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martedì 8 ottobre 2013

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario


Dal secondo libro dei Re (2Re 5,14-17)

In quei giorni, Naamàn [, il comandante dell’esercito del re di Aram,] scese e si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola di Elisèo, uomo di Dio, e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era purificato [dalla sua lebbra]. Tornò con tutto il seguito da [Elisèo,] l’uomo di Dio; entrò e stette davanti a lui dicendo: «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele. Adesso accetta un dono dal tuo servo». Quello disse: «Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò». L’altro insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò. Allora Naamàn disse: «Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore».

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo (2Tm 2,8-13)

Figlio mio, ricòrdati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore. Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna. Questa parola è degna di fede: Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso.

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 17,11-19)

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

Il vangelo che la Chiesa ci propone per questa Ventottesima Domenica del Tempo Ordinario, ha come oggetto il racconto di un miracolo. Un miracolo che per molti aspetti ricalca lo “schema” consueto con cui questi segni di Gesù (cioè queste modalità gestuali con cui annuncia il Regno) sono solitamente narrati; ma anche, un miracolo, che viene raccontato con qualche particolare “variazione sul tema” e che proprio per questo suscita particolare interesse: è il racconto di un miracolo, certo, come ce ne sono tanti nei vangeli… eppure è un racconto sui generis, non classificabile con troppa leggerezza come uno dei tanti miracoli di Gesù.

Proprio per questo proviamo a ripercorrere il testo lucano con ordine, in modo da recuperare il senso sia degli aspetti comuni del “tema-miracolo” – che, non perché sono comuni, vanno per questo sottovalutati –, sia delle singolarità di questoracconto di miracolo.

Innanzitutto la contestualizzazione: siamo al capitolo 17 del vangelo di Luca, i versetti 11-19; e come ci ricorda l’evangelista stesso ci troviamo «Lungo il cammino verso Gerusalemme». Siamo cioè in quella sezione del vangelo di Luca che organizza il materiale, di cui l’evangelista è in possesso, secondo il canovaccio del viaggio verso Gerusalemme: un viaggio iniziato al capitolo 9,51 (con la celebre espressione: «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione [indurì il suo volto] di mettersi in cammino verso Gerusalemme») e che sta ormai per giungere a compimento (Lc 19,28). Un viaggio che ha visto – appunto – lo snodarsi di molte delle vicende più importanti della vita pubblica di Gesù (parabole, guarigioni, insegnamenti, contrasti, ecc…) e che ora è testimone di questo incontro con i dieci lebbrosi, che – come dice il testo – «si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!”».

Questo loro comportamento (fermasi a distanza e urlare) – che a noi potrebbe sembrare strano – in realtà è in perfetta consonanza con la legge ebraica in materia di lebbra (cfr. capp. 13-14 del libro del Levitico), la quale in particolare in Lv 13,45-46 sancisce: «Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento».

Ma anche la reazione di Gesù (che «appena li vide, disse loro: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”») è rispettosa della legge, la quale prescriveva in caso di guarigione l’obbligo di presentarsi ai sacerdoti perché quest’ultima fosse certificata: «Questa è la legge che si riferisce al lebbroso per il giorno della sua purificazione. Egli sarà condotto al sacerdote. Il sacerdote uscirà dall’accampamento e lo esaminerà…», Lv 14,2-3 + tutti i versetti seguenti che indicano la ritualità sacrificale per la riammissione del lebbroso – ormai guarito – nell’accampamento). Si tratta, dunque, semplicemente di «un retaggio dell’antico Israele, quando il sacerdote fungeva anche da ufficiale medico: solo lui poteva attestare la guarigione e il reinserimento di un lebbroso» [P. Curtaz].

Fin qui dunque, niente di particolarmente significativo, se non il fatto che, a differenza della mentalità dei suoi contemporanei, Gesù non considera coloro che sono affetti da lebbra come dei maledetti, degli impuri da evitare o come peccatori castigati. Li accosta e li guarisce (lo aveva già fatto – secondo il racconto di Luca – al cap. 5,12-14). Per lui non ci sono persone da escludere, persone che debbano fermarsi a distanza (cfr. B. Maggioni, il racconto di Luca, p. 301).

A ben guardare però, qualcosa di incongruente con la tradizione ebraica c’è: Gesù invia i dieci lebbrosi al sacerdote primadi guarirli (e non dopo averli guariti, come prevedeva la legge)! Essi infatti «mentre andavano, furono purificati»… Questo dettaglio apre ad un duplice ordine di considerazioni:

1-   Innanzitutto l’emergere di un elemento costitutivo della struttura dei miracoli di Gesù. Essi non sono mai gesti di dimostrazione fatti per catturare l’attenzione e la fede (la credulità) della gente – come invece troppo spesso il sentire comune ancora oggi rilancia –, bensì gesti che presuppongono la fede, cioè la fiducia nella persona di Gesù (non a caso li invia – cioè, spazialmente parlando, li allontana da sé, li manda via… essi devono dunque fidarsi che qualcosa accada poi, quando Gesù non è nemmeno più con loro). Gesti che dunque non mostrano solo e non mostrano tanto la potenza di Gesù, quanto la sua straripante benevolenza per l’uomo: è un altro modo (oltre a quello verbale) di annunciare il Regno, che infatti non è che la liberazione dell’uomo dal male (cfr. Mt 11,2-6). È di questa benevolenza che l’uomo si deve fidare: Dio è colui che vuole solo il bene dell’uomo. E in effetti è da notare che tutti e dieci si fidano: innanzitutto perché tutti e dieci lo chiamano “epistàta” (= maestro), termine che – a parte i discepoli – usano solo loro in tutto il vangelo; inoltre perché tutti – sulla sua parola si avviano verso i sacerdoti.

2-   Proprio questo aspetto apre al secondo ordine di considerazioni: il fatto cioè che i dieci lebbrosi vengano purificati mentre andavano, porta a riflettere anche su una modalità di guarigione apparentemente anomala, eppure forse molto più consueta, rispetto a quella del gesto miracoloso puntuale. Scrive ancora P. Curtaz: «Anche a molti di noi accade di guarire per strada»… Anche a noi capita di guarire strada facendo… Che è una considerazione che forse, istintivamente, rifiutiamo (perché pensiamo che se manca la extra-ordinarietà di ciò che provoca il cambiamento della nostra situazione non si può parlare di “intervento divino” e perché poi – in fin dei conti – se non c’è extra-ordinarietà il merito è mio, non di Dio…), ma che in realtà rimanda allo statuto più autentico del rapporto dello spirito umano con lo Spirito di Dio. Questi due attori infatti agiscono e inter-agiscono molto più nelle trame (lente e viscose) della storia, negli interstizi bui della quotidianità che scorrendo costruisce la nostra esistenza, nella consistenza umana che ci ritroviamo tra le mani man mano che passa il tempo, piuttosto che negli interventi estemporanei operati da qualche potenza soprannaturale.

