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martedì 29 novembre 2011

Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso?(Lc 6,39)

Un Audit[1]del debito di Guido Vitale, 29/11/11 su «Il Manifesto».


Agli storici del futuro (se il genere umano sopravviverà alla crisi climatica e la civiltà al disastro economico) il trentennio appena trascorso apparirà finalmente per quello che è stato: un periodo di obnubilamento, di dittatura dell’ignoranza, di egemonia di un pensiero unico liberista sintetizzato dai detti dei due suoi principali esponenti: «La società non esiste. Esistono solo gli individui», cioè i soggetti dello scambio, cioè il mercato (Margaret Thatcher); e «Il governo non è la soluzione ma il problema», cioè, comandi il mercato! (Ronald Reagan). Il liberismo ha di fatto esonerato dall’onere del pensiero e dell’azione la generalità dei suoi adepti, consapevoli o inconsapevoli che siano; perché a governare economia e convivenza, al più con qualche correzione, provvede già il mercato. Anzi, “i mercati”; questo recente slittamento semantico dal singolare al plurale non rispecchia certo un’attenzione per le distinzioni settoriali o geografiche (metti, tra il mercato dell’auto e quello dei cereali; o tra il mercato mondiale del petrolio e quello di frutta e verdura della strada accanto); bensì un’inconscia percezione del fatto che a regolare o sregolare le nostra vite ci sono diversi (pochi) soggetti molto concreti, alcuni con nome e cognome, altri con marchi di banche, fondi e assicurazioni, ma tutti inarrivabili e capricciosi come dèi dell’Olimpo (Marco Bersani); ai quali sono state consegnate le chiavi della vita economica, e non solo economica, del pianeta Terra. Questa delega ai “mercati” ha significato la rinuncia a un’idea, a qualsiasi idea, di governo e, a maggior ragione, di autogoverno: la morte della politica. La crisi della sinistra novecentesca, europea e mondiale, ma anche della destra    quella “vera”, come la vorrebbero quelli di sinistra    è tutta qui.

Ma, dopo la lunga notte seguita al tramonto dei movimenti degli anni sessanta e settanta, il caos in cui ci ha gettato quella delega sta aprendo gli occhi a molti: indignados, gioventù araba in rivolta, e i tanti Occupy. Poco importa che non abbiano ancora “un vero programma” (come gli rinfacciano tanti politici spocchiosi): sanno che cosa vogliono.
Mentre i politici spocchiosi non lo sanno: vogliono solo quello che “i mercati” gli ingiungono di volere. È il mondo, e sono le nostre vite, a dover essere ripensati dalle fondamenta. Negli anni il liberismo    risposta vincente alle lotte, ai movimenti e alle conquiste di quattro decenni fa    ha prodotto un immane trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale: mediamente, si calcola, del 10 per cento dei Pil (il che, per un salario al fondo alla scala dei redditi può voler dire un dimezzamento; come negli Usa, dove il potere di acquisto di una famiglia con due stipendi di oggi equivale a quello di una famiglia monoreddito degli anni sessanta). Questo trasferimento è stato favorito dalle tecnologie informatiche, dalla precarizzazione e dalle delocalizzazioni che quelle tecnologie hanno reso possibili; ma è stato soprattutto il frutto della deregolamentazione della finanza e della libera circolazione dei capitali. Tutto quel denaro passato dal lavoro al capitale non è stato infatti investito, se non in minima parte, in attività produttive; è andato ad alimentare i mercati finanziari, dove si è moltiplicato e ha trovato, grazie alla soppressione di ogni regola, il modo per riprodursi per partenogenesi. Si calcola che i valori finanziari in circolazione siano da dieci a venti volte maggiori del Pil mondiale (cioè di tutte le merci prodotte nel mondo in un anno, che si stima valgano circa 75 mila miliardi di dollari). Ma non sono state certo le banche centrali a creare e mettere in circolazione quella montagna di denaro; e meno che mai è stata la Banca centrale europea (Bce), che per statuto non può farlo (anche se in effetti un po’ lo ha fatto e continua a farlo, per così dire, “di nascosto”). Se la Bceè oggi impotente di fronte alla speculazione sui titoli di stato (i cosiddetti debiti sovrani) è perché lo statuto che le vieta di “creare moneta” è stato adottato per fare da argine in tutto il continente alle rivendicazioni salariali e alle spese per il welfare. Una scelta consapevole quanto miope, che forse oggi, di fronte al disastro imminente, sono in molti a rimpiangere di aver fatto. A creare quella montagna di denaro è stato invece il capitale finanziario che si è autoriprodotto; i “mercati”. E lo hanno fatto perché tutti i governi glielo hanno permesso. Certo, in gran parte si tratta di “denaro virtuale”: se tutto insieme precipitasse dal cielo sulla terra, non troverebbe di fronte a sé una quantità altrettanto grande di merci da comprare. Ciò non toglie che ogni tanto    anzi molto spesso    una parte di quel denaro virtuale abbandoni la sfera celeste e si materializzi nell’acquisto di un’azienda, una banca, un albergo, un’isola; o di ville, tenute, gioielli, auto e vacanze di lusso. A quel punto non è più denaro virtuale, bensì potere reale sulla vita, sul lavoro e sulla sicurezza di migliaia e migliaia di esseri umani: un crimine contro l’umanità.

È un meccanismo complicato, ma facile da capire: in ultima analisi, quel denaro “fittizio”    che fittizio non è    si crea con il debito e si moltiplica pagando il debito con altro debito: in questa spirale sono stati coinvolti famiglie (con i famigerati mutui subprime; ma anche con carte di credito, vendite a rate e “prestiti d’onore”), imprese, banche, assicurazioni, Stati; e, una volta messi in moto, quei debiti rimbalzano dagli uni agli altri: dai mutui alle banche, da queste ai circuiti finanziari, e poi di nuovo alle banche, e poi ai governi accorsi in aiuto delle banche, e dalle banche di nuovo agli Stati. E non se ne esce, se non    probabilmente    con una generale bancarotta.

In termini tecnici, l’idea di pagare il debito con altro debito si chiama “schema Ponzi”, dal nome di un finanziere che l’aveva messa in pratica negli anni ‘30 del secolo scorso (al giorno d’oggi quell’idea l’hanno riportata in vita il finanziere newyorchese Bernard Madoff e, probabilmente, molti altri); ma è una pratica vecchia come il mondo, tanto che in Italia ha anche un santo protettore: si chiama “catena di Sant’Antonio”. In realtà, tutta la bolla finanziaria che ci sovrasta non è che un immane schema Ponzi. E anche i debiti degli Stati lo sono. Il vero problema è sgonfiare quella bolla in modo drastico, prima che esploda tra le mani degli apprendisti stregoni dei governi che ne hanno permesso la creazione. Nell’immediato, un maggiore impegno del fondo salvastati, o del Fmi, o gli eurobond, o il coinvolgimento della Bce nell’acquisto di una parte dei debiti pubblici europei potrebbero allentare le tensioni. Ma sul lungo periodo è l’intera bolla che va in qualche modo sgonfiata.

Prendiamo l’Italia: paghiamo quest’anno 70 miliardi di interessi sul debito pubblico (che è di circa 1900 miliardi). L’anno prossimo saranno di più, perché gli interessi da pagare aumentano con lo spread. Negli anni passati a volte erano meno, ma a volte, in proporzione, anche di più. Quasi mai sono stati pagati con le entrate fiscali dell’anno (il cosiddetto avanzo primario); quasi sempre con un aumento del debito. Basta mettere in fila questi interessi per una trentina di anni    da quando hanno cominciato a correre   e abbiamo una buona metà, e anche più, di quel debito che mette alle corde l’economia del paese e impedisce a tutti noi di decidere come e da chi essere governati. Perché a deciderlo è ormai la Bce. Ma la vera origine del debito italiano è ancora più semplice: l’evasione fiscale. Ogni anno è di 120 miliardi o cifre equivalenti: così, senza neanche scomodare i costi di “politica”, della corruzione o della malavita organizzata, bastano quindici anni di evasione fiscale    e ci stanno    per spiegare i 1900 miliardi del debito italiano. Aggiungi che coloro che hanno evaso le tasse sono in buona parte    non tutti    gli stessi che hanno incassato gli interessi sul debito e il cerchio si chiude. La spesa pubblica in deficit ha la sua utilità se rimette in moto “risorse inutilizzate”: lavoratori disoccupati e impianti fermi. Ma se alimenta evasione fiscale e “risparmi” che vanno solo ad accrescere la bolla finanziaria, è una sciagura.

Altro che pensioni da tagliare (anche se le ingiustizie da correggere in questo campo sono molte)! E altro che scuola, e università, e sanità, e assistenza troppo “generose”! Siamo di fronte a cifre incomparabili: per distruggere scuola e Università è bastato tagliare pochi miliardi di euro all’anno. E da una “riforma” anche molto severa delle pensioni si può ricavare solo qualche miliardo di euro all’anno. Dalla svendita degli immobili dello Stato e dei servizi pubblici locali non si ricava molto di più. Dalla liquidazione di Eni, Enel, Ferrovie, Finmeccanica, Fincantieri e quant’altro, come improvvidamente suggerito nel luglio scorso dai bocconiani Perotti e Zingales (l’economista di riferimento, quest’ultimo, di Matteo Renzi; ma anche di Sarah Palin!), si ricaverebbe non più di qualche decina di miliardi una volta per sempre, trasferendo in mani ignote (ma potrebbero benissimo essere quelle della mafia) le leve dell’economia di un intero paese.

Mentre interessi ed evasione fiscale ammontano a decine di miliardi ogni anno e il debito da “saldare” si conta in migliaia di miliardi. Per questo il rigore promesso dal governopotrà fare male ai molti che non se lo meritano, ma non ha grandi prospettive di successo: affrontare con queste armi il deficit pubblico, o addirittura il debito, è un’impresa votata al fallimento. O una truffa. Per questo è urgente effettuare un audit (un inventario) del debito italiano, perché tutti possano capire come si è formato, chi ne ha beneficiato e chi lo detiene(anche per poter prospettare trattamenti diversi alle diverse categorie di prestatori).

