Il vangelo che la Chiesa ci propone per questa ventottesima domenica del Tempo Ordinario, ha come oggetto il racconto di un miracolo. Un miracolo che per molti aspetti ricalca lo “schema” consueto con cui questi segni di Gesù (cioè queste modalità gestuali con cui annuncia il Regno) sono solitamente narrati; ma anche, un miracolo, che viene raccontato con qualche particolare “variazione sul tema” e che proprio per questo suscita particolare interesse: è il racconto di un miracolo, certo, come ce ne sono tanti nei vangeli… eppure è un racconto sui generis, non classificabile con troppa leggerezza come uno dei tanti miracoli di Gesù.
Proprio per questo proviamo a ripercorrere il testo lucano con ordine, in modo da recuperare il senso sia degli aspetti comuni del “tema-miracolo” – che, non perché sono comuni, vanno per questo sottovalutati –, sia delle singolarità di questo racconto di miracolo.
Innanzitutto la contestualizzazione: siamo al capitolo 17 del vangelo di Luca, i versetti 11-19; e come ci ricorda l’evangelista stesso ci troviamo «Lungo il cammino verso Gerusalemme». Siamo cioè in quella sezione del vangelo di Luca che organizza il materiale, di cui l’evangelista è in possesso, secondo il canovaccio del viaggio verso Gerusalemme: un viaggio iniziato al capitolo 9,51 (con la celebre espressione: «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione [indurì il suo volto] di mettersi in cammino verso Gerusalemme») e che sta ormai per giungere a compimento (Lc 19,28). Un viaggio che ha visto – appunto – lo snodarsi di molte delle vicende più importanti della vita pubblica di Gesù (parabole, guarigioni, insegnamenti, contrasti, ecc…) e che ora è testimone di questo incontro con i dieci lebbrosi, che – come dice il testo – «si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!”».
Questo loro comportamento (fermasi a distanza e urlare) – che a noi potrebbe sembrare strano – in realtà è in perfetta consonanza con la legge ebraica in materia di lebbra (cfr. capp. 13-14 del libro del Levitico), la quale in particolare in Lv 13,45-46 sancisce: «Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento».
Ma anche la reazione di Gesù (che «appena li vide, disse loro: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”») è rispettosa della legge, la quale prescriveva in caso di guarigione l’obbligo di presentarsi ai sacerdoti perché quest’ultima fosse certificata: «Questa è la legge che si riferisce al lebbroso per il giorno della sua purificazione. Egli sarà condotto al sacerdote. Il sacerdote uscirà dall’accampamento e lo esaminerà…», Lv 14,2-3 + tutti i versetti seguenti che indicano la ritualità sacrificale per la riammissione del lebbroso – ormai guarito – nell’accampamento). Si tratta, dunque, semplicemente di «un retaggio dell’antico Israele, quando il sacerdote fungeva anche da ufficiale medico: solo lui poteva attestare la guarigione e il reinserimento di un lebbroso» [P. Curtaz].
Fin qui dunque, niente di particolarmente significativo, se non il fatto che, a differenza della mentalità dei suoi contemporanei, Gesù non considera coloro che sono affetti da lebbra come dei maledetti, degli impuri da evitare o come peccatori castigati. Li accosta e li guarisce (lo aveva già fatto – secondo il racconto di Luca – al cap. 5,12-14). Per lui non ci sono persone da escludere, persone che debbano fermarsi a distanza (cfr. B. MAGGIONI, il racconto di Luca, p. 301).
A ben guardare però, qualcosa di incongruente con la tradizione ebraica c’è: Gesù invia i dieci lebbrosi al sacerdote prima di guarirli (e non dopo averli guariti, come prevedeva la legge)! Essi infatti «mentre andavano, furono purificati»…
Questo dettaglio apre ad un duplice ordine di considerazioni: innanzitutto l’emergere di un elemento costitutivo della struttura dei miracoli di Gesù. Essi non sono mai gesti di dimostrazione fatti per catturare l’attenzione e la fede (la credulità) della gente – come invece troppo spesso il sentire comune ancora oggi rilancia –, bensì gesti che presuppongono la fede, cioè la fiducia nella persona di Gesù (non a caso li invia – cioè, spazialmente parlando, li allontana da sé, li manda via… essi devono dunque fidarsi che qualcosa accada poi, quando Gesù non è nemmeno più con loro). Gesti che dunque non mostrano solo e non mostrano tanto la potenza di Gesù, quanto la sua straripante benevolenza per l’uomo: è un altro modo (oltre a quello verbale) di annunciare il Regno, che infatti non è che la liberazione dell’uomo dal male (cfr. Mt 11,2-6, dove a Giovanni Battista che dal carcere manda i suoi discepoli per chiedere a Gesù se era davvero Lui colui che doveva venire, Gesù risponde elencando ciò che accade dove Lui passa, cioè dove il Regno arriva: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!»).