Comunque, al di là delle nostre considerazioni, e tornando al vangelo… ai nostri dieci capita di essere purificati mentre andavano. E qui accade l’inedito della vicenda – ciò che non rientra né in qualcosa che ha a che vedere con la tradizione ebraica, né con la consueta “struttura-miracolo” dei vangeli: «Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano». Dove ciò che crea discrepanza sono – nuovamente – due elementi: il fatto che solo 1 su 10 torni a ringraziare e il fatto che quell’uno che torna sia un samaritano. Elementi per altro ravvisati entrambi dalle stesse parole di Gesù: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». Con la frase finale «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!», che – posta proprio dopo la guarigione di tutti e 10 i lebbrosi – mette immediatamente in luce come Gesù sottolinei un differenza decisiva tra “guarigione” e “salvezza”.

Dunque dieci sono stati sanati, ma uno solo salvato… e quell’uno – l’unico tornato a ringraziare – è un samaritano, uno straniero, un eterodosso, un nemico… percepito allora dagli uditori di Gesù come oggi noi italiani (in specie del nord) percepiamo i rumeni, per intenderci. In effetti è come se Luca andasse da un enclave leghista e dicesse che su 10 persone guarite, le 9 padane se ne sono andate per la loro strada e l’unico rumeno del gruppo è quello che è tornato a ringraziare e per questo non è stato solo guarito, ma salvato!

Capite come le coronarie del pubblico siano messe a dura prova… Ma l’impatto emotivo è vincente, perché fa dire a chi ascolta: “ma porca miseria! Noi che siamo i vicini, quelli che dovevano capire tutto, che sanno la bibbia a memoria, che non possono farsi passare il messia sotto il naso senza neanche accorgersi che era lui… ci siam fatti fregare da ‘sto samaritano/rumeno che non va al tempio/in chiesa, appartiene ad un’altra cultura (sottinteso: inferiore) e solitamente non è proprio un cittadino rispettabile…”.

Ecco ciò che accade e che in una certa misura stupisce anche Gesù, che non a caso più volte “ha il pallino” di fare l’esempio col samaritano/a: accade che a volte è più capace di accedere al senso vero di ciò che accade qualcuno che non ha lo strumentario (culturale, razziale, religioso…) che noi riteniamo adeguato, rispetto a chi invece ha tutte le carte in regola (la fedina penale apposto, quella ecclesiale linda con tutti i bollini dei sacramenti ricevuti, un matrimonio apposto, un buon lavoro, ecc…).

E questo è insieme un grande monito… per chi si mette tra i giusti, tra quelli apposto, tra gli ortodossi… tra quelli che “c’hanno ragione loro…”… (siamo noi, al 90%!).

E un grande conforto, per “tutti gli altri”… perché ci ricorda che per fortuna i pensieri del Signore, non sono i nostri pensieri e le nostre misure non sono le sue misure…

Infine l’ultimo punto rimasto da sviscerare… perché, certo, quello che torna è un samaritano… ma resta il fatto che samaritano o no, qui ne è tornato solo 1… E gli altri 9?

Ma siamo sicuri che la domanda giusta sia chiedersi dove sono andati a finire gli altri 9? Perché a ben guardare non è che hanno fatto qualcosa di diverso da quello che gli aveva detto Gesù… il quale non li aveva invitati a tornare… e non si capisce nemmeno bene – dal testo – perché Gesù se ne risenta… Essi infatti sono stati quelli che gli hanno dato fede, chiamandolo maestro e incamminandosi – sulla sua parola – verso i sacerdoti! Non si tratta perciò di cattivoni, ma di persone capaci di un atto di fede in Gesù!

Forse allora la domanda più corretta non è tanto “Perché i 9 non son tornati”, ma quell’altra “Perché questo è tornato? Perché non gli è bastata la guarigione, ma ha avuto voglia/bisogno/desiderio di tornare dal guaritore… di tornare a vedere la faccia di quello là che dicendogli di andare per quella strada, ha avuto ragione e gli ha regalato la guarigione?”.

Io credo che la risposta stia nel fatto che a questo – chissà perché? – è scattata la molla d’accesso al circolo della riconoscenza. Infatti: «Come in un bambino, perché scatti la scintilla della coscienza di sé, della memoria autobiografica, ad un certo punto non bastano più le carezze rassicuranti sulla pelle. Ci vuole un volto cui affidarsi per entrare in dialettica con “lui”, e scoprire un “tu”, che faccia nascere e individuare i contorni dell’io… Così per diventare “credenti”, discepoli di Gesù, ci vuole la ri/scoperta di un volto… che ti ha salvato e ti rigenera. Perché in quel volto amico si ridisegna la propria identità e il senso della propria vita. È la riconoscenza! il balsamo che lenisce le malattie del cuore, apre un’uscita di luce dai propri abissi, fa compagnia alla solitudine angosciosa delle crisi di panico, disinquina i complessi di colpa… È la ri/conoscenza (gratitudine) che scoppia dalla gioia di aver scoperto l’affetto che ti ha guarito – perché? – gratis, per niente, per amore…  Solo così si entra nel circolo virtuoso di comunione» [Giuliano].

Al samaritano – per strada – sono capitati due miracoli: andando, il miracolo della guarigione esteriore della pelle; tornando, il miracolino nascosto e interiore dell’accesso alla gratitudine.

Ecco perché lui non è solo “guarito”, ma “salvato”: non perché lui quando morirà andrà in paradiso e gli altri no (!), ma perché si è inserito (si è lasciato tirar dentro) al circuito relazionale dell’amore riconoscente, che – come dice la Liturgia delle Ore – lenisce con le lacrime la durezza del cuore.

