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mercoledì 8 giugno 2016

XI Domenica del Tempo ordinario


Dal secondo libro di Samuèle (2Sam 12,7-10.13)

In quei giorni, Natan disse a Davide: «Così dice il Signore, Dio d’Israele: Io ti ho unto re d’Israele e ti ho liberato dalle mani di Saul, ti ho dato la casa del tuo padrone e ho messo nelle tue braccia le donne del tuo padrone, ti ho dato la casa d’Israele e di Giuda e, se questo fosse troppo poco, io vi aggiungerei anche altro. Perché dunque hai disprezzato la parola del Signore, facendo ciò che è male ai suoi occhi? Tu hai colpito di spada Urìa l’Ittìta, hai preso in moglie la moglie sua e lo hai ucciso con la spada degli Ammonìti. Ebbene, la spada non si allontanerà mai dalla tua casa, poiché tu mi hai disprezzato e hai preso in moglie la moglie di Urìa l’Ittìta». Allora Davide disse a Natan: «Ho peccato contro il Signore!». Natan rispose a Davide: «Il Signore ha rimosso il tuo peccato: tu non morirai».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati (Gal 2,16.19-21)

Fratelli, sapendo che l’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno. In realtà mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me. Dunque non rendo vana la grazia di Dio; infatti, se la giustificazione viene dalla Legge, Cristo è morto invano.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 7,36-8,3)

In quel tempo, uno dei farisei invitò Gesù a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo. Vedendo questo, il fariseo che l’aveva invitato disse tra sé: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!». Gesù allora gli disse: «Simone, ho da dirti qualcosa». Ed egli rispose: «Di’ pure, maestro». «Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. Non avendo essi di che restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi di loro dunque lo amerà di più?». Simone rispose: «Suppongo sia colui al quale ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene». E, volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non hai unto con olio il mio capo; lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo. Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco». Poi disse a lei: «I tuoi peccati sono perdonati». Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è costui che perdona anche i peccati?». Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!». In seguito egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni.

 

«L’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo».

La frase di Paolo potrebbe essere usata come titolo per il vangelo di questa domenica. Gesù, infatti, pronuncia qui, come tante altre volte: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!».

Ciò che rimanda in pace la donna, che più volte nel testo è definita “peccatrice”, è la sua fede, il suo amore: «sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato».

Ma dobbiamo stare attentissimi, perché purtroppo la cultura cattolica in cui siamo cresciuti rischia di farci fraintendere il tutto e rovinare quello che, a mio giudizio, è uno dei più bei brani del vangelo. Il pericolo è, infatti, quello di interpretare la vicenda e le parole di Gesù dentro ad uno schema che, invece, Gesù stesso vuole far scoppiare dal di dentro.

Provo a spiegarmi.

Il testo è articolato in questo modo: da una parte c’è il fariseo, che si crede giusto di fronte a Dio (e probabilmente lo è davvero), e dall’altra c’è la donna peccatrice. In mezzo c’è Gesù, che ha il ruolo di mostrare il punto di vista di Dio (anche il fariseo gli riconosce infatti autorevolezza).

Il senso comune fa pensare che Dio considererà con benevolenza il giusto, mentre guarderà torvo la peccatrice. A meno che la peccatrice non si penta e non metta in atto dinamiche di penitenza e conversione.

Questo era il retro pensiero del fariseo e di tutti i farisei della storia.

I cattolici pensano di aver fatto un grande passo in avanti rispetto ai farisei, perché sanno che Dio non guarda storto i peccatori, ma è misericordioso e pronto a riaccoglierli. Forti di questa convinzione, di questo “guadagno”, non si identificano più col fariseo del vangelo e quindi non riescono a immedesimarsi nella vicenda, perdendo il vero fulcro del brano, che non è che Gesù non guarda male i peccatori, ma che non gli chiede un pentimento, una conversione, una penitenza per essere riammessi nella relazione con lui.

Perdendo questo, i cattolici interpretano tutto ciò che la donna fa e tutto ciò che Gesù dice, come un esempio di confessione riuscita: una peccatrice va da Gesù, Gesù è accogliente, lei esprime i suoi peccati (con le lacrime) e poi fa opere di penitenza (asciuga i piedi di Gesù con i capelli, glieli bacia, porta il profumo…). Gesù, infine, la rimanda in pace.

Detto un po’ meno poeticamente: una peccatrice va da Gesù e paga il perdono con lacrime, profumo e qualche gesto umiliante o per lo meno servile.

 

Pensare così di questa donna, di Gesù e di questo brano del vangelo vuol dire violentarlo.

 

Non bisogna infatti dimenticare che all’interno del testo è posta una parabolina, che Gesù racconta al fariseo («Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. Non avendo essi di che restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi di loro dunque lo amerà di più?»), dove il punto centrale è che i debitori non avevano di che restituire. Non ce l’avevano, non ce l’abbiamo e Dio lo sa. E cosa fa? Ci dà più tempo per raccogliere la somma? Ci tiene per una vita in scacco perché siamo debitori? No, ci libera dal giogo del debito, condonandolo.

