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sabato 17 aprile 2010

Mi ami più di loro?...

Mi ami più di loro?! … ma che cosa significa veramente “amare di più”? Difficile da dire, ancor più difficile, come ogni paradosso esistenziale, collocarlo con equilibrio nella complessità delle relazioni. Ma ogni innamorato l’ha provato! Forse siamo al mondo (come un po’ troppo schematicamente diceva l’antico catechismo) per imparare proprio questo. – e ci vuole una vita! Ognuno con la sua storia, le sue ferite, i suoi fallimenti e le sue illusioni… E i suoi ricominciamenti, che – secondo Gesù – la vita sempre riconcede. Perché, appunto, è inesauribile la fame che ci muove di essere “amati di più”. E quando questa fame fosse finita siamo finiti anche noi, svuotati come viaggiatori senza meta. Il Vangelo è lo smascheramento delle illusioni o ambiguità o falsità del cammino, con un rigore ed una tenerezza sconcertanti – che inchiodano alla propria debolezza impotente chiunque lo ascolti con sincerità e non cerchi di mascherare dietro le insufficienze altrui le proprie paure e delusioni. E la voglia di tornare indietro. Di “amare di meno”, per soffrire di meno! Il Vangelo non ci insegna una tecnica psicologica o psicanalitica, ma ci è presenta un personaggio – il protagonista di questa “buona notizia” del possibile ricominciamento – che ci chiama ad un percorso dietro lui : va a dire ai miei fratelli che li aspetto in Galilea. La Galilea è il posto da cui era partito per il suo viaggio finale. Fino alla sua passione, morte e risurrezione. Quante attese, quanti entusiasmi, quanti passi di gioia e condivisione e quanti momenti duri e amari… per arrivare fino a lì – per imparare ad “amare di più”. Con la sua famiglia e le inevitabili incomprensioni, con i compaesani delusi e aggressivi, con i capi e i maestri del popolo, ma soprattutto con gli amici, i discepoli e le donne, a cui ha aperto il cuore e la mente … senza risultati immediati, ma senza pentimenti! Fino a patire all’estremo, nella pelle e nell’anima, cosa vuol dire “amare di più”. Gesù ha mantenuto vivo questo fuoco (e la passione perché divampasse nel mondo), nella fatica, nell’abbandono e nella solitudine – senza mai prendere occasione dalla debolezza e nemmeno dal tradimento per diminuire l’amore! È il segreto misterioso di questa qualità divino/umana dell’amore che vuole illuminare quest’ultima pagina pagine aggiunta al vangelo di Giovanni, dopo che già era stato raccontato tutto.
“Rivolgendosi a Simone Gesù gli chiede: “Mi ami tu più di costoro?”. Richiesta esorbitante, non solo perché rivolta a chi aveva rinnegato il suo Signore, non solo per quel curioso “più di costoro”, ma anche e specialmente perché Gesù usa il verbo amare / agapào che indica l’amore totale, esclusivo, incondizionato cioè perfetto, “santo”. Pietro non osa rispondere con lo stesso verbo (forse lo avrebbe fatto prima di conoscere l’amara esperienza del tradimento): risponde semplicemente e poveramente “Ti voglio bene”, usando il verbo dell’amore amicale philéo. Nella seconda domanda Gesù insiste con la richiesta dell’amore totale e Pietro insiste nella seconda risposta con l’offerta del suo povero, umile, amore. Alla terza domanda e risposta non è Pietro che cambia il verbo: è Gesù! “Simone di Giovanni, mi vuoi bene?” e Pietro – sebbene “addolorato che la terza volta gli dicesse: Mi vuoi bene?” (che fosse cioè Gesù ad avere dovuto cambiare il verbo dell’amore) – gli risponde: “Signore, tu sai tutto, sai che ti voglio bene”. Si potrebbe quasi dire che non è Pietro a convertirsi a Gesù, ma è Gesù che “si converte” a Pietro, si adatta al suo linguaggio e alle sue possibilità. È questa “conversione di Dio” che mi colpisce profondamente: anche perché è a partire da essa che Gesù pronuncia l’imperativo nel quale sbocca tutto l’itinerario educativo con cui aveva formato il suo apostolo: SEGUIMI!” (Gv 21, 19). Così dal fallimento è cominciata la storia nuova della santità personale di Pietro, spinta fino al martirio, quando egli dirà, non più con le parole, ma con il gesto della vita donata e con il silenzio eloquente della morte, la parola dell’amore esclusivo e totale per il suo Signore!” (card Martini).
Gesù vive questa qualità dell’amore che è entrare nell’amore dell’altro, e lasciarsene mangiare Ci vuole una libertà interiore totale, di fronte alla quale la “diversità” (fosse anche l’immaturità!) dell’amore dell’altro non è un limite, ma una sfida. Che esige un “di più” di amore e niente da perdere, come dice Giovanni di Gesù : avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine! Il giovane ricco era ricco di doti morali e di beni materiali, ma aveva paura di perderli. Gesù, comunque, lo guardò e lo amò! E di certo il suo amore è rimasto dentro il giovane … ad attendere la maturazione delle possibilità di germogliare. Pietro ha percorso tutte le tappe dell’immaturità dell’amore: la presunzione (anche se tutti ti abbandonassero, io darò la vita per te!), il rinnegamento, ribadito e drammatico (non conosco quell’uomo!). Ma l’amore di Gesù lo riaccoglie e lo ama così com’è: Allora il Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro … (Lc 22,61). Ed ecco nell’ultima pagina del vangelo, il perdono come rifondazione tenera e appassionata dell’amore, instancabile e rigeneratore, sempre a partire dalle umane fragili possibilità soggettive. Chi “ama di più” entra nell’amore dell’altro, accogliendolo e soffrendolo così come è – perché si fida più della potenza mite ma inarrestabile (divina!) dell’Amore che della impazienza prepotente fremente della propria fame!
Nel gioco sottile delle sfumature delle diverse parole sta forse nascosto il segreto della proposta “cristiana” dell’amore, inaugurata da Gesù con l’esempio della sua vita. Lui ha amato ognuno di noi “più di loro – nessuno ci ha amati così!”. Ha dato la vita per me, mentre io non ero ancora capace di amare. E accoglie ognuno come è, più o meno capace di ricevere il suo invito, affidandosi alla forza stessa interna all’Amore – come si accudisce un germoglio senza poterlo forzare, dandogli il suo tempo. Questo vuol dire, nel limite storico della nostra quotidiana debolezza, il dono pasquale: Ricevete lo Spirito santo! Gesù ha chiamato, accolto, lodato, rimproverato, perdonato… Pietro – sempre nel segno dell’amore, sostenuto da una pazienza “materna” inesauribile, che solo la piena gratuità della dedizione può sostenere. Forse ogni amore deve essere così: bisogna che l’altro cresca e che io lo attenda, a costo di diminuire, a rischio di morire, prima che mi ami di ritorno. Amami più di tutti, vorrà dire questo? Rendere Pietro (e tutti noi!) consapevole che l’amore che Gesù ha per lui è così! Il “di più dell’amore”… vuol dire questo, dunque! E quando l’altro s’accorge e si strugge [… addolorato, che per la terza volta gli domandasse : mi ami tu …?], forse gli matura dentro la dinamica vera dell’Amore e scoppia la possibilità di un salto di qualità. Che non è prodotto della nostra umanità di carne, ma dallo lo Spirito che lui ci ha mandato… e geme dentro di noi…
«Se si potesse possedere, afferrare e conoscere l’altro, esso non sarebbe l’altro. Possedere, conoscere, afferrare sono sinonimi di potere. La relazione con altri è l’assenza dell’altro; non assenza pura e semplice, non l’assenza del puro nulla, ma assenza in un orizzonte di avvenire, un’assenza che è il tempo» ( Emmanuel Lévinas)-
Il tempo per maturare! Amare di più è accettare la sfida del tempo, dell’amore che non c’è ancora – dunque la sfida della precarietà, ma anche della fecondità creativa! È affidarsi davvero all’altro, alla sua libertà trepida e fragile, alle sue paure e al suo desiderio di ricomporre l’armonia della sua dedizione, di reimparare ad amare… E per resistere, nel nostro piccolo struggente dramma quotidiano, all’assenza dell’amore, alla solitudine che dà spazio all’altro di essere se stesso… occorre l’aiuto di Chi nella concezione dinamica cristiana di Dio è l’Amore… che si vogliono gli altri Due! Neanche nel nostro piccolo, infatti, ci può essere Pasqua (l’incontro con il crocifisso risorto!) senza Pentecoste: senza che il suo Spirito ci entri nel cuore e lo coinvolga nella dinamica del suo amore, lavandolo progressivamente da ogni ambiguità!

sabato 10 aprile 2010

Beati quelli che pur non avendo visto hanno creduto!

La liturgia di questo tempo dopo Pasqua ci introduce in un atmosfera di gesti e di parole, di sentimenti e di comportamenti del Signore “risorto” che ci fanno intravvedere un’umanità calda e misericordiosa, premurosa e provocatoria, tutta intenta a far maturare nella fede debole e troppo umana dei discepoli, impaurirti e complessati dai propri sensi di colpa, il salto di qualità verso una fede matura, animata dal suo “Spirito” – come Gesù aveva loro promesso, uno volta arrivato a questa sua compiutezza: Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi! Nella tenerezza misteriosa e dolcemente imperturbabile, del crocifisso risorto, promana ad ogni incontro con i discepoli, il “perdono” e la “pace” e ritrovano speranza le grandi promesse deluse della storia dell’umanità.
“Egli entrò nel cenacolo chiuso, come un vero spirito; la densità della sua carne risorta era diversa dalla densità della carne non risorta. I più puri e ingenui accettano l’apparizione del Risorto semplicemente come un dato di fatto; i più complicati lo obbligano a un’opera di rivelazione. Chi non si aspettava d’incontrarlo lungo la strada lo prende per un viandante qualunque. Tommaso, che invece l’attendeva suo malgrado, gli chiede la più elementare delle prove, quella di toccare le piaghe delle mani e del costato: ‘Non crederò se non metterò la mano nelle sue piaghe’. E Cristo appare nel Cenacolo con la sua carne risorta, Tommaso corre a toccarlo sicuro di sé, incontra la carne piagata, sfiora le ferite con le dita; crede a ciò che vede, a ciò che tocca. Aveva rifiutato la testimonianza, deluso la fiducia degli altri, adesso crede perché tocca, perché vede. Cristo prova una pena profonda per il discepolo incredulo, con dolore accetta un dato di fatto: Tommaso non crede allo spirito, crede alla materia; non alla verità sempre enunciata, ma alla testimonianza dei sensi; non ciò che è, ‘è’, ma ciò che sembra ‘è’!(Vannucci).