L’altro inganno che domina il delirio pubblico promosso dagli economisti mainstream    e in primis dai bocconiani    è la “crescita”. A consentire il pareggio del bilancio imposto dalla Bce e tra breve “costituzionalizzato”, cioè il pagamento degli interessi sul debito con il solo prelievo fiscale, e addirittura una graduale riduzione, cioè restituzione, del debito dovrebbe essere la “crescita” del Pil messa in moto dalle misure liberiste che i precedenti governi non avrebbero saputo o voluto adottare: liberalizzazioni, privatizzazioni, riforma del mercato del lavoro (alla Marchionne), eliminazioni delle pratiche amministrative inutili (ben vengano, ma bisognerà riparlarne) e le “grandi opere” (in primis il Tav). Ma per raggiungere con l’aumento del Pil obiettivi del genere ci vorrebbero tassi di crescita “cinesi”; in un periodo in cui l’Italia viene ufficialmente dichiarata in recessione, tutta l’Europa sta per entrarci, l’euro traballa, gli Stati Uniti sono fermi e l’economia dei paesi emergenti sta ripiegando. È il mondo intero a essere in balia di una crisi finanziaria che va ad aggiungersi a quella ambientale    di cui nessuno vuole più parlare    e allo sconvolgimento dei mercati delle materie prime (risorse alimentari in primo luogo) su cui si riversano i capitali speculativi che stanno ritirandosi dai titoli di stato (e non solo da quelli italiani). Interrogati in separata sede, sono pochi gli economisti che credono che nei prossimi anni possa esserci una qualche crescita. Molti prevedono esattamente il contrario; ma nessuno osa dirlo. Questa farsa deve finire. È ora di pensare    e progettare seriamente    un mondo capace di soddisfare i bisogni di tutti e di consentire a ciascuno una vita dignitosa anche senza “crescita”. Semplicemente valorizzando le risorse umane, il patrimonio dei saperi, le fonti energetiche e le risorse materiali rinnovabili, gli impianti e le attrezzature che già ci sono; e rinnovandoli e modificandoli solo per fare meglio con meno. Non c’è niente di utopistico in tutto questo; basta    ma non è poco    l’impegno di tutti gli uomini e le donne di buon senso e di buona volontà.

domenica 31 luglio 2011

Oltre la rassegna(a)zione: ascoltare la Parola per vivere da liberi



Abbiamo davanti agli occhi, la fatica quotidiana per riuscire ad arrivare alla fine del mese. Conosco gente che oramai per vivere, per riuscire a mantenere il suo tenore di vita (quello cioè che il “sistema” gli impone come dignitoso per sé e “solo per sé”), si sente “obbligata” a fare tre lavori. Uno ufficiale, l’altro di frodo quando capita, il terzo in permanenza, anche al bar, come venditore occasionale di cose tanto inutili quanto credute indispensabili.

Forse oggi riusciamo a capire meglio il grido di ben 2500 anni fa, di Isaia e ribadito da Gesù e dai cristiani di ogni tempo: solo un mondo fondato su una autentica giustizia (quella del Padre) rende possibile un equo sostentamento materiale e quindi un’autentica “adorazione”.

Abbiamo creduto che per poter vivere la vita concreta di ogni giorno, le sue leggi e le sue regole, dovessimo ignorare quelle evangeliche, come se queste appartenessero a un mondo ideale (e irreale) proprio di “persone speciali”, come i religiosi o i santi e che non potevano essere vissute da “uomini umani” (Pasolini). Ci rendiamo conto oggi più che mai, che invece quando l’ideale evangelico è ignorato, diventa vano ogni tentativo di attuare ciò che è umano. A furia di ignorare il Vangelo “perché impossibile da vivere in questo mondo”, ci stiamo rendendo conto che le leggi di questo mondo (anche la semplice buona educazione!) sono impossibili da vivere senza il Vangelo.

Un’economia (con tutto quello che la compone, formule finanziarie comprese) crea veramente profitto solo quando al proprio interno sono compresi i principi fondamentali del Vangelo. Solo la gratuità della charis rende possibile il profitto! Altrimenti quello che si produce non può che essere continua perdita anche per i pochi che si illudono di arricchirsi solo perché possiedono più degli altri.

C’è un nesso inscindibile tra economia e fede e spiritualità… Tra libertà religiosa e libertà economica: senza questa non c’è quella. Mosè, Isaia, Gesù, Paolo e i primi cristiani, Francesco e Gandhi… l’avevano capito! Cosa aspettano i cristiani se non a testimoniarlo almeno a riconoscerlo?

La vera fede è solo quella capace di costruire una nuova economia dove ciascuno possa uscire da un vano agitarsi (nei vari Egitto, Babilonia… e Pomigliano… sparsi nella storia) per poter finalmente trovare l’autentico frutto del proprio lavoro: Qui non ci sono luoghi da citare… né serve che ci siano delle “città di Dio” perché è il pianeta intero ad essere chiamato a risorgere e non una sua parte!

Come?
Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati. Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». Gli risposero: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». Ed egli disse: «Portatemeli qui».
E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla.  Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene.

Il primo movimento è la compassione… quella di Dio che si manifesta concreta in Gesù Cristo, non quella effimera di una smemorata emozione che dura il tempo di un Tg o di una “pacca sulle spalle”.

Il secondo movimento è non aspettare di avere a sufficienza per cominciare a dare, spezzando la logica (dis)umana di un’economia individualista (vadano a comprarsi da mangiare), per condividere il niente che abbiamo. Per poter cominciare a condividere finalmente il necessario e non il superfluo. Ché, se superfluo, non serve (a) nessuno!

Il terzo movimento è uscire dalle dinamiche sacralizzanti che riducono il brano evangelico (nella quasi totalità dei commenti) a una prefigurazione e preparazione dell’istituzione dell'Eucaristia. Semmai – come il racconto dell’Ultima Cena di Giovanni intende – è il contrario: è l’Eucaristia – e quindi la Croce – ad essere prefigurazione e preparazione e costruzione di un’azione divina nella storica che cambi il modo e il mondo delle nostre relazioni economiche (notare che non ho scritto “ancheeconomiche”: perché persino l’amicizia si fonda su una dimensione esistenziale che permetta una relazione economica gratuita. Infatti le amicizie economicamente interessate non sono amicizie! Da ciò si può capire come la dimensione economica – come quella politica e religiosa – è una dimensione trascendentale che comprende tutto l’uomo e il suo agire).

Solo così “celebrare l’Eucaristia” non si riduce a una messinscena, vuota di incontri (nonostante lo sforzo di renderle solenniin un teatrale e spesso roboante quanto infecondo liturgismo), ma diventa un autentico celebrare la Vita Nuovache si è instaurata non solo nel nostro cuore ma anche nelle nostre tasche anche loro aperte come vasi comunicanti. E le nostre celebrazioni diventeranno allora il luogo dove si realizza e si manifesta al mondo intero la gioia evangelica di una solidarietà rinnovata che la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada e le vecchie e nuove ideologie xenofobe e “identitarie”, non potranno far altro che rinforzare, rinsaldare e rivitalizzare.

In questa chiave, tanto per restare ancorati alla nostra storia, non basta più, come ai tempi di Zaccheo, restituire quando si è legalmente rubato costruendo sull’ingiustizia la propria fortuna… E se si vuole anche dissolvere ogni dubbio sull’ennesima machiavellica furbizia, occorre cominciare a pensare e a costruire una economia che al suo interno abbia come profitto la capitalizzazione di ogni giustizia. Un astuto servitore del dio Mammona come GeorgeSoros se vuole fare ammenda veramente di aver usato la finanza come legale arma di distruzione di massa a proprio vantaggio, dovrebbe cominciare da qui. Questo sarebbe veramente restituire la dignità a chi è stata tolta… E ciascuno di noi, per niente estranei all’attuale catastrofe economica mondiale (con l’ingiustizia globale che ne consegue) per la parte che gli compete (più di quanto si pensi!), dovrebbe fare altrettanto. Cominciando, ad esempio, a istituire nelle nostre parrocchie una solidarietà economica che manifesti concretamente la comunione di fede tra di noi. E non passare il tempo a rompere questa comunione con giudizi sprezzanti sulla “non voglia di sacrifici” degli altri…

Se la fede nell’Eucaristia non arriva fin qui essa è mera alienante idolatria. Sì! anche l’adorazione eucaristica può essere idolatrica, perché nessuno si illuda, non basta che l’Eucaristia sia vera, per rendere vera ogni nostra sincera modalità di officiarla!

giovedì 17 marzo 2011

Criminale menzogna

All’interno di questo blog, troverete il link che porta ai video e articoli di Aldo Grasso che nel Corriere della Sera ci aiuta a “decifrare” il linguaggio dell’immagine e in particolare quello televisivo.

Non l’ho messo per capriccio, ma perché sono convinto che oggi bisogna sapersi alfabetizzare sempre più sul linguaggio audiovisivo.
Nessuno di noi potrebbe leggere queste righe se non sapesse interpretare e decodificare le macchie colorate sul suo schermo. Questo ha richiesto a ben vedere a ciascuno di noi anni di studio, nel periodo migliore della propria vita. Oggi diventa sempre più urgente imbarcarsi nello studio del codice linguistico dei messaggi audiovisivi per impedire loro di farci credere vero ciò che vero non è.

Prendiamo ad esempio lo spot che trovate qui in sotto.

Guardatelo una volta poi una seconda, una volta con l’audio, la seconda togliendo l’audio e studiando le immagini e capirete che il semplice fatto di voler far passare un messaggio in questo modo, falsifica tutto il messaggio e svela la disonestà del messaggero.

C’è una partita a scacchi (sinonimo di intelligenza e capacità strategica di prevedere le mosse future!) che è la metafora di un dibattito sul nucleare tra favorevoli e contrari. Solo che il dibattito è falso e vediamo perché.

I due personaggi che giocano sono la stessa persona, la bocca è chiusa, il tono è pacato, tipico in cinematografia del “pensato”: botta e risposta sono la stessa voce, cambia solo in modo quasi impercettibile il tono (fate molta attenzione alle inflessioni sulle parole, riascoltatela più volte), ma sufficiente per notare un non troppo leggero passaggio tra l’ansioso (contrario-nero) e il rassicurante (favorevole-bianco). È il dibattito interno alla coscienza di ciascuno: tra il diavoletto (nero, contrario, cattivo, che vuole il male) e l’angioletto (bianco, favorevole, buono, che vuole il bene)!