martedì 7 febbraio 2012

VI Domenica del Tempo Ordinario




In questa Sesta Domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa ci propone – nel vangelo – la prosecuzione del testo letto nelle settimane scorse.
Da Gesù si presenta un lebbroso.
Già la prima lettura – con i suoi pochi versetti tratti dal capitolo 13 del libro del Levitico – ci dà un’idea di cosa volesse dire essere lebbrosi nel popolo ebraico. Ma chi volesse farsene un’idea più precisa troverebbe soddisfazione al proprio interesse leggendo l’intero capitolo 13 del Levitico, che analizza in maniera puntuale (e a tratti curiosa) la problematica legata alle malattie della pelle.
Inoltre, se qualcuno davvero si prendesse la briga di leggere Lv 13, potrebbe – a quel punto – proseguire ancora per un capitolo e leggersi anche Lv 14, che parla delle modalità di purificazione e ri-accoglimento nella comunità del lebbroso guarito (modalità a cui fa riferimento lo stesso Gesù nel nostro vangelo).
Ma andiamo con ordine: da Gesù si presenta un lebbroso, senza nome né storia…
Semplicemente si tratta di un lebbroso. E questo bastava a tutti per capire la situazione in cui quest’uomo viveva: emarginato socialmente; considerato impuro e in qualche modo colpevole della sua situazione; impossibilitato a riabilitarsi, se non attraverso una improbabile guarigione.
È un disperato, un non-uomo (un uomo cioè privato, dallo sguardo con cui gli altri lo guardano e dallo sguardo con cui lui si guarda, della dignità umana), un infelice, senza speranza di lieto fine.
Ricorda qualcun altro questo lebbroso… molti altri… che sono nella sua stessa situazione esistenziale, seppure oggi – almeno da noi – non esista più la lebbra… Eppure quanti ancora, allontanati perché considerati impuri/indegni/diversi; ostracizzati e rispediti fuori dall’accampamento, spesso col supporto della legislazione; quanti infelici, disillusi da una storia che davvero sembra loro non offrire più chance per una buona riuscita della vita.
E allora… dentro a questo lebbroso mettiamoci tutti… compresi noi stessi, che almeno ogni tanto ci siamo sentiti così… Ma contemporaneamente mettiamoci dalla parte di Gesù… perché anche in questo “ruolo” siamo stati tutti almeno una volta, quando qualche disperato ci si è gettato – realmente o metaforicamente – alle ginocchia…
E leggendo come è andata quella volta tra quel lebbroso e Gesù, proviamo a confrontare la nostra esperienza, i nostri sentimenti, i nostri modi d’essere e di reagire, con i loro…
«Venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio», letteralmente «E viene da lui un lebbroso invocante lui e cadente in ginocchio»: l’immagine è molto forte e dice, senza bisogno di ulteriori decriptamenti lo status del nostro amico lebbroso. «Ha sentito parlare di Gesù, visto che in tutta la Galilea se ne parlava, come si dice poco prima … Ma è un escluso, un impuro! Deve essere allontanato dalla convivenza umana, a colpi di pietra. Chi gli si avvicina diventava impuro anche lui. Eppure… questo lebbroso trasgredisce la legge di Dio, pur di parlare a Gesù. Chissà come ha intuito che Gesù era connivente con lui! Infatti Gesù l’ha già misteriosamente guarito ‑ “dentro” ‑ dal male più subdolo e devastante che lo opprime, che è l’inconsapevole introiezione della  segregazione, come una maledizione accettata e meritata, in qualche modo, fino a convincersi che è giusta, e farsene colpa. Per questo la legge voleva che lui stesso gridasse di sé: Immondo! Immondo!... a convincere se stesso, ancor prima che per allontanare gli altri. Questo avvelenamento interiore che fa perdere a uno anche il minimo di stima di sé, provoca la disintegrazione della persona, perché ne taglia in radice la speranza, giustificando per di più, con questa auto-maledizione, la discriminazione che lo distrugge umanamente. Come lo schiavo, che si convince della “naturalità” della sua schiavitù… fino a spegnere perfino il desiderio di libertà!» [Giuliano].
«E gli diceva: “Se vuoi, puoi purificarmi”». Il lebbroso – “chissà come” – ha percepito che questo uomo che è Gesù non si sarebbe messo ad urlare, non lo avrebbe scacciato a sassate… non avrebbe avuto paura di lui; ma si sarebbe lasciato avvicinare. “Se vuoi, puoi purificarmi”. È lo schema tipico dei miracoli evangelici: essi – che sono sempre e solo segni della liberazione dell’uomo dal male (infatti, come mai Gesù maledice l’uomo, nemmeno dalla croce, nemmeno i suoi assassini, così neppure mai usa il suo potere speciale per fare male a qualcuno; in tutto il vangelo solo lui si fa male!) – presuppongono una fiducia in Gesù; è quando Gesù si sente investito di questa fiducia speranzosa da parte di qualche persona menomata nella sua umanità, che “scatta” il miracolo…
Anzi, più precisamente, scattano le viscere di Gesù, del quale infatti si dice che «mosso a compassione», «lo toccò», «avendo steso la sua mano».
A distanza di pochi versetti dal racconto del miracolo della guarigione della suocera di Pietro, Gesù di nuovo allunga la mano verso l’uomo, verso l’uomo sofferente, verso l’uomo intoccabile… e lo tocca…

È quasi diventato più famoso il gesto di san Francesco che abbraccia il lebbroso, di questo tocco di Gesù… Ma Francesco l’aveva fatto proprio perché voleva imitare il suo Maestro. È lui che ha aperto questa via impervia, ma vera (l’unica vera), del prendere contatto con chi è fuori dall’accampamento! Per tirarlo dentro, perché non si senta più fuori, a costo di essere messo fuori lui: fuori dove infatti finirà crocifisso.
E mi vengono in mente tanti uomini e tante donne, la cui vita potrebbe essere rappresentata con un cerchio (che indica l’accampamento) e loro con un piede dentro e un piede fuori, una mano ben salda a quelli di dentro e una ben salda a quelli di fuori… incompresi – magari – soprattutto da quelli dentro… che magari non si accorgono che Gesù è già andato fuori e quindi sono loro “i tenuti, nonostante tutto”…
Mosse le viscere di Gesù, sciolto dentro dalla disperazione fiduciosa di questo lebbroso, il miracolo “viene come da sé”: «“Lo voglio, sii purificato!”. E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato».
Ma da questo incontro intensissimo, con uno scambio di aspettative, promesse implicite, gesti forti e – a loro modo – eversivi (da entrambe le parti), il testo sembra farci uscire bruscamente: «E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: “Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro”».
Come “subito” la lebbra “partì da lui”, così “subito” Gesù “rimandò” il lebbroso. Perché questa brusca reazione? «Perché Gesù sapeva che manifestare il Regno di Dio con potenza ha in sé una grossa ambiguità: la gente infatti rischia di cogliere la potenza e non il messaggio che c’è dentro. […] Per noi infatti il metro di giudizio con cui misuriamo tutte le cose è il potere […] e Gesù si scontra contro questo pregiudizio dell’uomo: sa che questo fa deviare ogni tentativo, ogni parola che lui dice; perché noi la interpretiamo a nostro modo. Il vero problema è che però la fede proposta da Gesù è il superamento del Dio del potere, del Dio onnipotente. È come se Gesù, proprio dentro il miracolo, domandasse alla gente: “Credi che è onnipotente l’amore e non il potere?”» [p.Giuliano Bettati, in Con Marco in cammino verso il Regno].
Gesù quasi si spaventa di se stesso… Non ha resistito a farsi commuovere da questo poveretto, ma ora sa che il rischio di essere frainteso diventa più realistico (e diverrà – difatti – reale, come prontamente annota Marco: «quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte»).
Eppure sul calcolo delle opportunità, ha vinto la smisurata empatia per quell’uomo…
Sarebbe bello ora, ripercorrere questo episodio immaginandoselo nella testa… Immaginando gli sguardi, le espressioni del volto, il tono delle voci… le trepidazioni, il vortice dei pensieri nella testa di ciascuno, le paure, i desideri, le pressioni interiori, i sentimenti…
E poi provare a immaginarci noi nei panni del lebbroso… prima dell’incontro con Gesù e dentro a questo incontro…
Oppure, immaginarci nei panni di Gesù, avvicinati dai lebbrosi dei giorni nostri, che teniamo lontano dai nostri accampamenti: extracomunitari, omosessuali, coppie irregolari, malati, morenti, handicappati, ecc… ecc… ecc… e immaginarci che gli tendiamo la mano e li teniamo saldi, come terremmo qualcuno che amiamo!
Così – forse – a provare anche solo a immaginarlo, questo gesto, questo modo di stare al mondo, ci diventa più familiare… naturale… spontaneo…


venerdì 8 ottobre 2010

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario: Il circolo della riconoscenza