Non è tanto difficile, infatti, la prima fede – quella dell’adesione mentale ad una dottrina affascinante o al potere taumaturgico del messia di Nazareth. Il difficile è la seconda fede – quella consumata dalla delusione dell’impossibile, quando tutto è finito nel fallimento e nella morte. La fede, chiamata alla fiducia e allo sbilanciamento interiore nello spirito, a credere a chi che non si vede e non si tocca – la fede che continua ad affidarsi pur, nel tunnel dell’incredulità e del non senso …
L’esperienza di Tommaso è diventata così popolare e paradigmatica perché il buon senso istintivo della gente ci ha visto il “piccolo uomo” che tutti abbiamo dentro, quello che vede solo ciò che si vede, programma la sua vita su ciò che rende e … dopo, è già abbastanza stanco da non aver tempo da perdere per indagare oltre... Oltre! – dove solo i poeti e gli innamorati, i mistici e gli insoddisfatti del realismo di questo mondo (i poveri – guarda caso!), rimangono sempre ad aspettare cose che non ci sono ancora... Il “!piccolo uomo” è abituato a idee solide: ciò che gli occhi vedono e le mani toccano, perché solo questo è vero. Cristo lo ammonisce: “Tommaso, tu credi a ciò che hai veduto! Beato chi crederà a ciò che non ha visto!” (Gv 20, 29). Cioè: beato chi si applica ad una conoscenza fuori di ogni forma e misura corporea; beato chi vede con gli occhi dello spirito e non solo con quelli della materia!
Sta di fatto che in genere noi evitiamo volentieri ogni sforzo ‘spirituale’ (fondato o riferito all’immateriale!), perché credere a ciò che si vede e che corrisponde al nostro controllo è più facile che credere a ciò che s’intuisce soltanto e ci spinge oltre, in territori e situazioni non ancora sperimentati. Come si vede bene nell’istinto degli animali e dei bambini. Solo ripetere ciò che già si è visto e verificato sembra sicuro! Ma è solo ripetitivo, rassicurante, ma senza fermento di futuro. Entrare in un piano di aderenza fisica e psichica alle faccende e vicende quotidiane, controllate più o meno dalla ragione e dal buon senso, sembra più facile che inoltrarsi in un piano di aderenza spirituale alla “eccedenza” del vangelo e delle sue proposte sconvolgenti di approccio al diverso, all’imponderabile, al misterioso, a tutto ciò, insomma, che contiene una minaccia di rischio di sofferenza o di morte. L’esperienza di gran parte degli uomini (e di gran parte della nostra vita) si accontenta della “razionalità della carne” – non è molto provocata o coinvolta dalle sollecitazioni dello ‘spirito’, che pure ci appaiono in qualche momento come barlumi intermittenti e flebili (non cogenti) che illuminano per un secondo quali sarebbero le strade e le occasioni ove è promessa una maggior pienezza e coerenza della fede! La vita, giorno dopo giorno, ce ne presenta un’infinità, di queste occasioni o provocazioni, ad una risposta gratuita, ad un sorriso o ad un consenso previo, donato prima di ogni misura. Ma soltanto una litania di continui “affidamenti” e successive consegne interiori rendono possibile questa attitudine d’animo “spirituale”.
Ecco il campo interiore dove si coltiva … lo spirito – cioè l’amore trasparente, gratuito, capace di andare al di là degli psicosomatismi egocentrici, dai quali nel comportamento quotidiano tutto è vagliato e integrato secondo le proprie misure di carne paurosa. Lo spirito é amore! cioè relazione – e per dargli spazio occorre imparare a balbettare questo suo linguaggio sconnesso dai nostri automatismi, quindi ostico, all’inizio, per lo sforzo di uno sbilanciamento oltre abitudini e paure. Perché richiede di elaborare una consolidata attitudine interiore di apertura, di benevolenza, di spendimento generoso. Proprio questo è “agire nello spirito” – cioè entrare nell’orbita di oblatività verso l’altro. Invece che centrarsi sempre su di sé, aprirsi – per amore – cioè per far crescere l’altro! E allora è ovvio che occorre un volto di riferimento, una persona … un amico, che abbia già fatto la strada, che sia la strada stessa – su cui convergere i sentimenti, le attese, le fatiche, le speranze, i fallimenti… cioè tutto il nuovo (ancora maldestro) sistema copernicano “evangelico” o “agapico” (diremmo, nel nostro sistema culturale). E così, finalmente, mettere gradualmente e faticosamente al centro della galassia della propria vita l’amore all’altro – l’amore oblativo, non egocentrico.
Per anni Gesù aveva istruito i suoi discepoli cercando di preparare cuore e mente ai misteri del Regno – che sono i misteri dell’amore misericordioso rivelati ai piccoli e semplici, e nascosti ai grandi e ai sapienti. Adesso, ancora, impauriti nel cenacolo, incantati da una visione incredibile, i discepoli gioivano di aver ancora vicino il corpo che amavano, senza voler vedere o intendere altro. Sono trasecolati da questo corpo che avevano visto senza vita e deposto nel sepolcro – adesso tornato glorioso alla vita. Non son capaci di accogliere il vero messaggio della risurrezione che ora stava davanti a loro. Il lungo insegnamento degli anni terreni naufraga davanti al fatto concreto che li acceca, poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore…! (Lc 24,41). Ecco la tentazione che li chiude in una esperienza storica, necessaria, ma, come tale, transitoria! “Beato chi crede senza aver veduto”, perché sennò la sua fede è grande come ciò che tocca, e dura fin quando e quanto è possibile vedere coi propri occhi e toccare con le proprie mani e sentire con i propri sentimenti… È ancora una fede troppo “carnale!”
Credere senza vedere è possibile non tanto attraverso un intimo convincimento della mente (che ne sarà piuttosto la conseguenza), ma attraverso un affidamento strappato alle proprie viscere, che accoglie l’insegnamento che Tommaso rifiuta. La testimonianza dello Spirito non avviene sul piano della materia concreta, ma nell’attuarsi cosciente di uno stato spirituale che cambia gradualmente ma radicalmente la propria situazione interiore … :“.. ricevete lo Spirito Santo!”. Nello Spirito Santo Cristo vuole continuare la sua discesa negli inferi della coscienza umana, per convertire fino all’ultima fibra la pusillanime paurosa carne umana nella sua capacità di amare, perdonare ed effondere la pace. Si comunica così ai suoi discepoli presenti e futuri, come amore – perché l’amore gratuito è fatto così! – è gratuito è necessario dal di dentro, insieme. Nasce dalla spontaneità della voglia di bene e non è la “necessaria” conseguenza delle appartenenze carnali o psichiche. É una scelta e una grazia, un intimo dovere impellente di non poter fare diverso e insieme un dono inesigibile. E quando ti ha preso dentro … è la morte, non poterlo essere! È, infatti, la memoria rinnovata nella nostra storia dell’avventura liberatrice di Gesù, crocifisso risorto.

sabato 3 aprile 2010

…ma Dio lo ha risuscitato …e ci ha ordinato di annunciarlo al popolo!

ormai, dunque, poiché è risorto, da lui dipende tutto ciò che ogni uomo (tutta l’umanità) va cercando con sempre più angoscia e consapevolezza della propria precarietà: questa è la testimonianza dei suoi amici e discepoli! Da lui dipende la vita e la morte (egli è il giudice dei vivi e dei morti) – e il recupero della fiducia in sé e nel futuro, perchè dal riferimento costante e vitale alla sua avventura umana, scaturisce la pacificazione con il male proprio e del mondo (chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome). Questo è il mistero della risurrezione, al centro della fede che abbiamo ricevuto. Non una fiaba commovente per sfuggire dalla durezza e insignificanza di una vita impotente di fronte all’incombere della morte, ma la chiamata a credere e vivere il mistero di Cristo e della sua vittoria sulla morte, come qualcosa che ci concerne, perché dalla morte e risurrezione di Cristo vengono a noi quelle energie che intessono il nostro destino di coscienze risvegliate e inquiete, che vogliono raggiungere la pienezza della vita. Anche a noi, come gli apostoli, ci prende il dubbio o la paura che si tratti di accorati vaneggiamenti come capitò alle donne, sconvolte di fronte alla tomba vuota – un amore irrepetibile, perso per sempre! Il mistero della risurrezione ci è trasmesso circondato da debolezza e fragilità … e la risurrezione si fa ‘certa’ e percepibile solo attraverso testimonianze di apparizioni riservate a coloro che Dio ha chiamato (a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti ). Mentre la crocifissione e la morte erano fatti evidenti a tutti e irrefutabili, qui si entra in un nuova qualità di rapporti, in cui la relazione tra il fatto e la coscienza non ha più niente di così evidente o di cogente. Chi ha visto il Risorto? Non tutti quelli che passavano, come sotto la croce, ma solo testimoni prescelti. Dunque la risurrezione si presenta sotto la forma di una chiamata di alcuni a vedere che Dio ha vinto le potenze di morte coalizzate per uccidere il giusto liberandolo dalla tomba. Non si entra in questa sfera (propria della fede) né si convincono gli altri con argomentazioni costringenti. Si possono dimostrare storicamente molti tratti della vita e dell’insegnamento di Gesù di Nazareth, ma la risurrezione non ha dimostrazioni di tale evidenza che uno sia costretto razionalmente a crederci.
Perché Dio è così riservato e reticente sul fatto centrale della rivelazione cristiana? Non è un miracolo tra i tanti, ma il fondamento della fede, come già asseriva Paolo: se Cristo non è risorto vana è la nostra fede! Ma proprio quello che è essenziale nell’atto di fede non può essere frutto di evidenza cogente. Non si tratta infatti di un rapporto di conoscenza intellettuale, ma di coinvolgimento vitale. La costrizione dell’evidenza annullerebbe le dinamiche dell’amore, che può nascere soltanto dall’incontro sempre più compromettente di due libertà che si affidano reciprocamente la vita … Credere, infatti, non vuol dire aderire semplicemente a fatti avvenuti o a verità proclamate nel ‘credo’. Ci induce ad un coinvolgimento della persona credente attraverso un cammino di comprensione, di adesione e di affidamento che coinvolge il senso e l’orientamento della vita intera. Per introdursi in questo cammino o prendere vera consapevolezza di questa “conoscenza” di Gesù di Nazareth, occorre aver fatto una scelta preliminare: si tratta di cambiare la visione di sé e del mondo e l’impostazione delle proprie attese dall’esistenza. Bisogna anzitutto aver incontrato o riscoperto il Signore come centro di riferimento della propria vita. E ancor prima, aver messo a nudo (l’ha fatto o lo farà presto la vita, se non ci intontiamo!) le caverne che si sono scavate dentro di noi e dentro la gente con cui viviamo, dove vibrano e patiscono e domandano inutilmente ascolto le sofferenze e le impotenze del mondo, a cominciare dai più deboli e più piccoli. Allora la risurrezione appare non come eventuale riserva estrema di salvezza “per me”, se tutto va male di qua, ma come il dato fondamentale di senso o non senso della fede: colui che è stato crocifisso, per la sua radicale fedeltà all’amore di Dio e dell’uomo, è risorto ed è vivo in mezzo a noi! Questo nucleo di fuoco della fede accomuna tutte le prime chiese in una sola comunione. Anche Paolo che ha approfondito questo mistero come nessun altro, è cosciente che trasmette ciò che a sua volta ha ricevuto dai testimoni primi: sia io che loro così predichiamo (1Cor 15,11)!
Credere nella risurrezione del crocifisso, nel concreto dei giorni, vuol dire anzitutto aver capito che il messaggio delle beatitudini è vero – e si è realizzato in Gesù di Nazareth, che l’ha trasmesso a noi! Comporta di vivere nella storia sotto lo sguardo di misericordia del Padre, pienamente consegnati a lui e al suo Regno – come orizzonte di senso e attitudine di vita! Ma questo richiede anche di fidarsi dei “testimoni” che l’hanno conosciuto e sono stati con lui, sui quali questa fede è fondata e trasmessa fino a noi, per metterci in contatto con la Parola di Dio che si è manifestata negli eventi di salvezza e nelle Scritture che li raccontano. Infine (è il terzo passo) la fede si vive e comunica ecclesialmente – cioè comunitariamente – di fronte e in mezzo alla gente, nonostante le innumerevoli difficoltà esterne ed interne – perché la comunicazione reciproca e la comunione dei credenti in Cristo è essenziale alla dinamica di maturazione e trasmissione della fede stessa (è trinitaria – cioè ‘divinamente’ relazionale!).
La novità della risurrezione si sintetizza dunque nel fatto che Gesù è elevato dall’umiltà della sua esistenza mortale, per il suo totale affidamento al Padre, strappato alla morte che non poteva tenerlo incatenato, viene costituito figlio di Dio “con potenza”. Può dire quindi agli apostoli che l’avevano visto sconfitto e perciò l’avevano abbandonato: A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Mt 28,18s). Da qui è cominciato l’annuncio del Vangelo per tutti i popoli lungo i secoli … fino a noi. La resurrezione non è annunciata come fosse uno straordinario fenomeno che riguarda solo Gesù / individuo, ucciso e resuscitato nel suo corpo e ora assiso alla destra di Dio, dove ci aspetta. Credere che è risorto vuol dire invece che Egli è divenuto principio di nuova creazione (il nuovo Adamo), inscindibile da noi, che organicamente facciamo una cosa sola con lui – noi, a livello non ancora manifesto, ma inedito, nascosto – eppure determinante per la nostra vita e il futuro del mondo! “Cristo abiti nei vostri cuori mediante la fede (le forze spirituali introdotte da Cristo nelle coscienze) perché possiate esser radicati nell’amore (nella partecipazione alla vita, alla luce, al fuoco che Cristo ha donato all’uomo) (Ef 3,17). “L’idea fondamentale dell’esperienza del cristianesimo “vissuto” è quella del Cristo interiore: quando si tratta di Cristo è di me stesso che si tratta, di Cristo che abita nei nostri cuori come forza trasfìguratrice. Questa certezza, raggiunta per una mutazione di coscienza, rende comprensibili alcune espressioni del primo cristianesimo: «Non sono io che vivo, ma Cristo che vive in me» (Gal 2,20) … Cristo, la Parola incarnata, è la Persona in sé, l’Uomo interiore, il nostro vero Io. Nella prospettiva di questa possibile esperienza di fede, cerchiamo di penetrare, per quanto le insufficienti parole umane lo permettano, nel mistero della morte e della risurrezione di Cristo”. (Vannucci).
Morire è necessario per risorgere, ma questo non vuol dire che la carne deve sparire – perché non è spirito. Niente è più potente in noi, lasciati a noi stessi, della carne, nulla più vincolante della carne. Pensiamo di fare la nostra volontà, invece noi siamo incatenati ai comandi dello stomaco, del sangue, del sesso, dei nervi, delle voglie ormonali e degli equilibri o squilibri psichici – soggiogati e tormentati, infine, della angoscia dell’io di non essere amato. Fintanto che eseguiamo gli ordini dell’organismo, esistiamo come un dato di natura, con poche briciole di libertà … poca capacità di resistere e governare queste necessità” rivestite di razionalità. “E allora non siamo né tenebra né luce, né bene né male, né verità né menzogna. Quando invece orientiamo le energie della nostra tremenda natura verso la consapevolezza che lo Spirito di Gesù è presente, diffuso nei nostri cuori – e perciò possiamo vivere insieme con lui, a noi per sempre contemporaneo, l’avventura di morire insieme, essere insieme con lui sepolti e insieme risuscitare nei nostri corpi mortali, allora la carne, il sangue, i nervi, le velleità non dominano più e veniamo a conoscere quello che nella realtà siamo: terra perché nati dalla terra, spirito perché nati dallo spirito, e perché tali chiamati a trasfigurare la terra in una pienezza di luce e di vita” (id).
Nel profondo dell’essere nostro, laddove il cuore osa far sentire il suo palpito, dove siamo soli, più soli di ogni solitudine, sentir ascendere la vita nel profondo abisso della morte, e vivere totalmente in questa realtà, comprendendo che essa sola ha un significato.
Penetra nelle nostre idee di razza, di popolo, di patria, di religione, e brucia i loro elementi caduchi ed egoisti, per far brillare la visione dell’Uomo vero, dell’uomo eterno non più vincolato a mète terrene, ma in cammino verso la vita senza fine, ove l’uomo finalmente si sentirà figlio di Dio. Avvicina le nostre tradizioni venerabili e plurisecolari, e vi risveglia un’inquietudine di vita e di verità che farà dileguare tutto ciò che in esse è sorpassato e morto.
Le opere della carne nella carne si esteriorizzano, le opere dello spirito nello spirito si sublimano. Se nella carne, nel perenne gioco della vita che fluisce, c’è una perennità di mutazioni, questa non può esistere nello spirito. Ogni avanzamento nello spirito è una conquista da cui non possiamo tornare indietro; i ponti e le navi sono bruciati. Sempre oltre, la gloria della risurrezione è continua, la sua animazione è costante.
è possibile la morte che precede la risurrezione, allora moriamo e risorgiamo. Molti sono i modi di morire, uno solo in verità costituisce il preambolo alla risurrezione: la morte del rinnegamento di se stessi, cioè del proprio io egoistico! Questa morte ci inserisce nella corrente della risurrezione, nella rivelazione consustanziale che ci rende una sola realtà, mediante l’ardore dello Spirito, con il Figlio e con il Padre. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria

