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XXX Domenica del Tempo Ordinario: Il comune impasto umano genera misericordia
Solitamente, infatti, noi, di fronte all’idea del Dio giudice abbiamo un’istintiva reazione di paura, di soggezione, di sconcerto per Chi – sappiamo (o crediamo di sapere) – analizza puntigliosamente la nostra condotta, la nostra morale, la buona riuscita o meno della nostra vita e di tutti quegli atti che la compongono… In realtà – almeno così dicono i brani delle letture – questa prospettiva di “aggiustamento” della vita per risultare graditi a Lui, non pare propriamente in linea con quella che la sua Parola propone…
Lo si vede in maniera chiara già nel testo del libro del Siracide, dove si sottolinea come la preghiera più ascoltata, anzi lo sfogo del lamento più ascoltato, non sia quella del “giusto”, bensì quello di chi apparentemente risulta “non riuscito” (l’orfano, la vedova, il povero, l’oppresso…), indipendentemente dalla sua condotta… Un brano, dunque, dove ad emergere non è tanto il volto di un Giudice preoccupato della moralità di chi gli sta davanti, ma piuttosto quello di Chi è preoccupato della ferita (da umanizzare) di chi lo prega.
In proposito, dovremmo tornare a leggere sempre più spesso quello che Teresina scriveva sulla castità (e cito questo esempio perché, ancora oggi, i cristiani abitualmente quando parlano di “morale”, implicitamente fanno riferimento soprattutto alla “morale sessuale”): «É sorprendente come le anime perdono facilmente la pace a proposito di questa virtù! Il demonio lo sa bene: per questo le tormenta così tanto a questo riguardo! E invece non c’è tentazione meno pericolosa di questa. Il modo di liberarsene è di considerarle con calma, non meravigliarsene, ancor meno temerle. Normalmente, al primo attacco, ci si spaventa, si crede che tutto è perduto: è proprio di questa paura, di questo scoraggiamento che si serve il diavolo per far cadere le anime. E invece siate sicura che una tentazione di orgoglio è ben più pericolosa – e il buon Dio ne è ben più offeso quando uno vi soccombe – che quando fa una caduta, anche grave, contro la purezza, perché Egli ha riguardo della nostra natura ferita, mentre per una caduta d’orgoglio non c’è scusa. Però è una caduta – quella d’orgoglio – che le anime commettono spesso e facilmente, senza inquietarsene. Una tentazione di orgoglio dovrebbe essere temuta più del fuoco, mentre una tentazione contro la purezza non può che umiliare la nostra anima e proprio per questo farle più bene che male» [S.Teresa di Gesù Bambino fa questa confidenza a sr Maria della Trinità, che si lamentava con lei degli scrupoli di cui soffriva a riguardo della virtù della castità... CRM pp 86-87].
Ma, tra i testi odierni, è poi soprattutto nella parabola evangelica, che va in crisi l’immagine del Dio giudice che continuamente la nostra mente ci ripropone; un’immagine di Dio che – se è vero quanto diceva il papa e cioè che «Non ogni dio è degno di fede»! – ha bisogno continuamente di essere decostruita (perché questa è la conversione evangelica!) per far spazio – tra le macerie del nostro volto di Dio – al dissotterramento del suo volto, quello che Lui – attraverso suo Figlio – ci ha voluto raccontare.
La parabola è costruita su due personaggi chiave, il fariseo e il pubblicano. Ma dato che per esplicita dichiarazione di Luca, la vicenda è stata pensata appositamente «per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri», la corretta prospettiva con cui guardare al testo è quella di concentrarsi, almeno inizialmente, sul fariseo. Lui è l’efficace caricatura di chi ascolta, di chi legge.
