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domenica 27 giugno 2010

Il Paradiso non può attendere...

L’uomo, fin dall’alba dei tempi, ha sempre creduto che per andare a Dio dovesse uscire da sé. Fino a sacrificare se stesso, fino a sacrificare la propria vita, il proprio corpo… Fino a sacrificare la propria storia e di quelli che incontrava sul proprio cammino… La verità è trascendente, si dice, supera l’uomo, e quindi se è trascendente – lo dice la parola – va cercata oltre l’uomo, va cercata fuori dall’uomo.

Per anni, per secoli, per millenni, fin dall’uomo dell’età della pietra e fino all’ultimo uomo del futuro, cercare Dio è sempre stato – e sempre umanamente sarà – un tentativo dell’uomo di cercare Dio “in cielo”, tra le nuvole, sulla montagna, nel tempio. In un paradiso oltre il tempo, oltre la storia, oltre la vita… insomma l’eccelsa verità, il sommo bene, il bello supremo che è Dio, variamente interpretato dai filosofi e dalle religioni… è un Dio dell’aldilà… E in nome di questo aldilà si poteva, che dico, si doveva sacrificare tutto l’aldiquà… Amori, affetti, vita… La vita terrena perde così significato, uccidere un uomo, se fatto per Dio…, dare la vita, se fatto per Dio… era (è!?) il massimo di gloria possibile per un uomo… Dopo tutto, non era poi un gran sacrificio, vista l’insofferenza che abbiamo verso la vita che siamo costretti a vivere… infatti molti si danno la pena per rendersela più comoda anche a costo di dannare quella degli altri e di perdere la propria (purché futura!). Noi queste persone le condanniamo solo per invidia, infatti l’attesa di un premio nell’aldilà, con cui conduciamo la nostra vita nell’aldiquà, se ci pensiamo, non esce da quella stessa logica…

C’è il rischio allora di reinterpretare tutte le parole di Gesù e della Chiesa, che parlano di abnegazione e di sacrificio e persino di “premio eterno”, in questa chiave usurata: quasi che il Dio di Gesù Cristo, anche se finalmente scoperto Padre, in fondo non sia poi molto diverso dalla nostra idea primitiva di Dio. Il Dio di Gesù Cristo, sarà anche più buono, sarà anche più misericordioso, sarà anche meno giustizialista di quello che credevamo, ma è sempre un Dio a cui tutto va sacrificato!… Se non altro perché gli dobbiamo la vita: non questa terrena, che ci delude ogni giorno di più, ma almeno quella futura (sperando che sia migliore di quella di adesso…). E così con quella terrena paghiamo il dazio per avere in dono quella eterna. Capite? Non diciamo più che è una conquista, come dicevano i farisei; non è più un Dio cattivo, come affermavano i pagani… ma la sostanza in fondo non cambia: per incontrarlo devo uscire da me, dalla mia umanità, dai miei limiti, dai miei peccati.

Ma siamo sicuri che le cose stiano proprio così? Gli apostoli, sulla cui testimonianza noi fondiamo la nostra fede, ci parlano del comportamento di Dio in Gesù, che ci spinge a rivedere fino in fondo il nostro giudizio e quindi, il nostro cammino per incontrarlo.

Vorrei fissare l’attenzione non tanto su “chi è Dio”… ma su cosa la liturgia di oggi mi ha insegnato sulla struttura di questo incontro: sul “modo” di cercarlo e oserei dire, sul “luogo” in cui incontrarlo: ci chiediamo “dove e come incontrarlo?”, “dove e come cercarlo?”…

Non mi interessa quindi sapere ora chi è questo Dio, se è il vero Dio e se è il Dio di Gesù Cristo… Quello che mi interessa è cercare di cogliere la “struttura” di un possibile ipotetico incontro. Per poter finalmente provare ad essere strutturalmente cristiani… Papa Giovanni Paolo I, quando era ancora cardinale di Venezia, predicando ai suoi sacerdoti li invitava proprio a insegnare alla gente a incontrare Dio… e poi da questo incontro – diceva – ciascuno ne scoprirà il vero volto…

Ebbene io credo che da quando Gesù ha “preteso” di essere quel Dio che ha deciso di mostrarsi all’uomo con un volto di uomo (il suo!), gli schemi non possono essere più gli stessi e questo fatto non può essere senza conseguenze sulla modalità del nostro incontrarlo. Perché il ragionamento primitivo sopra descritto viene radicalmente capovolto. Per la prima volta l’uomo, in Gesù Cristo, fa la scoperta che Dio non è oltre la storia, oltre la vita, oltre la morte, oltre l’umanità, oltre l’uomo… E nei Vangeli, le donne per prime e poi gli altri discepoli, scoprono di poterlo incontrare proprio nel mezzo del loro peccato, finalmente perdonato, senza bisogno di sacrificio e mortificazione alcuna. A partire da Gesù Cristo, tutto allora cambia, tutto viene stravolto, e ciò che fino a ieri credevamo fosse la strada per incontrare Dio, si rivela una strada che lo smarrisce, che fallisce l’incontro e il Dio che credevamo di incontrare si rivela nient’altro che il fantasma delle nostre idee e il silenzio dei nostri cimiteri dove quel Dio preteso trascendente si rivela immanente nella mortificazione della vita.

Invece a partire da Gesù Cristo l’uomo, diventa il luogo dove io posso incontrare Dio: non tanto nel santo, non nel guru, non nel “perfetto” che fa i miracoli… Questo può anche accadere, ma solo pedagogicamente, perché io impari a incontrarlo nella morte e nella malattia (non oltre la morte, non oltre la malattia)…

Questo è il vero senso dei miracoli di Gesù: infatti tutti i miracolati si sono riammalati e sono morti… Perché io impari a incontrarlo nel mio peccato, nell’accettazione del mio limite: questo è il senso del perdono e dell’invito a non peccare più… Perché proprio questo è il peccato: il rifiuto del proprio limite, ad ogni livello… nell’amore, nel coraggio… e ridursi ad avere paura delle proprie paure. Perché io impari a incontrarlo in ogni uomo: anche nel soldato che mi costringe a fare mille miglia con lui, anche in colui che mi perseguita, anche in colui che mi odia: ecco perché il cristiano non ha nemici, non perché è buono, ma perché scopre che anche nel nemico, nel vivere un rapporto subalterno nei suoi confronti, mi è data la possibilità di incontrale Colui che ho sempre cercato: la verità di un Dio Padre…

Il “sacramento” di Dio è l’uomo in tutto quello che fa… nel bene e nel male! Per questo l’olio, il pane, il vino (dell’uomo!) diventano dono dello Spirito, luogo della presenza di Dio e diventano segno di una comunione tra di noi, nel bene e nel male, nella buona e nella cattiva sorte…
Perché si incontra Dio Padre solo ce ci si fa figli come Gesù, che si fa fratello anche di chi lo crocifigge.