Il tessuto dell’esistenza è composto dalla perenne lotta tra la morte e la vita; la vita che invade i campi devastati e li rende nuovamente fecondi, la morte che si adagia sui nuovi virgulti e lentamente li estingue. Questo su tutti i piani dell’esistenza: la pianta vive e muore, nel seme riprende il suo ciclo vitale; l’animale vive e muore, nella generazione la sua vita continua; la mente vive nei pensieri, i pensieri vengono spenti dalla ripetizione, riprendono vigore in nuove formulazioni; il cuore vive nei sentimenti, a loro volta questi vengono usurati dall’abitudine, e riprendono vita quando appaiono nuove visioni, nuovi ideali. Le creazioni dell’uomo, dopo un tempo di intensità, si affievoliscono, e ciò che prima era stata l’attuazione di grandi speranze, si trasforma in rattristanti istituzioni, finché non vengano rianimate da nuovi e più intensi ideali – destinasti pure loro a cedere all’onnipotenza della corrosione e della morte. Qui si inserisce il mistero della risurrezione di Cristo (dell’uomo nuovo – cioè di cristo e di noi! Risuscitato – ricreato dalla potenza di Dio) come dice Paolo:. Se prima non si muore non si può risorgere, non vi è risurrezione senza morte, come non esiste riscatto senza schiavitù, luce senza tenebre, bene senza male. Per vivere la Risurrezione è necessario morire, chi non muore non risorgerà. Possiamo celebrare la Risurrezione in due maniere: o
L’evento della morte-risurrezione di Gesù Cristo si rivelerà l’inizio di un immenso movimento ascensionale di un imperativo creatore che ci impone la necessità di accettare la nostra vita e la nostra morte positivamente, l’ascesi di tutto l’essere nostro personale per integrare e sublimare ogni energia, per intensificare la vita della coscienza, che farà passare l’uomo e il suo universo nella pienezza della luce della risurrezione.

Trovarono la pietra rotolata via
la prima scoperta del giorno di Pasqua è la tomba vuota. Cosa vorrà dire? se la porta della tomba si è spalancata, il morto dov’è finito? Infatti le donne, scrive Luca, “si trovano senza via d’uscita…” : letteralmente “erano in aporia” (senza soluzione, senza senso: come una vita… la cui via è nascosta e che Dio da ogni parte ha sbarrato? Gb 3,23). È importante capire cosa Luca vuole mettere in rilievo, perché questa è la condizione di ogni uomo di fronte al problema della morte: “non c’è via d’uscita”. Per ogni uomo, è come un anticipo personale dell’angoscia sul senso finale del mondo e della storia in cui viviamo: “…vi saranno sulla terra angoscia – aporìa! – di popoli senza scampo… e gli uomini tramortiranno per la paura di quanto incombe sull’universo! Lc 21,25. Lo sgomento della tomba vuota non è certo una prova della risurrezione, non è la fede pasquale… ma è una condizione previa, per domandarci : cosa è successo? Le donne sono poste di fronte al problema della sorte … del loro straordinario amico. Straordinario, anche, che siano proprio le donne (la cui testimonianza non aveva nessun valore nella cultura e nel diritto giudaico) ad essere testimoni di questa situazione assolutamente nuova.
Sta nascendo la fede cristiana, … la fede nella resurrezione di Gesù, il crocifisso! E nasce in modo debole, fragile, affidata al cuore abbagliato dalla possibilità impensata che l’amato sia ancora vivo … e sente nascere dentro di sé uno sbilanciamento, trepidante e incerto ancora, ma ormai avviato a lasciarsi prendere tutta la vita. La passione e la morte erano visibili ed evidenti. Ma la resurrezione è fondata su fatti ed esperienze non a disposizione di tutti, non cogenti, non costrittive. Anzi, riservata ad un ristretto gruppo misteriosamente privilegiato. La resurrezione si manifesta, infatti, in base ad una scelta di Dio, non dell’uomo. Non è l’esito di un ragionamento o di un’autoconvizione. È Dio che chiama i testimoni “prescelti”… e, secondo un metodo suo proprio, evidente nei vangeli, sceglie come testimoni proprio quelli che nella cultura del tempo non possono esserlo, cominciando, appunto, dalle donne. Perché si tratta di una testimonianza assolutamente nuova – di una sfera di relazioni nuove…
Ecco subito… “due uomini”: per suffragare e rendere plausibile la loro testimonianza, come le Scritture e la tradizione volevano! Due “annunciatori” sfolgoranti, come Gesù nella trasfigurazione, che ribattono alla domanda di senso sulla tomba vuota: perché cercate il Vivente con i morti? É la provocazione più caustica, perché denuda la rassegnazione delle donne alla morte definitiva e irrimediabile di Gesù, che dovrebbe essere “insieme” a tutti i morti. Ogni illusione umana finisce così… in questo: “non è qui!” Neanche nella tomba! (Anche Maria di Magdala cadrà in questo equivoco disperato: dimmi dov’è, e andrò a prenderlo!). Per quanto ci riguarda, presto o tardi anche le tombe si svuotano nella consunzione di ciò che gli uomini, con dolore e paura, vi hanno posto! E la terra divora ogni vita. (“se non vedo il mio Dio, o natura splendente, sei una tomba immensa, per me non sei niente!... scriveva in una poesia S. Teresa di Lisieux).
… è risorto
!
Questo è l’incredibile annuncio pasquale, il nucleo portante della nostra fede! Tanto incredibile e misterioso per noi, come per loro, pur in qualche modo, testimoni oculari. In questo momento, infatti, le donne non vedono Gesù risorto. In nessun modo era comprensibile quando aveva pure più volte predetto, che un morto risuscitasse. Adesso, di fronte alla tomba vuota intuiscono cosa volesse dire Gesù, proprio perché gli “annunciatori” li richiamano ai passi essenziali della fede: “ricordate come vi parlò … quando era ancora in Galilea… che il Figlio dell’uomo doveva essere consegnato… crocifisso… e risorgere!” – E si ricordarono delle sue parole. Dunque le donne erano con Gesù, erano testimoni della sua predicazione, soprattutto della sua preannunciata passione e morte, ma non avevano capito nulla di quanto riguardava la risurrezione. E corrono subito a trasmettere questo annuncio ai loro compagni, come vere apostole… Ma sono accolte come visionarie.
… e non credevano loroPietro e gli altri apostoli non si fidano delle donne, ma dovranno anche loro fare lo stesso cammino che le donne hanno fatto per prime. La barriera che oscura la fede (l’aporia) è inevitabile e ci sbarra il cammino che tutti (anche noi!) dobbiamo rifare ad ogni tornante della vita, dall’incredulità all’affidamento di sé. Lo si fa tornando a Gesù! Occorre fare memoria (ricordate!?...) della sua vicenda, considerare la sua storia a partire dalla sua fine (passione, morte e risurrezione), assumere la chiave di lettura che lui stesso ha usato, per capire e donare la propria vita, come chiave di lettura anche della nostra vita, per imparare a fare come lui. Cioè “cogliere” il significato profondo (il logos di Giovanni) della nostra vita e della storia del mondo. La risurrezione è l’esito finale di un percorso che ha segnato a morte la vita di Gesù, come dono di sé. Non si può separare la risurrezione dalla vita di Gesù e dal suo vangelo. Ecco perché la fede non può essere l’esito di una dimostrazione argomentativa o razionale, ma è una questione che coinvolge le radici e la destinazione dell’esistenza, dove l’uomo cerca, ama e si dona… nel complesso e trepidante gioco di componenti interiori che fanno “la libertà” – la fragile libertà umana, chiamata ad incontrarsi con un’altra libertà… quella di chi ci ha “pre/scelti”, in Gesù – per la salvezza nostra e di tutti. E in questo approccio, Dio è rispettoso, timido, paziente e infinitamente misericordioso.
Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret…Gesù per primo ha giocato questa libertà umana in dialogo fiducioso (e talora difficile: con forti grida e lacrime!) con suo Padre. Non si è sottomesso alla paura e alle minacce di morte… ma subendole, senza tradire la verità e l’amore, le ha vinte. Perciò “Dio lo ha costituito giudice dei vivi e dei morti”… come annuncia Pietro. I Giudei… lo uccisero, appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno … La resurrezione di Gesù non è la rivitalizzazione di un cadavere, ma un giudizio sul mondo e sulla morte. Toglie alla morte il pungiglione che avvelena l’umanità. Il condannato crocifisso con i malfattori è risorto giudice. È questa la risposta, la sfida di Dio alla imperante logica umana di morte, paura, oppressione e perdizione – del debole prima, ma poi di tutti gli uomini. È il capovolgimento addirittura della creazione – dove tutto è destinato alla consunzione! La nostra drammatica vicenda umana ci spinge in un tunnel senza uscita: un’aporia! La risurrezione è davvero incredibile! Ecco perché, secondo i Vangeli, alla morte di Cristo tutta la creazione ha sussultato: il sole, il buio, le rocce, il terremoto, i morti nelle tombe, il velo del tempio, la gente, il centurione e il ladrone … capiscono che sta succedendo qualcosa di oltreumano. Da allora, fin adesso… “…la creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio;… e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rom 8,19ss).
“voi siete morti, infatti, e la vostra vita è nascosta con Cristo, in Dio”!… il motivo per cui possiamo morire in Cristo è che noi, agli occhi di Dio, siamo già con/resuscitati in lui. “mortificate dunque immoralità, passioni, desideri cattivi… e rivestitevi di tenerezza bontà, umiltà, mansuetudine…”. Questo nostro cammino di morte alla logica mondana e di vita nuova fa parte del FATTO cristiano – cioè della resurrezione di Gesù. E la Parola ne è l’annuncio – e l’Eucaristia la dose di veleno quotidiano! Questo paradosso è il seme esplosivo della nostra risurrezione! cfr, in un contesto più ampio, Rom 8,10ss :“Se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto, a causa del peccato, ma lo spirito è vita, a causa della giustificazione. E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti, darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi”.