Il vangelo che la Chiesa ci propone per questa ventottesima domenica del Tempo Ordinario, ha come oggetto il racconto di un miracolo. Un miracolo che per molti aspetti ricalca lo “schema” consueto con cui questi segni di Gesù (cioè queste modalità gestuali con cui annuncia il Regno) sono solitamente narrati; ma anche, un miracolo, che viene raccontato con qualche particolare “variazione sul tema” e che proprio per questo suscita particolare interesse: è il racconto di un miracolo, certo, come ce ne sono tanti nei vangeli… eppure è un racconto sui generis, non classificabile con troppa leggerezza come uno dei tanti miracoli di Gesù.


Proprio per questo proviamo a ripercorrere il testo lucano con ordine, in modo da recuperare il senso sia degli aspetti comuni del “tema-miracolo” – che, non perché sono comuni, vanno per questo sottovalutati –, sia delle singolarità di questo racconto di miracolo.

Innanzitutto la contestualizzazione: siamo al capitolo 17 del vangelo di Luca, i versetti 11-19; e come ci ricorda l’evangelista stesso ci troviamo «Lungo il cammino verso Gerusalemme». Siamo cioè in quella sezione del vangelo di Luca che organizza il materiale, di cui l’evangelista è in possesso, secondo il canovaccio del viaggio verso Gerusalemme: un viaggio iniziato al capitolo 9,51 (con la celebre espressione: «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione [indurì il suo volto] di mettersi in cammino verso Gerusalemme») e che sta ormai per giungere a compimento (Lc 19,28). Un viaggio che ha visto – appunto – lo snodarsi di molte delle vicende più importanti della vita pubblica di Gesù (parabole, guarigioni, insegnamenti, contrasti, ecc…) e che ora è testimone di questo incontro con i dieci lebbrosi, che – come dice il testo – «si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!”».

Questo loro comportamento (fermasi a distanza e urlare) – che a noi potrebbe sembrare strano – in realtà è in perfetta consonanza con la legge ebraica in materia di lebbra (cfr. capp. 13-14 del libro del Levitico), la quale in particolare in Lv 13,45-46 sancisce: «Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento».

Ma anche la reazione di Gesù (che «appena li vide, disse loro: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”») è rispettosa della legge, la quale prescriveva in caso di guarigione l’obbligo di presentarsi ai sacerdoti perché quest’ultima fosse certificata: «Questa è la legge che si riferisce al lebbroso per il giorno della sua purificazione. Egli sarà condotto al sacerdote. Il sacerdote uscirà dall’accampamento e lo esaminerà…», Lv 14,2-3 + tutti i versetti seguenti che indicano la ritualità sacrificale per la riammissione del lebbroso – ormai guarito – nell’accampamento). Si tratta, dunque, semplicemente di «un retaggio dell’antico Israele, quando il sacerdote fungeva anche da ufficiale medico: solo lui poteva attestare la guarigione e il reinserimento di un lebbroso» [P. Curtaz].

Fin qui dunque, niente di particolarmente significativo, se non il fatto che, a differenza della mentalità dei suoi contemporanei, Gesù non considera coloro che sono affetti da lebbra come dei maledetti, degli impuri da evitare o come peccatori castigati. Li accosta e li guarisce (lo aveva già fatto – secondo il racconto di Luca – al cap. 5,12-14). Per lui non ci sono persone da escludere, persone che debbano fermarsi a distanza (cfr. B. MAGGIONI, il racconto di Luca, p. 301).

A ben guardare però, qualcosa di incongruente con la tradizione ebraica c’è: Gesù invia i dieci lebbrosi al sacerdote prima di guarirli (e non dopo averli guariti, come prevedeva la legge)! Essi infatti «mentre andavano, furono purificati»…
Questo dettaglio apre ad un duplice ordine di considerazioni: innanzitutto l’emergere di un elemento costitutivo della struttura dei miracoli di Gesù. Essi non sono mai gesti di dimostrazione fatti per catturare l’attenzione e la fede (la credulità) della gente – come invece troppo spesso il sentire comune ancora oggi rilancia –, bensì gesti che presuppongono la fede, cioè la fiducia nella persona di Gesù (non a caso li invia – cioè, spazialmente parlando, li allontana da sé, li manda via… essi devono dunque fidarsi che qualcosa accada poi, quando Gesù non è nemmeno più con loro). Gesti che dunque non mostrano solo e non mostrano tanto la potenza di Gesù, quanto la sua straripante benevolenza per l’uomo: è un altro modo (oltre a quello verbale) di annunciare il Regno, che infatti non è che la liberazione dell’uomo dal male (cfr. Mt 11,2-6, dove a Giovanni Battista che dal carcere manda i suoi discepoli per chiedere a Gesù se era davvero Lui colui che doveva venire, Gesù risponde elencando ciò che accade dove Lui passa, cioè dove il Regno arriva: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!»).

In secondo luogo, il fatto che i dieci lebbrosi vengano purificati mentre andavano, porta a riflettere anche su una modalità di guarigione apparentemente anomala, eppure forse molto più consueta, rispetto a quella del gesto miracoloso puntuale. Scrive ancora P. Curtaz: «Anche a molti di noi accade di guarire per strada»… Anche a noi capita di guarire strada facendo… Che è una considerazione che forse, istintivamente, rifiutiamo (perché pensiamo che, se manca la extra-ordinarietà di ciò che provoca il cambiamento della nostra situazione, non si può parlare di “intervento divino” e perché poi – in fin dei conti –, se non c’è extra-ordinarietà, il merito è mio, non di Dio…), ma che in realtà rimanda allo statuto più autentico del rapporto dello spirito umano con lo Spirito di Dio. Questi due attori infatti agiscono e inter-agiscono molto più nelle trame (lente e viscose) della storia, negli interstizi bui della quotidianità che scorrendo costruisce la nostra esistenza, nella consistenza umana che ci ritroviamo tra le mani man mano che passa il tempo, piuttosto che negli interventi estemporanei operati da qualche potenza soprannaturale.