In nome del Dio trascendente, i samaritani rifiutano ospitalità a Gesù e agli apostoli… In nome del Dio trascendente, i cristiani in Galazia, si divorano tra di loro, perché ciascuno vuole essere e restare fedele alle proprie tradizioni religiose… anche a costo di – per usare le parole dure di Paolo – divorarsi il fratello (proprio come Satana – direbbe Pietro – «che va in giro cercando chi divorare»…). Che è come dire che a furia di obbedire a Dio sacrificando il fratello, non si può che incontrare Satana, o se volete, la massima menzogna è difendere la verità con la spada del disprezzo… e infatti Gesù dirà di riporla nel fodero, perché la violenza uccide sempre la verità. Non a caso Gesù è «il mite» e Maria è la «piccola serva»: solo così la verità è vera.

E allora tutto diventa secondario, anche la ricerca della verità trascende… perché essa esiste solo in ciò che viviamo (per questo Cristo è la Verità: perché la fa!)… E noi viviamo quella concreta, immanente, nelle nostre rinnovate relazioni di un perdono sempre reciproco e sempre offerto…  E allora – p.es. – se per amore del fratello, per la custodia di questo rapporto, non devo mangiare la carne degli animali immolati per tutta la vita, me ne astengo con gioia…

Ecco allora quello che mi dicono le letture di oggi:
Dio si fa incontro attraverso una voce, un volto, un mantello gettato sulle spalle… nella storia quotidiana. Nella quale e per la quale tutto allora può essere sacrificato! Persino il nostro Dio (nell’Eucarestia che celebriamo Gesù ci ordina proprio questo: sacrificare Lui e noi con lui per fare comunione!). Perché non è sacrificato ma è investito per la comunione e si fa «centuplo», nel tesoro di un amico in più: i buoi di Eliseo diventano, come la sua chiamata, festa per tutti…
Allora non c’è più un Paradiso da attendere, perché il Paradiso è già qui, perché c’è già tutto per fare festa: c’è Dio, c’è il pane, c’è il vino, e il lavoro di chi ce li ha procurati e ha tutto imbandito e ci siamo noi per fare comunione… e ci sei tu col quale io posso fare comunione!

Cosa ci resta ancora da fare? Donare agli altri quello che qui abbiamo ricevuto… perché i morti la smettano di seppellire morti e la vita torni a rifiorire nella nostra vita.

domenica 20 giugno 2010

Contra stultos

Fa veramente impressione la lettura attenta del contratto che il capitalismo italiano sta imponendo agli italiani…
Perché non dico Fiat e lavoratori? Perché se questo contratto si impone come modello (come vorrebbero gli stolti: cfr Salmo 92,6) esso va oltre la Fiat e va oltre i lavoratori di Pomigliano e va oltre i soli operai italiani…
Qui si tratta di un “modello” su cui, nelle intenzioni, si intende plasmare l’Italia futura e l’uomo futuro: sul modello originale “cinese” e fotocopie “polacche”.

Se è vero che l’uomo fa il lavoro è anche vero che il lavoro fa l’uomo (cfr G.P. II). E allora non possiamo fare a meno di constatare che questo modello di lavoro, ha come intento di foggiare un anthropos nuovo, un uomo nuovo… Ci domandiamo, quale? Quale typos di uomo, quale idea, quale concetto, quale forma di uomo emerge da un contratto simile? quale filosofia, quale ideologia, quale credo c’è nel modello di uomo che si sottende in una tipologia contrattuale del genere?
Ciò che conta è l’efficienza, la produzione, la domanda del mercato, a cui tutti, capitale e lavoratore gli sono sottomessi… il resto è, appunto, secondario! Il capitale, pur di accrescersi, fagocita se stesso e il lavoratore… Se non è cannibalismo questo che cosa è?

Le giustificazioni non mancano.
Si ha fame, si dice, (di soldi, di lavoro, di tutto), e si omette di dire “chi” ci ha portati alla fame: coloro che tanto si premurano di volerci ora saziare!
Si dice anche che alcuni ne hanno approfittato: scioperi selvaggi, assenteismo ingiustificato. E così per colpire gli abusi di alcuni, si abusa di tutti! La violazione della legge, non autorizza nessuno a violare la legge!

Ma queste sono scuse e lo sappiamo noi come lo sanno loro (Marcegaglia, Marchionne, Mammona), servono solo a chi detiene il potere economico per nascondere la propria avidità… Ci sono gli strumenti e se non ci sono si creano, per colpire chi da semplice operaio si sente in diritto di comportarsi come un deputato al Parlamento o come un dirigente della Confindustria: che diamine stia al suo posto! E non faccia, lui, il mafioso, che già ce ne sono troppi di furbi tra i sindacalisti stupidi e gli imprenditori arroganti…

Ma c’è poco da ironizzare… Le conseguenze vanno forse al di là delle già poco buone intenzioni: non è un ritorno a 50 anni fa, come si legge in alcune analisi seppur fortemente critiche… è un ritorno all’uomo pre-biblico: è come bruciare tutte le bibbie! (altro che Fahrenheit 451!)… Quello che emerge è un’idea di uomo, di vita, di lavoro, che uccide l’uomo: è un ritorno all’Egitto (biblico), là dove è iniziata la nostra storia.
Siamo alla ri-nascita del non-uomo: il tentativo del potere mammonico di creare l’uomo a sua immagine e somiglianza. Perché se vince il capitale, muore l’uomo in quanto umano! E se è un uomo senza capitale, muore anche fisicamente come la manovra berlusco-tremontiano-bossiana insegna: tartassiamo i poveri, tanto quelli ci sono abituati! E poi ce lo chiede l’Europa, che – Vandana Shiva dixit – per salvare l’euro uccide gli europei: Come sempre il capitale mira al capitale ed esige lavoro anche a costo della vita di chi lo fornisce.