venerdì 15 gennaio 2010

L’anticipo della grazia

È iniziato ormai il tempo ordinario del ciclo liturgico, ma come domenica scorsa per il Battesimo (dom. 1), anche oggi per le nozze di Cana (dom 2), l’antica tradizione ritiene che la manifestazione (o Epifania) di Gesù come Salvatore, non sia ancora completa, senza riascoltare questo “inizio dei segni compiuti da Gesù”. Perché qui nasce la fede dei discepoli. Nel battesimo è il Padre che abilita Gesù come Messia e si compiace di Lui,vedendo già il sacrificio della vita, adombrato nella sua immersione nel peccato del mondo. Nella nozze di Cana è la Madre che, mentre partecipa al matrimonio di due amici che l’avevano invitata, rende consapevole Gesù (lo con/vince) che prima c’è la vita, pur fragilissima e incapace di salvezza propria: è un bene penultimo, ma non può aspettare! Dunque, soltanto dopo e dentro di essa – la vita! – mentre la si vive, c’è l’ora dello svuotamento di tutto per il dono di sé al Padre (il bene ultimo!). Con l’evento del Battesimo si è aperta una breccia nello stesso mistero interelazionale trinitario (come appare dalla voce compiaciuta del Padre e dalla presenza in apparenza corporea dello Spirito – dicevamo domenica scorsa.). Con il matrimonio di Cana, si riapre il dono dell’immagine di Dio nell’uomo duale, offuscata dalla polvere della storia e dalla durezza di cuore dell’uomo. Maria indica a Gesù la necessità di ridonare alla vita umana, nella sua fonte sorgiva – l’unione tra uomo e donna! – il vino del senso e della speranza per il nostro cantiere antropologico. Il quale, pur nella fragilità e consunzione interna d’orizzonti, rimane ricco di un senso suo inalienabile, che il peccato e il suo rimedio finale, che è la croce per amore, non possono né devono cancellare o oscurare! L’amore che lì dobbiamo imparare è indistruttibile!

Non è tanto importante il prodigio
, dunque, quanto il significato suo profondo, fondamentale per interpretare ogni altro segno di Gesù. Per questo rimane fonte della fede di ogni suo discepolo (da quel momento i discepoli credettero in lui!). Nella drammatica inadeguatezza della vita umana a risolvere i propri problemi, non è il deprezzamento dispettoso o la fuga spiritualistica, o il barricarsi in qualche nicchia protetta … la soluzione. Maria, con attenzione materna intelligente e premurosa, semplicemente denuncia una situazione che vede l’uomo in difficoltà: “non hanno più vino!” Una preghiera incessante, come la storia dell’uomo: non hanno più pane – non hanno più pace – non hanno più… vita – né speranza (penso oggi agli innumerevoli morti ad Haiti, in pochi secondi di terremoto – e, ancor peggio, all’abisso di dolore e smarrimento negli occhi e nel cuore dei sopravvissuti! Non hanno più speranza!). La vita sembrava aver promesso la sua festa, ad ogni pranzo nuziale, come ad ogni nascita di un bimbo nuovo al mondo, con tanti invitati, tanta gioiosa partecipazione e tanti desideri! Ma le nostre feste sono brevi e non finiscono bene – viene a mancare il vino, perché si consuma sempre prima che finisca la sete della gente. Il disagio non sfugge alla donna (madre), attenta e interessata al bene di chi ha attorno, e quindi ricorre con piena fiducia a Gesù. E qui si manifesta la qualità sorprendente dello schieramento interiore dei due protagonisti di questo intervento che segna per sempre la dinamica sorgiva della fede cristiana. Perché apre una breccia sul cuore della messianicità di Gesù, come a ricalibrarne la comprensione della sua missione storica e quindi della nostra fede in lui. Come se Maria e Gesù si assumessero la difesa e la testimonianza simbolica delle due polarità che innescano la scintilla della nostra fede. Dalla parte di Maria, a nostra difesa, la fedeltà al mondo di qua e alle sue istanze esistenziali – come il vino alla festa! – che intessono il nostro precario quotidiano (tutto il mistero del Natale secondo Luca è centrato sul segno: la Madre col bambino – Dio inserito nel futuro più fragile fragile di questa umanità – nelle necessità concrete della casa, del latte, dell’acqua, del lavoro, dell’accudimento quotidiano, con tutte le sue piccole cose necessarie!). E, dall’altra parte, la missione profetica di Gesù, protesa nell’appassionata incombenza dell’ora “unica”, in cui il figlio dell’uomo, assumendo questa dolorosa precarietà ontologica e morale dell’uomo, la salva dall’interno con il dono totale di sé.
Alla richiesta della mamma, Gesù si schermisce: che vuoi da me, donna? non è ancora giunta la mia ora! Nella fede “cristiana” non si può anticipare l’ora della manifestazione finale. È l’ora riservata al Padre! L’epifania scandalosa e dirompente del crocifisso glorioso, che sarà il vero miracolo, il vero segno globale della salvezza del mondo, venuta all’umanità per mezzo del dono della sua vita,(ecco l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo!). Ogni altro segno prodigioso rischia di oscurare questo segno definitivo e distrarre pericolosamente l’attenzione dei discepoli e del popolo.
Maria sa tutto questo! Intuisce nel mistero del figlio che il vero scopo “ultimo” – sovrastante e soggiacente ad ogni respiro della vita di Gesù – è questa consegna drammatica di sé al Padre, ma sa anche che la gente deve vivere, che le nostre precarie e banali cose penultime sono la sostanza della nostra vita, dove lo spazio e il tempo non sono soltanto i nastri trasportatori del nostro cammino nella storia, ma costituiscono le dimensioni vitali che ci permettono di costruire noi stessi, istante per istante, nelle “cose” banali e quotidiane che fanno lo spessore dell’esistenza ai vari livelli, fisico, organico, psichico, spirituale. Non possiamo vivere altrimenti … anche se sappiamo che questo rischia di stordirci e frastornarci dall’essenziale, che è ormai tra noi, carne della nostra carne, segno vivo del Regno di Dio, che ci chiama a conversione. Gesù lo ricorda con sgomento, come rischio interno alla sua missione: Come avvenne nei giorni di Noè, così sarà nei giorni del Figlio dell’uomo: mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e venne il diluvio … Così accadrà nel giorno in cui il Figlio dell’uomo si manifesterà … Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva… (Lc 17,26)
La presenza di Gesù Cristo e del suo vangelo non sono solo un seme piccolo che germoglia nel nostro campo e diventa un albero… ma anche una spada a doppio taglio che si insinua tra le ossa e il midollo della nostra esistenza e ne mette a nudo la precarietà: “I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio” (20,34). Sarà in nome di queste auto identificazione messianica che Gesù non aveva pensavo di intervenire?... la sua presenza e il suo annuncio sono di una qualità eversiva rispetto alle vicende umane e alla loro qualità intramondana, precaria, chiusa nelle strettoie del tempo e dello spazio che si consumano…
Eppure – dice Maria! – non c’è altro mondo dove fuggire. È questa la nostra vita! E proprio nel matrimonio sta la promessa e la sfida più forte al futuro dell’umanità… sintetizzata nell’incontro uomo/donna. Perché nel rapporto duale non risiede solo la spinta vitale per la riproduzione biologica dell’umanità, ma la risorsa primaria di elaborazione della compiutezza umana – strutturalmente dialogica.

Ecco che “l’ora” del Figlio dell’uomo è come anticipata, per intercessione di Maria
, non nel suo calendario cronologico, ma nei suoi frutti salvifici per la condizione umana, come tante volte avverrà poi nei vangeli. Il vino finale della grazia è come anticipato, in assaggio, a sostenere la nostra fede nella storia.. Sorprendente che già nei testi canonici così antichi, sia tanto profonda ed esplicita la consapevolezza dell’interposizione di Maria tra noi e il figlio. Alle radici della fede cristiana, Maria si è posta in mezzo, perché a questa è stata abilitata all’Annunciazione : a dare il suo spazio e tempo umano, elaborarne la carne ed educarne la coscienza di figlio d’uomo, nel figlio di Dio – nei figli di Dio. La premura e l’accudimento della realtà terrena è nata nelle sue viscere materne e le ha contagiato inguaribilmente il cuore. È divenuta la sua seconda natura in una maternità che avvolge ogni essere umano. Questa tenerezza solerte, accolta ed esaudita dal figlio, nostro salvatore, è diventata maternità teologale. Cioè componente essenziale della nostra fede. Questa tenerezza attenta e intelligente non riguarda direttamente il fine ultimo… riguarda le piccole gioie e speranze, i contrattempi e i dolori, i lutti e i natali, che accompagnano il destino dell’uomo. C’è come un recupero a livello specificamente teologale ed ecclesiale della mondanità – dell’umile insostituibile mediazione delle “nostre” cose penultime, che le rende capaci, nella loro materialità storica, di essere sacramento alla “cosa ultima” – che è imparare e crescere nell’amore che non avrà fine. È lei che suggerisce anche il criterio luminoso per gestire questa nostra storia difficile: “ciò che vi dice di fare, fatelo!”

domenica 27 dicembre 2009

“Io devo occuparmi delle cose del Padre mio!”