Solo che negli scacchi la prima mossa è sempre del bianco, qui invece è il nero che inizia (il diavoletto, il male, la parte negativa di noi, il NO!), il bianco vince (perché è questo sempre il problema all’interno di ogni giornale di enigmistica su cui il lettore deve cimentarsi per trovare la soluzione, tipo: “il nero muove e il bianco vince in due mosse”!
Abile manipolazione coi messaggi subliminali… Notate come gli scacchi del bianco sono candidi e pur presentandosi a sinistra, mostra la parte “destra” del volto: non mostra mai cioè il “volto sinistro”.
Il tono e l’atmosfera hanno lo scopo di farci bere le menzogne abilmente mascherate con mezze verità e rifilate come vere dal falso dibattito…

Per capire “lo scopo” a cui mirano i promotori del nucleare che hanno commissionato lo spot ingannatore occorre affinare quella che io considero la tecnica del judo applicata all’informazione: cedere con intelligenza per poter usare la forza delle argomentazioni dell’assalitore stesso per neutralizzarlo. Proviamo:

Sono contrario all’energia nucleare perché mi preoccupo dei miei figli, dice il nero. E il bianco risponde: Io sono favorevole, perché tra 50 anni non potranno contare solo sui combustibili fossili! Come dire anche io (bianco) sono preoccupato per i nostri figli… e proprio per questo sono favorevole al nucleare: fa niente se omette di dire che tra 50 anni anche il nucleare scarseggerà, con relativa lievitazione dei prezzi! L’astuzia qui sta nel far credere che la preoccupazione, il fine, lo scopo, è identico: salvare la generazione futura dalla catastrofe inevitabile. Ma per far questo deve omettere la verità che il combustibile nucleare è ancor più raro di quello fossile: la menzogna come omissione della verità!

Ci sono dei dubbi sulle centrali – dice il nero (vero). Al ché il bianco risponde mentendo: ma non ce ne sono sulla sicurezza! È spudoratamente falso perché che tipi di dubbi ci possono essere sulle centrali in quanto centrali, se non soprattutto sulla sicurezza? L’abilità sta qui nel separare il dubbio sulla sicurezza dalla sicurezza stessa! A suo modo diabolicamente geniale.

In un crescendo di abile capovolgimento di concetti, ecco che la “Mossa azzardata” del nero diventa “la grande mossa” del bianco: come dire, il futuro è di chi osa! Notare qui come “la grande mossa” è sottolineata dalla mossa del cavallo, sinonimo di forza, libertà, destrezza, virilità… E chi non osa è tutto il contrario di un “cavallo”… come minimo un fifone senza spina dorsale, un “pedone”.

Notare che l’ultima parola, nello pseudo dibattito, è sempre del bianco che contesta il nero, e che a sua volta non ribatte sullo stesso argomento al bianco, ma cambia “argomentazione”. Capito ora perché, contrariamente alle regole del gioco, comincia il nero? Perché il bianco deve avere l’ultima parola! In un dibattito vero il nero avrebbe potuto rispondere come ho risposto io: anche l’atomo si sta già esaurendo; il dubbio è proprio sulla sicurezza; una grossa mossa, se azzardata provoca sempre un grosso danno. E comunque non si gioca d’azzardo con la vita de pianeta e ancor meno con la vita dei propri figli (se arriveremo ad averli e non ci distruggiamo prima!), ecc.

Il colpo finale è ancor più cinico: E tu sei a favore o contro l’energia nucleare? O non hai ancora una posizione? Notare che non chiede se si è favorevoli o contrari alla costruzione di 10, 20, 30… centrali nucleari a due passi da casa propria… ma molto più innocuamente parla di “energia” nucleare! Invitando a prendere posizione che ovviamente con questo spot si cerca di manipolare.

A questo punto si può raccogliere le idee e capire meglio a cosa mira specificatamente lo spot. Cioè in un messaggio non basta capire se uno vuole convincerti ad essere favorevole a una cosa (qui il nucleare) ma occorre domandarsi: quale idea sta cercando di farmi passare nella coscienza? Quale pensiero sta cercando di innestare nella mia mente? Beh, qui è abbastanza facile:
Dopo aver immediatamente identificato il contrari con il male e i favorevoli con il bene: Far credere che ciò che crediamo problema sia la soluzione a tutti i problemi!

Cioè far credere che il nucleare è la soluzione al problema della penuria delle materie prime! E (rovescio della stessa idea) chi è contrario al nucleare è qualcuno che non vuole risolvere il problema ma ci porterà inevitabilmente all’età della pietra.

Non c’è da stupirsi allora se il “Giurì dell’Autodisciplina Pubblicitaria” abbia condannato lo spot del Forum Nucleare Italiano, giudicandolo ingannevole! Anche perché non è proprio la “Croce Rossa” il comitato promotore e finanziatore dello spot! Approfondimenti: qui e qui e qui




domenica 20 giugno 2010

Contra stultos

Fa veramente impressione la lettura attenta del contratto che il capitalismo italiano sta imponendo agli italiani…
Perché non dico Fiat e lavoratori? Perché se questo contratto si impone come modello (come vorrebbero gli stolti: cfr Salmo 92,6) esso va oltre la Fiat e va oltre i lavoratori di Pomigliano e va oltre i soli operai italiani…
Qui si tratta di un “modello” su cui, nelle intenzioni, si intende plasmare l’Italia futura e l’uomo futuro: sul modello originale “cinese” e fotocopie “polacche”.

Se è vero che l’uomo fa il lavoro è anche vero che il lavoro fa l’uomo (cfr G.P. II). E allora non possiamo fare a meno di constatare che questo modello di lavoro, ha come intento di foggiare un anthropos nuovo, un uomo nuovo… Ci domandiamo, quale? Quale typos di uomo, quale idea, quale concetto, quale forma di uomo emerge da un contratto simile? quale filosofia, quale ideologia, quale credo c’è nel modello di uomo che si sottende in una tipologia contrattuale del genere?
Ciò che conta è l’efficienza, la produzione, la domanda del mercato, a cui tutti, capitale e lavoratore gli sono sottomessi… il resto è, appunto, secondario! Il capitale, pur di accrescersi, fagocita se stesso e il lavoratore… Se non è cannibalismo questo che cosa è?

Le giustificazioni non mancano.
Si ha fame, si dice, (di soldi, di lavoro, di tutto), e si omette di dire “chi” ci ha portati alla fame: coloro che tanto si premurano di volerci ora saziare!
Si dice anche che alcuni ne hanno approfittato: scioperi selvaggi, assenteismo ingiustificato. E così per colpire gli abusi di alcuni, si abusa di tutti! La violazione della legge, non autorizza nessuno a violare la legge!

Ma queste sono scuse e lo sappiamo noi come lo sanno loro (Marcegaglia, Marchionne, Mammona), servono solo a chi detiene il potere economico per nascondere la propria avidità… Ci sono gli strumenti e se non ci sono si creano, per colpire chi da semplice operaio si sente in diritto di comportarsi come un deputato al Parlamento o come un dirigente della Confindustria: che diamine stia al suo posto! E non faccia, lui, il mafioso, che già ce ne sono troppi di furbi tra i sindacalisti stupidi e gli imprenditori arroganti…

Ma c’è poco da ironizzare… Le conseguenze vanno forse al di là delle già poco buone intenzioni: non è un ritorno a 50 anni fa, come si legge in alcune analisi seppur fortemente critiche… è un ritorno all’uomo pre-biblico: è come bruciare tutte le bibbie! (altro che Fahrenheit 451!)… Quello che emerge è un’idea di uomo, di vita, di lavoro, che uccide l’uomo: è un ritorno all’Egitto (biblico), là dove è iniziata la nostra storia.
Siamo alla ri-nascita del non-uomo: il tentativo del potere mammonico di creare l’uomo a sua immagine e somiglianza. Perché se vince il capitale, muore l’uomo in quanto umano! E se è un uomo senza capitale, muore anche fisicamente come la manovra berlusco-tremontiano-bossiana insegna: tartassiamo i poveri, tanto quelli ci sono abituati! E poi ce lo chiede l’Europa, che – Vandana Shiva dixit – per salvare l’euro uccide gli europei: Come sempre il capitale mira al capitale ed esige lavoro anche a costo della vita di chi lo fornisce.

Siamo anche all’antitesi di quello che ha espresso ed esprime da anni tutto il magistero ecclesiale e non ultimo l’appello di ancora ieri di Benedetto XVI: occorre salvare il capitale umano (solo così si fa pace tra capitale e lavoro: Tremonti impari!).

È l’annullamento tout-court di migliaia di anni di progresso umano. Non è soltanto l’abolizione di alcuni diritti sanciti dalla Costituzione e dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo o di qualsivoglia altro pezzo di carta seppur solenne foss’anche sacro: è la nullificazione di quel processo di riconquista di sé e delle relazioni con l’altro (liberazione) che dalla “fuga” di Abramo dalle false sicurezze del proprio villaggio, ha portato un frammento di umanità derelitta (schiava!) a costituirsi “Popolo” che via via sotto la guida di Mosè fino a oltre l’avvento di Gesù di Nazaret ha costruito la propria identità nel riconoscersi depositaria e creatrice di un futuro nuovo (promessa) che va oltre se stessa: prima di ogni altro possibile immediato progresso. Perché il progresso non è progresso se non custodisce l’uomo. O per dirla con Carlo Clericetti: Resta da capire a cosa mai possa servire la crescita, se comporta un peggioramento delle condizioni della maggior parte dei cittadini.

Non è inevitabile tutto questo, si può e si deve rifiutare… non per dire no e basta, ma per ritornare a un futuro veramente nuovo per tutti…
Troveranno sempre un popolo disposto a vendersi anche l’anima per molto meno di 30 monete d’argento… ma non possiamo accettare di farlo anche noi “perché se no lo fanno loro”… perché la dignità umana non ha prezzo. Perché la vita a qualunque costo non vale più di un morire per difenderla… Se c’è una testimonianza (martyria) cristiana da vivere oggi, è questa!

Sarebbe un calcolo e un pensiero, cieco e sordo agli insegnamenti della storia (non solo biblica), ingoiare il rospo, non eviterebbe il peggio, ne accelererebbe l’arrivo.
Si deve vomitare a qualunque costo, altrimenti ci avvelenerà… per incominciare ad aiutare anche l’uomo cinese a liberarsi di un modello che lo porterà e ci porterà per paura di morire di fame, alla morte per eccesso di lavoro (se ancora si può chiamarlo così!)…

sabato 12 giugno 2010

Fermiamola!

di ROBERTO SAVIANO

La Legge bavaglio non è una legge che difende la privacy del cittadino, al contrario, è una legge che difende la privacy del potere. Non intesa come privacy degli uomini di potere, ma dei loro affari, anzi malaffari. Quando si discute di intercettazioni bisogna sempre affidarsi ad una premessa naturale quanto necessaria. La privacy è sacra, è uno dei pilastri del diritto e della convivenza civile.
Ma qui non siamo di fronte a una legge che difende la riservatezza delle persone, i loro dialoghi, il loro intimo comunicare. Questa legge risponde al meccanismo mediatico che conosce come funziona l'informazione e soprattutto l'informazione in Italia. Pubblicare le intercettazioni soltanto quando c'è il rinvio a giudizio genera un enorme vuoto che riguarda proprio quel segmento di informazioni che non può essere reso di dominio pubblico. Questo sembra essere il vero obiettivo: impedire alla stampa, nell'immediato, di usare quei dati che poi, a distanza di tempo, non avrebbe più senso pubblicare. In questo modo le informazioni veicolate rimarranno sempre monche, smozzicate, incomprensibili. L'obiettivo è impedire il racconto di ciò che accade, mascherando questo con l'interesse di tutelare la privacy dei cittadini.