Forse agli italiani onesti, la parola “condono” piace poco, ma piace poco perché è stata usata male, non perché sia brutta in sé. Anzi… Dio stesso potrebbe avere il soprannome di “condonatore”. Egli è colui che sa che non abbiamo, ne mai avremo di che restituire, e perciò ci libera dal giogo. Non vuole che la relazione con lui sia legata a un do ut des, ti perdono, se paghi con penitenze, sacrifici, o altro. La relazione da parte sua è sempre come vergine, animata dall’entusiasmo e dalla fiducia di chi ama per la prima volta («quante volte ho amato … come se non avessi amato mai», Vecchioni, Le rose blu).

Per questo lo ama di più colui che ha peccato di più, perché gli è stato condonato di più.

Ecco che allora tutti i gesti della donna, invece che essere stuprati dalla nostra interpretazione volgare che li leggeva come “prezzo” del perdono, diventano i gesti affettuosi e teneri di chi ama, perché per primo si è sentito amato nonostante fosse una schifezza («Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi», Rm 5,8).

E allora, ecco, che quelle lacrime, quei capelli, quel profumo, diventano i gesti della sensualità che si fa tenerezza, appartenenza, custodia… come quando, nelle nostre relazioni, i corpi si avvolgono reciprocamente e ognuno diventa nido per l’altro.

 

Paolo aveva capito tutto… «per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno», per questo aveva deciso di vivere «nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me».

martedì 3 novembre 2015

XXXII Domenica del Tempo Ordinario


Dal primo libro dei Re (1Re 17,10-16)

In quei giorni, il profeta Elia si alzò e andò a Sarèpta. Arrivato alla porta della città, ecco una vedova che raccoglieva legna. La chiamò e le disse: «Prendimi un po’ d’acqua in un vaso, perché io possa bere». Mentre quella andava a prenderla, le gridò: «Per favore, prendimi anche un pezzo di pane». Quella rispose: «Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo». Elia le disse: «Non temere; va’ a fare come hai detto. Prima però prepara una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché così dice il Signore, Dio d’Israele: “La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà fino al giorno in cui il Signore manderà la pioggia sulla faccia della terra”». Quella andò e fece come aveva detto Elia; poi mangiarono lei, lui e la casa di lei per diversi giorni. La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia.

 

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 9,24-28)

Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte. Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.

 

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 12,38-44)

In quel tempo, Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa». Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».

 

«Gesù sta avvicinandosi alla conclusione (l’esodo) della sua avventura umana, a Gerusalemme e, man mano che espone sempre più chiaramente alle folle il suo “vangelo”,– come abbiamo potuto ascoltare nelle ultime domeniche ‑ il conflitto con gli scribi, i farisei e i capi del popolo si fa più violento, perché questi sono gli unici che ne capiscono bene la drammatica alternativa al loro insegnamento e ancor più al loro comportamento: Lo udirono i capi dei sacerdoti e gli scribi e cercavano il modo di farlo morire. Avevano infatti paura di lui, perché tutta la folla era stupita del suo insegnamento (Mc 11,18). Gesù ha proposto con disarmata radicalità le esigenze “smisurate” del Regno […]. Poi ha simbolicamente esautorato il tempio, divenuto un fico sterile e una spelonca di ladroni, indicando nel cuore dell’uomo la “casa” dell’incontro col Padre suo. Ha quindi ripreso e completato il comandamento “primo” sottolineandone la connessione essenziale col secondo: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza, e il prossimo tuo come te stesso (12,29s). É una questione di amore! Ma adesso, che il tempo del suo insegnamento è alla fine, davanti all’ostilità omicida della classe dirigente e all’incomprensione tonta dei discepoli, come spiegare cosa vuol dire “amare”?

Una donna, vedova e sola, gli viene in aiuto!» [p. Giuliano Bettati].

 

martedì 22 ottobre 2013

XXX Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del Siràcide (Sir 35,15-17.20-22)
Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone. Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano, né la vedova, quando si sfoga nel lamento. Chi la soccorre è accolto con benevolenza, la sua preghiera arriva fino alle nubi. La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo (2Tm 4,6-8.16-18)
Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione. Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 18,9-14)
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Il vangelo che questa Trentesima Domenica del Tempo Ordinario ci propone, è la diretta continuazione di quello di domenica scorsa, sulla necessità di pregare sempre. Oggi il testo lucano, ci propone – in una nuova parabola di Gesù – due esempi di preghiera: quella del fariseo e quella del pubblicano.
Ma se la preghiera, come dicevamo la volta scorsa, non è tanto un dire preghiere, ma il collocarsi nella relazione col Signore, allora forse, i due protagonisti non sono tanto due tipi umani – di cui saremmo bravissimi a trovare esemplificazioni contemporanee tra le persone che conosciamo, ma sono due possibilità di porsi in relazione col Signore e quindi coi fratelli, che si ripresentano attimo dopo attimo in ogni momento della nostra vita. Noi possiamo essere e siamo il fariseo – con l’intima presunzione di essere giusti e sprezzanti verso gli altri – e il pubblicano – incapaci di alzare gli occhi al cielo, con la mano che ci batte sul petto.
L’immagine che dovrebbe venirci in mente non è quindi tanto quella di quel fratello che assomiglia al fariseo affiancata da quell’altra che ha il volto di quel fratello che assomiglia al pubblicano della parabola… quanto piuttosto quella di noi stessi, alle prese con la decisione sul chi essere…
A proposito, mi sono ricordata di un’immagine della mia infanzia, quella dei fumetti di paperino…
 