Quel fariseo non è dunque immediatamente da identificare con quelle persone che – nella nostra vita, nella nostra chiesa, nella nostra comunità – noi individuiamo come particolarmente puntigliose nell’osservanza esteriore e legalistica delle norme ecclesiali, morali o cultuali e che hanno (quasi automaticamente – pare dire il vangelo) un innato disprezzo per gli altri che non sono bravi come loro o giusti come loro o osservanti come loro… Ma piuttosto l’identificazione va fatta col fariseo che c’è in ciascuno di noi… Con quella parte di noi che così spesso prende il sopravvento e che – appunto – nelle cose che fa, si sente giusta e – proprio per questo – pensa di trovarsi in una posizione tale (superiore) che gli permette di guardare gli altri dall’alto in basso, con disprezzo. Un disprezzo magari mascherato… dietro al pensiero che se a comportarsi in un certo modo o a costruire un certo tipo di vita «ci è riuscito lui, possono farlo anche gli altri – se ne avessero voglia!» [Giuliano], ma comunque un disprezzo acre nella sua sostanza, nonostante tutti i nostri tentativi postumi di dissimularlo…
I problemi in gioco sono dunque almeno due per noi farisei… e strettamente legati tra loro:
- Il ritenersi giusti;
- E il conseguente disprezzo per gli altri (non giusti come noi).
Perché questi atteggiamenti sono considerati problematici dal vangelo? E come si può fare per estirparli dal nostro cuore?
La prima domanda si pone da sé nel momento stesso in cui analizziamo il nostro sentirci giusti… Se faccio qualcosa di buono, perché non dovrei riconoscermelo (che vuol quasi sempre dire, “perché non dovrebbero riconoscermelo”, visto che siam sempre molto più preoccupati del giudizio altrui che del nostro…)? E perché – per altro verso e chiamando in causa l’altro atteggiamento problematico – se l’altro fa qualcosa di male o non fa bene ciò che deve fare, non devo biasimarlo? Perché non ci deve essere questo paragonarsi, mettersi in qualche modo in competizione nel bene, questo correggersi? Non ci sono forse passi biblici che indicano precisamente questa strada?
Come sempre, in questioni di questo tipo, bisogna intendersi sul linguaggio… perché altrimenti, con le stesse parole si rischia di dire tutto e il contrario di tutto e non arrivare mai ad intendersi…
Un metodo efficace per capire dietro alle parole di ciascuno, quale pensiero si nasconde, è quello di provare a immaginare il perché delle sue parole, delle sue domande, dei suoi perché. Cosa lo preoccupa, dove sta andando a parare… in altre parole… quali sono le sue vere intenzioni…
Allora, è evidente che va benissimo il riconoscimento (anche altrui) del bene che faccio e anche la saggia correzione fraterna per il male che l’altro fa, ma il punto è: in vista di che cosa? Faccio il bene per me, per la gratificazione del sentirmi dire “bravo” o perché nel bene che faccio vedo intorno a me che il mondo (o almeno un pezzettino di esso) si umanizza, sta meglio… per dirla come Gesù: perché per qualcuno arrivi il Regno di Dio…? E l’altro perché lo correggo? Perché così dal confronto emerga che io sono “più bravo” di lui o perché nel male che fa, vedo il male che si fa e allora cerco di umanizzargli la sua ferita?