Comunque, al di là delle nostre considerazioni, e tornando al vangelo… ai “nostri dieci” capita di essere purificati mentre andavano. E qui accade l’inedito della vicenda – ciò che non rientra né in qualcosa che ha a che vedere con la tradizione ebraica, né con la consueta “struttura-miracolo” dei vangeli: «Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano». Dove ciò che crea discrepanza sono – nuovamente – due elementi: il fatto che solo 1 su 10 torni a ringraziare e il fatto che quell’uno che torna sia un samaritano. Elementi per altro ravvisati entrambi dalle stesse parole di Gesù: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». Con la frase finale «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!», che – posta proprio dopo la guarigione di tutti e 10 i lebbrosi – mette immediatamente in luce come Gesù sottolinei una differenza decisiva tra “guarigione” e “salvezza”.

Dunque dieci sono stati sanati, ma uno solo salvato… e quell’uno – l’unico tornato a ringraziare – è un samaritano, uno straniero, un eterodosso, un nemico… percepito allora dagli uditori di Gesù come oggi noi italiani (in specie del nord) percepiamo i rumeni, per intenderci. In effetti è come se Luca andasse da un enclave leghista e dicesse che su 10 persone guarite, le 9 padane se ne sono andate per la loro strada (forse a fare una ronda?) e l’unico rumeno del gruppo è quello che è tornato a ringraziare e per questo non è stato solo guarito, ma salvato!

Capite come le coronarie del pubblico siano messe a dura prova… Ma l’impatto emotivo è vincente, perché fa dire a chi ascolta: “ma porca miseria! Noi che siamo i vicini, quelli che dovevano capire tutto, che sanno la bibbia a memoria, che non possono farsi passare il messia sotto il naso senza neanche accorgersi che era lui… ci siam fatti fregare da ‘sto samaritano/rumeno che non va al tempio/in chiesa, appartiene ad un’altra cultura (sottinteso: inferiore) e solitamente non è proprio un cittadino rispettabile…”.

Ecco ciò che accade e che in una certa misura stupisce anche Gesù, che non a caso più volte “ha il pallino” di fare l’esempio col samaritano/a: accade che a volte è più capace di accedere al senso vero di ciò che avviene, qualcuno che non ha lo strumentario (culturale, razziale, religioso…) che noi riteniamo adeguato, rispetto a chi invece ha tutte le carte in regola (la fedina penale apposto, quella ecclesiale linda con tutti i bolli dei sacramenti ricevuti, un matrimonio apposto, un buon lavoro, ecc…).

E questo è insieme un grande monito… per chi si mette tra i giusti, tra quelli “apposto”, tra gli ortodossi… tra quelli che “c’hanno ragione loro…”… (siamo noi, al 90%!).

E un grande conforto, per “tutti gli altri”… perché ci ricorda che per fortuna i pensieri del Signore, non sono i nostri pensieri e le nostre misure non sono le sue misure…

Infine l’ultimo punto rimasto da sviscerare… perché, certo, quello che torna è un samaritano… ma resta il fatto che samaritano o no, qui ne è tornato solo 1… E gli altri 9?

Ma siamo sicuri che la domanda giusta sia chiedersi dove sono andati a finire gli altri 9? Perché a ben guardare non è che hanno fatto qualcosa di diverso da quello che gli aveva detto Gesù… il quale non li aveva invitati a tornare… e non si capisce nemmeno bene – dal testo – perché Gesù se ne risenta…

Forse la domanda più corretta è quella che si chiede: Perché questo è tornato? Perché non gli è bastata la guarigione, ma ha avuto voglia/bisogno/desiderio di tornare dal guaritore… di tornare a vedere la faccia di quello là che dicendogli di andare per quella strada, ha avuto ragione e gli ha regalato la guarigione?

Forse perché ciò che quest’uomo cercava, andando da Gesù, non era solo una cosa, un bene fisico, pur nella sua valenza sociale… ma forse cercava Qualcuno che gli restituisse l’umanità che la lebbra (e la mentalità del tempo) gli avevano tolto. Questo – forse – a differenza degli altri, lo porta ad accedere al circolo della riconoscenza. Infatti: «Come in un bambino, perché scatti la scintilla della coscienza di sé, della memoria autobiografica, ad un certo punto non bastano più le carezze rassicuranti sulla pelle. Ci vuole un volto cui affidarsi per entrare in dialettica con “lui”, e scoprire un “tu”, che faccia nascere e individuare i contorni dell’io… Così per diventare “credenti”, discepoli di Gesù, ci vuole la ri/scoperta di un volto… che ti ha salvato e ti rigenera. Perché in quel volto amico si ridisegna la propria identità e il senso della propria vita. È la riconoscenza! Il balsamo che lenisce le malattie del cuore, apre un’uscita di luce dai propri abissi, fa compagnia alla solitudine angosciosa delle crisi di panico, disinquina i complessi di colpa… È la ri/conoscenza (gratitudine) che scoppia dalla gioia di aver scoperto l’affetto che ti ha guarito – perché? – gratis, per niente, per amore… Solo così si entra nel circolo virtuoso di comunione» [Giuliano] in cui a ciascuno è garantito lo statuto umano del suo esserci.

venerdì 13 febbraio 2009

L’immondo espulso dall’accampamento è… Gesù!

Il lebbroso andrà gridando: Impuro! Impuro


Le categorie puro/impuro (mondo/immondo, sacro/profano…) sono piuttosto estranee alla mentalità moderna, ma determinanti nella mentalità veterotestamentaria, come in ogni antica religione: per accedere a ciò che è santo o comunque relativo al divino, occorre essere puri. Lo stato di purità rende possibile la comunicazione col mondo della santità divina, quello di impurità la preclude. Detto questo diventa però difficile la distinzione dei piani morale e cultuale, religioso e igienico, mistico e politico. Qui facilmente si equivoca: la distinzione puro/impuro nella Bibbia non si riferisce subito alla situazione morale, ossia non equivale a buono/cattivo: si radica molto più sul piano fisico e poi cultuale fino a sconfinare, per noi moderni almeno, nel magico. Trovare motivazioni razionali a queste dinamiche non è sempre facile. In questo processo convergono vari fattori dipendenti dalle conoscenze naturalistiche e mediche, da tabù ancestrali, da motivazioni sociologiche, dall'incubo della morte e dei suoi prodromi. Sinteticamente questo si può dire che la purità è legata soprattutto all'integrità del vivente. Il contatto con quanto sta nell'ambito della morte, è "mortifero", E tutto ciò che è malato, mutilato, corrotto, alterato, rende impuro. Ciò è ben evidente nel caso della lebbra, che secondo le antiche tradizioni raccolte nel Pentateuco provocava la più grave forma di esclusione dalla società e di abbandono totale.