 
Il fariseo e il pubblicano sono dentro di noi, impegnati nella continua lotta tra il sentirsi giusti e l’incapacità di alzare lo sguardo verso il Signore.
È questa la posta in gioco della parabola di Gesù: la nostra giusta collocazione di fronte al Signore (e ai fratelli).
Da questo punto di vista, non v’è dubbio che Gesù indichi come corretta la posizione del pubblicano: si posiziona in maniera giusta colui che si riconosce peccatore.
Ma – onde evitare fraintendimenti – vorrei specificare i termini in gioco.
Da un lato la doppia valenza che ha il termine “giusto” e dall’altra quella che ha il termine “peccatore”.
La parola “giusto”, infatti, ha significati diversi nelle locuzioni da me usate: ha una valenza quando dico “sentirsi giusti”, ne ha un’altra quando dico “collocarsi nella posizione giusta”.
Nel primo caso infatti, l’intonazione del termine è etica, fa cioè riferimento al comportamento del soggetto in causa, che nella finzione parabolica è ben esplicitato: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo».
Nel secondo caso, invece, con il termine “giusto” non si fa immediatamente riferimento ad un comportamento moralmente corretto, ma all’esattezza e alla precisione di una determinata posizione: è la stessa valenza che il termine ha in una frase come la seguente “la giusta posizione per vincere la partita di scacchi è fare scacco matto”, oppure “la giusta combinazione per aprire la cassaforte è digitare la password esatta”.
Mentre nel primo caso alla “giustezza” si può concedere una sorta di gradazione (si può essere più o meno giusti), nel secondo no: o si è nella posizione corretta, che abilita a qualcos’altro (la precisa posizione degli scacchi, che consente la vittoria; o la password esatta che permette di accedere alla cassaforte) oppure non lo si è.
Considerato tutto questo e tornando alla parabola, riesce bene il gioco di parole per cui non è detto che essere giusti (moralmente) coincida con la giusta collocazione di fronte al Signore. Anzi, sembra che il giusto posizionarsi di fronte a Dio (quello che abilita ad una relazione consapevole con Lui, che altrimenti non si dà) coincida con il non essere giusti (moralmente).
Questo evidentemente non vuol dire che allora bisogna porsi in una condizione moralmente ingiusta per entrare in relazione col Signore o che non sia necessario lottare contro le ingiustizie di cui siamo artefici; piuttosto questo gioco di parole, suggerito dal vangelo stesso («Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti [in greco, dikaioi] e disprezzavano gli altri» - «Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato [in greco, dedikaiomenos]»), propone il riconoscimento di Dio come unico giusto e una ricollocazione nostra di fronte a Lui: nessuno di noi è giusto, noi siamo tutti peccatori.
Ed ecco entrare in gioco il secondo termine dalla doppia valenza che richiamavamo prima: “peccatore”.
Secondo un primo senso “peccatore” è chi commette dei peccati: preso in questa prima accezione il termine sembra contraddire quanto appena detto. In effetti esistono persone capaci di non fare peccati (almeno per un certo lasso di tempo) e dunque che potrebbero – come il fariseo della parabola – ritenersi giusti (moralmente).
Ma vi è una seconda intonazione che questo termine può avere: “peccatore” è colui che esistenzialmente è abitato dal peccato, cioè che in tutto ciò che fa (anche le cose giuste) porta con sé la contraddizione, la viscosità, la necessità della sua storia, del suo mondo, della storia che è e del mondo che è.
Da questo punto di vista nessuno di noi è “senza peccato”; per prendere solo un aspetto della questione ricordo quanto ci ricordava il prof. Moscatelli in un incontro sulla giustizia nella Bibbia: le nostre “vite giuste” galleggiano su fiumi di sangue di altri uomini… quello di coloro che abitano nel Terzo mondo e sulla cui ricchezza si fonda la nostra opulenza, quello di mia madre che mi ha dato alla luce, quello dei martiri della patria che mi consentono di vivere in un paese libero dalla dittatura, e via discorrendo…
Non si tratta del solito discorso – piuttosto abusato negli ambienti cattolici – che vuole insistere sulla peccaminosità dell’uomo, mettendola quasi al centro della lettura teologica della storia: non credo nella logica della mortificazione, delle penitenze e dei sacrifici atti a castigare la nostra natura cattiva. È infatti quella stessa logica che genera sedicenti giusti, che disprezzano gli altri.
Si tratta piuttosto della proposta (che a me pare nasca dalle pagine evangeliche) di guardarsi onestamente come un miscuglio (i cui elementi quasi mai sono ben rintracciabili) di caso, fortuna, grazia, necessità, precarietà, eredità, gratuità, bisogni, assoluto e chi più ne ha più ne metta… con due centimetri di libertà…
Se ci pensiamo così, come un grumo di sangue accanto ad altri grumi di sangue, siamo nella giusta posizione per una relazione consapevole col Signore, che col tempo ci insegna che la giustizia che disprezza il fratello, non sarà mai la sua giustizia… perché Lui, l’unico giusto, i suoi figli-miscuglietti non li ha mai disprezzati.

martedì 25 ottobre 2011

XXXI Domenica del Tempo Ordinario

Il vangelo che la Chiesa ci propone in questa Trentunesima Domenica del Tempo Ordinario, è costituito dai versetti 1-12 del capitolo 23.