Perché il punto – credo – sta proprio qui… è impensabile paragonare le esistenze e vedere quella “meglio riuscita”… ma non solo perché – come ci insegnano alle elementari – “non si fanno i confronti”, ma perché non è vero che ogni esistenza parte dalle stesse possibilità. E non è neanche vero che due esistenze con pari opportunità (chi sarebbe poi a stabilirlo che sono pari?) dovrebbero avere lo stesso esito… perché non esistono due individualità uguali (non sarebbero più individualità!), ma solo soggetti unici e irripetibili, con le loro storie, le loro ferite, la loro cultura, le modalità di reazione di fronte alle cose che gli si sono introiettate chissà quando…
Allora… è troppo facile stare dalla parte giusta del mondo e dimenticarsi che quella “giustezza” proprio in una piccolissima misura è nostra… è troppo facile condannare chi si separa, quando noi ci ritroviamo in mano un matrimonio riuscito per grazia, o – detto laicamente – perché c’è andata bene e neanche noi sapremmo dire poi perché… è troppo facile condannare il rom che ci rompe al semaforo per chiederci i soldi, quando noi abbiamo ogni giorno da mangiare, chi ce lo prepara e anche tutto il resto in aggiunta…
Cioè, io credo, finché l’altro lo guardiamo come estraneo, cioè non fatto della nostra stessa pasta umana, continueremo a guardare ai nostri privilegi (e anche l’essere giusti lo è!) come a qualcosa di “dovuto”, di “meritato”, dunque nostro; e alle loro disgrazie come qualcosa di loro, altrettanto “dovuto” e “meritato”… ma in negativo…
È questo il retro pensiero delle domande che – un po’ provocatoriamente – ponevo… è il retro pensiero di chi si sente – appunto – giusto! Ma non è la visione del Signore e nemmeno quella di quelle frasi bibliche che invitano a fare il bene (a essere giusti) e a correggere chi sbaglia! Usano le stesse parole nostre, forse, ma intendono tutt’altro… Mettono cioè al centro la parentela del comune impasto umano di cui siamo fatti, la comune figliolanza divina, la consanguineità della matrice con cui siamo generati… non a caso il primo discrimine è razziale (cioè è la messa in discussione di questa fraternità tra gli uomini di tutti i popoli)…
La prospettiva biblica, soprattutto evangelica, infatti, è quella per cui l’altro non mi è estraneo, nemmeno quando è colpevole (non giusto o non giusto come me…)… l’altro è mio e così caro che piuttosto che la sua vita, preferisco perdere la mia… che è la storia di Gesù (che non a caso è venuto ad insegnarci che faccia c’ha Dio e come si fa a essere uomini secondo il sogno di Dio!): «Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» Rm 5,6-8.
Ma come si fa ad accedere a questo modo di stare al mondo, senza che risulti un bel pensiero che ci appiccichiamo addosso, ma che non riesce mai a penetrarci nella pelle e a convertirci la carne?
Beh… sicuramente stando a bagnomaria nel “modo di stare al mondo” del Signore… quindi nella sua Parola, nella memoria della sua carne data per noi, nella relazione personale con Lui… In più… ricordando quanto diceva Teresina («una tentazione contro la purezza non può che umiliare la nostra anima e proprio per questo farle più bene che male»), permettendoci di accedere all’umiliazione (all’essere humus, terra, carne umana strettamente imparentata con quella di tutti i peccatori della storia) non come ciò che ci annienta, ma come ciò che rompe la durezza della nostra giustizia e ci fa accedere alla misericordia per tutti: «O Dio, abbi pietà di me peccatore».
giovedì 25 ottobre 2007
Presunzione di essere giusti - la schizofrenia
Sir 35,12-14.16-18; Salmo 33; 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14
fra il credere e il pregare : quale Dio?
...sembrano due divinità diverse, queste a cui si rivolgono i due credenti praticanti che vanno al tempio a pregare. Due divinità e due credenti discordanti, si direbbe! Proprio questo è l’obiettivo di Gesù: di mettere a nudo due modi radicalmente opposti, di credere e pregare, anche se nello stesso tempio. Forse effettivamente ci sono tra noi personaggi simili a questi due prototipi, ma i due atteggiamenti possono anche convivere e combattersi nello stesso animo… Anzi forse tutti dobbiamo passare attraverso questa esperienza bruciante e dolorosa, appena ci accorgiamo, nel cammino della fede, di essere (stati) farisei capaci di ferire i più deboli e sprofondarli nel loro ‘peccato’ dall’alto della nostra “perfezione”. È sempre la preghiera la cartina di tornasole della fede. L’orante è il credente che si mette di fronte a Dio e s’arrischia a cercare nella propria fede un volto amico di fronte a cui esprimersi, con cui entrare in relazione… Allora la prima raccomandazione è la parabola della vedova ostinata: non smettere mai questa preghiera, per nessun motivo, se si vuoi davvero arrivare a incontrare Dio… E questa è la seconda raccomandazione, altrettanto importante, la parabola del fariseo e del pubblicano: fai attenzione che se parli davvero con Dio, il tuo cuore deve diventare misericordioso e ‘amico’ con il fratello.