Il Vangelo mette in «fibrillazione» il nostro DNA
Non è ancora passato il Natale, la novità misteriosa di un Dio fatto uomo, e già la liturgia ci fa fare un sussulto, con questo figlio – un ragazzo, ormai – che sa cosa vuole e lo difende come “volontà del Padre”, contrastando la sua famiglia – padre e madre sgomenti! La famiglia è la nostra matrice, che ci collega alle radici dell’umanità (… pelle, sangue, ormoni, DNA, strutture psichiche … trasmessi con infinite vicissitudini nei millenni) che fluisce da chissà quanto tempo sulla terra. In un cammino – unica specie vivente, pare! – che l’ha portata alla coscienza, alla consapevolezza di sé, con un indistruttibile briciolo di libertà, nei dinamismi biologici e psichici della necessità vitale in cui siamo intessuti. Il paradigma culturale famigliare che nei vari secoli e nelle varie popolazioni si è imposto, nelle più diverse forme, come incontro della coppia umana e nido dei piccoli, è in disfacimento pressoché da per tutto, tanto più in questi ultimi tempi, sotto la pressione della globalizzazione, che può divenire talora appiattimento dei valori che hanno custodito l’uomo per generazioni.
Gesù ha colto con sorprendente lucidità il dramma della continuità e della rottura, della libertà e della sottomissione, del confronto e della sofferenza che il crescere della persona comporta, senza rinunciare mai alla propria identità in mezzo agli altri, ma anche senza deprezzare mai la diversa impostazione culturale altrui! In questo ragazzo di dodici anni siamo tutti noi uomini e donne, dei millenni passati come dei prossimi, che tentiamo faticosamente di uscire dal guscio degli archetipi culturali, i quali, dopo averlo avviato, impediscono o frenano il nostro destino personale e irripetibile, differente da ogni altro. Una destinazione interiore che a tutti urge dentro – perché non viene solo da noi, ma attraverso noi, da urgenza misteriosa di livelli di coscienza superiori (diciamo così – per intendere gli ampi spazi o i progetti creativi o le diverse espressioni che il Padre di tutti i destini ha spalancati per noi, più dilatati, più vasti, più intensi e più personalizzanti … che ci fecondano e ci nutrono, se gli diamo ascolto). Questo ragazzo, secondo Luca, ne è il profeta … e gli altri, uomini o forse ancor più, donne silenziose e fervide, prima di lui soltanto lo annunciavano, nei templi o nei deserti o nel segreto delle tende e delle case … Il criterio che lo guida, fin dalle sue prime parole, è sempre il “Padre”. Appositamente usa questo termine, perché è lo stesso che nella famiglia tribale accumulava ogni potere di vita e di morte, di autorità suprema. Di modo che soltanto la chiamata in causa del legame personale supremo di ogni uomo al Creatore, vero unico “Padre” di ogni cosa, può attenuare e poi superare l’oppressione che lo schema culturale imponeva al singolo. Diveniamo uomini e donne maturi in proporzione a che prendiamo coscienza di quello che dobbiamo compiere come individui personali, attraverso la consapevolezza della nostra propria identità, che ci commisura e ci distanzia da ogni altro, attraverso il nostro pensiero, il nostro lavoro, soprattutto attraverso la trasformazione della nostra coscienza, attraverso i nostri tentativi di gesti nuovi, che la confermano e la orientano.
È assolutamente determinante, come annuncio evangelico, questo gesto iniziale della vita di Gesù, che prende coscienza di sé, della propria libertà e responsabilità, non sostituibile né suffragabile da nessuna autorità esteriore, per quanto sacra e veneranda. Se non ritroviamo nella vita questa libertà di Gesù di fronte alle varie istanze autoritative, che pure riconosciamo utili e necessarie, avverrà che queste ci pongono in uno stato di difficoltà inibente, di sofferenza paralizzante, ci spengono la libertà, ci soffocano nelle ristrettezze mentali di quelli che possono anche non comprendere le nostre aspirazioni, perché rimasti chiusi su altre posizioni.

Io devo occuparmi delle cose del Padre mio! Queste parole di Cristo, e tutte quelle che nella sua vita si rifaranno alla stessa sorgente interiore di vita e di comprensione, sono alla base di tutto il cammino di liberazione che la coscienza umana ha portato avanti nel corso dei secoli – che lo sappia o meno! – con ribellioni, sofferenze dolorose, resistenze indomite, soprattutto di ignari martiri, testimoni e ricercatori di aneliti più veri, di orizzonti più adeguati, di spazi interiori più vivibili nel divenire della coscienza umana: Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo (Mt 11,26s).



La solennità liturgica di questa domenica costituisce qualcosa di nuovo nella nostra Chiesa, che come spesso capita, prende decisioni ed elabora interventi volti a salvare strutture in crisi, pescando nel tesoro della tradizione antica cose nuove e cose antiche, come il vecchio scriba del vangelo, senza tenere in conto, forse, che la novità evangelica è sempre esplosiva, in ogni contesto culturale venga seminata.
Il disfacimento della famiglia tradizionale ha suggerito di ricorrere al modello e alla testimonianza esemplare della famiglia di Nazareth. Soltanto che tanto è grande la dipendenza che noi abbiamo attraverso la famiglia dalla carne e dal sangue e dalla cultura, tanto più è dirompente la parola e sono provocatori i gesti di Gesù, che proprio nel cuore di questo nodo vitale della vita umana che è la famiglia, pone il seme sconvolgente della propria libertà inappellabile – e quindi della libertà di ogni uomo. Una reazione tanto determinata e imprevista, quella di Gesù, da sgomentare i genitori, ma altrettanto sapiente e mite che subito si è sottomessa alla normalità della vita quotidiana, dei suoi bisogni e dei suoi ritmi. Soltanto dopo, però, che ne ha denunciato vistosamente la precarietà e l’ambiguità. Si sottomette con la decisione di chi consegna lucidamente la propria libertà, mantenendone sempre la chiave, per riprendersela appena rischiasse di tradirla. Perché non è libertà per sé, ma per la verità!
La madre aveva tutti i diritti – secondo il modello ebraico della famiglia – di rimproverare il figlio di essersi allontanato dai genitori senza aver avvertito e senza aver detto dove andava, ma la risposta di Cristo è una di quelle parole luminose e taglienti che scendono nel nostro cuore (oltre che in quello dei genitori) come una spada, che ferisce e illumina… Ma, al momento, è troppa la sofferenza sconvolgente che provoca, per capire subito il dono di futuro che ci porta. E il Vangelo lo nota espressamente: non capirono quello che lui aveva detto. “E anche noi molto lentamente comprendiamo le parole di Cristo, perché, a differenza delle parole degli altri uomini, sono come il grano che viene gettato nella terra e lentamente porta a fecondità la terra e a maturazione il grano. E lentamente le parole di Cristo maturano nel nostro spirito, anche se non sempre ne siamo pienamente coscienti. E la parola che Cristo dà ai genitori costituisce una rottura con il modello della famiglia veterotestamentaria e romantica” (Vannucci).
Viviamo in una società e in una chiesa tanto disorientate e ripiegate su di sé da perdere spesso di vista i grandi orizzonti e gli spazi umani, che mai sono stati così a portata di mano di tutti gli uomini, come in questo nostro tempo! Ogni uomo che prende coscienza di essere chiamato a “compiere le cose del Padre”, è chiamato a essere “differente”cioè libero, ma per amore, per il suo compito di essere se stesso di fronte agli altri, non per contrapposizione competitiva. Soffrirà, ma porterà la novità delle sue piccole conquiste personali, che sono conquiste di coscienza, e che possono trasmettere agli altri, attorno a noi, la novità dei minuscoli interventi o gesti che nessun altro può sostituire. Purtroppo invece una delle più grandi tentazioni della nostra vita è quella di diventare dei ripetitori di un passato, che non ha più aderenza alla vita. Ora, queste novità, queste piccole invenzioni non previste nel fluire del nostro quotidiano, non nascono da noi, non provengono da un ragionamento umano. Perché è la parola di Dio che scende in ogni uomo e ogni uomo è chiamato sulla terra a compiere la volontà del Padre, non la volontà di un altro uomo, di nessun altra autorità. Il Padre infatti, in Gesù, non è più una realtà lontana, ma la Presenza vivente, incombente e immanente nel creato e nelle creature, per orientarle in amore e libertà, verso il compimento del loro specifico e personale destino. Gesù ne è cosciente e cresce (e ci propone di crescere) imparando e trafficando le “cose che sono del Padre nostro”, per la salvezza di tutti. E Maria, che è la figura della Chiesa, tiene nel cuore tutte queste cose, aspettando e pregando che diano il loro frutto nella pazienza dei tempi.

giovedì 24 dicembre 2009

Natale: oltre la fiaba

Natale con gli occhi di un bambino (Niki)
Solo alcuni spunti dalle letture bibliche di questo tempo di Natale…
Sono i testi lasciati dai profeti o dai “testimoni” più vicini e più interessati ai fatti narrati, ma anche per loro si tratta di eventi già ricevuti dai testimoni diretti e celebrati da una comunità credente ed orante che vi ha scoperto e vissuto un incontro vivificante, e l’ha tramandato fino a noi. Natività, Epifania, Risurrezione, sono dei fatti (o la condensazione simbolica di vari eventi) che sono collocati in un determinato luogo e in un tempo preciso, come momenti intensi della Rivelazione. Ma il loro senso è questo: annunciano e propongono al credente un legame indissolubile tra l’umano e il divino, tra il mondo della storia e quello del mistero, e non possono essere accostati se non da una mente e da un cuore che ne accolga questo loro segreto storico e metastorico, terreno e celeste, legato al tempo e allo spazio, ma insieme trascendente queste due dimensioni. La prima di queste – la banale vita quotidiana – ci è facile e naturale, ma talora pesante e insoddisfacente. L’altra, tormenta l’uomo da quando ha memoria della sua presenza sulla terra. Per fargli superare questo limite e penetrare territori che ci sembrano più sperati che sperimentati, nell’ostinata sfida all’impossibile: vedere, sentire, toccare, capire cosa c’è al di là … dei nostri limiti e delle nostre misure.
Allora la Bibbia ci appare come il racconto di tanti testimoni che hanno visto questo raccordo tra la loro storia e l’impossibile, che hanno ascoltato e intrasentito la mano di un “dio” che li accompagnava sul crinale dell’ulteriorità incredibile e inaccessibile. La creazione, la promessa nel paradiso fallito, la malvagità umana autodistruttiva e l’arcobaleno di Noè, la fecondità del vecchio Abramo, la lotta di Giacobbe con Dio, la liberazione dell’uomo dalla schiavitù del Faraone, la trasformazione del cuore di pietra in cuore di carne … sono i passi impossibili a cui l’uomo è stato chiamato da colui che “
dà la vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono” (Rom 4,17). Allora, nel Natale, così diversamente raccontato dai vari testimoni, sta comunque il cuore della storia, cui tutta la creazione anelava. Natale vuol dire che la meta e, insieme, il centro propulsore di questo inarrestabile flusso dell’amore creativo di Dio è adesso il seno, anzi prima il cuore, di Maria. E anche lei sa, come racconta il vangelo di Luca, che è impossibile ciò che le è annunciato – eppure si consegna, perché nulla è impossibile a Dio! A Natale, la Parola non è solo la metafora per indicare il legame di benevolenza gratuita del Padre con tutto ciò che lui fa esistere. Non è solo la sua sorprendente decisione, libera e amorevole (cioè non prodotta da necessità fisica o psichica o morale) di cercare il consenso e la gioia dell’umanità: rallegrati, Maria! La Parola stessa, nella sua passione di incontro con l’uomo, si fa seme e diventa bimbo d’uomo nell’inimmaginabile assunzione o impregnazione divina di un germoglio di carne umana. “Il verbo si è fatto carne!”. E la verginità è il timbro della suprema libertà di Dio da ogni legge di necessità. Nella catena dei miliardi di natali umani, un Natale impossibile, incredibile… che tacitamente sconvolge tutto. Tanto impossibile che, per non esserne accecati, i cristiani ne hanno fatto una favola, ormai così innocua, che viene anestetizzata nei tanti festeggiamenti natalizi commerciali, coloriti di simboli o fantasie le più disparate.
La fede che questi testi rivelano e domandano è tutt’altro: spinge il discepolo di Gesù a riscoprire sempre daccapo il rapporto faticoso tra libertà e necessità, invitandolo ad entrare nella dinamica assiale della storia della salvezza: possiamo svincolarci dalle catene delle necessità istintuali? liberarci dall’io, che ci fa fare quello che non vogliamo? della cultura dominante e dalla sua logica di competizione e sopraffazione? è possibile o è impossibile convertirsi all’amore, come nuovo motore potente ed insieme inerme della vita? Noi sappiamo per adesione umile all’obbedienza della fede, che è un regalo capirlo e tanto più riuscire a praticarlo. Che dunque è presunzione pensare di imporre questa fede, di esigerla e tanto meno di condannare coloro che si ritraggono … nella esperienza dolorosa dell’impossibilità! Luca premette al suo Vangelo l’esempio dei semplici e degli umili, direttamente coinvolti dalla disponibilità della loro adesione: Maria, Elisabetta e i loro due bimbi, il sacerdote ammutolito, i parenti e i vicini, i pastori… umili e ignari testimoni del mistero fondamentale della fede cristiana: il Natale! Il primo atto cristiano (continuamente primo – a cui cioè bisogna tornare per ricominciare, senza stancarsi mai!) è quest’adesione del cuore alla fede. Nell’affidamento di sé alla “parola”, il Natale ripropone la sua scansione di salvezza: non temere, il Signore è venuto e viene! in questo bimbo ti riempirà di vita, e coinvolgerà gli altri attorno a te! La nostra speranza è una Vergine gravida dell’impossibile, ultimo (o primo) anello di una successione infinita di uomini e donne, che hanno creduto e si sono affidate. E camminano nella esperienza della fatica e della gioia di seguire la luce in un mondo ottenebrato.
L’obiettivo di ogni annuncio, di ogni manifestazione della Parola è la proposta di amore e di vita che c’è dentro, certo, ma è raggiungibile solo attraverso l’obbedienza della fede: questo è il dinamismo di fuoco a cui siamo chiamati – questo è la consegna di sé … al presepio. Ogni altro aspetto di culto o di ascesi, di dottrina o di sacramento, di magistero o di sacerdozio è strumento e mezzo per riconoscere, entrare in contatto, accogliere questa “grazia”, cioè il regalo del Natale di Gesù! l’inaspettato accesso all’impossibile che ci mette allo sbaraglio, ci provoca allo sbilanciamento di fronte agli accadimenti che non sono adeguati alle forze dell’uomo. Ecco perché lo annunciano gli angeli! E annunciano che non siamo più servi, ma amici e figli di Dio. Annunciano che adesso è possibile “il divino in noi”… il perdono (nessuno può perdonare i peccati se non Dio solo); il corpo e sangue di Dio in materia cosmica per nutrire il credente (come può costui darci la sua carne da mangiare?); l’amore ai nemici (fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico), il coinvolgimento coi poveri (di essi è il Regno dei cieli – sono “in società” con Dio!); la “necessità salvifica” della chiesa, pur fatta più di peccatori che di santi (su di te fonderò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno su di essa!)…
… è questa la dinamica evangelica che dice cosa succede a noi la notte di Natale – ogni notte di Natale. In proporzione alla nostra libera trepida adesione, il mistero diventa di un’attualità assoluta nell’intimo dei noi stessi e nella chiesa, che è il segno levato tra le genti… un segno difficile a dirsi a noi stessi, cui si può solo consegnarsi. Ed immediatamente avviene che questo mistero ci spinge fuori da noi stessi per trasformarci progressivamente, per ottenere maggiore coinvolgimento delle nostre facoltà, della nostra conoscenza e delle nostre opere (con quanta resistenza e fatica e rifiuti… lo registra la segreta biografia spirituale di ognuno)
… quello che conta è il momento di fede che avremo vissuto nella nostra vita e la capacità di accumulare, di condensare atti di fede, magari piccolissimi, uno dopo l’altro, giorno per giorno, che rendono sempre più attuale e sconcertante la proposta di questo misterioso “incontro” che abbiamo in cuore … Sbilanciamenti di fede che ci fanno di nuovo ripartire come i pastori, in base a quel poco di luce nelle tenebre. Ci fanno vedere la verità del segno (un bimbo nella mangiatoia …). La luce poi non c’è più, o è intermittente, ma c’è la consapevolezza che… era vero, una consapevolezza presto sola, sostenuta soltanto dalla conferma umile che scaturisce dall’ascolto docile della Parola. Allora noi che abbiamo creduto al Natale dovremmo risplendere … anche nelle nostre opere. E invece possiamo trascorrere tutta la nostra vita in una posizione scomoda, tra la fede che illumina nella mente la venuta del Signore e la sua proposta evangelica, e le nostre opere che non splendono affatto. Non si deve per questo scoraggiarsi e consegnare le armi. L’incontro di fede che ci ha cambiati dentro rimane ed è irreversibile. La fatica di questa fedeltà incompiuta, perseguita in modo onesto e leale, per quanto poco fecondo… forse non dipende del tutto da noi. È partecipazione misteriosa alla renitenza delle tenebre ad accogliere la luce, è accompagnamento al doloroso cammino dell’umanità ad accogliere un Dio che nessuno ha mai veduto, ma del cui amore il suo figlio unico “ci ha raccontato”! E ci ha irrimediabilmente contagiato.

