilmente trionfato:
cavallo e cavaliere
ha gettato nel mare.
Mia forza e mio canto è il Signore,
egli è stato la mia salvezza.
È il mio Dio: lo voglio lodare,
il Dio di mio padre: lo voglio esaltare!
Il Signore è un guerriero,
Signore è il suo nome.
I carri del faraone e il suo esercito
li ha scagliati nel mare;
i suoi combattenti scelti
furono sommersi nel Mar Rosso.
Gli abissi li ricoprirono,
sprofondarono come pietra.
La tua destra, Signore,
è gloriosa per la potenza,
la tua destra, Signore,
annienta il nemico;
con sublime maestà
abbatti i tuoi avversari,
scateni il tuo furore,
che li divora come paglia.
Al soffio della tua ira
si accumularono le acque,
si alzarono le onde come un argine,
si rappresero gli abissi nel fondo del mare.
Il nemico aveva detto:
“Inseguirò, raggiungerò,
spartirò il bottino,
se ne sazierà la mia brama;
sfodererò la spada,
li conquisterà la mia mano!”.
Soffiasti con il tuo alito:
li ricoprì il mare,
sprofondarono come piombo
in acque profonde.
Chi è come te fra gli dèi, Signore?
Chi è come te, maestoso in santità,
….
Il Signore regni
in eterno e per sempre!».
Cioè la festa – che è l’esplosione comunitaria di ogni gioia personale – diventa il racconto di una storia di liberazione vissuta. Non di principi teologici (questi seguiranno come tentativo di codificazione – necessariamente riduttiva – dell’esperienza)! I salmi sono pieni di questa memoria (di lode per esaltarla, di supplica per invocarla).
Prima di questa storia[1] non si può gioire, se non per dimenticare, ora con la liberazione avvenuta, si gioisce come ricordo, memoria, attualizzazione, gratitudine di un avvenimento che ha cambiato la vita, mia e dei miei cari…
Sappiamo che la Pasqua cristiana si inserisce in questa Pasqua ebraica. Non però per ripeterla (vedremo perché) né semplicemente rinnovandola ma “compiendola” cioè realizzandola veramente fino in fondo e definitivamente.
Per capire la novità della Pasqua di Cristo, dobbiamo prendere coscienza del sostanziale fallimento di quella guidata da Mosè (non realizzata da Mosè: è Dio che la realizza!). Anche qui la storia la conosciamo… La paura di una vita straordinaria, il fascino della tranquilla banalità quotidiana, mortificheranno, letteralmente, la spinta propulsiva iniziale. E Israele tornerà schiavo ancora e ancora: babilonesi prima e romani poi! E coi romani la schiavitù se la trovano in casa!
Perché? Do una risposta sintetica che andrebbe spiegata, ma che rivediamo tale e quale nel racconto genesiaco di Adamo ed Eva: l’uomo ha proiettato in Dio il volto del suo aguzzino umano, della sua conflittualità. Abbiamo così introiettato la figura del padrone, che non sappiamo più farne a meno, al punto che abbiamo bisogno di un padrone supremo, “Re dei re” che chiamiamo Dio! Un uomo così sarà forse libero da padroni umani, ma è definitivamente schiavizzato da padroni sacralizzati, dall’immagine proiettata di un dio-padrone!
Di che gioia può vivere un uomo così? Ancora non può che festeggiare le feste del Padrone!
Le feste liturgiche pian piano cessano di essere memoria di una liberazione, per diventare invito a una sudditanza, a una schiavitù suprema, sacrale (cf profeti ad es. Isaia 1,11[2])! Nobilitando questa sudditanza però l’uomo rende definitivo il proprio asservimento a un Dio che si rivelerà immaginario! E funzionale al potere: è il ritorno alla schiavitù originaria. Il disfacimento della liberazione attuata.È necessario allora che Dio mostri il suo vero volto e impedisca questo ritorno continuo in Egitto… E non può più farlo un uomo che avendo introiettato la figura padronale non è in grado di mostrarlo (cfr Elia in 1Re 18,40!)…
L’uomo cioè non è in grado di realizzare il progetto di liberazione, e quindi di giustizia e di amore del Padre perché non sa “Chi è” in quanto continuamente vi vede proiettata la figura del padrone: non ne conosce altra! E ogni gioia non può che generare una festa effimera, provvisoria, alienante!È necessario quindi “un nuovo Esodo”, uno vero e definitivo, “altro” rispetto al precedente, così nuovo che quello vecchio rispetto al nuovo è come l’acqua rispetto al vino (Cana in Gv 2,1ss). Così nuovo che quello vecchio è “da dimenticare” (Isaia 43,16ss[3]). E se ce ne ricordiamo è solo per meglio riconoscere il salto di qualità di quello “attuale”. Così nuova è la Pasqua di Cristo che quella vecchia è “spazzatura” (Fil 3,8-14).
