Pagine

ATTENZIONE!


Ci è stato segnalato che alcuni link audio e/o video sono, come si dice in gergo, “morti”. Se insomma cliccate su un file e trovate che non sia più disponibile, vi preghiamo di segnalarcelo nei commenti al post interessato. Capite bene che ripassare tutto il blog per verificarlo, richiederebbe quel (troppo) tempo che non abbiamo… Se ci tenete quindi a riaverli: collaborate! Da parte nostra cercheremo di renderli di nuovo disponibili al più presto. Promesso! Grazie.

venerdì 22 ottobre 2010

XXX Domenica del Tempo Ordinario: Il comune impasto umano genera misericordia

Le letture che la Chiesa ci propone per questa trentesima domenica del Tempo Ordinario, vertono tutte sulla tematica di Dio «giudice giusto»… Un Dio che non fa «preferenza di persone»… Anzi un Dio giudice molto diverso e sorprendente rispetto a quello che abitualmente ci immaginiamo.

Solitamente, infatti, noi, di fronte all’idea del Dio giudice abbiamo un’istintiva reazione di paura, di soggezione, di sconcerto per Chi – sappiamo (o crediamo di sapere) – analizza puntigliosamente la nostra condotta, la nostra morale, la buona riuscita o meno della nostra vita e di tutti quegli atti che la compongono… In realtà – almeno così dicono i brani delle letture – questa prospettiva di “aggiustamento” della vita per risultare graditi a Lui, non pare propriamente in linea con quella che la sua Parola propone…
Lo si vede in maniera chiara già nel testo del libro del Siracide, dove si sottolinea come la preghiera più ascoltata, anzi lo sfogo del lamento più ascoltato, non sia quella del “giusto”, bensì quello di chi apparentemente risulta “non riuscito” (l’orfano, la vedova, il povero, l’oppresso…), indipendentemente dalla sua condotta… Un brano, dunque, dove ad emergere non è tanto il volto di un Giudice preoccupato della moralità di chi gli sta davanti, ma piuttosto quello di Chi è preoccupato della ferita (da umanizzare) di chi lo prega.
In proposito, dovremmo tornare a leggere sempre più spesso quello che Teresina scriveva sulla castità (e cito questo esempio perché, ancora oggi, i cristiani abitualmente quando parlano di “morale”, implicitamente fanno riferimento soprattutto alla “morale sessuale”): «É sorprendente come le anime perdono facilmente la pace a proposito di questa virtù! Il demonio lo sa bene: per questo le tormenta così tanto a questo riguardo! E invece non c’è tentazione meno pericolosa di questa. Il modo di liberarsene è di considerarle con calma, non meravigliarsene, ancor meno temerle. Normalmente, al primo attacco, ci si spaventa, si crede che tutto è perduto: è proprio di questa paura, di questo scoraggiamento che si serve il diavolo per far cadere le anime. E invece siate sicura che una tentazione di orgoglio è ben più pericolosa – e il buon Dio ne è ben più offeso quando uno vi soccombe – che quando fa una caduta, anche grave, contro la purezza, perché Egli ha riguardo della nostra natura ferita, mentre per una caduta d’orgoglio non c’è scusa. Però è una caduta – quella d’orgoglio – che le anime commettono spesso e facilmente, senza inquietarsene. Una tentazione di orgoglio dovrebbe essere temuta più del fuoco, mentre una tentazione contro la purezza non può che umiliare la nostra anima e proprio per questo farle più bene che male» [S.Teresa di Gesù Bambino fa questa confidenza a sr Maria della Trinità, che si lamentava con lei degli scrupoli di cui soffriva a riguardo della virtù della castità... CRM pp 86-87].
Ma, tra i testi odierni, è poi soprattutto nella parabola evangelica, che va in crisi l’immagine del Dio giudice che continuamente la nostra mente ci ripropone; un’immagine di Dio che – se è vero quanto diceva il papa e cioè che «Non ogni dio è degno di fede»! – ha bisogno continuamente di essere decostruita (perché questa è la conversione evangelica!) per far spazio – tra le macerie del nostro volto di Dio – al dissotterramento del suo volto, quello che Lui – attraverso suo Figlio – ci ha voluto raccontare.
La parabola è costruita su due personaggi chiave, il fariseo e il pubblicano. Ma dato che per esplicita dichiarazione di Luca, la vicenda è stata pensata appositamente «per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri», la corretta prospettiva con cui guardare al testo è quella di concentrarsi, almeno inizialmente, sul fariseo. Lui è l’efficace caricatura di chi ascolta, di chi legge.
Quel fariseo non è dunque immediatamente da identificare con quelle persone che – nella nostra vita, nella nostra chiesa, nella nostra comunità – noi individuiamo come particolarmente puntigliose nell’osservanza esteriore e legalistica delle norme ecclesiali, morali o cultuali e che hanno (quasi automaticamente – pare dire il vangelo) un innato disprezzo per gli altri che non sono bravi come loro o giusti come loro o osservanti come loro… Ma piuttosto l’identificazione va fatta col fariseo che c’è in ciascuno di noi… Con quella parte di noi che così spesso prende il sopravvento e che – appunto – nelle cose che fa, si sente giusta e – proprio per questo – pensa di trovarsi in una posizione tale (superiore) che gli permette di guardare gli altri dall’alto in basso, con disprezzo. Un disprezzo magari mascherato… dietro al pensiero che se a comportarsi in un certo modo o a costruire un certo tipo di vita «ci è riuscito lui, possono farlo anche gli altri – se ne avessero voglia!» [Giuliano], ma comunque un disprezzo acre nella sua sostanza, nonostante tutti i nostri tentativi postumi di dissimularlo…
I problemi in gioco sono dunque almeno due per noi farisei… e strettamente legati tra loro:

       - Il ritenersi giusti;
       - E il conseguente disprezzo per gli altri (non giusti come noi).

Perché questi atteggiamenti sono considerati problematici dal vangelo? E come si può fare per estirparli dal nostro cuore?

La prima domanda si pone da sé nel momento stesso in cui analizziamo il nostro sentirci giusti… Se faccio qualcosa di buono, perché non dovrei riconoscermelo (che vuol quasi sempre dire, “perché non dovrebbero riconoscermelo”, visto che siam sempre molto più preoccupati del giudizio altrui che del nostro…)? E perché – per altro verso e chiamando in causa l’altro atteggiamento problematico – se l’altro fa qualcosa di male o non fa bene ciò che deve fare, non devo biasimarlo? Perché non ci deve essere questo paragonarsi, mettersi in qualche modo in competizione nel bene, questo correggersi? Non ci sono forse passi biblici che indicano precisamente questa strada?

Come sempre, in questioni di questo tipo, bisogna intendersi sul linguaggio… perché altrimenti, con le stesse parole si rischia di dire tutto e il contrario di tutto e non arrivare mai ad intendersi…

Un metodo efficace per capire dietro alle parole di ciascuno, quale pensiero si nasconde, è quello di provare a immaginare il perché delle sue parole, delle sue domande, dei suoi perché. Cosa lo preoccupa, dove sta andando a parare… in altre parole… quali sono le sue vere intenzioni…

Allora, è evidente che va benissimo il riconoscimento (anche altrui) del bene che faccio e anche la saggia correzione fraterna per il male che l’altro fa, ma il punto è: in vista di che cosa? Faccio il bene per me, per la gratificazione del sentirmi dire “bravo” o perché nel bene che faccio vedo intorno a me che il mondo (o almeno un pezzettino di esso) si umanizza, sta meglio… per dirla come Gesù: perché per qualcuno arrivi il Regno di Dio…? E l’altro perché lo correggo? Perché così dal confronto emerga che io sono “più bravo” di lui o perché nel male che fa, vedo il male che si fa e allora cerco di umanizzargli la sua ferita?