Chiunque ha una esperienza anche minima nei meccanismi di intercettazione nel mondo della criminalità organizzata sa che vengono registrati centinaia di dettagli, storie di tradimenti, inutili al fine dell'inchiesta e nulle per la pubblicazione. Il terrore che ha il potere politico e imprenditoriale è quello di vedere pubblicati invece elementi che in poche battute permettono di dimostrare come si costruisce il meccanismo del potere. Non solo come si configura un reato. Per esempio l'inchiesta del dicembre 2007 che portò alla famosa intercettazione di Berlusconi con Saccà ha visto una quantità infinita di intercettazioni di dettagli privati, di cui in molti erano a conoscenza ma nessuna di queste è stata pubblicata oltre quelle necessarie per definire il contesto di uno scambio di favori tra politica e Rai.

La stessa maggioranza che approva un decreto che tronca la libertà di informazione in nome della difesa della privacy decide attraverso la Vigilanza Rai di pubblicare nei titoli di coda il compenso degli ospiti e dei conduttori. Sembra un gesto cristallino. E' il contrario. E non solo perché in una economia di mercato il compenso è determinato dal mercato e non da un calcolo etico. In questo modo i concorrenti della Rai sapranno quanto la Rai paga, quindi il meccanismo avvantaggerà le tv non di Stato. Mediaset potrà conoscere i compensi e regolarsi di conseguenza. Ma la straordinaria notizia che viene a controbilanciare quella assai tragica dell'approvazione della legge sulle intercettazioni è che il lettore, lo spettatore, quando comprende cosa sta accadendo diviene cittadino, ossia pretende di essere informato. Migliaia di persone sono indignate e impegnate a mostrare il loro dissenso, la volontà e la speranza di poter impedire che questa legge mutili per sempre il rapporto che c'è tra i giornali e i suoi lettori: la voglia di capire, conoscere, farsi un'opinione. Non vogliamo essere privati di ciò. Mandare messaggi ai giornali, mostrarsi imbavagliati, non sono gesti facili, scontati. Non sono gesti che permettono di sentirsi impegnati. Sono la premessa dell'impegno. L'intento d'azione è spesso l'azione stessa. Il dichiararsi non solo contrari in nome della possibilità di critica ma preoccupati che quello che sta accadendo distrugga uno strumento fondamentale per conoscere i fatti. La legge che imbavaglia, viene contrastata da migliaia di voci. Voci che dimostrano che non tutto è concluso, non tutto è determinabile dal palinsesto che viene dato agli italiani quotidianamente. Ogni persona che in questo momento prende parte a questa battaglia civile, sta permettendo di salvare il racconto del paese, di dare possibilità al giornalismo - e non agli sciacalli del ricatto - di resistere. In una parola sta difendendo la democrazia.

lunedì 22 marzo 2010

La lezione di Stefano


La spoglia di Stefano Cucchi, tumulata nel cimitero di San Gregorio, ha finalmente pace. La nostra coscienza no. Ci resta negli occhi, non meno che l’immagine del suo corpo larvale nelle foto d’autopsia, lo stupore e l’angoscia di quella sequenza di vita e di morte, ora che la Commissione parlamentare d’inchiesta ha depositato la sua relazione. Un arresto, una notte in caserma, la consegna in carcere, il sotterraneo del tribunale, l’aula giudiziaria, la convalida dell’arresto, l’ospedale, di nuovo il carcere, ancora l’ospedale, e il volto tumefatto e la schiena lesionata in due vertebre, e i giorni senz’acqua e senza cibo, rifiutati, e la morte. L’hanno votata tutti, quella relazione che chiude l’indagine sul versante sanitario: Stefano aveva lesioni quando entrò in ospedale, ma non è morto di botte, è morto per disidratazione.

Questa fine, tremenda nel suo svolgimento, non chiude certo il conto dei quesiti che questa morte ci rovescia addosso, ma ne apre di nuovi, semmai taluno ci dicesse che una fine così è una "morte naturale". Certo è naturale che senza cibo e senz’acqua si muore. Ma il come si muore non è la stessa cosa del perché. Non ci basta il racconto di un rifiuto, ci preme la ragione del rifiuto, è questo che spiega o nega il senso dell’accaduto. Di che il ragazzo voleva «richiamare su di sé l’attenzione del mondo esterno e dei suoi legali». Allora quel rifiuto è l’estremo grido di una disperazione traboccata, e tragicamente inascoltata.

Il lavoro della Commissione ci rassicura che quando lo scandalo avviene nessun uomo è ritenuto così miserabile da patire ingiustizia "come se nulla fosse" (si direbbe in corpore vili), e che si devono fare i conti e colpire le responsabilità; ma non ci basta. Ci preme di ripercorrere l’intera via dolorosa e i momenti in cui Stefano ha incontrato volti e mani protese sulla scandalosa "insignificanza" della sua sventura. Il peggio dell’esser corpo vile non sono le lesioni che gonfiano gli occhi o incrinano le vertebre, sono le orecchie sorde all’invocazione di un contatto con la famiglia, con il legale, con l’amico della comunità di recupero; sono le braccia inerti di fronte ai giorni dello sconforto, sfida o invocazione in faccia alla morte, alla tremenda agonia della disidratazione.

C’è un processo penale in corso. Non mi intrometto nelle tecniche giuridiche, e poi niente di quanto accadrà ridarà la vita a Stefano. Ma sul piano di una civiltà minima sul senso della vita e della relazione umana, mi parrebbe massima ipocrisia dire che si è lasciato morire da sé, è lui che l’ha deciso, era un suo diritto, la nutrizione e l’idratazione non si fanno senza il consenso informato. E il grido che invoca il soccorso di un ascolto e di un incontro dell’anima giocando sul tavolo del rischio del disfacimento del corpo, non val nulla per un medico? Sei medici hanno girato via gli occhi? Noi non gireremo via i nostri.

Dopo l’indignazione incanalata contro il "sistema" (quale scacco per tutti gli apparati dello Stato coinvolti, questa morte ingiusta) dovremo interrogare la deriva culturale che va sfigurando il senso umano del soccorso, proprio a partire dal cuore della professione medica. Fra l’uomo sofferente e l’uomo che lo cura c’è un’alleanza, o una grigia negoziazione indifferente? Lo stesso gesto può chiamarsi aiuto oppure intrusione, la stessa omissione può chiamarsi rispetto oppure abbandono. A tenere in salvo l’umanesimo di un minimo amore il criterio è la verità del "prendersi cura" dell’uomo, rispetto alle mille falsificazioni della nostra indifferenza. Alla fine, è l’indifferenza che dà la morte.

mercoledì 10 marzo 2010

Fuori i vigliacchi!

Peggio di un mafioso? un vigliacco!
Scuoterà la Chiesa il documento della Cei sul Mezzogiorno? E scuoterà il Paese? Tre vescovi in prima linea ne discutono con passione e sperano che non faccia la fine di quello di vent’anni fa, che ha occupato gli scaffali delle biblioteche. Lo dice monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo: «Se dopo Pasqua nessuno ne parlerà più, avremo fallito».
Il testo è assai severo e lancia allarmi. Mette in fila questioni di importanza capitale per l’intero Paese e non solo per il Sud. Eppure, è qui che le preoccupazioni sono più elevate. Osserva monsignor Giuseppe Morosini, vescovo di Locri in Calabria: «Non abbiamo bisogno di solidarietà gratuita né da parte dello Stato, né delle Regioni, né delle altre diocesi. Questo documento servirà se ognuno farà la propria parte».
Ecco il punto, che monsignor Francesco Montenegro, vescovo di Agrigento, spiega così: «A volte manca il coraggio. Ci chiudiamo nelle chiese, non ci sporchiamo le scarpe a camminare nelle strade. Dobbiamo impegnarci a costruire comunità cristiane antagoniste, alternative alla cultura della rassegnazione, della violenza, dell’usura, del pizzo, del lavoro nero».
Ma c’è anche altro che il vescovo di Agrigento sottolinea: «Ci siamo occupati del sacro e non della fede. La gente ci chiede sacramenti e noi glieli diamo. Ma nascondiamo la parola di Dio e sosteniamo un’idea di Chiesa intrecciata attorno alle devozioni, che possono consolare, ma non incidono e non cambiano i comportamenti».
Mogavero teme che la Chiesa diventi icona dell’antimafia: «Tanto c’è la Chiesa che parla. È quello che mi dà più fastidio. Ma anche al nostro interno funziona così. Ci sono preti e laici contenti perché parlano i vescovi. E loro?».
Riprende l’autocritica della nota della Cei sul fatto di non aver accolto, fino in fondo, la lezione di Giovanni Paolo II alla Valle dei Templi e il suo grido contro le mafie: «Non tutti siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Non abbiamo avuto il coraggio di dirci la verità per intero, siamo noi i primi a non essere stati nemici della corruzione e del privilegio. Non va moralizzata solo la vita pubblica, ma anche quella delle nostre chiese. E la parola terribile «collusione» deve far riflettere anche nelle nostre comunità».
Il vescovo di Mazara propone una via: «Basta con le prese di posizione ovattate. Ogni comunità, ogni parrocchia, ogni diocesi scelga un argomento in relazione alla situazione del proprio territorio e agisca: pizzo, usura, corruzione della politica, mafia devota che offre soldi per le feste popolari. Però, bisogna essere pronti a pagare di persona». Montenegro sostiene che qualche provocazione può favorire la riflessione: «Io non ho messo i Re Magi nel presepe, spiegando che sono stati respinti alla frontiera come clandestini. È servito alla gente per rendersi conto in quale Paese stralunato dall’ossessione per la sicurezza stiamo vivendo. Proporrò di abolire ogni festa religiosa nei paesi dove si contano gli omicidi. Il sacro non basta per ritenersi a posto, se poi nessuno denuncia, e la cultura mafiosa è l’unica ammessa».
Spiega Morosini: «La nostra gente deve tornare a essere protagonista. E si diventa protagonisti con il voto e con volti nuovi». Il vescovo di Locri ha partecipato a una manifestazione contro la soppressione di 12 treni: «Proteste inutili, perché manca un progetto per la Locride. La nostra classe politica è inadeguata. Nel documento c’è una frase su questo tema. All’assemblea dei vescovi avevo chiesto di dedicare un capitolo intero». Morosini non accetta le critiche sull’azione troppo debole della Chiesa: «L’azione del vescovo Bregantini non può essere dimenticata. Di altri non parlo. Ma, forse, bisognava essere più chiari, anche nelle responsabilità di una Chiesa a volte troppo timida». Da Famiglia Cristiana (n° 11/2010) per leggere l'articolo per intero clicca qui

lunedì 1 marzo 2010

Professione Giornalista!