Siamo anche all’antitesi di quello che ha espresso ed esprime da anni tutto il magistero ecclesiale e non ultimo l’appello di ancora ieri di Benedetto XVI: occorre salvare il capitale umano (solo così si fa pace tra capitale e lavoro: Tremonti impari!).

È l’annullamento tout-court di migliaia di anni di progresso umano. Non è soltanto l’abolizione di alcuni diritti sanciti dalla Costituzione e dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo o di qualsivoglia altro pezzo di carta seppur solenne foss’anche sacro: è la nullificazione di quel processo di riconquista di sé e delle relazioni con l’altro (liberazione) che dalla “fuga” di Abramo dalle false sicurezze del proprio villaggio, ha portato un frammento di umanità derelitta (schiava!) a costituirsi “Popolo” che via via sotto la guida di Mosè fino a oltre l’avvento di Gesù di Nazaret ha costruito la propria identità nel riconoscersi depositaria e creatrice di un futuro nuovo (promessa) che va oltre se stessa: prima di ogni altro possibile immediato progresso. Perché il progresso non è progresso se non custodisce l’uomo. O per dirla con Carlo Clericetti: Resta da capire a cosa mai possa servire la crescita, se comporta un peggioramento delle condizioni della maggior parte dei cittadini.

Non è inevitabile tutto questo, si può e si deve rifiutare… non per dire no e basta, ma per ritornare a un futuro veramente nuovo per tutti…
Troveranno sempre un popolo disposto a vendersi anche l’anima per molto meno di 30 monete d’argento… ma non possiamo accettare di farlo anche noi “perché se no lo fanno loro”… perché la dignità umana non ha prezzo. Perché la vita a qualunque costo non vale più di un morire per difenderla… Se c’è una testimonianza (martyria) cristiana da vivere oggi, è questa!

Sarebbe un calcolo e un pensiero, cieco e sordo agli insegnamenti della storia (non solo biblica), ingoiare il rospo, non eviterebbe il peggio, ne accelererebbe l’arrivo.
Si deve vomitare a qualunque costo, altrimenti ci avvelenerà… per incominciare ad aiutare anche l’uomo cinese a liberarsi di un modello che lo porterà e ci porterà per paura di morire di fame, alla morte per eccesso di lavoro (se ancora si può chiamarlo così!)…

lunedì 22 marzo 2010

La lezione di Stefano


La spoglia di Stefano Cucchi, tumulata nel cimitero di San Gregorio, ha finalmente pace. La nostra coscienza no. Ci resta negli occhi, non meno che l’immagine del suo corpo larvale nelle foto d’autopsia, lo stupore e l’angoscia di quella sequenza di vita e di morte, ora che la Commissione parlamentare d’inchiesta ha depositato la sua relazione. Un arresto, una notte in caserma, la consegna in carcere, il sotterraneo del tribunale, l’aula giudiziaria, la convalida dell’arresto, l’ospedale, di nuovo il carcere, ancora l’ospedale, e il volto tumefatto e la schiena lesionata in due vertebre, e i giorni senz’acqua e senza cibo, rifiutati, e la morte. L’hanno votata tutti, quella relazione che chiude l’indagine sul versante sanitario: Stefano aveva lesioni quando entrò in ospedale, ma non è morto di botte, è morto per disidratazione.

Questa fine, tremenda nel suo svolgimento, non chiude certo il conto dei quesiti che questa morte ci rovescia addosso, ma ne apre di nuovi, semmai taluno ci dicesse che una fine così è una "morte naturale". Certo è naturale che senza cibo e senz’acqua si muore. Ma il come si muore non è la stessa cosa del perché. Non ci basta il racconto di un rifiuto, ci preme la ragione del rifiuto, è questo che spiega o nega il senso dell’accaduto. Di che il ragazzo voleva «richiamare su di sé l’attenzione del mondo esterno e dei suoi legali». Allora quel rifiuto è l’estremo grido di una disperazione traboccata, e tragicamente inascoltata.

Il lavoro della Commissione ci rassicura che quando lo scandalo avviene nessun uomo è ritenuto così miserabile da patire ingiustizia "come se nulla fosse" (si direbbe in corpore vili), e che si devono fare i conti e colpire le responsabilità; ma non ci basta. Ci preme di ripercorrere l’intera via dolorosa e i momenti in cui Stefano ha incontrato volti e mani protese sulla scandalosa "insignificanza" della sua sventura. Il peggio dell’esser corpo vile non sono le lesioni che gonfiano gli occhi o incrinano le vertebre, sono le orecchie sorde all’invocazione di un contatto con la famiglia, con il legale, con l’amico della comunità di recupero; sono le braccia inerti di fronte ai giorni dello sconforto, sfida o invocazione in faccia alla morte, alla tremenda agonia della disidratazione.

C’è un processo penale in corso. Non mi intrometto nelle tecniche giuridiche, e poi niente di quanto accadrà ridarà la vita a Stefano. Ma sul piano di una civiltà minima sul senso della vita e della relazione umana, mi parrebbe massima ipocrisia dire che si è lasciato morire da sé, è lui che l’ha deciso, era un suo diritto, la nutrizione e l’idratazione non si fanno senza il consenso informato. E il grido che invoca il soccorso di un ascolto e di un incontro dell’anima giocando sul tavolo del rischio del disfacimento del corpo, non val nulla per un medico? Sei medici hanno girato via gli occhi? Noi non gireremo via i nostri.

Dopo l’indignazione incanalata contro il "sistema" (quale scacco per tutti gli apparati dello Stato coinvolti, questa morte ingiusta) dovremo interrogare la deriva culturale che va sfigurando il senso umano del soccorso, proprio a partire dal cuore della professione medica. Fra l’uomo sofferente e l’uomo che lo cura c’è un’alleanza, o una grigia negoziazione indifferente? Lo stesso gesto può chiamarsi aiuto oppure intrusione, la stessa omissione può chiamarsi rispetto oppure abbandono. A tenere in salvo l’umanesimo di un minimo amore il criterio è la verità del "prendersi cura" dell’uomo, rispetto alle mille falsificazioni della nostra indifferenza. Alla fine, è l’indifferenza che dà la morte.

martedì 15 dicembre 2009

Lo sfregio

Di Marco Belpoliti dal sito Nazione Indiana

Che cosa suggerisce la visione del viso insanguinato del Presidente del Consiglio? Quello di un uomo che ha subito un incidente, che si è rotto il labbro, che si è fratturato il naso, che sanguina copiosamente. Un accidente casalingo, un incidente d’auto, un’effrazione improvvisa e inattesa. Qualcosa di fortuito e casuale. In realtà, come sappiamo tutti per averlo visto nei telegiornali, o su You Tube, Silvio Berlusconi è stato colpito da un oggetto scagliato con forza da un uomo.
Un attentato dissennato, dato l’oggetto usato per ferirlo – un souvenir, un simbolo della città di Milano in miniatura –, e vista la situazione. Un gesto folle, eclatante, assurdo. Un attentato in miniatura, si dovrebbe dire, perché non mortale, nonostante la situazione e il contesto, simile a quello di mille altri attentati a uomini politici negli ultimi due secoli: all’aperto, tra la folla, all’inizio o alla fine di un comizio. Qualcuno si sporge tra la massa dei sostenitori e compie l’atto fatale. Ma qui non accade.