Perché il punto – credo – sta proprio qui… è impensabile paragonare le esistenze e vedere quella “meglio riuscita”… ma non solo perché – come ci insegnano alle elementari – “non si fanno i confronti”, ma perché non è vero che ogni esistenza parte dalle stesse possibilità. E non è neanche vero che due esistenze con pari opportunità (chi sarebbe poi a stabilirlo che sono pari?) dovrebbero avere lo stesso esito… perché non esistono due individualità uguali (non sarebbero più individualità!), ma solo soggetti unici e irripetibili, con le loro storie, le loro ferite, la loro cultura, le modalità di reazione di fronte alle cose che gli si sono introiettate chissà quando…

Allora… è troppo facile stare dalla parte giusta del mondo e dimenticarsi che quella “giustezza” proprio in una piccolissima misura è nostra… è troppo facile condannare chi si separa, quando noi ci ritroviamo in mano un matrimonio riuscito per grazia, o – detto laicamente – perché c’è andata bene e neanche noi sapremmo dire poi perché… è troppo facile condannare il rom che ci rompe al semaforo per chiederci i soldi, quando noi abbiamo ogni giorno da mangiare, chi ce lo prepara e anche tutto il resto in aggiunta…

Cioè, io credo, finché l’altro lo guardiamo come estraneo, cioè non fatto della nostra stessa pasta umana, continueremo a guardare ai nostri privilegi (e anche l’essere giusti lo è!) come a qualcosa di “dovuto”, di “meritato”, dunque nostro; e alle loro disgrazie come qualcosa di loro, altrettanto “dovuto” e “meritato”… ma in negativo…

È questo il retro pensiero delle domande che – un po’ provocatoriamente – ponevo… è il retro pensiero di chi si sente – appunto – giusto! Ma non è la visione del Signore e nemmeno quella di quelle frasi bibliche che invitano a fare il bene (a essere giusti) e a correggere chi sbaglia! Usano le stesse parole nostre, forse, ma intendono tutt’altro… Mettono cioè al centro la parentela del comune impasto umano di cui siamo fatti, la comune figliolanza divina, la consanguineità della matrice con cui siamo generati… non a caso il primo discrimine è razziale (cioè è la messa in discussione di questa fraternità tra gli uomini di tutti i popoli)…

La prospettiva biblica, soprattutto evangelica, infatti, è quella per cui l’altro non mi è estraneo, nemmeno quando è colpevole (non giusto o non giusto come me…)… l’altro è mio e così caro che piuttosto che la sua vita, preferisco perdere la mia… che è la storia di Gesù (che non a caso è venuto ad insegnarci che faccia c’ha Dio e come si fa a essere uomini secondo il sogno di Dio!): «Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» Rm 5,6-8.

Ma come si fa ad accedere a questo modo di stare al mondo, senza che risulti un bel pensiero che ci appiccichiamo addosso, ma che non riesce mai a penetrarci nella pelle e a convertirci la carne?

Beh… sicuramente stando a bagnomaria nel “modo di stare al mondo” del Signore… quindi nella sua Parola, nella memoria della sua carne data per noi, nella relazione personale con Lui… In più… ricordando quanto diceva Teresina («una tentazione contro la purezza non può che umiliare la nostra anima e proprio per questo farle più bene che male»), permettendoci di accedere all’umiliazione (all’essere humus, terra, carne umana strettamente imparentata con quella di tutti i peccatori della storia) non come ciò che ci annienta, ma come ciò che rompe la durezza della nostra giustizia e ci fa accedere alla misericordia per tutti: «O Dio, abbi pietà di me peccatore».

3 commenti:

Denise Cecilia ha detto...

Non vorrei ripetermi, con altri che già in molte occasioni te l'hanno detto, ma nelle tue disanime trovo o ri-trovo sempre la chiarezza e ricchezza di esposizione che manca al mio pensiero, spesso corrispondente a quanto leggo.
Tra il vivere un'esperienza e riuscire a trasmetterla c'è solitamente un abisso, ed è bello avere un esempio cui fare riferimento.

chia ha detto...

oh madonna santa...
pensare che a me spesso pare di essere così poco chiara...
vambeh... ti ringrazio dell'apprezzamento :o)

Denise Cecilia ha detto...

Chiara di nome e di fatto, invece.
E prego.

Posta un commento

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...

I più letti in assoluto

Relax con Bubble Shooter

Altri? qui

Countries

Flag Counter