Illuminante dialogo a distanza su il Fatto Quotidiano tra Michele Santoro e Barbara Spinelli via Marco Travaglio. Una bella lezione di umanità, libertà, democrazia, storia e linguaggio e tecnica della comunicazione non solo televisiva... Assolutamente da non perdere.

La lettera di Santoro in risposta a quella di Travaglio:
Caro Marco,
risponderò con franchezza alla tua lettera che mi sembra venire da troppo lontano. Siamo diversi e con diverse opinioni su molte cose: legalità, moralità, libertà e televisione. Eppure forse proprio per questo siamo riusciti a diventare amici e, per un pezzo importante della nostra vita, a combattere fianco a fianco contro la censura. È questo l’unico vero miracolo compiuto da Silvio Berlusconi, aver intrecciato vicende professionali distanti come quelle di Biagi e Luttazzi, di Montanelli e di Sabina Guzzanti. La tua e la mia. Vivrei una tua decisione di prendere le distanze da Annozero con grande amarezza ma non per ragioni personali: perché sarebbe, in primo luogo, un torto fatto a un pubblico assai grande e, in secondo luogo, un ulteriore arretramento del confine del proibito che ormai comprende quasi tutti i fatti più scottanti riguardanti i potenti in Italia.

Non sarebbe tuttavia una tragedia o una catastrofe irreparabile. Nel corso della mia lunga esperienza televisiva tanti miei amici e collaboratori hanno scelto o dovuto scegliere di percorrere altre strade. È stata sempre per tutti un’occasione di rinnovarsi, una sfida per allargare gli orizzonti di quel laboratorio del quale sentiamo comunque di continuare a far parte.

Già oggi il tuo raggio d’azione è enorme: scrivi quotidianamente per il Fatto (e non solo), hai un blog seguitissimo, hai una parte da protagonista nel blog di Grillo e riempi i teatri col tuo spettacolo su Tangentopoli. Potresti quindi fare tranquillamente a meno di Annozero, senza più esporti alla fatica e allo stress del corpo a corpo televisivo dove si ha sempre la sensazione, sbagliando, di doversi giocare tutto in pochi minuti.

Una volta, quando avevi soltanto i tuoi libri, non facevi nessuna fatica ad affrontare quegli stessi «farabutti» che oggi, invece, ti appaiono interlocutori inaccettabili. Non Annozero, con i suoi milioni di ascoltatori, ma una qualunque televisione di provincia ti sembrava una buona occasione da non sprecare. Allora ero io che ti invitavo ad affaticarti di meno, a rendere più preziosa la comunicazione, a mettere un freno alla tua generosità, mentre lavoravo a migliorare le luci, la tua posizione in scena, i tempi del racconto e a inserirti più efficacemente nel contesto del programma.

Certo senza le tue straordinarie qualità di scrittore e narratore tutto questo non sarebbe servito a niente. Ma è servito. Nonostante Belpietro, Ghedini o Lupi. Loro sono sempre gli stessi. Tu sei cambiato. Non so se ti accorgi che, quando a proposito di Annozero dici che è una questione di format, stai parlando come un membro della Commissione parlamentare di vigilanza.

Non so se condividi i suggerimenti di Paolo Flores d’Arcais che pretende di spiegarmi quando spegnere e accendere i microfoni di un ospite. Un membro perfetto dell’Agcom. Un apologeta del Berlusconi-pensiero sul «pollaio». Proprio come Furio Colombo e le sue invettive contro i talk-show. D’Arcais e Colombo sono convinti che debba regnare l’ordine del discorso (scritto) che, ovviamente, per loro non è quello del telegiornale di Minzolini ma quello di Report , celebratissimo esempio di una trasmissione basata sul principio di identità e non contraddizione.

Ora, sia ben chiaro, Report piace anche a me, e molto: lo ritengo altrettanto incompatibile di Annozero con gli equilibri imposti dal conflitto d’interesse al sistema informativo. Ma non è l’unico modo possibile di fare inchiesta, come non lo era un tempo il documentario in stile Bbc. Noi proviamo a forzare la gabbia delle compatibilità, ad uscire dal seminato; per mettere a nudo le contraddizioni illiberali del palinsesto non ci accontentiamo di scavarci una nicchia alternativa. Siamo brutti, sporchi e cattivi. Raccogliamo meno consensi di Ballarò ma creiamo un maggior numero di situazioni critiche, più adrenalina, più polemiche, più brecce nella gelatina.

Perciò ho voluto e continuo a volere che, almeno per un po’ di minuti, tu occupi il centro della scena. Sei il simbolo di ciò che il recinto della televisione generalista non vuole più contenere, di tutti coloro che sono stati espulsi e non possono più rientrare. La prefigurazione di un cambiamento possibile. D’altra parte chi è espulso riesce anche a sopravvivere benissimo. Fuori dalla tv generalista l’industria culturale rende ancora possibili profitti importanti per chi produce contenuti forti; ma chi resta è meno libero e chi va via non entra più in contatto con una sterminata periferia, una enorme banlieue culturale nella quale resta confinata una buona metà della popolazione italiana. In questa periferia, almeno qualche volta, Annozero è entrato prepotentemente. Anche grazie a te, e ne vado fiero. E anche grazie a Maurizio Belpietro.

Tu, invece, pensi che Maurizio Belpietro – o Porro o Ghedini – siano soltanto un prezzo pagato alla par condicio, una legge di cui si parla senza conoscerla e di cui nessuno si occupa seriamente, quando per me rappresentano quel vuoto necessario di scrittura che rende la trasmissione imprevedibile. Perfino ciò che è successo giovedì scorso dimostra che nel nostro studio nessuno può sapere in anticipo come andranno le cose. Noi per primi.

Report ha l’andamento di un film. Annozero assomiglia ad una partita di calcio, mette in gioco non solo nozioni ma emozioni, convinzioni profonde, passioni anche viscerali. Quando il gioco diventa noioso e scontato il pubblico più infedele cambia canale. Ed è questa la ragione per cui siamo costretti a inseguire lo spettatore meno affezionato ai nostri programmi, qualche volta perfino deludendo i fan. Il contrario esatto di quello che avviene a teatro.

In passato godevo nel vederti demolire le argomentazioni aggressive con l’ironia e con una precisione chirurgica: adesso chiedi tempo. Un tempo che la tv, a tuo parere, non sarebbe in grado di concederti. Quanto tempo per rispondere a contestazioni che si ripetono come una litanìa monotona e scontata? Cinque minuti? Mezz’ora? Una serata intera? Nella tua lettera potevi essere più esplicito nel criticare la mia conduzione. Io credo che tu non l’abbia fatto perché avresti dovuto aggiungere l’elenco dei «bellissimi servizi» da tagliare per fare spazio alle tue necessità.

Invece che di Bertolaso avremmo almeno saputo tutto di Travaglio? E la volta successiva cosa avremmo dovuto fare se si fosse ripetuta la stessa situazione? La risposta sembra interessarti poco: prima viene il tuo onore, la faccia, la verità. Dovremmo ripetere il disco della condanna per diffamazione pronunciata solo in primo grado, rivedere alla moviola il tuo certificato penale, per convincere l’universo mondo (compreso Belpietro) delle tue qualità morali che al nostro pubblico non sembrano per niente in discussione. Inoltre un giornalista condannato, si fa per dire, definitivamente per diffamazione smette di essere un buon giornalista? Penso proprio di no; come Schumacher che, se va una volta fuori pista, non smette per questo di essere un buon pilota.

Hai saputo schivare e anche incassare molti colpi bassi ma questa volta è bastata una banalissima insinuazione di Porro (e non un’aggressione squadristica) per farti perdere il lume della ragione. Hai frequentato un sottufficiale dell’Antimafia prima che venisse condannato per favoreggiamento. Scusa, qual è il problema morale? Quali sconvolgimenti ha creato nella percezione che i nostri ascoltatori hanno di te questo genere di insinuazioni? Nessuno.

Le critiche, anche le più assurde, fanno parte del nostro lavoro, così come rispettare chi non la pensa come noi, non insultarlo, non delegittimarlo come interlocutore. E se sono gli altri ad aggredirci, dobbiamo rispondere come tu sai fare meglio di me, rapidamente e con le armi dell’ironia. Quando io non l’ho fatto ho sbagliato.

Siamo diversi ma apparteniamo entrambi al pubblico. Solo dal pubblico deriva la nostra credibilità. Perciò hai il diritto di proporti al pubblico come meglio credi, nella forma teatrale dei tuoi spettacoli (senza disturbatori) o, come mi auguro, nel percorso a ostacoli di Annozero. Sai che mi sono battuto con tutte le mie forze per includerti con un regolare contratto e non come un ospite occasionale nella nostra trasmissione. Sono fiero di poter dire che tu sei parte della Rai e del servizio pubblico. Come dovrebbero esserlo Sabina Guzzanti, Daniele Luttazzi e tanti altri. All’inizio di Annozero ero convinto che col nostro ritorno avremmo portato a casa una vittoria importante contro la censura e che presto il mondo sarebbe cambiato. Non è successo, anche se nel frattempo siamo diventati il primo programma di informazione.

Se la televisione è perfino peggiorata non è solo colpa di Berlusconi e dei suoi «trombettieri» ma di chi avrebbe dovuto contrastarlo e non lo ha contrastato e anche di quelli che scelgono di battersi pensando di essere gli unici a farlo con coerenza. Cavalieri senza macchia e senza paura che vogliono segnare a tutti i costi una differenza dal resto del mondo, che mettono la loro purezza e il senso dell’onore prima della libertà: la legge e le regole prima della libertà, la verità prima della libertà. Mentre leggi e sentenze sono solo lo strumento essenziale per l’ordinato funzionamento della società.

Mi chiedi di mettere riparo agli abusi. Con l’esperienza che ho cercherò di inventare qualcosa per evitare l’uso di argomenti provocatori, le interruzioni ad arte, le offese personali. Quello che non posso prometterti è la verità.

La verità profonda di una persona, che si chiami Travaglio, Berlusconi o Santoro non la stabilisce un programma televisivo, non si raggiunge stilando con attenzione la lista dei buoni e dei cattivi. A quelli che sui vostri blog chiedono di definire una volta per tutte ciò che è vero abbiamo il dovere di rispondere che la verità è sfuggente, contraddittoria. La verità è una conquista faticosa e difficile. Per quanto mi riguarda spesso è un faccia a faccia. Tra me e me.