Io però suggerisco la lettura dell’intero capitolo 23, perché esso – nel suo insieme – riesce meglio a rendere l’idea di quale sia la posizione di Gesù rispetto agli scribi e ai farisei «di ieri e di oggi»… Una posizione che non va ridotta a questione occasionale, non rilevante, ininfluente (quasi che Gesù abbia risposto con questa alacrità solo perché in quel momento il tono della discussione era acceso… e dunque le sue parole andrebbero prese con le pinze…), ma che – anzi – a mio parere è molto istruttiva (la dice lunga…) per comprendere cosa/come pensa Gesù, dunque chi egli sia!

Non a caso gli studi esegetici confermano che questo discorso di Gesù, non è per niente il resoconto di una sua mera presa di posizione occasionale, che Matteo avrebbe redatto all’indomani di uno scontro coi capi religiosi ebraici, quanto piuttosto «un vero e proprio discorso che l’evangelista ha costruito con la tecnica che gli è abituale: parole del Signore pronunciate in contesti diversi sono radunate insieme per affinità tematiche. Nel nostro caso l’evangelista ha raccolto molte parole polemiche del Signore, quasi a rappresentare il vertice della rottura fra Gesù e i farisei» [B. Maggioni, il racconto di Matteo, 290].

Queste parole sono infatti collocate da Matteo dopo i brani dello scontro con i capi religiosi di Gerusalemme, di cui abbiamo letto nelle scorse settimane: a coronamento dell’innalzarsi della tensione contro Gesù – tensione che lo porterà alla morte –, l’evangelista colloca questa raccolta di parole severe, che hanno di mira un certo modo di vivere la religiosità e in particolare l’autorità religiosa.

Il fatto però che – appunto – si tratti di una raccolta di parole pronunciate (anche) altrove e in diverse occasioni, rende evidente come la posizione di Gesù qui espressa non sia occasionale, ma strutturale: cioè, il nostro brano di vangelo non ci dice semplicemente il pensiero di Gesù rispetto a quei pochi sadducei, farisei e scribi che hanno tentato di coglierlo in fallo nelle varie dispute analizzate nelle settimane scorse; ma ci rivela quale sia stato il pensiero che Gesù ha elaborato nella sua storia (il discorso è infatti composto da frasi che ha pronunciato in momenti diversi della sua storia, che Matteo ha scelto per rendere l’idea di quale fosse il pensiero del suo Maestro) rispetto al potere religioso.

Questo è il nocciolo del discorso…


Insomma… se si dovesse raccogliere ciò che Gesù pensa rispetto al potere religioso, verrebbe fuori questo capitolo 23… Anzi è proprio andata così: Matteo, dovendo raccogliere ciò che Gesù aveva detto/pensato rispetto al potere religioso, ha ottenuto questo lacerante capitolo 23!

Guardiamolo perciò un po’ più da vicino… non tanto per alimentare una polemica con l’attuale potere religioso – cioè guardando il testo come se fossimo noi gli oppositori dei farisei di ieri e di oggi – quanto piuttosto per far sì che le parole di Gesù interpellino il fariseo che c’è in ciascuno di noi… l’anima farisaica delle nostre famiglie, dei nostri gruppi, delle nostre comunità, della nostra Chiesa.

Innanzitutto ciò che emerge è che ad essere messi sotto accusa da Gesù sono essenzialmente due atteggiamenti: l’incoerenza ipocrita e la ricerca di sé.

Non l’incoerenza e basta, ma l’incoerenza ipocrita: quella cioè che maschera la verità di sé. Perché leggendo il vangelo ci si accorge subito che la fragilità dell’uomo (tra cui anche la sua incoerenza!) non sono mai impedimenti veri all’incontro col Signore, anzi… tanti episodi paiono sottolineare come soprattutto chi è immerso nella sua fragilità, chi è trasparenza della miseria umana è come “favorito” nell’accesso al Regno («In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio», Mt 21,31).

Il problema non sta quindi nella nostra impossibilità a costruirci una vita “santa” («“Chi può essere salvato?”. Gesù disse: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”, Mt 19,25-26), ma nel fingere che questa impossibilità per qualcuno sia meno impossibile che per qualcun altro…

Questo fanno gli scribi e i farisei cui Gesù rivolge questo suo discorso duro; questo è il pericolo sempre insito nel potere religioso: fingere di non essere uomo tra gli uomini, fratello di fratelli, peccatore seduto con tutti gli altri alla tavola dei peccatori… ma di avere i “titoli” morali, sacrali, intellettuali per essere chiamato “maestro”, “padre”, “guida”… È questa falsificazione di fronte agli altri e a se stessi della nostra identità fatta della stessa pasta umana degli altri, che spaventa Gesù…

E lo spaventa perché sa che questo meccanismo di falsificazione di sé (non si pensa più a se stessi come a poveri, figli, bisognosi di misericordia, di cura, di fraternità…), porta inevitabilmente alla discriminazione omicida: se io non sono come gli altri (sottinteso “sono meglio”), il mio sguardo verso di loro non potrà essere che di indifferenza o commiserazione o disprezzo o condanna…

Se tutto questo è vero a livello delle singole persone – e credo che tutti quanti personalmente l’abbiamo un po’ sperimentato sulla nostra pelle, sia come vittime (di qualche sedicente “diverso/migliore di noi”), sia come carnefici – a maggior ragione lo è al livello macroscopico delle istituzioni, dove – appunto – l’apparato istituzionale censura ciò che invece a livello personale ancora ogni tanto ci salva, e cioè lo scrupolo di coscienza nell’“ammazzare” l’altro…

Ma c’è ancora un livello peggiore di incistamento di questo meccanismo… quando esso non solo è istituzionalizzato, ma lo è a livello religioso/sacrale: lì infatti l’alibi del far le cose “perché dio le vuole” chiude ogni possibilità d’appello.