In secondo luogo, il fatto che i dieci lebbrosi vengano purificati mentre andavano, porta a riflettere anche su una modalità di guarigione apparentemente anomala, eppure forse molto più consueta, rispetto a quella del gesto miracoloso puntuale. Scrive ancora P. Curtaz: «Anche a molti di noi accade di guarire per strada»… Anche a noi capita di guarire strada facendo… Che è una considerazione che forse, istintivamente, rifiutiamo (perché pensiamo che, se manca la extra-ordinarietà di ciò che provoca il cambiamento della nostra situazione, non si può parlare di “intervento divino” e perché poi – in fin dei conti –, se non c’è extra-ordinarietà, il merito è mio, non di Dio…), ma che in realtà rimanda allo statuto più autentico del rapporto dello spirito umano con lo Spirito di Dio. Questi due attori infatti agiscono e inter-agiscono molto più nelle trame (lente e viscose) della storia, negli interstizi bui della quotidianità che scorrendo costruisce la nostra esistenza, nella consistenza umana che ci ritroviamo tra le mani man mano che passa il tempo, piuttosto che negli interventi estemporanei operati da qualche potenza soprannaturale.
Comunque, al di là delle nostre considerazioni, e tornando al vangelo… ai “nostri dieci” capita di essere purificati mentre andavano. E qui accade l’inedito della vicenda – ciò che non rientra né in qualcosa che ha a che vedere con la tradizione ebraica, né con la consueta “struttura-miracolo” dei vangeli: «Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano». Dove ciò che crea discrepanza sono – nuovamente – due elementi: il fatto che solo 1 su 10 torni a ringraziare e il fatto che quell’uno che torna sia un samaritano. Elementi per altro ravvisati entrambi dalle stesse parole di Gesù: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». Con la frase finale «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!», che – posta proprio dopo la guarigione di tutti e 10 i lebbrosi – mette immediatamente in luce come Gesù sottolinei una differenza decisiva tra “guarigione” e “salvezza”.
Dunque dieci sono stati sanati, ma uno solo salvato… e quell’uno – l’unico tornato a ringraziare – è un samaritano, uno straniero, un eterodosso, un nemico… percepito allora dagli uditori di Gesù come oggi noi italiani (in specie del nord) percepiamo i rumeni, per intenderci. In effetti è come se Luca andasse da un enclave leghista e dicesse che su 10 persone guarite, le 9 padane se ne sono andate per la loro strada (forse a fare una ronda?) e l’unico rumeno del gruppo è quello che è tornato a ringraziare e per questo non è stato solo guarito, ma salvato!
Capite come le coronarie del pubblico siano messe a dura prova… Ma l’impatto emotivo è vincente, perché fa dire a chi ascolta: “ma porca miseria! Noi che siamo i vicini, quelli che dovevano capire tutto, che sanno la bibbia a memoria, che non possono farsi passare il messia sotto il naso senza neanche accorgersi che era lui… ci siam fatti fregare da ‘sto samaritano/rumeno che non va al tempio/in chiesa, appartiene ad un’altra cultura (sottinteso: inferiore) e solitamente non è proprio un cittadino rispettabile…”.
Ecco ciò che accade e che in una certa misura stupisce anche Gesù, che non a caso più volte “ha il pallino” di fare l’esempio col samaritano/a: accade che a volte è più capace di accedere al senso vero di ciò che avviene, qualcuno che non ha lo strumentario (culturale, razziale, religioso…) che noi riteniamo adeguato, rispetto a chi invece ha tutte le carte in regola (la fedina penale apposto, quella ecclesiale linda con tutti i bolli dei sacramenti ricevuti, un matrimonio apposto, un buon lavoro, ecc…).