La riflessione e la critica di Barbara Spinelli (che scrive anche su LaStampa)
Caro direttore,
se questi fossero tempi meno bui – i tempi vagheggiati da Michael Oakeshott per esempio, dove al dibattito si preferisce la conversazione – si potrebbe leggere con una certa delizia lo scambio epistolare fra Michele Santoro e Marco Travaglio apparso nei giorni scorsi sul Fatto.
Ma questi sono tempi bui e certe controversie fra giornalisti non procurano speciale godimento. In tempi bui si urla, e l’urlo mal si concilia col diletto. Lo scambio di lettere è tuttavia benefico, sia per chi fa informazione sia per chi la consuma. Finalmente nasce una discussione sul giornalismo italiano, e il fatto che essa si concentri sui talk-show – e in particolare sul modo in cui il 18 febbraio s’è scatenata un’aggressione personale a Travaglio da parte di Nicola Porro, vicedirettore del Giornale – non cambia l’oggetto in esame: l’avvento dei talk-show, cioè della parola giornalistica tramutata in spettacolo o circo, ha infatti effetti capitali sul giornalismo (scritto o parlato) e sul suo presente disfacimento.

COMPLICITÀ AMICISTICA

Mi sia consentita una premessa: penso che tra i giornalisti non dovrebbe esistere alcun tipo di propedeutica complicità amicistica. L’uso molto italiano di darsi subito del tu fra “colleghi” ha qualcosa di corporativo, di falso, anche di insidioso. È nei collettivi ideologici che scatta, automatico, l’abbraccio del Tu. Così come è incongruo parlare di amor di patria invece che di rispetto, ritengo incongrua l’amicizia preliminare fra colleghi. Amore e amicizia appartengono alla privata sfera delle scelte non obbligatorie, non consanguinee.

Tuttavia il giornalismo è un mestiere che crea una sorta di comunità, specie quando si occupa della politica nazionale e dunque è più vicino al potere: di questo vale la pena conversare. Il rischio è che il giornalista prenda gusto alla contesa politica, fino a identificarsi con la figura stessa del politico. Difficile, a questo punto, che egli ricordi la professione peculiare che esercita, e i doveri primari che ha verso il lettore o lo spettatore. Quel che tenderà a dimenticare è che il suo mestiere è sì animato, come quello del politico, da volontà di potenza e dal “piacere acre della gara” (Eugenio Scalfari lo descrive bene nel nono capitolo del libro L’uomo che non credeva in Dio) ma fondamentalmente è cosa diversa.

Contrariamente a quel che si crede è un’attività più scabrosa, proprio perché il giornalista non si sottopone al vaglio delle urne, non è rispedito a casa a intervalli regolari, e questo non gli dà il prezioso senso del limite, della propria mortalità. La censura, nella migliore delle ipotesi, viene solo dal lettore, che può smettere di comprare un determinato giornale, di guardare un determinato show, di leggere un determinato autore. Ma il vero polso della situazione il giornalista non ce l’ha. Se la censura lo colpisce, chi ha in mano l’accetta non è l’utente (l’unico che paghi quel che vede o legge) ma il padrone: un padrone più che gelatinoso in Italia, in quanto non editore puro ma industriale annodato al potere politico, quando non dipendente da esso.

Pur non dandosi reciprocamente del tu, i giornalisti sono dunque legati da qualcosa. Da cosa, esattamente? In parte dalla consapevolezza di questa diversità di vocazione: praticanti e professionisti del mestiere, tutti dovrebbero sapere che il loro potere è altro dal politico. Non è antagonista – perché l’antagonismo presuppone un comune spazio di contesa – ma semplicemente altro. Al tempo stesso,sono legati da un rapporto molto specifico con i fatti, che vanno rispettati per quel che sono evitando che sfumino in opinioni. È il motivo per cui più volte mi sono chiesta, nel 2009, come mai sia mancata una solidarietà, fra giornalisti, con Repubblica e le sue Dieci Domande.

L’undicesima domanda,non detta,era implicitamente rivolta a noi del mestiere: si possono fare domande al politico, che concernono il suo apparato di potere e più precisamente la sua maniera di creare consenso? L’indipendenza del giornalista non è differente dal potere terzo della magistratura, indispensabile all’ordinamento dei checks and balances senza il quale la democrazia scade in dittatura maggioritaria. Non a caso il giornalismo indipendente è dispositivo centrale nelle democrazie ed è chiamato Quarto Potere. Rivedendo il passaggio di Annozero in cui è andata in scena l’aggressione a Travaglio, quel che mi ha colpito è appunto questo: il giornalista che attaccava non sembrava un giornalista, l’osmosi con le fattezze del politico era totale. Porro non si occupava del tema in discussione (la corruttela della Protezione civile, le responsabilità politiche di Bertolaso), ma del giornalista che su questo tema riferiva e denunciava.

Quest’ultimo riferiva fatti(non ancora suffragati ma pur sempre elencati in ordinanze della magistratura inquirente), mentre Porro sembrava a essi affatto indifferente. Di qui l’impressione di un attacco subdolo, oltre che scorretto. Scorretto perché il giornalista che riassumeva i fatti veniva aggredito come se avesse esposto un’opinione, opinabile come tutte le opinioni. Subdolo perché Travaglio veniva attaccato personalmente, in piena coscienza che quest’ultimo non poteva improvvisamente dirottare la trasmissione e scagionarsi di fronte al pubblico (lo ha già fatto a suo tempo su Repubblica e sul suo blog). Siamo in campagna elettorale (son 16 anni che dura:quasi una generazione) e quel che lo spettatore ha visto è l’azzannarsi tra due professionisti dell’informazione: giacché questo avviene, quando il giornalista abbandona il rapporto con i fatti e, durante una competizione elettorale, entra anch’egli in campagna.

Se così stanno le cose, non conta quello che viene riferito sull’indagata Protezione civile. Non conta nemmeno la domanda posta nel corso di Annozero dal direttore di Libero Maurizio Belpietro (forse è stato teso un agguato a Bertolaso?). Altre cose contano, in trasmissioni del genere (Annozero, Ballarò, Porta a Porta): d’un tratto dall’ombra esce un missile, e tira fuori il presunto affaire delle frequentazioni di Travaglio. Un’affaire su cui è stata fatta chiarezza, ma che serve a disorientare lo spettatore-elettore. Che vuole, un giornalista come Porro? Non il Pulitzer evidentemente, perché nessun vincitore di simili premi (da Art Buchwald a Maureen Dowd, da James Risen o Anthony Lewis) passerebbe il tempo denigrando un altro giornalista. Vuol dimostrare a una parte politica di essere suo fedele palafreniere e propagandista .

NOIA E ZAPPING

Per far ciò ha stravolto il mestiere. Un mestiere che il più grande maestro di tutti noi scrivani di giornali, Walter Lippmann, ci ha insegnato fin dall’inizio del secolo scorso. La libertà, così scrisse a quel tempo, non è quella di rendere il giornalista responsabile verso l’opinione sociale prevalente: «Più importante di tutto il resto è rendere l’opinione sempre più responsabile verso i fatti». E ancora: «Non esiste libertà in una comunità cui manchi l’informazione attraverso la quale può scoprire e smascherare la menzogna». Non solo: veramente in gioco non è in fondo la libertà di opinione, e il male non consiste tanto nel sopprimere una particolare idea. “Quel che è davvero mortale è sopprimere le notizie (news)” (Lippmann, Liberty and the News, 1920). Per questo è così bello il motto della Bbc: Put the news first, in primo piano metti le notizie, i fatti, i testimoni. Porro cade nel mortale tranello. Non diversamente dall’imprenditore Berlusconi, scende anche lui in campo, annebbiando le frontiere tra arti e tra mestieri.

Scrive Santoro a Travaglio che l’intero suo “gioco” ha un obiettivo: non diventare «noioso», altrimenti «il pubblico più infedele cambia canale». Non prendersela con le aggressioni ma rispondere con l’ironia, sapendo che una trasmissione di successo non è fatta solo di fan. Sul set ha detto: «Ogni volta che volete insultare Travaglio insultate me, perché a me non me ne frega niente». Certo ogni trasmissione corre il rischio che il pubblico annoiato da monotonie cambi canale.

Ma corre anche il rischio che il canale lo cambi proprio perché il programma di Santoro è un ring che “mette in gioco non solo nozioni ma emozioni, (...) passioni anche viscerali”. Anch’egli, a suo modo, non distingue tra opinioni e notizie, e quando parla di fan – in questo è simile a Vespa – non sembra intendere i fan delle news. C’è infine nella lettera un passaggio sul quale dissento profondamente: è vero, una trasmissione non può farsi paladina di una sola verità, deve sempre strusciarsi contro idee contrarie, senza «stilare la lista dei buoni e dei cattivi”. Ma quel che è falso, quel che fa male e fa soffrire, non è un’opinione bensì un fatto, e il fatto a differenza dell’opinione non puoi relativizzarlo.

È Popper a insegnarlo, che esecrava le verità assolutizzate. A mio parere, questo dovrebbe guidare il giornalista: non la ricerca dell’idea vera – queste verità sì che sono sfuggenti, come afferma Santoro – ma l’individuazione del male concreto, fattuale, che può scaturire dalle contro-verità. Difficilmente confutabili, mali di tal genere non sono sfuggenti. Ovvio che in nessun paese democratico il giornalismo è perfetto. Ma in Italia è singolarmente imperfetto. Senza una informazione indipendente, connessa ai fatti e ai loro testimoni, non esiste funzionamento democratico, e l’aggressione che essa subisce è uno dei punti che maggiormente definisce la non-democrazia di Berlusconi.

Alterare l’informazione prendendo possesso dei media vuol dire disinformare metodicamente i cittadini, che voteranno senza sapere per chi votano e per cosa. Il vero attacco alla sovranità del popolo, sbandierata dal presidente del Consiglio, è qui.

LEZIONE AMERICANA

Prendiamo l’esperienza degli Stati Uniti. Il giornalismo americano, nei primi anni delle guerre di Bush jr, commise errori enormi, di infedeltà ai fatti e di fedeltà al potere politico. I reporter detti embedded dormivano nello stesso letto dei potenti. Ma poi è venuta l’ora della presa di coscienza, dell’ammenda anche se non confessata. I giornalisti hanno scoperto che il loro essere embedded li aveva allontanati dalla realtà. Che importanti verità fattuali, dette agli esordi da giornalisti come Seymour Hersch o testimoni come Hans Blix, non erano state ascoltate.