Pietro (1Pt 2,20ss[4]) ha l’immagine forse più stucchevole di tutti. L’Esodo antico rispetto al nuovo (via della giustizia dice Pietro, quindi indirettamente afferma che quella precedente era una giustizia ingiusta! vedremo) è vomito. Lo stomaco cioè il processo di assimilazione della vita, la espelle come estranea, nociva ad essa! E tornare al vecchio è come se un cane dopo aver vomitato si rimangiasse il proprio vomito: se un certo cibo è nocivo, quanto ancor più nocivo deve essere il suo vomito!Il disgusto che proviamo davanti a queste parole è proprio ciò che provava Pietro nel vedere i cristiani rinnegare la novità nuova di Cristo per tornare alla vecchia giustizia… che avevano vomitato!
Ma qual è questa novità della Pasqua di Cristo, questo vino nuovo?
Qui adesso camminiamo su un filo di rasoio che potrebbe creare qualche difficoltà al sentire comune che ci viene trasmesso nella catechesi e nella pastorale… ma è importante che noi capiamo il rischio che corriamo se non facciamo la fatica di capire la novità evangelica.Noto che di fatto – ditemi voi se non è vero – facciamo una fatica immane a liberarci dallo schema religioso dell’Antica Alleanza! Noi spesse volte, troppe, rileggiamo il Vangelo nella chiave dell’Antico Testamento. Come se l’avvenuta di Gesù, nella vita concreta, nell’etica, nel vissuto, nella lettura della storia, nell’incontro con le persone, non abbia radicalmente cambiato le cose, a cominciare dal nostro sguardo: non avesse cambiato l’acqua in vino appunto! Ma che vino è se noi continuiamo a scambiarlo per acqua? E allora che vino sia!
Facciamo alcuni esempi rapidi:
La parabola del figliol prodigo in Luca (15,11-32): troppi commenti si soffermano sul processo di conversione del figlio minore… dimenticando che non si è affatto convertito al vero volto del padre!Troppi commenti ignorano che Barabba (Bar Abba: figlio del padre!)… non si è convertito…
Troppi commenti ignorano che la donna adultera (Gv 8,1-11) non si è minimamente convertita… e qui ancor peggio i commentatori sottolineano che però Gesù le ha detto “va’ e d’ora in poi non peccare più”. Come se Gesù fosse un novello Mosè che aggiunge un undicesimo comandamento!
Che cos’è allora questa nuova Pasqua di Gesù? Vedendo che nessuno veramente si converte, (nemmeno gli Apostoli! O non vorrete farmi credere che si convertono – scusate il linguaggio dissacrante – perché vedono un morto che cammina? Infatti i morti che camminano non convertono nessuno: Lc 16,31 ma anche Gv 12,10) mi sembra ovvia la conclusione: che l’uomo è, per pura grazia, definitivamente salvato, liberato, che gli interessi o no! (notare che Israeliti non volevano, nonostante tutto, lasciare l’Egitto e anzi volevano ritornarci: nel libro dell’Esodo è evidente che Dio li “forza” alla libertà!).
Ancora:Ditemi voi quale conversione ha fatto il cosiddetto buon ladrone: nessuna! Ha solo applicato i principi fondamentali del diritto romano e ebraico: È evidente – dice sostanzialmente – che tu sei innocente e io “ho ben meritato” di finire in Croce! Giustificando così nei secoli ogni condanna a morte anche per lapidazione: lui, il cosiddetto buon ladrone, l’adultera su citata, con la sua logica, l’avrebbe lapidata, magari – perché “giusto” – insieme all’uomo con cui stava! Così i morti, in nome della sua e nostra giustizia legale, sarebbero stati due!