La follia ha sempre metodo, e più di una ragione. Chi ha scagliato l’oggetto contro il Presidente del Consiglio, Massimo Tartaglia, voleva violare il corpo del Re, un corpo sacro, che diventa tale attraverso l’investitura del potere, i rituali della vestizione, le cerimonie della proclamazione, il culto che lo circonda. In queste settimane Silvio Berlusconi ha spesso parlato dell’investitura che avrebbe ricevuto dal Popolo; ha parlato, seppure con metodi mediatici da telegiornale e tele-spot, del proprio potere in termini sacrali, simili a quelli dei sovrani medievali e rinascimentali. Ha caricato di segni e simboli la sua stessa persona.

Si tratta di un processo che va avanti da tempo, in modo postmoderno, e non più medievale, attraverso tecniche che tendono a rendere giovane e quasi eterno il suo corpo: fitness, lifting, liposuzioni, trapianti dei capelli, cure di vario tipo e grado. L’eternità del corpo di Berlusconi sfida la mortalità stessa del corpo tradizionale del Re, destinato, alla pari di tutti i corpi, a invecchiare e morire. Nella tradizione medievale e moderna la regalità, il corpo immortale del Re, è trasmessa ai discendenti: “Il Re è morto, viva il Re”, si proclama quando muore il vecchio re e gli succede il nuovo.
Nel caso di Berlusconi il corpo vivo coincide con la regalità. Il corpo del Capo è diventato il corpo politico stesso, la sua regalità riposa sul suo stesso corpo che egli cerca di sottrarre al passare del tempo, al suo naturale logoramento, per renderlo, e qui sta il paradosso, eterno nel tempo: “una giovinezza eterna senza passato”.
È una mescolanza di aspetti antichi e moderni, medievali e postmoderni. L’aver posto tutta l’attenzione sul proprio corpo, in sintonia con quello che accade all’intera società occidentale, fondata sul “narcisismo di massa” e sulla cura ossessiva del corpo, è l’elemento centrale della sua politica. Abbiamo un solo corpo, ci dice continuamente la pubblicità, bisogna curarlo. Si tratta dell’unico bene di cui disponiamo, per questo va conservato, modellato, ringiovanito. Berlusconi si trova al culmine di questo processo, lo incarna e lo orienta con i suoi stessi comportamenti.
Ma la sacralizzazione del corpo mortale del Capo ha sempre messo in moto meccanismi opposti di desacralizzazione, come è accaduto molte volte nella storia. Nel 1990 a Sofia, la folla inferocita assaltò il mausoleo del Capo, Gheorghi Dimitrov, fondatore del Partito comunista bulgaro, e cercò di bruciare la sua mummia. Nel 1945 il corpo morto di Benito Mussolini fu gettato sul selciato di Piazzale Loreto, e dissacrato mediante una sconcia impiccagione a testa in giù. La folla l’aveva acclamato, ora la folla l’ha deturpato. Sono tanti i gesti del genere che traggono la loro motivazione nel rovesciamento della sacralità stessa del leader.
Il messaggio sacrale della ritualità moderna, ci spiegano gli antropologi, fa a meno della sfera religiosa tradizionale, e non ha più bisogno di ricorrere alle magie e alle superstizioni del medioevo, quando ai Re di Francia veniva attribuito il potere taumaturgico del tocco che guariva dalle malattie perniciose della pelle. Tuttavia il sacro non è scomparso, si è solo trasformato. Meglio: si è travestito, è entrato a far parte della nostra vita quotidiana attraverso gli schermi televisivi, le riviste patinate, i messaggi pubblicitari, i personal computer. Che lo sappia o no, che sia studiato o meno, Silvio Berlusconi mette in moto meccanismi che funzionano per gli attori come per i santi, per Marylin Monroe e per Padre Pio. Il corpo è sacro nella sua stessa materialità, in quanto corpo che muore, per questo viene investito di una significato totale e totalizzante.
Due gesti compiuti da Silvio Berlusconi ferito dall’atto del folle di ieri colpiscono. Col primo egli si china, si copre il viso con un pezzo di stoffa. Qui c’è il gesto umano, della persona ferita, che cerca riparo, che è stordita, che non capisce cosa gli è accaduto, e vacilla. Col secondo il Capo ritorna tale: dopo essere entrato nell’auto, spinto dai suoi guardiaspalle, esce di nuovo. Si mostra alla folla. Vuole far vedere che è vivo, certo, rassicurare i suoi sostenitori, ma vuole anche compiere un gesto di ostensione. Una sorta di Sacra Sindone al vivo: viva e sanguinolenta.
Si mostra perché è nell’ostensione che il suo potere corporale esiste e prospera. Ha compiuto tutto questo in modo istintivo, senza ripensamenti. Fossimo stati negli Stati Uniti, la sicurezza lo avrebbe caricato in auto e sarebbe partita a tutta velocità. Poteva esserci ancora pericolo. No, Silvio Berlusconi sfida il pericolo, si espone di nuovo, seppur dolorante, col sangue sul viso, atterrito ma vivo, allo sguardo dei fedeli, perché questo è la natura stessa del patto che ha stretto con loro.
La politica dell’immagine di Silvio Berlusconi, che passa attraverso sempre più attraverso la politica del proprio corpo, mostra qui qualcosa d’inquietante: il suo legame con la vita e insieme con la morte.
Il folle gesto simbolico di Tartaglia rivela quel lato in ombra che la sacralizzazione quotidiana delle immagini televisive e fotografiche nasconde, e che al tempo stesso ne è il rovescio: l’inconscio desiderio di desacralizzazione. Lo sfregio, l’abrasione, il colpo al viso sono antropologicamente – sacralmente, si dovrebbe dire – parte stessa di quella politica d’incentivazione del corpo. L’ostensione chiama implacabilmente la violazione. Il gesto di ieri a Milano è stato compiuto da un folle, che nella sua follia ci manifesta qualcosa di terribile. Il potere del sacro non perdona. Di Marco Belpoliti dal sito Nazione Indiana



Nota: "Il corpo ferito del Capo" è il titolo originale del post (citato anche da Filippo Ceccarelli in un suo articolo su Repubblica.it).