Certo può capitare di sbagliarsi, a Travaglio come a Hersch e a tanti altri giornalisti d’investigazione. Penso anche che in Annozero, Travaglio abbia goduto di un diritto che tutti dovrebbero avere ma non hanno: quello di dire i suoi testi senza essere interrotto. Il modo in cui oltre alle sue indagini minuziose paga anche questo diritto (dovuto a indubbio talento) non è per questo meno scandaloso, ed è sintomatico di un giornalismo in crisi degenerativa. In America, la presa di coscienza è avvenuta durante l’uragano Katrina, nel 2005, ed è stata un ciclone anch’essa, che ha messo in luce l’inettitudine, lo sprezzo della povera gente (soprattutto nera), l’arroganza-corruzione del governo e della sua Protezione civile (la Fema, ovvero Agenzia federale per il Management dell’Emergenza).

Per il giornalismo americano, è stata un’ora grande di verità, di introspezione, e di ripresa. Spero che quel momento venga anche in Italia. Che scopriremo anche noi le parole di Joseph Pulitzer: «Un’opinione pubblica bene informata è la nostra corte suprema».

sabato 20 febbraio 2010

La bellezza ci renderà liberi

Qui potete scaricare il programma di Radio1 ideato e condotto da Francesca Barra. Ogni puntata contiene una storia legata ad organizzazioni criminali che appartengono alla memoria comune, o il racconto di casi di cronaca di stretta attualità.di Carlo Lucarelli su l'Unità

Vorrei segnalare un programma radiofonico che va in onda su Radio1. L’ho scoperto qualche tempo fa, per caso - disattenzione mia - mentre ascoltavo la radio in macchina. Quando si guida con la radio accesa succede così, la musica e le parole a volte svaniscono sotto il rumore del motore, dei pensieri e della guida, per riaffiorare all’improvviso e farsi sentire di nuovo.
Così ad un certo punto sento parlare di mafia, con serietà e intensità, e già mi stupisce che se ne parli, a quell’ora poi, tarda mattinata. A colpirmi, soprattutto, sono i riferimenti a due parole che risuonano spesso nel programma: una è bellezza, e l’altra è cultura.
Così capisco che la voce femminile che conduce il programma - si chiama Francesca Barra - mi sta raccontando attraverso storie e interviste di come si possano usare la bellezza e la cultura contro le mafie. Anzi, come si debbano usare. Che è un’idea giusta, che condivido in pieno assieme a tanti altri che la pensano così, altri autori, altri scrittori o altri artisti che si stanno dando da fare: che la lotta alle mafie sia certo un problema militare, politico ed economico, ma anche culturale, perché sono anche cultura e bellezza che ti fanno venir voglia di vivere libero e felice in un mondo normale invece di sopravvivere male per morire comunque di violenza, meschinità e sottosviluppo in un mondo mafioso.
La condividono anche i mafiosi questa idea della pericolosità di bellezza e cultura. E ne hanno paura. La prova? I ventitrè proiettili trovati davanti a un teatro di Milano dove Giulio Cavalli (di cui ho già parlato altre volte e ancora lo farò finché sarà costretto a vivere - lui, un attore - sotto scorta) doveva tenere uno dei suoi spettacoli, che è stato sospeso. È così. La bellezza e la cultura, alle mafie, fanno paura.

venerdì 22 gennaio 2010

Gesù parla di sè

In questa III domenica del tempo ordinario, la Chiesa ci invita a tornare a riflettere sul vangelo caratteristico di questo anno C, quello di Luca. Siamo al capitolo 4 – salvo qualche versetto del I capitolo – e siamo agli inizi della vita pubblica di Gesù, in un momento – da questo punto di vista – parallelo a quello narrato domenica scorsa dal vangelo di Giovanni. I primi 2 capitoli di Luca infatti sono i cosiddetti “racconti dell’infanzia”, che dovremmo avere nelle orecchie, perché son quelli che abbiamo meditato nel recente tempo di Natale, da poco concluso; il III e i primi versetti del IV presentano il cosiddetto “trittico sinottico” (battesimo di Giovanni – battesimo di Gesù – tentazioni nel deserto); e i nostri versetti (dal 14 al 21) sono quelli che raccontano l’inizio del ministero pubblico di Gesù in Galilea.
Precisamente, Luca colloca questo inizio a Nazaret, la città dove Gesù è cresciuto: lì, nella sinagoga, Gesù – per la prima volta – dice qualcosa di esplicito su di sé (finora infatti aveva parlato solo in Lc 2,49, quando dodicenne aveva risposto ai genitori «Perché mi cercavate? Non sapete che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?»; e in Lc 4,1-13, rispondendo alle tentazioni): infatti, prende il rotolo del profeta Isaia e legge i versetti 1-2 del capitolo 61, seppur con qualche modifica (tralascia «guarire i contriti di cuore» – presente in Is 61,1 – e introduce – citando Is 58,6 – l’espressione «dare la libertà agli oppressi»; inoltre – a proposito di Is 61,2 – tralascia l’espressione «un giorno di vendetta per il nostro Dio», espressione che avrebbe limitato il significato universale del passo), che rende il testo profetico un testo in cui si accentua l’opera di liberazione e l’universalità di questa liberazione.
Dopo aver letto questi versetti, mentre tutti si aspettano una spiegazione esegetica del testo o una sua applicazione morale, come era prassi comune fra gli abituali predicatori della sinagoga, Gesù torna a sedere e se ne esce con un’espressione sconvolgente: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». In qualche modo cioè Gesù si attribuisce il compimento della promessa isaiana: la parola del profeta si compie con la sua venuta!

Gesù perciò, di sé, sta dicendo: di essere colmo dello Spirito del Signore («Lo Spirito del Signore è su di me»; elemento già presentato in Lc 4,1 «Gesù, pieno di Spirito Santo, ritornò dal Giordano e, sotto l’azione dello Spirito, andò nel deserto») e di essere l’eletto (l’unto) del Signore («mi ha consacrato con l’unzione»).
“Eletto” in vista di cosa? Per «portare ai poveri il lieto annuncio», «proclamare ai prigionieri la liberazione», «ai ciechi la vista», «rimettere in libertà gli oppressi», «proclamare l’anno di grazia del Signore».
Gesù sta allora proponendosi al suo popolo con una pretesa straordinaria… e con un’idea ben precisa del “mondo come Dio lo vuole”. Non a caso il compimento della profezia di Isaia che si compie con la sua venuta, coincide con quello che Marco e Matteo chiamano “la venuta del Regno”. Il Regno di Dio è precisamente questo: che ci sia una buona notizia per i poveri, la liberazione per i prigionieri, la vista per i ciechi, la libertà per gli oppressi, un anno di grazia del Signore… Tant’è che a Giovanni in prigione, dubbioso sul fatto che Gesù fosse davvero il messia («Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”», Mt 11,2-3), Gesù risponde raccontando ciò che accade dove passa lui: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!» (Mt 11,5-6).
Il Regno di Dio dunque, il mondo come Dio lo vuole, sono gambe storte che si raddrizzano, occhi ciechi che ci vedono, orecchie sorde che ci sentono, cuori induriti che si sciolgono… insomma l’umanizzazione della dis-umanizzazione in tutte le sue forme. Sia nel macrocosmo (poveri – prigionieri – ciechi – oppressi), sia nel microcosmo (noi, nelle nostre povertà – prigionie – cecità – oppressioni).
Ed è interessante che nel raccontare gli inizi della vita pubblica di Gesù, tutti gli evangelisti mettano in atto – ognuno a suo modo – uno strumentario specifico per dire che questo personaggio che è apparso sulla scena, è portatore di un messaggio incontrovertibile, univoco, chiaro: sia il passo di Isaia citato da Luca, sia l’episodio di Cana di Giovanni (II domenica del tempo ordinario), sia l’annuncio del Regno di Marco e Matteo, dicono che il compimento delle scritture, l’uomo nuovo come lo pensa Dio, il suo Regno che viene, coincide con la Vita per l’uomo. Questo è Dio!
Ma allora – torniamo a chiederci – perché i poveri continuano ad essere poveri? Anzi, sempre più poveri? Perché i prigionieri restano imprigionati? I ciechi, ciechi? Gli oppressi, oppressi? Anche questo, sia a livello macroscopico che microscopico…
Certo c’è di mezzo la libertà dell’uomo, il suo chiudersi alla proposta affascinante ma tremenda di Gesù della vita che trova Vita solo donandosi… Ma possiamo davvero ridurre – com’era in passato – l’interpretazione del reale, all’esaltazione di Dio per ciò che è buono e alla condanna dell’uomo per ciò che non lo è? Come se ciò che di buono faccio, fosse sempre e solo merito di Dio, mentre ciò che faccio di cattivo fosse sempre e solo colpa mia?
Forse il coinvolgimento delle reciproche libertà assume i contorni di un gioco un po’ più complesso, non banalizzabile…
Un gioco che diventa un po’ più chiaro se si prova a scavare – senza false riverenze – nel mistero che soggiace a questa autodichiarazione di Gesù e alla realtà del mondo che abbiamo davanti. Più radicalmente infatti la domanda è: Perché Gesù, che di fatto ha vissuto così come si è autoproclamato, non ha guarito tutti i ciechi, liberato tutti gli oppressi, ecc…? Perché non ha poi continuato a farlo “automaticamente” con tutti i nuovi nati da donna? Perché non ci ha consegnato un mondo senza poveri, senza prigionieri, senza ciechi, senza oppressi? Se la profezia di Isaia è giunta a compimento in Lui, perché la storia non è cambiata? Gesù forse si sbagliava sul suo conto?
Ecco la domanda radicale…
Eppure se rileggessimo le domande appena poste, chiedendoci nel frattempo quale idea di Dio gli soggiaccia, quale immagine di Salvatore, ci accorgeremmo di entrare immediatamente in conflitto con il volto di Dio e l’immagine di sé che Gesù rivela lungo la sua storia. Per guarire tutti i ciechi, liberare tutti gli oppressi, ecc… Gesù avrebbe infatti dovuto trascendere la fisicità storica in cui, incarnandosi, aveva scelto di vivere (avrebbe dovuto smettere di essere uomo); per continuare “automaticamente” gli stessi miracoli con tutti i successivi nati da donna, avrebbe dovuto saltare la relazione con la libertà umana (avrebbe cioè dovuto smettere di essere colui che crea e pensa l’uomo come l’interlocutore serio della sua vita, ricollocandolo tra le creature determinate solo dalla necessità); per consegnarci un mondo senza poveri, prigionieri, ecc… avrebbe dovuto impedire all’uomo di farsi nella storia (avrebbe cioè dovuto smettere di essere il Dio che non si impone); e così via…
Il punto cioè pare essere quello per cui noi spesso abbiamo un’interpretazione un po’ troppo affrettata e riduttiva di quello che è il volto di Dio che Gesù ci ha rivelato: stando alla citazione di Is 61,1-2, forse un po’ troppo frettolosamente noi diciamo – o diamo per scontato – che Dio è il Dio dei poveri, degli oppressi, dei ciechi, dei prigionieri… Come se Dio fosse una cosa (e immediatamente il nostro pensiero irriflesso va all’immagine “classica” di Dio: onnipotente, infinito, anonimo…) e poi – poiché è buono (come se questa bontà fosse solo una sua qualità che si aggiunge alle altre) – fa cose buone (aiuta i poveri, ecc…). Invece, molto più radicalmente, Dio è colui che fin nelle fibre più intime di se stesso è amore che si dona: non è che Dio è colui che fa il buono, Dio è buono; Dio non è colui che ci lascia un po’ liberi, ma è colui che radicalmente scommette sulla libertà umana, sulla sua storia, sul suo farsi…
Il nostro rischio invece è quello di considerarlo in modo apriorico come il Dio della metafisica greca, a cui poi appiccichiamo qualche nostra buona intenzione, qualche idea riciclata da quello che nell’immaginario collettivo è “il buon Dio”, e che poi rimproveriamo perché non ha saputo gestire bene attributi metafisici greci e attributi misericordiosi romantici…
Ma Dio è Altro da tutto ciò, è radicalmente altro: Lui non fa le cose, lui è Colui che è, è Colui che porta un lieto annuncio ai poveri… ma non perché queste sono “cose carine” che ogni tanto è bello fare, ma perché è Lui che è così; e dietro alle esemplificazioni di Isaia appare il volto del Dio che radicalmente, dalle origini e per sempre, è il Dio della Vita degli uomini. Ma essere il Dio della Vita degli uomini, implica precisamente esserlo, sempre e in modo radicale: rispettandone la libertà, parlandogli nell’intimità, custodendone la storicità… che sono tutte cose che precisamente si compiono in Gesù di Nazaret: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