Eppure come il famoso padre della parabola dei due figli, Gesù l’accoglie nel suo paradiso… così capirà che la giustizia del Padre è altra cosa: Così altra da sembrarci ingiusta: “[religiosamente] scandalosa per i giudei e [razionalmente] stolta per i greci” dirà san Paolo in 1Cor 1,23. Accolto nella casa del Padre proprio come è accaduto ai 2 figli della parabola! Figli che non possono convertirsi prima, perché non avevano ancora ri-conosciuto (cf riconoscenza!) il vero volto del padre. Anzi ogni conversione precedente sarebbe nociva alla scoperta del vero volto del padre, perché frutto di un’idea (ideologica e idolatrica quindi) del padre e non di ciò che il padre è realmente! La conversione consiste allora in questo: riconoscere il vero volto del Padre! La sua vera sapienza e potenza! (1Cor 1,24) nella “giustizia della Croce”! Ecco perché può essere solo post-pasquale: ci vuole il dono dello Spirito di Cristo senza il quale non è possibile convertirsi. Ed è per questo che ad ogni apparizione Gesù alita sugli Apostoli come segno del dono del suo Spirito!
Prima, guardate cosa dice il figlio minore, non può che essere una conversione che insulta il padre: io lo so che mi ridurrai in schiavitù ma almeno avrò carrube da mangiare…! A pensarci bene ha ragione Pietro: schifoso! E Luca lo fa apposta a metterci tutto questo (cf all’inizio del suo vangelo le parole che mette in bocca a Zaccaria…).
Vediamo ora questa “giustizia nuova” manifestata nella Croce!
Nel suo immergersi senza perdersi nel «“no” dell’uomo a Dio», Gesù dice/fa «il “si” suo e di ogni uomo al Padre»: e lo salva: a ogni livello della sua discesa infernale. Là dove l’uomo pronuncerebbe il suo “no”, Gesù proclama e crea il “sì”! E lo fa nostro ponendo nel nostro cuore il suo “sì” definitivo (questo è il suo Spirito donato gratuitamente) al progetto d’amore del Padre su ciascuno di noi. Che all’uomo interessi oppure no: Dio non condiziona il suo voler essere “un Padre scandalosamente e follemente così” alla nostra riconoscenza!Allora l’uomo che deve fare? Semplicemente vivere di gratitudine (che è il significato anche della parola eucaristia)! Questa è la gioia della Pasqua espressa anche nelle numerose parabole del regno come banchetto! Che vanno quindi ricomprese in questa chiave e non lette all’interno di uno schema moralistico che se va bene si rifanno ancora a quello dell’AT (cf le nostre banali riflessioni sull’abito adeguato)! La salvezza che viene dalla Passione, è infatti totale, gratuita, incondizionata. L’uomo non deve fare altro che gioirne godendone. Punto e basta!
E di questa gratitudine gioisce anche Gesù! e come potrebbe diversamente?
Gv 11,38: Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro [il giorno dopo il terzo: a quello della risurrezione di Gesù segue il nostro!] giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio [è la nuova giustizia di Dio rivelata nella Croce nel linguaggio giovanneo]?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato [cf Dio che ascolta il grido del popolo in Egitto]. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». 43Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberatelo e lasciatelo andare [Che è ciò che accade a Barabba!]».Forse mai come in questa Pasqua ho capito cosa volesse dire la Beata Elisabetta della Trinità quando parlava di voler diventare “la lode della gloria di Dio” (Fil 1,11; e soprattutto il bellissimo inno di Ef 1,3-14): ecco il cristiano è colui che è oramai cosciente che il peccare o non peccare non lo riguarda, perché nella fede in Cristo tutto gli è stato dato e perdonato. E gioisce, gode di questo dono, vive di questo dono e non è più preoccupato della propria e altrui salvezza (perché già avvenuta!) ma vive testimoniando questa riconoscenza. Non quindi insegnamenti morali, ma gioia pasquale che scaturisce da una Pasqua definitiva e che provoca un vissuto esistenziale che rinnova nelle radici più profonde la sua vita: siamo davanti a una morale che scaturisce dalla riconoscenza gioiosa. E non il contrario come ci viene insegnato. La morale infatti non dà gioia anzi induce alla tristezza del peccato (Rm 5,20), ma la gioia genera una morale nuova (È questo il comandamento nuovo di Gv 13,34. Che non è la sintesi del vecchio è tutt’altro: sostituire dieci comandamenti e seicento precetti con uno solo non cambia la logica di fondo)!