È questa pericolosità che Gesù vede e denuncia… e tenta continuamente di scardinare, ribadendo come Maestro, Padre e Guida debba essere Uno solo, Dio, di cui noi siamo tutti discepoli, figli, in-seguitori. Ribadendo dunque come tra noi il rapporto debba essere unicamente fraterno.

Guardandosi intorno (ma anche dentro) non sembra che questo elemento strutturale del vangelo di Gesù sia stato molto colto… tanto meno assunto…

venerdì 22 ottobre 2010

XXX Domenica del Tempo Ordinario: Il comune impasto umano genera misericordia

Le letture che la Chiesa ci propone per questa trentesima domenica del Tempo Ordinario, vertono tutte sulla tematica di Dio «giudice giusto»… Un Dio che non fa «preferenza di persone»… Anzi un Dio giudice molto diverso e sorprendente rispetto a quello che abitualmente ci immaginiamo.

Solitamente, infatti, noi, di fronte all’idea del Dio giudice abbiamo un’istintiva reazione di paura, di soggezione, di sconcerto per Chi – sappiamo (o crediamo di sapere) – analizza puntigliosamente la nostra condotta, la nostra morale, la buona riuscita o meno della nostra vita e di tutti quegli atti che la compongono… In realtà – almeno così dicono i brani delle letture – questa prospettiva di “aggiustamento” della vita per risultare graditi a Lui, non pare propriamente in linea con quella che la sua Parola propone…
Lo si vede in maniera chiara già nel testo del libro del Siracide, dove si sottolinea come la preghiera più ascoltata, anzi lo sfogo del lamento più ascoltato, non sia quella del “giusto”, bensì quello di chi apparentemente risulta “non riuscito” (l’orfano, la vedova, il povero, l’oppresso…), indipendentemente dalla sua condotta… Un brano, dunque, dove ad emergere non è tanto il volto di un Giudice preoccupato della moralità di chi gli sta davanti, ma piuttosto quello di Chi è preoccupato della ferita (da umanizzare) di chi lo prega.
In proposito, dovremmo tornare a leggere sempre più spesso quello che Teresina scriveva sulla castità (e cito questo esempio perché, ancora oggi, i cristiani abitualmente quando parlano di “morale”, implicitamente fanno riferimento soprattutto alla “morale sessuale”): «É sorprendente come le anime perdono facilmente la pace a proposito di questa virtù! Il demonio lo sa bene: per questo le tormenta così tanto a questo riguardo! E invece non c’è tentazione meno pericolosa di questa. Il modo di liberarsene è di considerarle con calma, non meravigliarsene, ancor meno temerle. Normalmente, al primo attacco, ci si spaventa, si crede che tutto è perduto: è proprio di questa paura, di questo scoraggiamento che si serve il diavolo per far cadere le anime. E invece siate sicura che una tentazione di orgoglio è ben più pericolosa – e il buon Dio ne è ben più offeso quando uno vi soccombe – che quando fa una caduta, anche grave, contro la purezza, perché Egli ha riguardo della nostra natura ferita, mentre per una caduta d’orgoglio non c’è scusa. Però è una caduta – quella d’orgoglio – che le anime commettono spesso e facilmente, senza inquietarsene. Una tentazione di orgoglio dovrebbe essere temuta più del fuoco, mentre una tentazione contro la purezza non può che umiliare la nostra anima e proprio per questo farle più bene che male» [S.Teresa di Gesù Bambino fa questa confidenza a sr Maria della Trinità, che si lamentava con lei degli scrupoli di cui soffriva a riguardo della virtù della castità... CRM pp 86-87].
Ma, tra i testi odierni, è poi soprattutto nella parabola evangelica, che va in crisi l’immagine del Dio giudice che continuamente la nostra mente ci ripropone; un’immagine di Dio che – se è vero quanto diceva il papa e cioè che «Non ogni dio è degno di fede»! – ha bisogno continuamente di essere decostruita (perché questa è la conversione evangelica!) per far spazio – tra le macerie del nostro volto di Dio – al dissotterramento del suo volto, quello che Lui – attraverso suo Figlio – ci ha voluto raccontare.
La parabola è costruita su due personaggi chiave, il fariseo e il pubblicano. Ma dato che per esplicita dichiarazione di Luca, la vicenda è stata pensata appositamente «per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri», la corretta prospettiva con cui guardare al testo è quella di concentrarsi, almeno inizialmente, sul fariseo. Lui è l’efficace caricatura di chi ascolta, di chi legge.
Quel fariseo non è dunque immediatamente da identificare con quelle persone che – nella nostra vita, nella nostra chiesa, nella nostra comunità – noi individuiamo come particolarmente puntigliose nell’osservanza esteriore e legalistica delle norme ecclesiali, morali o cultuali e che hanno (quasi automaticamente – pare dire il vangelo) un innato disprezzo per gli altri che non sono bravi come loro o giusti come loro o osservanti come loro… Ma piuttosto l’identificazione va fatta col fariseo che c’è in ciascuno di noi… Con quella parte di noi che così spesso prende il sopravvento e che – appunto – nelle cose che fa, si sente giusta e – proprio per questo – pensa di trovarsi in una posizione tale (superiore) che gli permette di guardare gli altri dall’alto in basso, con disprezzo. Un disprezzo magari mascherato… dietro al pensiero che se a comportarsi in un certo modo o a costruire un certo tipo di vita «ci è riuscito lui, possono farlo anche gli altri – se ne avessero voglia!» [Giuliano], ma comunque un disprezzo acre nella sua sostanza, nonostante tutti i nostri tentativi postumi di dissimularlo…
I problemi in gioco sono dunque almeno due per noi farisei… e strettamente legati tra loro:

       - Il ritenersi giusti;
       - E il conseguente disprezzo per gli altri (non giusti come noi).