Un evento inaudito: un lebbroso si avvicina a Gesù! Ha sentito parlare di lui, visto che in tutta la Galilea se ne parlava, come si dice poco prima… Ma è un escluso, un impuro! Deve essere allontanato dalla convivenza umana, a colpi di pietra. Chi gli si avvicina diventava impuro anche lui. Questo lebbroso trasgredisce la legge di Dio, pur di parlare a Gesù. Chissà come ha intuito che Gesù era connivente con lui! Infatti Gesù l'ha già misteriosamente guarito ‑ "dentro" ‑ dal male più subdolo e devastante che lo opprime, che è l'inconsapevole introiezione della segregazione, come una maledizione accettata e meritata, in qualche modo, fino a convincersi che è giusta, e farsene colpa. Per questo la legge voleva che lui stesso gridasse di sé : Immondo! Immondo!... a convincere se stesso, ancor prima che per allontanare gli altri. Questo avvelenamento interiore che fa perdere a uno anche il minimo di stima di sé, provoca la disintegrazione della persona, perché ne taglia in radice la speranza, giustificando per di più, con questa auto-maledizione, la discriminazione che lo distrugge umanamente. Come lo schiavo, che si convince della "naturalità" della sua schiavitù… fino a spegnere perfino il desiderio di libertà!


Il passaggio dalla legge alla grazia!


Gesù sovverte questa oppressione sociale che da prevenzione sanitaria è divenuta una lenta condanna a morte fisica, affettiva e morale. Non fa un discorso teorico. Apre un orizzonte nuovo. Prima suscita misteriosamente un barlume di speranza, il desiderio di salvezza. Poi accetta di incontrare il segregato, di rispondergli, e soprattutto di toccarlo… Con conseguenze imprevedibili e sconvolgenti in un contesto culturale tragicamente impotente di fronte alla "necessità" che il malato contagioso sia espulso ed eliminato dall'accampamento. Inizia un processo delicato e misterioso, "gratuito" ed esplosivo, che qualifica la differenza di "regime" tra primo e nuovo Testamento. Un processo che innesca una dinamica inarrestabile nelle strutture mentali personali e comunitarie, come una nuova opportunità antropologica, il risveglio dell'impossibile sogno di reintegrazione, un sogno divenuto adesso realizzabile, possibile da quando Dio in carne umana sente smuoversi le viscere materne davanti al nostro male congenito, avvolgendolo di un immenso amore sanante e liberante, perché è Dio ‑ e non uomo, diceva il profeta antico (cfr. Os 11,9). Ma toccando adesso, con una carezza della sua mano, la pelle putrescente del corpo malato, perché è un Uomo, ove si è incarnata la tenerezza di Dio! La compassione sembra divenire il supremo valore etico, al di là di ogni religione e cultura: "la cosa che ha più senso nell'ordine del mondo" (E. Lévinas).


Nel lungo cammino biblico, questo è un momento luminoso del "misterioso passaggio" dalla struttura invincibilmente discriminatoria del sistema immunitario dell'accampamento … alla compassione profonda e coinvolgente con chi patisce l'emarginazione. Un passaggio dalla drammatica necessità di eliminare i propri figli malati (dove il criterio guida assoluto è la difesa del gruppo, legalizzata e sacralizzata), al coraggio dell'amore che sfida ogni norma segregante… alla tenerezza che rischia il contagio pur di veder rinascere la speranza… allo spirito autocritico sulla propria cultura e sulle sue certezze morali o religiose… al coraggio, infine, capace di sfidare l'opinione comune… quando il potere, la gente, il buon senso cominciano a guardarti male. E solo la passione di togliere l'altro dal dolore e dalla schiavitù fisica e morale e soprattutto dalla sottostima di sé, può sostenerti.


Dio vuole tutti guariti in un'unica comunione …


Con quale solitudine interiore Gesù sradica da sé le sedimentazioni mentali irriformabili perché giudicate indispensabili alla sopravvivenza della nazione, dunque necessarie "leggi di natura", e immutabili proprio perché giudicate sacre, cioè di volere divino. Gesù rompe questa barriera, intrecciando un "illegale" dialogo con il malato segregato, un approccio diretto "nuovo ed eversivo" tra uomo e uomo, che d'ora in avanti è seminato nel cuore del discepolo, come fermento messianico di nuove relazioni liberanti, dialogo tra desiderio e grazia, tra malattia mortale e rinascita alla vita, tra segregazione distruttiva e gioia dell'annuncio evangelico. Un dialogo di "scambio vitale": se vuoi, puoi mondarmi… ‑ lo voglio, sii mondato!… Con tutta discrezione, nonostante il desiderio straripante, il lebbroso dice: se vuoi... Il futuro suo (e del mondo) è appeso ad un «se vuoi», ad un misterioso "se"… che è la fede in Lui: Dio stesso accessibile quaggiù di fronte a te! È la grazia! Tanto "necessaria" per liberarci dalla malattia mortale quanto "gratuita" per responsabilizzare il nostro amore e non ridurci di nuovo a schiavi – che Dio non vuole più. Vuole solo amici! Il lebbroso si appella al desiderio di Dio, sotto e contro le sedimentazioni e le dure scorze tramandate dalle leggi e tradizioni religiose: tu (Messia, mandato da Dio?!) vuoi abbandonarmi, come dicono i sacerdoti e gli scribi ‑ o vuoi guarirmi? Gesù rivela il cuore di Dio di fronte al male: lo voglio, guarisci! L'esito – la guarigione totale! ‑ è tanto immediato e sconvolgente che Gesù stesso cerca di correre ai ripari, "ammonendolo severamente", per contenere la divulgazione di un fatto così delicato e difficilmente spiegabile nella sua complessità. Ma inutilmente! Il lebbroso si sente liberato nell'anima, non solo nella pelle. È troppo irreprimibile la gioia di esser tornato a vivere… troppo esaltante la voglia di condividere la gratitudine, irrefrenabile la fierezza di far sapere a tutti cosa gli è successo, quale miracolo dunque è possibile per tutti i disastrati della vita…


Tre condizioni sembrano necessarie al discepolo di Gesù, per poter evangelizzare, secondo questo racconto:


La "commozione" (delle viscere materne), che libera il cuore dalla sterile preoccupazione di sé… a imitazione di Gesù il quale, camminando in mezzo alla gente, ha accolto e fatto suo il dolore dei volti concreti che incontrava, con un coinvolgimento così intenso, che guarisce i malati e libera gli oppressi … Questo atteggiamento del cuore di Gesù è la radice stessa della sua missione nel mondo: "…sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore…. e si mise a insegnar loro molte cose.. (6,34)


Lo spirito critico che nasce da questo coinvolgimento nelle situazioni concrete di sofferenza e di oppressione, cercandone e denunciandone, sulla linea degli antichi profeti, le cause e le connivenze… con totale libertà e autonomia dalle strutture culturali e normative, rese immutabili dall'interesse o dall'inerzia intellettuale e spirituale delle classi dirigenti:"annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato Voi" (7,13).