L'immagine con cui io l'ho accompagnato, spero non venga ritenuta "offensiva" o "fuori luogo". Essa cerca soltanto, nello stabilire un parallelo, di sottolineare la pertinenza delle argomentazioni e ricordare come "l'oggetto sacrale", artistico e non, religioso o profano, è "corporalmente" esposto , "radicalmente indifeso", allo "sfregio" dissacrante e desacralizzante...
La "morte" di Dio (o il suo tentativo), passa sempre per la morte del "corpo" (o il suo "ferimento"): tentativo che spesso coincide con la loro "riduzione idolatrica".
Il senso cristiano della "resurrezioni dei corpi", sta indicare anche questo: il ristabilimento, in Cristo, della regalità di Dio e della dignità dell'uomo nella loro "relazionabilità permanente", che nemmeno il ferimento o la morte possono oramai diminuire. Ed è anche questo il senso del Natale!

giovedì 27 agosto 2009

Un Dio meticcio

Dopo la lunga “pausa” estiva, caratterizzata dalla lettura del capitolo 6 di Giovanni, la liturgia riparte con la lettura corsiva del vangelo di Marco. Siamo al capitolo 7, quello che segue appunto la moltiplicazione dei pani nella versione di questo evangelista e le guarigioni di Gesù nella regione di Gennesaret. Quel brano si concludeva con un’atmosfera assai positiva: «Là dove giungeva, in villaggi o città o campagne, deponevano i malati nelle piazze e lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello; e quanti lo toccavano venivano salvati», Mc 6,56, che è il versetto immediatamente precedente all’incipit del brano odierno. Quest’ultimo si apre invece bruscamente su una scena di controversia con i farisei e gli scribi, che richiama da vicino l’atmosfera dura che domenica scorsa aveva tratteggiato Giovanni.
L’occasione della discussione in questo caso è la critica che viene mossa a Gesù perché i suoi discepoli «non si comportano secondo la tradizione degli antichi», nella fattispecie «prendono cibo con mani impure, cioè non lavate», come spiega il testo stesso.
La reazione di Gesù («Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti…») mostra come oggetto del contendere non siano tanto le puntuali e contingenti mancate abluzioni, quanto piuttosto la logica che sta dietro al rimprovero.
Gesù infatti non si sofferma a giustificare i suoi sul perché non si siano lavati le mani prima di mangiare, ma in modo veemente svela la dinamica che soggiace alla polemica farisaica: e cioè il mis-conoscimento del rapporto dell’uomo con la legge di Dio e dunque con Dio stesso.
Si tratta di un mis-conoscimento che – stando a come prosegue l’incalzante risposta di Gesù – si colloca a due livelli: innanzitutto vi è un mis-conoscimento antropologico (legato cioè a chi l’uomo sia) e poi un mis-conoscimento teologico (legato a chi Dio sia).