Perché questi atteggiamenti sono considerati problematici dal vangelo? E come si può fare per estirparli dal nostro cuore?

La prima domanda si pone da sé nel momento stesso in cui analizziamo il nostro sentirci giusti… Se faccio qualcosa di buono, perché non dovrei riconoscermelo (che vuol quasi sempre dire, “perché non dovrebbero riconoscermelo”, visto che siam sempre molto più preoccupati del giudizio altrui che del nostro…)? E perché – per altro verso e chiamando in causa l’altro atteggiamento problematico – se l’altro fa qualcosa di male o non fa bene ciò che deve fare, non devo biasimarlo? Perché non ci deve essere questo paragonarsi, mettersi in qualche modo in competizione nel bene, questo correggersi? Non ci sono forse passi biblici che indicano precisamente questa strada?

Come sempre, in questioni di questo tipo, bisogna intendersi sul linguaggio… perché altrimenti, con le stesse parole si rischia di dire tutto e il contrario di tutto e non arrivare mai ad intendersi…

Un metodo efficace per capire dietro alle parole di ciascuno, quale pensiero si nasconde, è quello di provare a immaginare il perché delle sue parole, delle sue domande, dei suoi perché. Cosa lo preoccupa, dove sta andando a parare… in altre parole… quali sono le sue vere intenzioni…

Allora, è evidente che va benissimo il riconoscimento (anche altrui) del bene che faccio e anche la saggia correzione fraterna per il male che l’altro fa, ma il punto è: in vista di che cosa? Faccio il bene per me, per la gratificazione del sentirmi dire “bravo” o perché nel bene che faccio vedo intorno a me che il mondo (o almeno un pezzettino di esso) si umanizza, sta meglio… per dirla come Gesù: perché per qualcuno arrivi il Regno di Dio…? E l’altro perché lo correggo? Perché così dal confronto emerga che io sono “più bravo” di lui o perché nel male che fa, vedo il male che si fa e allora cerco di umanizzargli la sua ferita?

Perché il punto – credo – sta proprio qui… è impensabile paragonare le esistenze e vedere quella “meglio riuscita”… ma non solo perché – come ci insegnano alle elementari – “non si fanno i confronti”, ma perché non è vero che ogni esistenza parte dalle stesse possibilità. E non è neanche vero che due esistenze con pari opportunità (chi sarebbe poi a stabilirlo che sono pari?) dovrebbero avere lo stesso esito… perché non esistono due individualità uguali (non sarebbero più individualità!), ma solo soggetti unici e irripetibili, con le loro storie, le loro ferite, la loro cultura, le modalità di reazione di fronte alle cose che gli si sono introiettate chissà quando…

Allora… è troppo facile stare dalla parte giusta del mondo e dimenticarsi che quella “giustezza” proprio in una piccolissima misura è nostra… è troppo facile condannare chi si separa, quando noi ci ritroviamo in mano un matrimonio riuscito per grazia, o – detto laicamente – perché c’è andata bene e neanche noi sapremmo dire poi perché… è troppo facile condannare il rom che ci rompe al semaforo per chiederci i soldi, quando noi abbiamo ogni giorno da mangiare, chi ce lo prepara e anche tutto il resto in aggiunta…

Cioè, io credo, finché l’altro lo guardiamo come estraneo, cioè non fatto della nostra stessa pasta umana, continueremo a guardare ai nostri privilegi (e anche l’essere giusti lo è!) come a qualcosa di “dovuto”, di “meritato”, dunque nostro; e alle loro disgrazie come qualcosa di loro, altrettanto “dovuto” e “meritato”… ma in negativo…

È questo il retro pensiero delle domande che – un po’ provocatoriamente – ponevo… è il retro pensiero di chi si sente – appunto – giusto! Ma non è la visione del Signore e nemmeno quella di quelle frasi bibliche che invitano a fare il bene (a essere giusti) e a correggere chi sbaglia! Usano le stesse parole nostre, forse, ma intendono tutt’altro… Mettono cioè al centro la parentela del comune impasto umano di cui siamo fatti, la comune figliolanza divina, la consanguineità della matrice con cui siamo generati… non a caso il primo discrimine è razziale (cioè è la messa in discussione di questa fraternità tra gli uomini di tutti i popoli)…

La prospettiva biblica, soprattutto evangelica, infatti, è quella per cui l’altro non mi è estraneo, nemmeno quando è colpevole (non giusto o non giusto come me…)… l’altro è mio e così caro che piuttosto che la sua vita, preferisco perdere la mia… che è la storia di Gesù (che non a caso è venuto ad insegnarci che faccia c’ha Dio e come si fa a essere uomini secondo il sogno di Dio!): «Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» Rm 5,6-8.