Lo scambio dell'emarginazione: chi aiuta l'oppresso a liberarsi si scontra presto con un'opposizione, che in qualche modo si vendica ed emargina chi combatte l'emarginazione, se presto non viene a patti… e lascia i poveri al loro destino, per reintegrarsi nell'istituzione! Gesù sa bene come si concluderà la sua missione di liberazione e proibisce al lebbroso di parlare della sua guarigione. Ma finisce che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città. Aveva osato toccare un lebbroso… ora lui stesso è un impuro, e deve stare lontano da tutti. Questo è il "prezzo" che egli deve pagare per reinserire l'ex-lebbroso "nell'accampamento".


Gesù dunque non è un agitatore sociale che punta a sovvertire l'assetto del potere, per sostituirsi ad esso, ma non è neppure un predicatore di conversioni "spirituali": il suo è un inserimento di contrasto nella dinamica sociale di emarginazione che, con una sorprendente dottrina nuova e "potenza" di guarigione e liberazione, reintegra l'umanità. Ma suscita un'opposizione di diversi interessi che si coalizzano: "…tennero consiglio contro di lui per farlo morire" (3,6). Per loro – a ragione ‑ la sua non è una sostituzione sacrificale, ma sovversione politica, della quale paga i costi in prima persona. Non è per placare l'ira del Dio offeso dal peccato dell'uomo, che Gesù viene stritolato dallo stesso criterio d'emarginazione politica che vuole combattere, ma per dimostrare e realizzare l'amore del Padre sulla terra: "È bene che uno muoia per il popolo (Gv 11,50), sentenzia Caifa. Ma questo meccanismo perverso, che prima abbandona il lebbroso alla sua deriva di consunzione, poi si ritorce contro Gesù stesso, diviene il luogo d'incontro dell'umanità: Usciamo dunque verso di lui fuori dell'accampamento, portando il suo disonore… (Eb 13,13). Nessuna lebbra umana - grazie a Gesù – può essere più luogo di separazione o vergogna, ma diventa spazio di incontro e umanizzazione. Così proprio il nostro male diventa ponte di grazia sul quale Lui ci incontra e ci salva.

La radicale proposta di Gesù: perdere la vita per l'altro (lebbroso)

In questa sesta domenica del tempo ordinario, le letture che la Chiesa ci propone hanno come filo conduttore la tematica relativa alla lebbra. In particolare il testo del libro del Levitico sembra proprio essere stato scelto ad hoc per informarci riguardo al contesto socio-culturale in cui si inseriva tale problematica, centrale anche nel brano del vangelo di Marco.

Innanzitutto va ricordato che la legislazione presente nel libro del Levitico riguardo alla lebbra è molto più ampia rispetto ai pochi versetti che si leggono a messa: occupa infatti addirittura due interi capitoli (il 13 e il 14). Questo perché l’argomento è “scottante”. Con il termine “lebbra” infatti non si intende semplicemente e specificamente quella malattia che oggi la medicina definisce clinicamente come tale, ma l’insieme di tutte le diverse malattie che interessano la pelle, comprese le varie alterazioni di materiali come le stoffe o i muri delle case. Legiferare su tale argomento è perciò importantissimo perché si sta parlando di malattie contagiose, o ritenute tali: quella che perciò a noi può sembrare una norma discriminante, in realtà ha invece lo scopo di difendere la comunità dall’eventuale diffusione della malattia.

È quella che potremmo chiamare “reazione immunitaria” della società, quella per cui – come dirà Caifa per Gesù in Gv 11,50 suggerendone così la morte – «è conveniente che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!».

Questa prospettiva, politica prima ancora che personale, non è per niente irrazionale: a prima vista sembra addirittura necessaria, sembra salvaguardare il principio positivo della salvezza dei più, un principio che in diverse circostanze ha davvero messo in salvo la vita di tanti… Non è dunque immediatamente o troppo facilmente da individuare e catalogare come meschina, egoistica, cattiva. Ha una sua ragion d’essere.

Eppure… non si può tacere il fatto che la proposta evangelica sia un’altra.

Se si allarga un po’ l’orizzonte infatti si vede come la logica che partorisce il principio di Caifa sia una logica che al centro ha il “salvarsi la vita” – la nostra o quella “dei nostri”: della nostra famiglia, dei nostri amici, dei nostri confratelli, dei nostri correligionari, dei nostri connazionali, ecc… Come già anticipato non è una logica immediatamente cattiva (lo sarebbe se avesse come perno per esempio, la distruzione di chi non è dei nostri), eppure subdolamente introduce due corollari evangelicamente inaccettabili: il primo è quello per cui il mondo è guardato inevitabilmente con gli occhi di chi lo divide in categorie – i “nostri” gli altri – e questo ben prima che essere un problema politico – pensiamo al modo di porsi attuale nei confronti degli extra-comunitari – è un problema personale – la discriminazione è molto più vicina a noi di quanto pensiamo, è molto prima e molto al di là degli epifenomeni visibili come l’indiano bruciato alla stazione, è dentro le nostre case, è nei nostri conventi, è nei nostri cuori. Io almeno personalmente lo sento forte sulla mia pelle, al lavoro, in fraternità, nella chiesa, nella società. E tanto radicalmente sento di subire questa logica, tanto radicalmente sento anche di rilanciarla: perché appunto, non è immediatamente evidente nella sua perversità, anzi apparentemente salvaguarda – come detto – un principio positivo: la salvezza della propria vita; e allora per scovarla e per riscoprirci noi stessi “rilanciatori” di tale logica è necessario fare la fatica di indagare le dinamiche profonde del nostro agire, le radici più nascoste del nostro decidere e decidere chi essere… e questo non sempre si può o si riesce a farlo…

In più c’è un secondo corollario che svela la malvagità intrinseca della logica di Caifa: essa è in radice sempre omicida; non esiste salvezza della propria vita e dei propri cari (famiglia, amici, confratelli, correligionari, connazionali…) se non sulla pelle di qualcun altro. È l’atavico principio del mors tua vita mea, riconducibile all’arcaico istinto di sopravvivenza, tanto utile e dunque immediatamente non da disdegnare – non saremmo qui se non ci fosse e non ci fosse stato – quanto da riconoscere nella sua potenzialità letale per l’altro.

La situazione è dunque davvero difficile da com-prendere e dipanare: essa infatti non è una palese mostruosità che tutti condannerebbero al volo senza bisogno di pensarci su; è più strisciante, è più nascosta, chiama in causa diverse corde sensibili della nostra interiorità, per cui è molto più difficilmente governabile e giudicabile. Ma forse, proprio per questa sua dimensione carsica, è molto più simile alle drammaticità quotidiane che il cuore umano deve affrontare: sono molto più questi i problemi radicali della vita, che le mille questioni in cui ci disperdiamo. Essi infatti non toccano solo il nostro dover prendere posizione contingente, ma la logica con la quale scegliamo di porci nel mondo, la prospettiva con la quale guardare alle cose, l’orizzonte di senso nel quale decidere chi vogliamo essere. E queste sono dimensioni umane sulle quali non si può essere superficiali (pena il vivere un’esistenza banale), né incoerenti (pena il non poter mai dire “io”).