"alcuni presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri"
Anche Paolo era sicuro di aver combattuto la buona battaglia… ma attendendo con amore la manifestazione del Signore. Anche la vedova era sicura di essere nel giusto!... cioè di aver ragione. Ma in che cosa? nel bisogno di essere soccorsa, amata, custodita… proprio perché da sola non aveva più risorse, né meriti, da vantare… ma solo quest’immensa povertà e fame di bene, che qualcuno doveva pur esaudire… Invece il fariseo ha tante opere da esibire, vere certamente, ed eseguite con corretta precisione. Qual è, allora, il suo problema? Comincia ringraziando Dio, come è giusto, ma è un soliloquio senza interlocutore, perchè poi al centro del tempio c’è lui, che parla solo di ciò che ha fatto bene, e disprezza l’altro… misurandolo sulla propria esperienza - comportamento così diffuso che è divenuto un proverbio . io ho fatto quel che era giusto, chi invece è causa del suo male pianga se stesso!
noi, buoni cristiani praticanti : abbiamo il nemico in casa!
… con questa parabola Gesù mette in guardia proprio i credenti, i religiosi, quelli che frequentano di più il tempio, osservano i precetti della chiesa e le norme morali. Eppure abbiamo il nemico in casa, capace di svuotare di senso il vangelo … e minare ogni rapporto di amore. Questo tarlo si manifesta nei momenti in cui, magari feriti per qualche delusione o scandalizzati per l’altrui comportamento, non abbiamo più misericordia per nessuno e proclamiamo l’elenco minuzioso (perché tanto rimuginato!) dei nostri meriti e di quanto quindi ci è dovuto! Il verme corrosivo rivela il suo veleno soprattutto nel disprezzo degli altri (letteralmente: “nientificazione”, annullamento)!
Il fariseo è un onesto uomo religioso, che, con la propria fedeltà, costanza, fatica, ha conquistato questa posizione di merito. Proprio per questo, coerentemente, “discrimina” (mette dalla parte del crimine!) chi non ha fatto come lui. Se ci è riuscito lui, possono farlo anche gli altri – se ne avessero voglia! Questa logica soffocante rende “duro”e refrattario alla misericordia il cuore dei migliori discepoli o dei credenti più osservanti…
Luca riprende la parabola, perché è proprio questo il rischio più subdolo nella sua chiesa, la fonte di tutte le discriminazioni, condanne reciproche, divisioni … come del resto tra noi, oggi. Infatti, basta vedere quanto ancora tra i credenti, nelle comunità famigliari, religiose, aggregazioni e movimenti ecclesiali… questo vizio “virtuoso” sia persistente, per capire perché il Signore ci insista in modo così shoccante: chi si crede a posto davanti a Dio, per aver fatto quanto doveva fare, è in grave pericolo, perché diventerà presto il giudice inquisitore, difensore della fede e dei costumi, di cui si considera un esperto. Costui, non conosce affatto Dio, e quindi neanche se stesso. Meglio i delinquenti, sembra dire il Signore! Ma perchè una vita ‘religiosa’ seria e impegnata può finire così?
… può essere la trappola del culto
Il culto come voce di lode e comunione della chiesa, radunata attorno alla Parola e all’eucaristia, è il dono più grande offerto al credente, per confortare e nutrire la sua fede, nel cammino della vita. Ma può diventare fine a se stesso, un doveroso tributo pagato a Dio, ed estraniare dalla sua intima verità che è la riconoscenza al Signore e la partecipazione alla redenzione del mondo, che ancora sta fermentando nella storia… Man mano che la preghiera cultuale tende a separarsi dalle condizioni concrete della storia, dalle sofferenze dei fratelli, allora può anche riempire la vita quotidiana di atti di devozione, ma svuotarla di senso. L’indice rivelatore di questa schizofrenia dello spirito è l’insensibilità progressiva alle sorti del mondo e il giudizio impietoso contro il fratello diverso!