E questo è insieme un grande monito… per chi si mette tra i giusti, tra quelli “apposto”, tra gli ortodossi… tra quelli che “c’hanno ragione loro…”… (siamo noi, al 90%!).
E un grande conforto, per “tutti gli altri”… perché ci ricorda che per fortuna i pensieri del Signore, non sono i nostri pensieri e le nostre misure non sono le sue misure…
Infine l’ultimo punto rimasto da sviscerare… perché, certo, quello che torna è un samaritano… ma resta il fatto che samaritano o no, qui ne è tornato solo 1… E gli altri 9?
Ma siamo sicuri che la domanda giusta sia chiedersi dove sono andati a finire gli altri 9? Perché a ben guardare non è che hanno fatto qualcosa di diverso da quello che gli aveva detto Gesù… il quale non li aveva invitati a tornare… e non si capisce nemmeno bene – dal testo – perché Gesù se ne risenta…
Forse la domanda più corretta è quella che si chiede: Perché questo è tornato? Perché non gli è bastata la guarigione, ma ha avuto voglia/bisogno/desiderio di tornare dal guaritore… di tornare a vedere la faccia di quello là che dicendogli di andare per quella strada, ha avuto ragione e gli ha regalato la guarigione?
Forse perché ciò che quest’uomo cercava, andando da Gesù, non era solo una cosa, un bene fisico, pur nella sua valenza sociale… ma forse cercava Qualcuno che gli restituisse l’umanità che la lebbra (e la mentalità del tempo) gli avevano tolto. Questo – forse – a differenza degli altri, lo porta ad accedere al circolo della riconoscenza. Infatti: «Come in un bambino, perché scatti la scintilla della coscienza di sé, della memoria autobiografica, ad un certo punto non bastano più le carezze rassicuranti sulla pelle. Ci vuole un volto cui affidarsi per entrare in dialettica con “lui”, e scoprire un “tu”, che faccia nascere e individuare i contorni dell’io… Così per diventare “credenti”, discepoli di Gesù, ci vuole la ri/scoperta di un volto… che ti ha salvato e ti rigenera. Perché in quel volto amico si ridisegna la propria identità e il senso della propria vita. È la riconoscenza! Il balsamo che lenisce le malattie del cuore, apre un’uscita di luce dai propri abissi, fa compagnia alla solitudine angosciosa delle crisi di panico, disinquina i complessi di colpa… È la ri/conoscenza (gratitudine) che scoppia dalla gioia di aver scoperto l’affetto che ti ha guarito – perché? – gratis, per niente, per amore… Solo così si entra nel circolo virtuoso di comunione» [Giuliano] in cui a ciascuno è garantito lo statuto umano del suo esserci.
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4 commenti:
Un commento forte il tuo, coraggioso. Ci stai abituando, Chia. In QUESTO NOSTRO TEMPO ASSURDO, il "qui ed ora evangelico" è molto forte e sgorga in te il bisogno, il desiderio, la ricerca, di essere dentro quel circolo virtuoso di comunione. Il nemico non è il rumeno, il nemico è chiunque la pensi diversamente da me, se poi è anche uno sfigato, meglio, è più facile. I fatti di cronaca che ci propinano ci inducono a pensare che può essere una persona vicina, famigliare e neppure "straniera". Inceve il male è dentro di noi, nel modo insensato in cui viviamo. Non ci fanno ragionare, non riusciamo ad allontanarci dalla spirale vuota in cui siamo arrotolati. La luce qual'è? Il miracolo qual'è? E' quel piccolo focolare domestico dove, forse inconsapevolmente, si fa crescere con coraggio, timore, paura, ansia il piccolo seme di senape e si cerca di coltivarlo condividendo con amici: il tutto che esiste dentro di noi, che ha solo l'urgenza di uscire fuori e donarlo.
Ah, ah, ah... mi sono anche divertito... Ecco, dovrebbe essere sempre così la meditazione del vangelo (altrimenti che 'buona notizia' è?). Una così buona notizia che, mentre si cerca di accogliela nella vita, ci fa persino ridere delle proprie e altrui meschinità...
Grazie!
Forse, Mario, devo fare un pò di scuola di ironia. Vengo da te?
bene ragazzi, son contenta che la lectio - che ho postato con un po' di trepidazione - vi sia piaciuta. questa settimana sono andata invece più sull'essenziale.
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