Ma dunque come ci si deve porre di fronte al lebbroso? Di fronte a colui cioè che – colpevolmente o meno – minaccia la salvezza della nostra vita e della vita dei nostri?

La tragica risposta di Gesù è quella per cui il principio della “salvezza della propria vita” non deve governare il nostro cuore: Egli ribalta infatti la logica dell’istintivo bisogno di sopravvivenza, inaugurando la prospettiva del mors mea vita tua. Gesù infatti sceglierà di assumere su di sé il male e di non rilanciarlo su nessun altro: lo conterrà in sé annientandone la carica malefica.

E infatti… Con nelle orecchie la memoria dei passi biblici del Levitico Gesù incontra il lebbroso.

Quest’ultimo non dev’essere guardato esclusivamente come il simbolo dell’emarginazione sociale, di tutti coloro sulla cui pelle si nutre la nostra sopravvivenza: egli è innanzitutto un uomo concreto, l’incontro è tra due libertà in carne ed ossa. Che egli non sia semplicemente uno stereotipo lo si vede dalle tonalità emotivamente cariche del brano di vangelo che parla di lui: «Venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi purificarmi!”».

Eppure, egli è intrinsecamente anche portatore di un valore simbolico: certo esso non deve diminuirne la caratura personale, ma il decidersi di Gesù di fronte a quest’uomo non è una scelta contingente, è la scelta di un modo di essere, di una logica da sposare, di una prospettiva da fare propria. Gesù di fronte a questo lebbroso – dunque decidendosi praticamente in una situazione concreta – sceglie però chi essere (e dunque chi non essere): decide di non dar credito alla logica che stava sotto all’emarginazione di quest’uomo, decide di non poggiare la sua vita sulla priorità della propria salvezza, decide che il mors tua vita mea non può essere la risposta adeguata per la vita dell’uomo e di Dio.

È questo il dramma per chiunque sceglie di seguire quest’uomo (e questo Dio): perché tutte le nostre viscere si contorcono di fronte a questa prospettiva; nessuno vuole morire; ci fa una paura tremenda. E se anche riflessivamente riusciamo a dirgli un sì, continuamente ci rispunta il bisogno di “salvarci la vita” (in modo radicale nel fisico, ma quotidianamente nel bisogno di non sfigurare, di avere ragione, di essere al centro dell’attenzione, di essere amati in modo speciale, ecc…).

Al di là però della fatica di tutta una vita (dunque anche con l’incapacità a volte) di sposare fino in fondo questa logica, ciò che mi pare importante è arrivare a cogliere che questa è la radicalità della proposta cristiana. È a questa profondità del nostro essere che ci si deve convertire, che ci si deve lasciar ribaltare. È dentro a queste strutture antropologiche decisive che ci si deve mettere in discussione. Tutto il resto è coreografia: è religione e non fede, che farà tanto bene al quieto vivere, ma non cambia niente e soprattutto non cambia noi. Come di fatto abitualmente accade: con un cristianesimo che sempre più rischia di diventare semplicemente religione di stato o peggio religione in cui si reintroduce – senza neanche accorgersene – il principio di Caifa: l’opposto di quello di Gesù. Troppo spesso infatti il mors mea vita tua, ha dimenticato il secondo stico della frase, limitandosi al mors mea. La prospettiva di Gesù è stata perciò annacquata e slavata in una banale mortificazione personale: essa, avendo perso lo scopo del vita tua è diventata una mors mea vita mea, cioè una mortificazione presente per un premio futuro, una non-vita attuale (morte) per “guadagnarsi il paradiso”, come dicevano le nostre nonne… Ma questo è forse più aberrante del mors tua vita mea, perché non salvaguarda niente né l’altro né me…

Per Gesù invece è sempre chiarissimo il vita tua, l’esserci, il decidersi – addirittura il morire – “per l’altro”. E anche in questo ci viene incontro il brano del vangelo di Marco: «Venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”. E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato». Gesù non resiste alla richiesta di aiuto di quest’uomo, una richiesta che avrebbe tanto da insegnarci riguardo alla sua trasparenza… quella che solo la disperazione sa dare…

Gesù si commuove: non riesce a rimanere fedele alla logica del suo popolo, alla logica delle Sacre Scritture che gli chiedevano di vedere in quell’uomo solo un “immondo” e non un uomo, appunto. Uno da tenere fuori, uno da sacrificare per il bene del popolo. Gesù invece non riesce a non sentirlo “suo”, uno dei “suoi”. Non riesce cioè a non far scattare in se stesso la dinamica della com-passione, della con-naturalità, della co-umanità: non può non vedere uno da amare in quel corpo deturpato che lo supplica di aiutarlo.

Interessante però che quasi immediatamente sembra riaversi da questo trasporto e addirittura – dice il testo – «ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: “Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro”».

Perché questa brusca reazione? «Perché sapeva che manifestare il Regno di Dio con potenza ha in sé una grossa ambiguità: la gente infatti rischia di cogliere la potenza e non il messaggio che c’è dentro. […] Per noi infatti il metro di giudizio con cui misuriamo tutte le cose è il potere […] e Gesù si scontra contro questo pregiudizio dell’uomo: sa che questo fa deviare ogni tentativo, ogni parola che lui dice; perché noi la interpretiamo a nostro modo. Il vero problema è che però la fede proposta da Gesù è il superamento del Dio del potere, del Dio onnipotente. È come se Gesù, proprio dentro il miracolo, domandasse alla gente: “Credi che è onnipotente l’amore e non il potere?”» [p.Giuliano Bettati, in Con Marco in cammino verso il Regno]. Ecco il perché della sua brusca reazione: perché mentre lui sta distruggendo la logica del mors tua vita mea non vuole essere frainteso: non vuole essere letto – nella potenza del miracolo – con quella logica lì, come se lui facesse i miracoli per dimostrare di essere Figlio di Dio, per imporsi come Dio agli uomini. Il suo desiderio è invece che sia chiara la proposta radicale che sta facendo a chi lo vuol seguire: dirà infatti più avanti «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuol salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà».

L’unica domanda che resta aperta, l’unico mio dubbio è: ammesso e non concesso di dire sì a questa proposta del Signore… essere cioè disposti a perdere la propria vita… si può anche accettare di farla perdere ai nostri? Accogliere il “lebbroso” vuol dire infatti mettere a rischio non solo me, ma anche i miei figli, i miei fratelli, i miei amici, ecc…

Forse l’unica superabilità di questo dubbio è che ognuno vada pensato come “nostro”, soprattutto se lebbroso…

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