Ma come si fa ad accedere a questo modo di stare al mondo, senza che risulti un bel pensiero che ci appiccichiamo addosso, ma che non riesce mai a penetrarci nella pelle e a convertirci la carne?

Beh… sicuramente stando a bagnomaria nel “modo di stare al mondo” del Signore… quindi nella sua Parola, nella memoria della sua carne data per noi, nella relazione personale con Lui… In più… ricordando quanto diceva Teresina («una tentazione contro la purezza non può che umiliare la nostra anima e proprio per questo farle più bene che male»), permettendoci di accedere all’umiliazione (all’essere humus, terra, carne umana strettamente imparentata con quella di tutti i peccatori della storia) non come ciò che ci annienta, ma come ciò che rompe la durezza della nostra giustizia e ci fa accedere alla misericordia per tutti: «O Dio, abbi pietà di me peccatore».

giovedì 25 ottobre 2007

Presunzione di essere giusti - la schizofrenia

Sir 35,12-14.16-18; Salmo 33; 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14

fra il credere e il pregare : quale Dio?

...sembrano due divinità diverse, queste a cui si rivolgono i due credenti praticanti che vanno al tempio a pregare. Due divinità e due credenti discordanti, si direbbe! Proprio questo è l’obiettivo di Gesù: di mettere a nudo due modi radicalmente opposti, di credere e pregare, anche se nello stesso tempio. Forse effettivamente ci sono tra noi personaggi simili a questi due prototipi, ma i due atteggiamenti possono anche convivere e combattersi nello stesso animo… Anzi forse tutti dobbiamo passare attraverso questa esperienza bruciante e dolorosa, appena ci accorgiamo, nel cammino della fede, di essere (stati) farisei capaci di ferire i più deboli e sprofondarli nel loro ‘peccato’ dall’alto della nostra “perfezione”. È sempre la preghiera la cartina di tornasole della fede. L’orante è il credente che si mette di fronte a Dio e s’arrischia a cercare nella propria fede un volto amico di fronte a cui esprimersi, con cui entrare in relazione… Allora la prima raccomandazione è la parabola della vedova ostinata: non smettere mai questa preghiera, per nessun motivo, se si vuoi davvero arrivare a incontrare Dio… E questa è la seconda raccomandazione, altrettanto importante, la parabola del fariseo e del pubblicano: fai attenzione che se parli davvero con Dio, il tuo cuore deve diventare misericordioso e ‘amico’ con il fratello.

"alcuni presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri"

Anche Paolo era sicuro di aver combattuto la buona battaglia… ma attendendo con amore la manifestazione del Signore. Anche la vedova era sicura di essere nel giusto!... cioè di aver ragione. Ma in che cosa? nel bisogno di essere soccorsa, amata, custodita… proprio perché da sola non aveva più risorse, né meriti, da vantare… ma solo quest’immensa povertà e fame di bene, che qualcuno doveva pur esaudire… Invece il fariseo ha tante opere da esibire, vere certamente, ed eseguite con corretta precisione. Qual è, allora, il suo problema? Comincia ringraziando Dio, come è giusto, ma è un soliloquio senza interlocutore, perchè poi al centro del tempio c’è lui, che parla solo di ciò che ha fatto bene, e disprezza l’altro… misurandolo sulla propria esperienza - comportamento così diffuso che è divenuto un proverbio . io ho fatto quel che era giusto, chi invece è causa del suo male pianga se stesso!

noi, buoni cristiani praticanti : abbiamo il nemico in casa!

… con questa parabola Gesù mette in guardia proprio i credenti, i religiosi, quelli che frequentano di più il tempio, osservano i precetti della chiesa e le norme morali. Eppure abbiamo il nemico in casa, capace di svuotare di senso il vangelo … e minare ogni rapporto di amore. Questo tarlo si manifesta nei momenti in cui, magari feriti per qualche delusione o scandalizzati per l’altrui comportamento, non abbiamo più misericordia per nessuno e proclamiamo l’elenco minuzioso (perché tanto rimuginato!) dei nostri meriti e di quanto quindi ci è dovuto! Il verme corrosivo rivela il suo veleno soprattutto nel disprezzo degli altri (letteralmente: “nientificazione”, annullamento)!

Il fariseo è un onesto uomo religioso, che, con la propria fedeltà, costanza, fatica, ha conquistato questa posizione di merito. Proprio per questo, coerentemente, “discrimina” (mette dalla parte del crimine!) chi non ha fatto come lui. Se ci è riuscito lui, possono farlo anche gli altri – se ne avessero voglia! Questa logica soffocante rende “duro”e refrattario alla misericordia il cuore dei migliori discepoli o dei credenti più osservanti…

Luca riprende la parabola, perché è proprio questo il rischio più subdolo nella sua chiesa, la fonte di tutte le discriminazioni, condanne reciproche, divisioni … come del resto tra noi, oggi. Infatti, basta vedere quanto ancora tra i credenti, nelle comunità famigliari, religiose, aggregazioni e movimenti ecclesiali… questo vizio “virtuoso” sia persistente, per capire perché il Signore ci insista in modo così shoccante: chi si crede a posto davanti a Dio, per aver fatto quanto doveva fare, è in grave pericolo, perché diventerà presto il giudice inquisitore, difensore della fede e dei costumi, di cui si considera un esperto. Costui, non conosce affatto Dio, e quindi neanche se stesso. Meglio i delinquenti, sembra dire il Signore! Ma perchè una vita ‘religiosa’ seria e impegnata può finire così?