… può essere la trappola di una vita impegnata
Avviene che ci mettiamo – sul serio! – alla ricerca di Dio. Come esito di una vocazione autentica oppure dopo un'esperienza forte, un ritiro, un pellegrinaggio, un lutto, una gioia… quando decidiamo di conoscere il Signore, diventare discepoli. Ma la testa e il cuore subito s’ingombrano di preoccupazioni, di desideri, di progetti, di giudizi buoni, ottimi. Che man mano costituiscono il senso della nostra vita... Impercettibilmente, però, tutto questo, con nostro segreto o manifesto compiacimento… si identifica con “i progetti e pensieri di Dio”… Ed ecco che chi ragiona diverso e non li condivide, o vive altrimenti, è nemico di Dio! Con le conseguenti “giuste” contrapposizioni, e poi condanne, e infine il disprezzo del fratello… per difendere la verità e la morale.
la medicina per la schizofrenia dello spirito è la preghiera del pubblicano
È questa la preghiera che ci mette nella posizione autentica di fronte a Dio: abbi pietà di me, peccatore! Il pubblicano della parabola non lo sa ancora, ma la chiesa di Luca ormai lo sa bene, che questa preghiera salva perché è il gemito dello Spirito dentro di noi, effuso in noi per insegnarci a pregare davvero, perchè da soli non siamo capaci.. Ci fa dire: abba, padre! senza altre parole, chiamando con un gemito il Dio di Gesù, non come giudice o creatore … ma come “colui che ha pietà”, l’amore chinato su di noi! Qui sta il nodo fondamentale del fatto cristiano – e l’equivoco determinante di ogni deviazione. Un cristiano che accusa e condanna un altro d’essere peccatore è il colmo dell’incomprensione nel discepolo di Gesù. Esser discepolo consiste invece nella sequela determinata di colui che fu computato tra i malfattori: “…Usciamo dunque anche noi dall’accampamento e andiamo verso di lui, portando il suo obbrobrio” (Eb 13,13). Che questo obbrobrio, questa lontananza di Dio sia abitata da Dio in maniera molto maggiore del simbolo religioso, ecco il mistero! Ma è questa sorprendente dislocazione di Dio rispetto ai nostri pensieri che fa dire a Gesù che le prostitute e i pubblicani passano avanti ai capi ai santi religiosi… nel regno di Dio! Questa invocazione apre al credente lo spazio propriamente cristiano (cattolico) che Gesù di Nazareth ha vissuto con coloro che erano fuori, lontani e perduti… E porta a vivere la povertà di Dio nella storia, attraverso la partecipazione appassionata e simpatizzante con la speranza, la sofferenza, la debolezza di ogni uomo – perché si colloca là dove Dio ha fatto il miracolo, in fondo al tempio, sotto il giudizio impietoso dei “giusti”… Senza mettere mai più la propria fiducia in certezze o progetti o ideologie … ma solo nella testimonianza della misericordia del Signore, come Paolo: Il Signore però mi è stato vicino, mi ha dato forza!
"Io sono come gli altri”… un uomo da salvare”
… il “santo” cristiano è, infatti, un ex-fariseo invaso dalla grazia del pubblicano, per cui non solo non giudica più nessuno, ma si sente salvato dallo stesso amore, scoppia di riconoscenza della stessa riconoscenza del peccatore perdonato, e dunque corre in fondo al tempio, nei crocicchi delle strade, sui marciapiedi della città… ad abbracciare il “peccatore” finalmente fratello, perché da lui ha imparato a pregare! E gioisce che giustamente lo preceda in paradiso, sapendo che gli apre la strada, se lo tiene per mano!
… nessun “fatto cristiano” è più illuminante che la preghiera di Gesù morente in croce nell’estrema lontananza da Dio: per il luogo (fuori del tempio), il tempo (bisogna fare in fretta, perché non contaminare il sabato), l’osservanza della legge (uccidono l’unico giusto!). Ma Gesù prega per il perdono dei suoi assassini e promette compagnia eterna con sé al ladrone : quale maggiore “testimonianza” che Dio accoglie l’estrema lontananza da sé? Non è stato Gesù ad abbandonare il Padre, è stato l’amore del Padre a spingerlo là dove c’era l’assenza, in mezzo ai peccatori, perduti, senza pastore… in modo che, divenuti suoi amici, il Padre non potesse che salvarli e amarli.
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