Per quanto riguarda l’uomo infatti, Gesù mostra come il modo legalistico–puritano di intendere la legge da parte dei farisei, di fatto avvalli l’idea che sia ciò che sta fuori dall’uomo a “contaminarlo”. Come spiega bene Raniero La Valle nel suo Se questo è un Dio ciò ha origini molto lontane: «Risalendo alle origini, il primo impulso documentato nell’esperienza di Israele è stato quello di stabilire una netta separazione dal sacro (per gli ebrei qadoš). Se il sacro fa male [«Chi vede Dio muore»], meglio prenderne le distanze, fissare una netta demarcazione di confini. Ma la cosa non è affatto facile, perché il sacro non si fa agevolmente circoscrivere, invade tutta la realtà. […] E se il sacro malefico invadeva tutta la realtà, il problema era appunto quello di ritagliarne e separarne lo spazio profano, una specie di zona franca di ciò che restava indenne e disponibile all’uomo. E così fu fatto, e sul confine fu fissata una barriera protettiva, i cui effetti, come spesso è dei muri, saranno devastanti. La barriera era quella che distingueva l’impuro dal puro; e le norme di purità furono poste a garanzia di tutto il sistema. […] All’inizio al sacro si sposava il termine impuro, al profano il termine puro. Impuro è ciò che sta in contatto col sacro, e ne viene contaminato. […] Poi le cose cambiano […]: l’impurità viene legata al peccato, e il rapporto tra le due coppie di opposti [puro-impuro; sacro-profano] si inverte, da parallelo che era; è la purità, non più l’impurità che viene attirata nella sfera del divino; distinguere il sacro dal profano coincide ormai con la separazione del puro dall’impuro. Dio tre volte qadoš, sacro, sacro, sacro, come lo cantano i cherubini di Isaia (Is 6,3) è puro; è il mondo, è il profano, è la storia che giacciono nell’impurità. […] Questa concezione del contrasto tra puro e impuro è troppo importante, è troppo potente nella sua pretesa di invadere e spartire l’intera realtà umana e divina, per liquidarla come una fissazione di rubricisti, per non interrogarsi sulla sua persistenza storica, per non chiedersi se non sia rimasta all’opera fino a oggi, anche se in forme sempre mutate. Anche le pulizie etniche vengono da lì. E non basta nemmeno dirimere la questione se alla coppia sacro-profano corrisponda la coppia impuro-puro o viceversa. […] Ancora più necessario è chiedersi in che cosa consista l’essere puro o impuro, sia che a essere puro sia il sacro, come è ormai nel senso comune, sia che lo fosse il profano, come era all’inizio. […] Ora dalla lettura delle prescrizioni bibliche, dalla ricognizione dei testi ebraici antichi […] risulta che il connotato essenziale della purità consiste nella separazione dei diversi, e che il disordine della impurità consiste nella loro reciproca contaminazione. La purità sta nella omogeneità e identità con se stesso di ognuno dei due ordini, il sacro e il profano, l’impurità sta nella loro congiunzione, confusione, interferenza. Per estensione, la purità è non mischiarsi con l’altro da sé, l’impurità è il meticciato. La purità è la solitudine, l’impurità è la compagnia. […] Quella che si afferma è una antropologia della disuguaglianza per natura degli esseri umani. La discriminazione tra puro e impuro degenera in una discriminante tra uomini e no, perfetti e incompiuti, nobili e volgari, integri per natura e malriusciti e contaminati. La categoria puro-impuro diventa il paradigma e il primo travestimento culturale di una discriminazione, e perciò di un dominio, che percorrerà tutta la storia» [pagg. 76-86].
Ciò che mi contamina è dunque ciò che sta fuori di me, è l’altro. Questa è la mentalità ebraica dei farisei che parlano a Gesù e però anche la nostra, basta pensare che per non farci contaminare ne abbiamo fatti morire altri 75 in mare senza soccorrerli.
Questa è la logica antropologica che Gesù invece vuole ribaltare, alla quale anzi si oppone con violenza: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». Gesù cioè – quello che Raniero La Valle arriva a chiamare il “Dio meticcio”, proprio per sottolineare questa opposizione alla logica della contaminazione che arriva da fuori – rimette a fuoco dal suo punto di vista la “questione uomo”: non sono le cose esterne il problema dell’uomo, ma è l’uomo stesso ad essere problema per se stesso. Ognuno è cioè richiamato a se stesso, alla qualità della sua interiorità, allo spessore della sua intimità più intima, al cuore del suo cuore. Questa è la sede del puro e dell’impuro, del sacro e del profano, che al di là dell’abbinamento di significato, vuol dire che è il cuore dell’uomo la sede di una vita buona o meno. E non buona in senso solo morale, ma nel pieno senso esistenziale, evangelico, umano. Gesù, in buona sostanza, riconduce l’uomo a sé, mostrando che è ora di smetterla di “arrangiarsi” nella vita dando la colpa ad altro o ad altri o ad Altro, cioè pensandola, decidendola, vivendola secondo una logica che non mi chiama mai in causa personalmente, ma trova sempre il problema ad extra. È tra te e te – pare dire Gesù – che si determina la qualità della vita.
E questo – come dicevamo – non può non contemplare anche il livello del rapporto col Signore. La relazione al sacro che mettevano in atto i farisei (e noi con loro) è infatti una relazione de-responsabilizzante. Basta definire i confini, basta sapere cosa si può fare e cosa no, basta conoscere cosa è dovuto a Dio, che tutto è risolto: il resto è il mio spazio, sono le mie cose, è la mia vita, Lui è fuori, nel suo spazio, nelle sue cose, nella sua vita. Ma così la relazione non esiste: è solo rimandata o circoscritta alle cose, mai ai cuori dei due interlocutori.
Ma questo non è Dio.
Scrive infatti ancora Raniero La Valle: «Se [Dio] ci avesse tenuto alla purità, alla non contaminazione, alle identità prigioniere di se stesse, non avrebbe fatto l’uomo a sua immagine, non avrebbe introdotto la riproduzione sessuata, causa di tutte le combinazioni e le differenze, non avrebbe dato corso alla storia, la quale senza relazioni non sarebbe possibile».
Soprattutto non è il Dio di Gesù Cristo.
«Con l’apparizione di Dio nel bambino neonato accadde la caduta di tutta la strutturazione della realtà nelle categorie di puro e impuro e la sua riconduzione a unità. Il primo segno è che per il parto non si trova luogo – che fosse una casa o un albergo – dove fosse possibile osservare le regole di purità», (cfr Lev. 12,2 per le regole di purità per la donna che aveva appena partorito e Is 1,3 per la vicinanza agli animali). «Se quella era la nuova “Presenza” di Dio sulla terra, essa si manifesta quindi fuori del luogo deputato, e fino ad allora esclusivo; fuori del santo dei santi, fuori del tempio, senza la mediazione dei sacerdoti vestiti solo di lino; è un’altra struttura del divino che cade. Ciò troverà poi piena esplicazione nella risposta di Gesù alla Samaritana («Né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre; i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità, Giov. 4,21-23) e nel fatto che la sua morte e risurrezione avverranno fuori della città, fuori del tempio. Ma è già alla nascita che egli si pone fuori del recinto del sacro. […] La divisione tra sacro e profano entra in crisi con l’incarnazione. In quella che nella liturgia e nell’arte sacra chiamiamo “epifania di Gesù”, non ve n’è più traccia. Finisce quell’ambiguo gioco di rimandi tra puro e impuro, tra sacro puro e profano impuro. E cade non perché sopravviene una concezione più avanzata, ma perché ne viene meno (ne viene tolto) il presupposto radicale: la giustapposizione tra il divino e l’umano, l’intransitabilità della soglia che divide il mondo da Dio. Se l’invasione di campo del sacro nel profano e del profano nel sacro, la mescolanza, la contaminazione tra Dio e uomo rappresentano la massima impurità, proprio questa Dio sceglie e fa sua. Il gesto sorprendente di Dio è di mantenere la distinzione ma di abolire la distanza. […] La massima impurità diventa pertanto la nuova forma dell’economia divina: la comunione del sacro col profano (nulla è più riservato, tutto è riportato alla condizione comune), il meticciato tra il divino e l’umano. Il Dio puro dell’assoluta trascendenza si impasta anche lui di terra, e si presenta nel volto di Cristo come divino e umano insieme, “perfetto nella divinità e perfetto nell’umanità, veramente Dio e veramente uomo”, come professa il Concilio di Calcedonia. Un Dio meticcio» [pagg. 97.115-118].