venerdì 18 dicembre 2009

…Dio nel corpo umano

I Lettura: Michea 5,1-4II Lettura: Ebrei 10,5-10Vangelo: Luca 1,39-48
Così dice il Signore: «E tu, Betlemme di Èfrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall'antichità, dai giorni più remoti. Perciò Dio li metterà in potere altrui, fino a quando partorirà colei che deve partorire; e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli d'Israele. Egli si leverà e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore, suo Dio. Abiteranno sicuri, perché egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra. Egli stesso sarà la pace.Fratelli, entrando nel mondo, Cristo dice: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: "Ecco, io vengo, poiché di me sta scritto nel rotolo del libro per fare, o Dio, la tua volontà"». Dopo aver detto: «Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato», cose che vengono offerte secondo la Legge, soggiunge: «Ecco, io vengo per fare la tua volontà». Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo. Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell'offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre. In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto»



Può essere utile mettere a confronto tra loro le letture di questa domenica – ultima di preparazione al Natale – per rilevarne l’intima connessione, pur nel così diverso approccio al mistero della centralità del “corpo umano” (e di chi lo mette al mondo) – nella travagliata storia della nostra salvezza.
Michea raccoglie e rimanda fino a noi un’antica segnalazione profetica: siamo tutti in potere “altrui”, fin quando non partorirà colei che deve partorire … Allora soltanto, anche il resto dei fratelli ritornerà … ed “egli” stesso sarà la pace. Se c’è un’illuminazione nuova delle scritture antiche, a ritroso, a partire da Cristo (come Gesù stesso insegnò ai discepoli dopo la sua risurrezione), qui i simboli oscuri si illuminano… e nello stesso tempo accolgono (adempiono) e sconvolgono (convertono) le aspettative dell’uomo. È caratteristica della profezia biblica questa spada a doppio taglio. In modo umilissimo ed esplosivo, insieme, anche Luca racconta di due “partorienti”, che si incontrano e si dicono, in questa “scena madre” della nuova storia, il mistero a cui siamo chiamati. Lontano dai templi, lontano dalle regge del potere e dell’intelligenza, per la strada, sulla soglia della casa... I loro due piccoli d’uomo, ancora incompiuti nel seno delle madri, già si comunicano il passaggio del testimone della speranza, dal “più grande tra i nati di donna” (il Battezzatore, sempre chiuso però nella sua appassionata ma sterile ricerca della salvezza), al piccolo germoglio nuovo, di un’altra qualità a noi sconosciuta, che lo fa sussultare di gioia. Elisabetta, l’umanità senza futuro, graziata nel suo desiderio irraggiungibile di tramandare la vita, si domanda il motivo della grazia che l’inonda: a che debbo che il mio Signore venga da me? Ma subito intuisce il segreto del mistero che si è aperto sulla terra: beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto. La fede in Dio è fede nella salvezza della carne, perché proprio questa è la sua volontà di benevolenza sul mondo: ciò che è nato da lei (dalla sua carne e dallo Spirito) sarà santo e chiamato figlio dell’Altissimo. Questo “venire”, adesso, di Maria nella casa che l’accoglie, non è semplicemente annunciare e preparare, come farà Giovanni, ma è portare colui che viene.
Maria viene a portare una Salvezza ancora in germoglio, ma pronta, viva e personale, che, secondo la lettera agli Ebrei, esprime già con il suo “esserci” la propria identità: ecco io vengo per fare, o Dio, la tua volontà! questa è la vocazione dell’uomo, finalmente consapevole e compiuta. La struttura religiosa profonda dello psichismo umano, la ricerca affannata e ambigua, quanto irreprimibile, di un “oltre sé” (esser come il Dio immaginario – imporsi come padroni onnipotenti) di cui racconta la pagina biblica delle origini, è radicalmente capovolta. Nella sua originaria e mai sopita passione di essere «un laboratorio unificatore del tutto» (San Massimo Confessore), l’uomo ha espresso una capacità di fabulazione religiosa che mentre doveva servirgli nella sua ricerca di Dio, ha prodotto e poi istituzionalizzato steccati, veli santi, templi, teologie e riti, sacrifici e caste sacre, che fanno da schermo e sono divenuti un ostacolo nel suo viaggio verso sé, gli altri e Dio stesso: Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato, cose che vengono offerte secondo la Legge, … «Ecco, io vengo per fare la tua volontà». Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo.
Il “nuovo sacrificio” mina alla radice ogni altro espediente religioso, perché rovescia la religione dell’uomo, sì che non sono più i meccanismi psichici umani (paura della morte e pretesa di amore senza fine) ad esserne protagonisti, ma il corpo di Cristo offerto come luogo dell’inveramento della volontà del Padre: Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre. Il dramma della libertà, il rifiuto da parte dell’uomo di essere persona, di realizzarsi ad immagine divina, ha trasformato la libertà in arbitrio cieco, sete di possesso e dominio, per consegnarsi al disordine ontologico e morale, il cui esito è la morte, la ferita finale che ammala già in anticipo ogni nostra relazione … Che ne siamo consapevoli o meno, nel nostro cammino culturale, la religione non serve più, è assorbita nel corpo di Cristo, al quale il nostro è chiamato ad assimilarsi: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. L’umanità del Cristo è testimonianza dell’amore assoluto di Dio, incarnato nella nostra polvere, alla quale dovremo ritornare, ma è più forte della morte. Senza peccato, ma capace di discendere al fondo dell’abisso della libertà umana deviata, sprigionandone ed attuandone la dimensione profonda, la corporeità gloriosa di Cristo, quella natura umana divinizzata che ha già in Lui la primizia di una nuova genesi – è il seme deposto in noi, da sviluppare in una vita di preghiera e di ascesi (cioè di vittoria evangelica sul mondo!), per imparare ed esercitare l’amore. Nella sua carne, nel suo Spirito, senza più distanze sacrali, anche a noi è dato rigenerare e dilatare la nostra umanità oltre noi stessi, per farne dono di sé all’Altro nell’amicizia (non vuole più servi!) – e a tutti gli altri nella carità, dono totale della nostra vita sino alla morte, fino a fare della morte stessa un dono. Ritroveremo custodito ed eternizzato ogni momento di offerta di sé, ogni atto creativo di bellezza e di tenerezza, di vittoria sui determinismi della vita biologica, ogni momento di comunione, custodito nell’umanità risorta del Cristo e nella nostra in Lui (cfr Massimo Bolognini in Corpo di morte e corpo di gloria)
Forse nessun esperienza o testimonianza come quelle riportate nel nuovo Testamento riguardo al “natale” di Gesù nella carne umana, indica così decisamente il “corpo” come il luogo della nascita dell’uomo a se stesso! Rivelando e illuminando così intensamente l’umile terrestre miracolo quotidiano per cui il nostro corpo fisico può nascere allo spirito e lo spirito nascere come carne riplasmata dall’amore (mistero di libertà e grazia del nostro feriale natale). Carne che imprigionata nei suoi ripetitivi e ciechi dinamismi corporei, contagiata ormai dal “natale” di Gesù, si riapre alla creatività della vita, abilitata a donare se stessa, a crescere nella dilatazione della persona in comunione, trasformando in sua memoria il nostro corpo, in offerta eucaristica che, unita al Verbo incarnato, ne rivela l’intima verità ed il compimento definitivo.Visita di Maria a Elisabetta (Giotto)Perché mai le donne, secondo il vangelo di Luca, sono protagoniste dell’incontro con il Signore – anche a Natale? Persino in queste storie antiche – quando non era pensabile che potessero neanche fare da testimoni affidabili di incontri umani? credo che la tentazione monofisita, (la tentazione più subdola e diabolica contro l’incarnazione – cioè il dubbio o il rifiuto di credere che l’umanità di Gesù sia vera) non le tocca. Cioè, il corpo, la carne, pure sporca e malata, perfino il cadavere dell’amato… per loro hanno sempre senso. Sono sempre il luogo della vita vivente o vissuta, il territorio della comunicazione vera, l’unico alveo dove si trasmette la vita – sempre amata! Sono quindi più vicine all’accudire che al razionalizzare; a comprendere invece che proporre, a servire invece che pretendere. Anche loro sono intrise della congenita debolezza umana (e biblicamente sono state la prime a volerne uscire a tutti i costi) ma il circuito culturale non le chiude mai del tutto. La vita vale sempre più dell’idea della vita!
Qui lo Spirito si trova più a suo agio, nella terrestrità che accetta la Parola-Promessa, perché è il brodo più fecondo di cultura della fede. E allora avviene che in una casa normale, in visita a parenti normali, bisognosi di accudimento, si può incontrare l’anziana cugina incinta, moglie di un prete ammutolito dal mistero, portando Dio nel ventre. E nessuno si gira a guardare, solo loro sanno … e raccontano ciò che ancora non si vede, ma illuminerà la storia.
Dunque la laicità è abitabile dallo Spirito divino, molto meglio che il sacerdozio, il tempio, la legge, l’accademia teologica, il monastero esseno… Ma non per diventare anch’essa, a sua volta, sacra, (cioè potente, separata, normativa, teocratica…), ma per rimanere terrestre, povera, fragile, radicata sempre nelle vicende difficili dell’affettività, dell’economia, del potere, che compongono l’ordito del tessuto della vita. Aperta però al natale dell’amore, al natale di Dio con noi, nel nostro corpo!

venerdì 11 dicembre 2009

Ti rinnoverà con il suo amore (il peccato, dalla parte di Dio!)