… può essere la trappola del culto

Il culto come voce di lode e comunione della chiesa, radunata attorno alla Parola e all’eucaristia, è il dono più grande offerto al credente, per confortare e nutrire la sua fede, nel cammino della vita. Ma può diventare fine a se stesso, un doveroso tributo pagato a Dio, ed estraniare dalla sua intima verità che è la riconoscenza al Signore e la partecipazione alla redenzione del mondo, che ancora sta fermentando nella storia… Man mano che la preghiera cultuale tende a separarsi dalle condizioni concrete della storia, dalle sofferenze dei fratelli, allora può anche riempire la vita quotidiana di atti di devozione, ma svuotarla di senso. L’indice rivelatore di questa schizofrenia dello spirito è l’insensibilità progressiva alle sorti del mondo e il giudizio impietoso contro il fratello diverso!

… può essere la trappola di una vita impegnata

Avviene che ci mettiamo – sul serio! – alla ricerca di Dio. Come esito di una vocazione autentica oppure dopo un'esperienza forte, un ritiro, un pellegrinaggio, un lutto, una gioia… quando decidiamo di conoscere il Signore, diventare discepoli. Ma la testa e il cuore subito s’ingombrano di preoccupazioni, di desideri, di progetti, di giudizi buoni, ottimi. Che man mano costituiscono il senso della nostra vita... Impercettibilmente, però, tutto questo, con nostro segreto o manifesto compiacimento… si identifica con “i progetti e pensieri di Dio”… Ed ecco che chi ragiona diverso e non li condivide, o vive altrimenti, è nemico di Dio! Con le conseguenti “giuste” contrapposizioni, e poi condanne, e infine il disprezzo del fratello… per difendere la verità e la morale.

la medicina per la schizofrenia dello spirito è la preghiera del pubblicano

È questa la preghiera che ci mette nella posizione autentica di fronte a Dio: abbi pietà di me, peccatore! Il pubblicano della parabola non lo sa ancora, ma la chiesa di Luca ormai lo sa bene, che questa preghiera salva perché è il gemito dello Spirito dentro di noi, effuso in noi per insegnarci a pregare davvero, perchè da soli non siamo capaci.. Ci fa dire: abba, padre! senza altre parole, chiamando con un gemito il Dio di Gesù, non come giudice o creatore … ma come “colui che ha pietà”, l’amore chinato su di noi! Qui sta il nodo fondamentale del fatto cristiano – e l’equivoco determinante di ogni deviazione. Un cristiano che accusa e condanna un altro d’essere peccatore è il colmo dell’incomprensione nel discepolo di Gesù. Esser discepolo consiste invece nella sequela determinata di colui che fu computato tra i malfattori: “…Usciamo dunque anche noi dall’accampamento e andiamo verso di lui, portando il suo obbrobrio” (Eb 13,13). Che questo obbrobrio, questa lontananza di Dio sia abitata da Dio in maniera molto maggiore del simbolo religioso, ecco il mistero! Ma è questa sorprendente dislocazione di Dio rispetto ai nostri pensieri che fa dire a Gesù che le prostitute e i pubblicani passano avanti ai capi ai santi religiosi… nel regno di Dio! Questa invocazione apre al credente lo spazio propriamente cristiano (cattolico) che Gesù di Nazareth ha vissuto con coloro che erano fuori, lontani e perduti… E porta a vivere la povertà di Dio nella storia, attraverso la partecipazione appassionata e simpatizzante con la speranza, la sofferenza, la debolezza di ogni uomo – perché si colloca là dove Dio ha fatto il miracolo, in fondo al tempio, sotto il giudizio impietoso dei “giusti”… Senza mettere mai più la propria fiducia in certezze o progetti o ideologie … ma solo nella testimonianza della misericordia del Signore, come Paolo: Il Signore però mi è stato vicino, mi ha dato forza!

"Io sono come gli altri”… un uomo da salvare”

… il “santo” cristiano è, infatti, un ex-fariseo invaso dalla grazia del pubblicano, per cui non solo non giudica più nessuno, ma si sente salvato dallo stesso amore, scoppia di riconoscenza della stessa riconoscenza del peccatore perdonato, e dunque corre in fondo al tempio, nei crocicchi delle strade, sui marciapiedi della città… ad abbracciare il “peccatore” finalmente fratello, perché da lui ha imparato a pregare! E gioisce che giustamente lo preceda in paradiso, sapendo che gli apre la strada, se lo tiene per mano!

… nessun “fatto cristiano” è più illuminante che la preghiera di Gesù morente in croce nell’estrema lontananza da Dio: per il luogo (fuori del tempio), il tempo (bisogna fare in fretta, perché non contaminare il sabato), l’osservanza della legge (uccidono l’unico giusto!). Ma Gesù prega per il perdono dei suoi assassini e promette compagnia eterna con sé al ladrone : quale maggiore “testimonianza” che Dio accoglie l’estrema lontananza da sé? Non è stato Gesù ad abbandonare il Padre, è stato l’amore del Padre a spingerlo là dove c’era l’assenza, in mezzo ai peccatori, perduti, senza pastore… in modo che, divenuti suoi amici, il Padre non potesse che salvarli e amarli.

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