venerdì 20 marzo 2009

Gli occhi di Dio

Racconta Simpliciano in Minima episcopalia che, promosso vescovo del minuscolo resto della mitica Atlantide, al fine di esiliare ai confini del mondo la sua libertà di parola, prese a celebrare le Sante funzioni faccia a faccia col popolo dei pescatori nella lingua del luogo, invece che rivolto all’abside cieca della rocciosa cappella nell’algido latino della romana liturgia.
Fu allora, prosegue, che, avendogli il papa, Benedictus vattelapesca, intimato, sotto minaccia di scomunica, di officiare i riti nella lingua del clero con le spalle ad rusticos e il viso al Santo dei Santi, così rispose: «Mai pregherò Dio (Numquam orabo Deum) in una lingua che né Lui, né i suoi profeti, né il suo divin Figliolo, né il mio popolo, mai hanno parlato, e forse capito. Né mai mi rivolgerò a Lui, guardando il Suo divin Posteriore (divinissima terga Eius conspiciens), quando Lui stesso ci ha insegnato che solo a quello possiamo direttamente aspirare, mentre se vogliamo stare con Lui facies ad Faciem dobbiamo cercare il Suo volto nel volto degli ultimi. Sta scritto, infatti: nessuno può pretendere di rivolgere lo sguardo a Dio se non cercandolo per speculum negli occhi dei suoi poveri e nel viso umile delle peccatrici (Nemo potest Deum conspicere nisi per speculum in oculis pauperum Eius et in humilitate meretricium vulti). Se proprio vuoi, gira tu le spalle al popolo della chiesa, che tanto disprezzi, ma sappi che così Dio rivolgerà a te le spalle con terribili e incomprensibili parole, in dies irae et supernae salutis, nell’ora dell’ira e della suprema salvezza»
a. v. m. in il foglio” - n. 359, Torino, febbraio 2009

sabato 14 marzo 2009

Il tempio di Dio… e il corpo dell’uomo

Il tempio di Dio… e il corpo dell’uomo
L’uomo compiuto
C’è una autorevolezza che viene dalla verità interiore di una persona, il fascino dell’autenticità, che tutti attorno sentono, alcuni accogliendola come un dono e uno stimolo, altri rifiutandola come un rimprovero o una sfida. Uomo compiuto, uno lo può essere soltanto diventando progressivamente quello che è, perché si è costruito così fin dall’inizio, orientando i suoi sentimenti, i suoi gesti, le sue parole nella costante, faticosa e gioiosa, fedeltà del processo della vita, a partire dall’istintualità infantile congenita in noi, in ascolto della “voce” che lo chiama da dentro – nella sua piccola nicchia socioculturale che lo permea da fuori.
Se lo sdegno della passione talora esplode, è sempre per la difesa dei diritti altrui violati o vilipesi, non per sé, perché non ha bisogno di difendere se stesso, confortato interiormente dalla testimonianza viva della verità. Allora il suo corpo, luogo, strumento e materia del crearsi dell’identità personale, da minuscolo germoglio di carne a uomo compiuto, è diventato la creta dove l’antica immagine di Dio ha trovato espressione, dove il progetto va compiendosi, la casa dove il Padre è venuto ad abitare, ormai indistruttibile, perché impregnata dal suo amore.
Gesù, erede della millenaria storia di Israele, è l’ebreo compiuto che ne incarna l’anelito ininterrotto di cercatori e ascoltatori della parola di Dio. Finché questo cammino non è terminato, e morte e risurrezione non hanno ancora sigillato l’alleanza nuova nel suo corpo, l’antica casa di Dio, il tempio, doveva servire solo alla preghiera incessante, che implora nell’attesa dell’ “eletto”, nel quale Dio potesse finalmente compiacersi. Gli idoli non devono assolutamente profanare la casa del Padre, tanto meno il dio alternativo, che è mammona, il denaro, il mercato – la svendita dell’amore!
Le dieci parole
Per capire la qualità intensa delle dieci parole, l’intenzione profonda che le definisce nella loro diversità irriducibile alla normativa morale e giuridica, occorre vederle dal punto di vista di Gesù, l’ebreo fedele, in cui hanno raggiungo il loro compimento e manifestato il loro vero senso. E allora si illuminano e, se materialmente appaiono come orientamenti fondamentali di diritto naturale, sono invece proposte di amore e vanno vissute come il tessuto dialogico di un’alleanza personale, nelle quali Gesù assume e porta a compimento la storia di predilezione di Dio per il suo popolo. Dove Dio si rivela un interlocutore appassionato fino alla gelosia, sin da quando, preso da compassione per il popolo che soffriva e piangeva nella condizione servile, lo ha liberato dalla schiavitù d’Egitto e condotto con affettuose ali d’aquila nel deserto, verso il Sinai, per farne il suo popolo libero e fedele. Un Dio affamato di un contraccambio del suo popolo, dal quale desidera un’appartenenza totale, per introdurlo in un mistero di amore dove ogni raffigurazione, concetto o nome è inadeguato ed osceno, come imprigionare l’amore in una gabbia. Un amore innominabile per troppa intensità, non per distanza o reticenza. Allora la pretesa esasperata di fedeltà assoluta della prima parte di queste “parole” è la conseguenza della trepidazione di un amore che sente come un tradimento personale (un adulterio) ogni perversione verso gli idoli, perché questi prima che “dei” concorrenti o alternavi, sono la deturpazione del volto e l’abbrutimento del cuore del popolo amato. Non dai comandamenti si allontanano, infatti, ma dal suo amore, che li farebbe felici! La tentazione è sempre la stessa, nelle sue diverse forme storiche condizionate dalla situazione culturale del momento: impossessarsi della potenza di Dio, per farne uno strumento al servizio dei propri desideri di onnipotenza. Per questo nella storia, man mano che ci si purifica da questa pretesa e ci si immerge nell’umile condizione umana, Dio è silenzio, cioè sempre meno si osa mettere in bocca a Dio le nostre parole. E perfino chi ne ha incarnato totalmente, senza uguali, le dieci parole… alla fine gli rimane solo l’implorazione, di fronte al silenzio di dio, di non essere abbandonato! Nessuno come Gesù patirà sulla sua pelle il mistero abissale del silenzio di Dio, al quale, nel momento supremo della vita (come dice il vangelo di Marco) potrà rispondere solo con un grido inarticolato di totale consegna (15,37).
I giudei esigono segni
Gesù rifiuta apparentemente la provocazione dei giudei (e dei credenti di ogni tempo) che chiedono segni, ma di fatto la esaudisce, prevedendo e lasciando che la logica perversa del rifiuto dell’amore distrugga il suo corpo: Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra. (Mt 12,40). Questa forza interiore di fedeltà assoluta all’amore è la sua vera “autorità”, contro la quale ogni potere spezza le sue armi, pur sicure di poterlo vincere! e dimostrando proprio con questo, che l’amore, che sembra inerme e disarmato, di fatto è invincibile… nella sua impotenza! Ed è proprio per questo che il corpo di Gesù umiliato, torturato e ucciso, diventa la nuova vera abitazione, il vero tempio di Dio, che è amore! E qui, in questo luogo sacro, il Padre scende a compiacersi di trovare chi ha ascoltato la sua parola fino a diventare, come Dio, amore. Un corpo di carne che diventa amore è il luogo di Dio, è divino!
Egli parlava del tempio del suo corpo
…il nuovo tempio del culto di Dio è dunque il corpo dell’uomo, attraverso un passaggio, una pasqua, che proprio per renderci capaci di questo amore abissale, passa attraverso il dono “fisico” della vita, e scende come ogni corpo nel ventre della terra. L’osservanza radicale e compiuta della legge, pallida immagine del progetto di Dio sulla natura e sulla storia, porta fino a questa soglia, non può andare oltre. È esterna all’uomo, scritta su lastre di pietra, non ancora incisa sul cuore degli uomini. Giudei, che si fidano solo di segni divini, e greci, alla ricerca di una superiore sapienza umana, sono parimenti bloccati di fronte a questa soglia. Noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani. La maturità cristiana è il lungo cammino, alla sequela di Cristo, per fare del proprio “corpo di carne” il tempio, il luogo di “riconoscenza” del Padre, dove la legge e la giustizia sperimentano la propria impotenza, per l’invincibile tentazione contrattuale di cui sono intrise, che fa di ogni rapporto con Dio un consapevole o inconsapevole mercato, dove non il volere, ma il potere di Dio è la merce più ricercata. Ma Dio è stoltezza, scandalo e debolezza… in questo mercato! e la religiosità del credente, come la sapienza dell’ateo, giustamente aborrono un tale scambio!
I suoi discepoli si ricordarono… e credettero “nella scrittura” e “nella parola di Gesù”.
Il male della storia, la sofferenza dell’innocente, come del colpevole, l’ineluttabilità della morte… ci mettono di fronte alle fauci dell’incomprensibile o del nulla… dove il non senso mette a nudo la nostra precarietà - la nostra radicale lontananza da Dio. E la fede non è l’esenzione dall’angoscia del male nella storia, al contrario. Perché credere nell’unicità del Dio di Gesù sta proprio in questo, credere che egli è capace di stare dove non c’è posto per lui! E il posto dove non c’è posto per Dio, deve essere attraversato da chi vuole unirsi a Dio, cioè seguire Gesù, Servo e Signore, … fin dove la sua avventura umana ha toccato il fondo! Non è stato Gesù ad abbandonare Dio, ma è stato l’amore del Padre a spingerlo fin dove c’era l’assenza, il non senso della sofferenza e del silenzio di Dio (G. Ruggeri). Che Dio abiti, ormai, l’umile impotenza del corpo dell’uomo, la precarietà del suo desiderio inesausto, molto più che il simbolo sacro e religioso dove noi lo costringiamo, dovremmo ormai ricordarcelo e crederlo, perché ce l’aveva detto… e la sua Parola, confermata dalla Risurrezione, è ormai il compimento delle Scritture, che proprio questo di Lui avevano profetizzato!