domenica 27 dicembre 2009

“Io devo occuparmi delle cose del Padre mio!”

Il Vangelo mette in «fibrillazione» il nostro DNA
Non è ancora passato il Natale, la novità misteriosa di un Dio fatto uomo, e già la liturgia ci fa fare un sussulto, con questo figlio – un ragazzo, ormai – che sa cosa vuole e lo difende come “volontà del Padre”, contrastando la sua famiglia – padre e madre sgomenti! La famiglia è la nostra matrice, che ci collega alle radici dell’umanità (… pelle, sangue, ormoni, DNA, strutture psichiche … trasmessi con infinite vicissitudini nei millenni) che fluisce da chissà quanto tempo sulla terra. In un cammino – unica specie vivente, pare! – che l’ha portata alla coscienza, alla consapevolezza di sé, con un indistruttibile briciolo di libertà, nei dinamismi biologici e psichici della necessità vitale in cui siamo intessuti. Il paradigma culturale famigliare che nei vari secoli e nelle varie popolazioni si è imposto, nelle più diverse forme, come incontro della coppia umana e nido dei piccoli, è in disfacimento pressoché da per tutto, tanto più in questi ultimi tempi, sotto la pressione della globalizzazione, che può divenire talora appiattimento dei valori che hanno custodito l’uomo per generazioni.
Gesù ha colto con sorprendente lucidità il dramma della continuità e della rottura, della libertà e della sottomissione, del confronto e della sofferenza che il crescere della persona comporta, senza rinunciare mai alla propria identità in mezzo agli altri, ma anche senza deprezzare mai la diversa impostazione culturale altrui! In questo ragazzo di dodici anni siamo tutti noi uomini e donne, dei millenni passati come dei prossimi, che tentiamo faticosamente di uscire dal guscio degli archetipi culturali, i quali, dopo averlo avviato, impediscono o frenano il nostro destino personale e irripetibile, differente da ogni altro. Una destinazione interiore che a tutti urge dentro – perché non viene solo da noi, ma attraverso noi, da urgenza misteriosa di livelli di coscienza superiori (diciamo così – per intendere gli ampi spazi o i progetti creativi o le diverse espressioni che il Padre di tutti i destini ha spalancati per noi, più dilatati, più vasti, più intensi e più personalizzanti … che ci fecondano e ci nutrono, se gli diamo ascolto). Questo ragazzo, secondo Luca, ne è il profeta … e gli altri, uomini o forse ancor più, donne silenziose e fervide, prima di lui soltanto lo annunciavano, nei templi o nei deserti o nel segreto delle tende e delle case … Il criterio che lo guida, fin dalle sue prime parole, è sempre il “Padre”. Appositamente usa questo termine, perché è lo stesso che nella famiglia tribale accumulava ogni potere di vita e di morte, di autorità suprema. Di modo che soltanto la chiamata in causa del legame personale supremo di ogni uomo al Creatore, vero unico “Padre” di ogni cosa, può attenuare e poi superare l’oppressione che lo schema culturale imponeva al singolo. Diveniamo uomini e donne maturi in proporzione a che prendiamo coscienza di quello che dobbiamo compiere come individui personali, attraverso la consapevolezza della nostra propria identità, che ci commisura e ci distanzia da ogni altro, attraverso il nostro pensiero, il nostro lavoro, soprattutto attraverso la trasformazione della nostra coscienza, attraverso i nostri tentativi di gesti nuovi, che la confermano e la orientano.
È assolutamente determinante, come annuncio evangelico, questo gesto iniziale della vita di Gesù, che prende coscienza di sé, della propria libertà e responsabilità, non sostituibile né suffragabile da nessuna autorità esteriore, per quanto sacra e veneranda. Se non ritroviamo nella vita questa libertà di Gesù di fronte alle varie istanze autoritative, che pure riconosciamo utili e necessarie, avverrà che queste ci pongono in uno stato di difficoltà inibente, di sofferenza paralizzante, ci spengono la libertà, ci soffocano nelle ristrettezze mentali di quelli che possono anche non comprendere le nostre aspirazioni, perché rimasti chiusi su altre posizioni.

Io devo occuparmi delle cose del Padre mio! Queste parole di Cristo, e tutte quelle che nella sua vita si rifaranno alla stessa sorgente interiore di vita e di comprensione, sono alla base di tutto il cammino di liberazione che la coscienza umana ha portato avanti nel corso dei secoli – che lo sappia o meno! – con ribellioni, sofferenze dolorose, resistenze indomite, soprattutto di ignari martiri, testimoni e ricercatori di aneliti più veri, di orizzonti più adeguati, di spazi interiori più vivibili nel divenire della coscienza umana: Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo (Mt 11,26s).



La solennità liturgica di questa domenica costituisce qualcosa di nuovo nella nostra Chiesa, che come spesso capita, prende decisioni ed elabora interventi volti a salvare strutture in crisi, pescando nel tesoro della tradizione antica cose nuove e cose antiche, come il vecchio scriba del vangelo, senza tenere in conto, forse, che la novità evangelica è sempre esplosiva, in ogni contesto culturale venga seminata.
Il disfacimento della famiglia tradizionale ha suggerito di ricorrere al modello e alla testimonianza esemplare della famiglia di Nazareth. Soltanto che tanto è grande la dipendenza che noi abbiamo attraverso la famiglia dalla carne e dal sangue e dalla cultura, tanto più è dirompente la parola e sono provocatori i gesti di Gesù, che proprio nel cuore di questo nodo vitale della vita umana che è la famiglia, pone il seme sconvolgente della propria libertà inappellabile – e quindi della libertà di ogni uomo. Una reazione tanto determinata e imprevista, quella di Gesù, da sgomentare i genitori, ma altrettanto sapiente e mite che subito si è sottomessa alla normalità della vita quotidiana, dei suoi bisogni e dei suoi ritmi. Soltanto dopo, però, che ne ha denunciato vistosamente la precarietà e l’ambiguità. Si sottomette con la decisione di chi consegna lucidamente la propria libertà, mantenendone sempre la chiave, per riprendersela appena rischiasse di tradirla. Perché non è libertà per sé, ma per la verità!
La madre aveva tutti i diritti – secondo il modello ebraico della famiglia – di rimproverare il figlio di essersi allontanato dai genitori senza aver avvertito e senza aver detto dove andava, ma la risposta di Cristo è una di quelle parole luminose e taglienti che scendono nel nostro cuore (oltre che in quello dei genitori) come una spada, che ferisce e illumina… Ma, al momento, è troppa la sofferenza sconvolgente che provoca, per capire subito il dono di futuro che ci porta. E il Vangelo lo nota espressamente: non capirono quello che lui aveva detto. “E anche noi molto lentamente comprendiamo le parole di Cristo, perché, a differenza delle parole degli altri uomini, sono come il grano che viene gettato nella terra e lentamente porta a fecondità la terra e a maturazione il grano. E lentamente le parole di Cristo maturano nel nostro spirito, anche se non sempre ne siamo pienamente coscienti. E la parola che Cristo dà ai genitori costituisce una rottura con il modello della famiglia veterotestamentaria e romantica” (Vannucci).
Viviamo in una società e in una chiesa tanto disorientate e ripiegate su di sé da perdere spesso di vista i grandi orizzonti e gli spazi umani, che mai sono stati così a portata di mano di tutti gli uomini, come in questo nostro tempo! Ogni uomo che prende coscienza di essere chiamato a “compiere le cose del Padre”, è chiamato a essere “differente”cioè libero, ma per amore, per il suo compito di essere se stesso di fronte agli altri, non per contrapposizione competitiva. Soffrirà, ma porterà la novità delle sue piccole conquiste personali, che sono conquiste di coscienza, e che possono trasmettere agli altri, attorno a noi, la novità dei minuscoli interventi o gesti che nessun altro può sostituire. Purtroppo invece una delle più grandi tentazioni della nostra vita è quella di diventare dei ripetitori di un passato, che non ha più aderenza alla vita. Ora, queste novità, queste piccole invenzioni non previste nel fluire del nostro quotidiano, non nascono da noi, non provengono da un ragionamento umano. Perché è la parola di Dio che scende in ogni uomo e ogni uomo è chiamato sulla terra a compiere la volontà del Padre, non la volontà di un altro uomo, di nessun altra autorità. Il Padre infatti, in Gesù, non è più una realtà lontana, ma la Presenza vivente, incombente e immanente nel creato e nelle creature, per orientarle in amore e libertà, verso il compimento del loro specifico e personale destino. Gesù ne è cosciente e cresce (e ci propone di crescere) imparando e trafficando le “cose che sono del Padre nostro”, per la salvezza di tutti. E Maria, che è la figura della Chiesa, tiene nel cuore tutte queste cose, aspettando e pregando che diano il loro frutto nella pazienza dei tempi.
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