…i nostri vecchi chiamavano “gaudete” (rallegratevi)” questa domenica, a metà Avvento, perché nell’antico rito latino la liturgia eucaristica cominciava così. Nella storia della salvezza biblica, il motivo della gioia è uguale, da Sofonia fino a Paolo. “Grida di gioia, Israele! … Non lasciarti cadere le braccia!” E questo, perché : “In quel giorno non avrai vergogna di tutti i misfatti che hai commessi contro di me” (Sof 3,11) –le cose fatte male, quelli che pesano dentro di noi e ci intristiscono il cuore, da millenni. “Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla”… Questa è la buona notizia che fa rifiorire la speranza per ricominciare il cammino. “il Signore è in mezzo a te, un salvatore potente …” Un Salvatore che toglie la vergogna del male che ci rovina la vita. Dunque,come abbiamo ascoltato domenica scorsa, “Preparate la via del Signore!” Questo è l’invito pressante della voce che risuona dagli antichi profeti fino al Battista , per noi, persi tra i dirupi e le tortuosità della fame di senso. Anzitutto è necessario accogliere con cuore umile l’imperfezione e la precarietà di tutto ciò che viviamo e cerchiamo, riconoscere e soffrire l’incorreggibile miscela di tenerezza e aggressività dei nostri rapporti più cari, accettare l’inconsistenza delle cose che facciamo, la volatilità degli obiettivi per cui ci spendiamo, vedere con stupore e rammarico la processione dei volti che ci stanno vicino e si sperdono, senza che il nostro affetto li possa trattenere o consolare – come sarà per noi. Non è solo lo scoramento desolato dei nostri errori o insufficienze o peccati, che hanno fatto male dove volevamo portare il bene, dentro di noi e attorno a noi. C’è un supplemento di tristezza delusa che proviene dalla convinzione sincera, quanto illusoria, che ci entusiasmava nei momenti di fervore creativo, per la presuntuosa sicurezza d’essere senz’altro dalla parte giusta, di poter esigere consenso e adesione … senza accorgerci che progetti e sentimenti, ideologie e speranze hanno sempre una ferita alle radici che ne blocca o ammala i frutti. Anche se ortodosse e oneste, sono cose più nostre che evangeliche! Ci sembravano eterne, esenti dalla precarietà che invece presto ne corrode la pertinenza, rendendole oppressive e ostiche alla gente che ci sta intorno- e anche a noi. Alle folle che andavano a farsi battezzare da lui, Giovanni diceva: «Razza di vipere, chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente. Fate dunque frutti degni della conversione e non cominciate a dire fra voi: “Abbiamo Abramo per padre!”. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo. Anzi, già la scure è posta alla radice degli alberi …» (3,7ss). Allora“Preparare la via del Signore” è anzitutto lasciare che la Parola illumini, giudichi e disinquini tutte le nostre visioni umane dei sentieri di Dio e questo deve passare dalla nostra personale sofferta esperienza. Non ci salva l’appartenenza istituzionale né le radici cristiane. Per questo, di fronte a Giovanni, le folle che ascoltano l’invito penitenziale assumono poi volti di persone concrete con un lavoro, una professione, una configurazione precisa di vita, uomini e donne di casa con le loro piccole realistiche possibilità di decidere … Nasce la voglia di coinvolgersi di nuovo – una ennesima volta!
Il Signore, tuo Dio, gioirà per te … ti rinnoverà con il suo amore!
Il “rinnovamento” è una scossa interiore, una consapevolezza nuova, che nasce, nei modi più diversi, dall’ascolto della voce che annuncia anzitutto la cancellazione dei peccati del suo popolo: Il Signore ha revocato la tua condanna, … tu non temerai più alcuna sventura! Non si tratta semplicemente del perdono, sempre promesso e sempre concesso al cuore contrito. Si tratta di un evento nuovo, un cambiamento interno del cuore, non mai visto fino a quel momento … Fu predetto con parole appassionate dai profeti dell’esilio, ma adesso Giovanni ne vede il compimento, addirittura sente il calore del fuoco che brucerà ogni male dell’uomo, abolendo ogni senso di colpa e di condanna, chiamandolo alla sua vera vocazione originaria, sorprendente: la partecipazione alla gioia ardente e rigenerante di Dio, come aveva intuito Sofonia: il Signore Dio … gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia». Ben più che perdono! “Incredibile” partecipazione alla esperienza di gioia di Dio! L’unica dinamica capace di far sussultare e purificare alle radici il cuore dell’uomo … Pare una voce flebile, a non farci caso, ma quanto potente è la gioia che è nato nel cuore qualcosa di nuovo, impensabile! Questa metamorfosi del cuore si prepara con piccole cose (piccoli passi di risposta alla voce), che Giovanni suggerisce alla gente che gli chiede: che cosa dobbiamo fare? Minuscole risposte alla domanda importante, lo spartiacque della conversione. La stessa di Pentecoste (At 2,37). La domanda è già il primo frutto dello Spirito in arrivo! Che smuove il cuore da ciò che si sta facendo, per farci desiderare ciò che ancora non è si è capaci di fare. Il cuore è entrato in tensione, in attesa di qualcosa di “oltre”. L’autenticità è garantita dal cambio del baricentro interiore, che spalanca il cuore al fratello o sorella che è nel bisogno, per intessere rapporti nuovi, con un piatto di minestra in più, o la tunica non usata, con la bolletta dei pubblicani non alterata, con la violenza dei soldati, che diventa rispettosa benevolenza …
… tutti, si domandavano in cuor loro, riguardo a Giovanni, se non fosse lui il Cristo
Per i generosi che vogliono darsi da fare, è una tentazione inevitabile quanto micidiale, questa, nella lunga scarnificante sofferenza della fame, del bisogno, dell’attesa – di scambiare l’aiuto, la guida, il gruppo, l’amico, o il progetto affettivo, politico, economico … con lo “sposo” – il senso finale della vita. Giovanni si preoccupa di smentire questa illusione, questa specie di strisciante adulterio della fede, perché lui è il prototipo dell’amico fedele fino alla morte, l’uomo più vicino allo sposo, al Messia che viene! Eppure conferma: “io non son degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali di Gesù”. Giovanni, l’evangelista, gli darà spazio per spiegare più lucidamente questa sua totale indegnità (inadeguatezza) riportando le parole preziose con cui il Battezzatore ci radica alla inconvertibile durezza della nostra terra (il cuore di carne), che vorrebbe accogliere i semi per divenire feconda, ma è capace soltanto di spine e triboli: Voi stessi mi siete testimoni che ho detto: Non sono io il Cristo, ma io sono stato mandato innanzi a lui … Chi viene dall’alto è al di sopra di tutti; ma chi viene dalla terra, appartiene alla terra e parla della terra. Chi viene dal cielo è al di sopra di tutti. (Gv 3,28ss)
Che strana distanza e contiguità tra cielo e terra ci viene continuamente ribadita, lungo tutta la Bibbia! … da Adamo, fatto di terra, animata da alito di cielo, (e i pasticci che sono venuti da questa contraddizione congenita!), fino al “Padre nostro” che è sempre lì, nel suo compiersi mai esaudito: “così in cielo come in terra”… per arrivare alla nostra fede di oggi, in tormentata tensione tra queste due polarità: “cosa fare, in terra?”, (i piccoli passi dalla durezza di cuore, verso la conversione, cioè il cambiamento dei rapporti) e come continuare “a stare nel Regno”- nella situazione di tutti, senza fuggire o ritagliarsi nicchie spirituali, che lasciano intatti la sofferenza e il dolore della gente. Il Vangelo non è un progetto storico di giustizia politica, anche se annuncia instancabilmente le esigenze della giustizia. Con la confessione appassionata di Giovanni, di non essere il Messia, è tolto ad ogni uomo e ad ogni suo progetto la presunzione messianica: “Io vi dico, tra i nati di donna non c’è nessuno più grande di Giovanni, e il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui”. E il Regno di Dio non è, appunto, un progetto umano – è seminato nella storia e la fermenta, ma non è di questo mondo. Giovanni ha denunciato come nessun altro la necessità di immergerci nell’acqua della propria totale incapacità di essere giusti di fronte a Dio. Non potrà più esistere progetto storica o dottrina morale o tantomeno personaggio storico col timbro del messia. Eccetto Colui che Giovanni ha indicato.
Costui vi battezzerà in Spirito santo e fuoco! Gesù si ricorda e ribadisce questa profezia di Giovanni su di lui: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!” (Lc 12,49s). L’angoscia gli viene dalla consapevolezza che finirà come Giovanni. Egli porta davvero il giudizio escatologico (definitivo, senza più altra possibilità dopo di lui) ma assumendo il male e la sofferenza su di sé, per amore. Dunque il fuoco dello Spirito lo brucerà, lui e il nostro male che si è caricato sulle spalle, interrompendo la catena di contagio reciproco che lega ogni uomo all’altro, ma invece riconciliando tutti nel suo sangue. Questo fuoco dello Spirito, che, mentre si compiva, gli ha bruciato il cuore tra desiderio e angoscia, è quello che a Pentecoste, conquistata la pace del cuore, donerà ai suoi : “Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo”(At 2,3s). Paurosi rianimati, peccatori perdonati, singoli e gruppo … avvolti nella passione ri/creatrice di Dio.

martedì 8 dicembre 2009

Per la prima volta un uomo – anzi una donna! – non ha paura di Dio!