Questo toglie la fatica del vissuto? Assolutamente no! Ma, senza cadere in spiritualismi (la “carne” duole sempre!), il cristiano sa ora che comunque vada, lui, diciamo così, ha già vinto (Gv 16,33)[5]! Il dramma allora, la fatica della vita è “stare” in questa riconoscenza che è puro dono anche lei dello Spirito di Cristo (Lc 1,47; Gv 3,5-6.8)! Questo è l’Esodo che siamo invitati a fare a Pasqua. Per questo lo Spirito è il dono per eccellenza della Pasqua: per donare “questa conversione qui”: la gioia vera che nasce da una liberazione vera non più da conquistare o da accogliere (nel senso morale del termine) ma di cui gioirne e goderne (questo è il vero modo di accoglierla!).
Voi mi direte: ma hai lasciato fuori i racconti di Pasqua! Un accenno l’ho fatto! Ma non ho voluto andar oltre perché se non capiamo quanto detto fin d’ora, tutta la Pasqua si ridurrebbe alla deludente sorpresa che troviamo nell’uovo di Pasqua.
In questi giorni quindi facciamo attenzione alle letture e domandiamoci: di che gioia stanno gioendo gli apostoli? Di una gioia che se ne esce con espressioni tipo: “Ma guarda! ti credevamo morto e invece sei vivo!” oppure stanno godendo, a fatica (soffermiamoci anche sulla loro fatica a credere alla nuova giustizia di Dio)… di qualcosa di nuovo che sta nascendo nei loro cuori e nei nostri: il volto “scabroso” di un Padre che veramente fa piovere il suo perdono sui buoni e sui cattivi (Mt 5,45)!Ecco se tutto questo ci infastidisceun po’, vuol dire che siamo ancora sulla sponda dell’Egitto delle nostre false ipocrite certezze… piangendo nel sbucciar cipolle!
[1] Ammesso che si possa parlare di storia quando non c’è libertà: non è un caso se la storia dell’India l’abbiano scritta gli inglesi. In una visione ciclica della vita – analoga a quella dello schiavo che vive della vita del padrone – non c’è storia!
[2] «Perché mi offrite i vostri sacrifici senza numero? – dice il Signore. Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di pingui vitelli. Il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. Quando venite a presentarvi a me, chi richiede a voi questo: che veniate a calpestare i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili; l’incenso per me è un abominio, i noviluni, i sabati e le assemblee sacre: non posso sopportare delitto e solennità. Io detesto i vostri noviluni e le vostre feste; per me sono un peso, sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei: le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova».
[3] Così dice il Signore, che aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti, che fece uscire carri e cavalli, esercito ed eroi a un tempo; essi giacciono morti, mai più si rialzeranno, si spensero come un lucignolo, sono estinti: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa. Mi glorificheranno le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi, perché avrò fornito acqua al deserto, fiumi alla steppa, per dissetare il mio popolo, il mio eletto.
[4] Se infatti, dopo essere sfuggiti alle corruzioni del mondo per mezzo della conoscenza del nostro Signore e salvatore Gesù Cristo, rimangono di nuovo in esse invischiati e vinti, la loro ultima condizione è divenuta peggiore della prima. Meglio sarebbe stato per loro non aver mai conosciuto la via della giustizia, piuttosto che, dopo averla conosciuta, voltare le spalle al santo comandamento che era stato loro trasmesso. Si è verificato per loro il proverbio: «Il cane è tornato al suo vomito e la scrofa lavata è tornata a rotolarsi nel fango».
[5] Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me; nel mondo avrete tribolazione, ma fatevi coraggio, io ho vinto il mondo.
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