ho avuto paura!
…man mano che si avanza negli anni, e in più, se capita la grazia che ci sono meno cose da conquistare e da difendere … ecco, si vede più chiaro cha al fondo di tanti (tutti!?) i problemi e angosce e conflitti che ci dilaniano ci sta proprio quanto diceva, nel suo timido tentativo di difesa, Adamo: ho avuto paura! Non degli altri. Di me stesso. Con tutti i tipi di turbamento o di panico o di sottostima o di rabbia o di autocorrosione… che questa dolorosa sensazione comporta … Di essere scoperti. Scoperti, anzitutto di fronte a me stesso, atrocemente insufficiente e inadeguato, e perpetuamente e inutilmente indaffarato a coprirmi.
“Ma chi ti ha detto che eri nudo? … Sono nato così! e poi dopo è sempre stato così. Io, non c’ero prima, quando (dicono) è avvenuto il male che ho dentro, con sempre qualche vergogna da nascondere, di cui arrossire, e cercare affannosamente di superare, maldestramente aggiustare, amaramente piangere…
E così, il regalo bello e sorprendente della nostra umanità, il mondo e tutte le cose che contiene e l’universo in cui è contenuto, che mi è dato da esplorare, godere, lavorare, farne la casa – e la donna (o l’uomo) per cui sono fatto… con cui imparare ad amare – e gli altri (fratelli e sorelle!?), con cui crescere e progettare e condividere la vita e inventare sempre nuove cose … sono diventati interlocutori difficili, estranei o nemici, perché anche con loro mi devo nascondere, un poco o tanto. Per paura! Come loro con me! Il cuore non è mai libero d’essere umilmente e nudamente tutto se stesso. E l’amore, se va bene – e non muore – è rattrappito! Non innesca la sua capacità (che lui solo ha!) di scaldare e purificare e aumentare sempre più… per ‘umanizzarci’, togliendoci di dentro la tristezza del destino di regressione: essere fatti di terra e dover tornare terra inconsistente. Polvere! cioè niente!
… avvenga a me secondo la tua parola
La parola… è quella che aveva fatto il mondo, perché era prima del mondo. La parola di Colui che è tutto quello che può essere. E perciò non ha mai paura ed è contento di sé! E allora dice parole di amore e di bene. La sua parola è l’unica cosa che non è una cosa, come le altre … un dato scientifico, cioè un rapporto di necessità, di causa/effetto in campo fisico, o chimico o biologico o psicologico. La parola è libertà e amore: è l’intimo, l’anima di una persona che si rivolge… a chi la può ascoltare. Il meglio è un’altra persona, unica capace non tanto di ubbidire, ma di accoglierti. Uno che non abbia paura di te.
Chissà per quale mistero è nata, e come si è fatta, questa ragazza, che non aveva paura, perché era piena di grazia, cioè sicura d’essere amata. Come fosse attaccata alla sorgente, l’amore prima della paura, quella che poi ha avvelenato dentro ogni uomo. Anche lei è turbata… ma non ha paura per sé, ha paura per l’altro, cosa vuol dire, che senso ha ciò che dice… cioè come accoglierlo. Quando capisce, è così aperta la sua accoglienza (‘capacità’) di libertà e di amore, che si affida totalmente ad un mistero inspiegato… sicura solo che nulla è impossibile al Dio che la ama.
… la storia fa un sussulto, come registreranno gli scrittori sacri, attenti ai sismografi profetici che segnano per noi le cose più importanti della storia, anche se apparentemente insignificanti per le leggi e le logiche del mondo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo
… ecco dov’era la sorgente, prima che il male la inquinasse! ‘Il progetto era bello, incontaminato, turgido di amore e benevolenza. Forse la ‘benedizione’ (la parola creativa di bene e di amore) in qualche passaggio si era inceppata? Forse invece il mistero ci diviene ancor più incomprensibile perché lo vediamo a rovescio? Cioè, dal nostro punto di vista, già immersi nella situazione di paura. Come un torrente di lava ormai sceso a valle si raffredda, intorpidisce e muore, diventa pietra fredda… non si immagina neanche quant’è ancora incandescente il cuore del vulcano, a monte, da dove è partito…
Paolo, in qualche lampo di visione, ha intuito la storia dall’altra parte. Un caleidoscopio dove tutti i frammenti sconnessi e dolorosi della storia erano mirabilmente ricomposti in un “disegno del Padre, cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra”. Non è stato un incidente di percorso. Tutto era misteriosamente previsto fin dall’inizio, quando ci aveva scelti (individuati e amati) prima della creazione del mondo, per ricondurci, lungo i sentieri chiaroscuri della storia, ad essere santi e immacolati al suo cospetto nell’amore. Cioè, anche noi trasparenti, senza paura! Il segreto è ancora la Parola, dove stanno scritte le tracce dell’azione amorevole di Dio, che si è chinato su noi e continua a proporci la sua “sfida” forte e amorevole alla nostra libertà, che chiamiamo grazia!. Per questo Maria, che nella pienezza del tempo l’ha accolta e fatta carne, una volta per sempre, per tutti noi, ci è madre e sorella.

venerdì 4 dicembre 2009

La Parola di Dio venne su Giovanni, nel deserto

Le seconda domenica di avvento, nei vari cicli liturgici, è sempre dedicata a Giovanni il precursore, perché nessuno come lui ha atteso e indicato da vicino il Messia salvatore. In questo, nessun “nato di donna è più grande di lui”. Giovanni è nella Bibbia il segno e il simbolo dell’insuperabile distanza e insieme dell’indicibile vicinanza tra Dio e noi. La Parola di Dio che “fu su Giovanni” nel deserto, indicata da Luca con precisione storica inconsueta, è la stessa che ha chiamato i patriarchi e i profeti fin dai tempi antichi. È la Voce che sveglia Abramo, è la fiamma che brucia il roveto ardente senza consumarlo, la colonna di fuoco o la nube luminosa che indica e nasconde la strada nel deserto, la luce o l’ombra che guida le vicende tristi o liete della conquista della terra promessa, che sostiene la missione e perdona i peccati della casata di Davide, custodisce la gloria e la fragilità della legge e del tempio e, infine, rigenera la fede incrinata dei deportati dall’esilio, quando tutte le promesse di Dio sembrano fallite … E allora Baruch, assieme a tutti i profeti della speranza che non demorde, ci annunzia: deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione, rivèstiti dello splendore della gloria che ti viene da Dio, per sempre … perché Dio mostrerà il tuo splendore a ogni creatura sotto il cielo. Nella conversione s’incontrano la disponibilità dell’uomo e l’intervento di Dio. La Voce di Isaia che risuona in cuore a Giovanni (… preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri … ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato …), è ciò che Baruch attribuisce alla iniziativa di giustizia e misericordia di Dio (Dio ha deciso di spianare ogni alta montagna, colmare le valli …).
Credere nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe … implica la costante consapevolezza che tutto è tenuto in movimento dall’incolmabile assenza di Dio, che noi soffriamo e piangiamo nei momenti di dolore e di crisi, attribuendone la causa alle cose che ci vanno male. Mentre, dentro queste, è la desolante sua lontananza che scava nella nostra precarietà e nella nostra sordità, il vuoto del deserto. E rimette l’uomo di fronte alla sua nuda verità! Allora soltanto si riscopre che il principio di discernimento e di orientamento che ci dona il deserto è la Parola di Dio. Ci vuole il coraggio dei profeti per accogliere questa Voce severa, consolante e scarnificante, poiché mette in crisi e mina alle radici le impalcature psicologiche create in noi dalla necessità di sopravvivere nella nostra piccola storia, con gli strumenti psicologici o gli stratagemmi affettivi offerti dal tessuto di relazioni, acculturazioni, tradizioni e proiezioni del passato, nel quale siamo impaniati. La Voce denuncia continuamente che la nostra vita è insidiata da questo verme inarrestabile che corrode dall’interno i tesori auto costruiti dall’uomo, gli fa il vuoto dentro, avvisandolo che Dio (l’Amore) è l’ultimo futuro di quanto ha esistenza. Tutto quello che l’uomo pensa o costruisce o accumula, senza amore, non ha senso, diventerà polvere. L’inquietudine non pacificabile che nasce da questa voce è … il lucignolo che non si consuma, anche in noi. Rimette in tensione vitale la coscienza, la spinge ad andare “oltre”, a non lasciarsi imprigionare nei limiti del presente, ma aprirsi alla faticosa esperienza della libertà. Giovanni compie in sé il cammino dei profeti e conduce il millenario pellegrinaggio dell’Alleanza antica al Messia definitivo, quello che vive in sé, nella sua carne, fatta come la nostra, il mistero paradossale della presenza “corporale” di Dio, che viene ad abitare proprio nella “lontananza umana”. Dove Dio,”il santo dei santi” – il separato da tutto – non può assolutamente stare. Adesso – qui! – dopo le instancabili speranze dei profeti e dei poeti e le lacrime desolate dei poveri senza consolazione, è diventato umanamente visibile l’invisibile, è apparso lo splendore velato che ogni creatura attendeva, gemendo come nelle doglie del parto. Adesso “ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!”

Il messaggio centrale di Giovanni, non è apocalittico, ma storico
Alla coscienza del credente, risvegliata dalla Voce, la terra si rivela come il mondo dell’amore affidato alle nostre mani: rimane la nostra casa – l’unico luogo ove è possibile ritrovare la libertà per imparare ad amare. La terra ci affratella tutti (“ogni uomo”) nel dolore e nel peccato. Pur continuando a vivere in un mondo di sperequazioni ed ingiustizie, di odio ed abbandono, all’uomo che ascolta la voce (il credente) è indicata “la salvezza di Dio” (il cuore dell’Essere). E ricomincia a combattere la sua lotta, perché tutti si aprano all’amore, tutti possano conquistare e essere conquistati dallo Spirito. È Giovanni che annuncia un battesimo non di acqua, come il suo, ma di fuoco, che Gesù porta sulla terra a chi crede in lui. Perché sulla terra l’amore non è un dato istintivo, ma è conversione dal proprio egocentrismo che paralizza l’uomo nella paura di morire. Una quotidiana conquista che ci riconduce alle radici della nostra convivenza collettiva, ci porta dentro le contraddizioni affettive, politiche ed economiche del nostro vivere. Ci obbliga non a rifugiarci in qualche nicchia ecologico / religiosa, ma a farci carico delle contraddizioni del mondo
Il principio fondamentale di funzionamento della città (il consorzio umano) è il potere, il “necessario” dominio dell’uomo sull’uomo, l’imposizione della sua parola umana, che tenta maldestramente di spacciasi per parola assoluta (divina), per necessità o per convinzione, per ricatto o per violenza. Il peccato originario è di questa natura: usare come criterio di vita la propria parola, trascurando o rifiutando quella di Dio. Ed il giardino primordiale diviene la terra inospitale, e le relazioni con Dio, con la donna e con il mondo intrise di sofferenza, delusioni e conflitti. La “civiltà” è l’elaborazione “ordinata” (dal potere!) dell’immenso cantiere antropologico, dove l’uomo tenta l’organizzazione del convivere civile, modellando il suo mondo, la sua casa e la concatenazione delle relazioni in essa: famiglia e società, piazza e strade, mercato e fabbriche, scuole e caserme, banche e templi… La storia della civiltà è la storia della prometeica e ambigua umanizzazione dell’uomo, il luogo ove oppressione e liberazione, costruzione e distruzione, convivenza e divisione, guerra e pace, si intrecciano in modo indistricabile.
Il principio di discernimento e di giudizio che viene dal deserto è invece la Parola di Dio, che denuncia i dirupi e gli abissi, i sentieri tortuosi e senza meta, per insegnarci a liberarcene e cominciare a percorrere vie diritte e piane. Nel «deserto» il cuore si apre all’esperienza amara dell’impermanenza di tutte queste figure (Vannucci), pur necessarie, costruite da noi lungo una vita, ferite dall’angoscia del febbrile nostro sbattersi esistenziale. Si spalancano allora spazi nuovi, verso i quali incamminarci per divenire quello che nel cuore siamo chiamati ad essere – la Voce ci chiama ad essere. Allora l’assenza che ci morde dentro ci apre ad un «oltre», un più vasto cammino umano, un diverso modo di essere, desiderato più che formulato, intuito più che definito. E le immagini bibliche suggeriscono la ricerca di ciò che c’è da demolire o da raddrizzare: Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose diverranno diritte e quelle impervie, spianate
La “conversione” o il battesimo di “conversione” (cambiate mentalità) a cui chiama il Battista, nelle traduzioni correnti rende insufficientemente l’idea del termine semitico «teshubah», il ritorno a Dio, cuore dell’Essere (Vannucci). Giovanni annuncia una novità assoluta: una volta rimesso in comunione al suo vero centro divino, attraverso un battesimo di fuoco, il credente riesce ad accettare la vita di tutti i giorni come un sicuro pellegrinaggio ove rimane integro il suo compito di spianare e coltivare, costruire e raddrizzare … Accetta la vita concreta con le sue scintille e il suo vasto contorno di nebbia, con i successi e gli insuccessi, con la stima e il discredito, le risorse della giovinezza e la trepidazione dell’invecchiamento, con le delusioni e le speranze che l’accompagnano. Ma ormai è chiara la sua grazia e il suo destino, in Cristo, – quello per cui anche Paolo prega per i suoi amici! – ed è questo: che il vostro amore ( la vostra agàpe!) cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento – perché questa è la maturità cristiana dell’ “uomo compiuto”.
… con la certezza che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù!
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