giovedì 5 febbraio 2009

Spacciatori di Paura!

I medici dunque potranno denunciare gli stranieri irregolari. Il Senato ha approvato l’emendamento presentato dalla Lega, primo firmatario il capogruppo Federico Bricolo, che cancella la norma secondo cui il medico non deve denunciare lo straniero clandestino che si rivolge alle strutture sanitarie pubbliche. (CorrieredellaSera)...

Non ci sono parole davanti a una notizia del genere... a questo punto tutto è possibile: siamo ormai alla versione beta del sistema totalitaristico italiano... la programmazione è oramai allo stadio avanzato...
Fa specie che solo ieri davano la notizia della scoperta della morte, avvenuta nel '92, di Aribert Heim, il «dottor morte», responsabile di atroci esperimenti nei campi di sterminio (CorrieredellaSera)... e ora qualcuno in parlamento pensa bene di riesumarlo, certo non siamo ancora al «dottor morte» ma al «dottor giuda» eppure la logica di fondo è la stessa: il medico non è più al servizio del malato, dell’uomo, né si badi bene è al servizio dello Stato, inteso come «bene comune», no! Il dottore, in entrambi gli schemi è sempre servo di un'ideologia: di una particolare filosofia della politica, dell’uomo, del cittadino, dello Stato!...

A questo punto tutto è possibile, ripeto, se non ci sarà una reazione forte, dura, senza possibilità alcuna di mediazione: queste idee si infiltreranno nelle nostre menti e nei nostri cuori e non ci lasceranno mai e inquineranno lentamente ma inesorabilmente ogni nostro agire, ogni nostro pensare, persino ogni nostro pregare...
Chi pensa che io stia esagerando lo invito a riflettere sulle dinamiche della paura. Questa legge, come molte altre scellerate, nascono da una paura, poco importa chi o che cosa la generi... paura della miseria, paura di essere aggrediti, paura di diventare minoranza a casa propria, paura di avere paura... Ma la paura è un sentimento incontrollabile, che attanaglia, che non molla la presa, che come un fiume in piena non si ferma mai e ci rende schiavi (cfr Ebrei 2,14ss). Quando coloro che se ne lasciano guidare si accorgeranno, che nonostante tutte queste norme, nonostante i militari nelle strade, le ronde tra le case, i campi di raccolta profughi, le espulsioni, gli arresti, la levitazione dei costi per una permesso di soggiorno, l’ondata migratoria non solo non diminuirà (troppo grande è la disperazione che neanche il rischio della morte in mare li ha finora fermati), ma diventerà ancora più caotica (proprio a causa anche di queste norme: perché spingerà il clandestino a «criminalizzarsi» per sopravvivere), si apriranno orizzonti ancora più drammatici e allora le ultime resistenze morali crolleranno davanti a una paura che si trasformerà in terrore...

Spero vivamente che a questo punto ci sia una protesta forte e chiara da parte della Chiesa, come istituzione, come gerarchia, come Popolo di Dio, nei movimenti, nelle parrocchie… E che non si limiti solo alle parole, ma che agendo con tutti i mezzi che la forza del Vangelo consente, davanti a un pensiero disumano che sta corrompendo sempre più radicalmente le nostre e altrui vite, si facciano promotori di un annuncio di liberazione autentica che attraverso soluzioni concrete ci guidi ad attraversare con coraggio le acque minacciose di una storia che sembra ci stia sommergendo...
Non possiamo più stare a guardare che ci uccidano anche l’anima!

mercoledì 4 febbraio 2009

Che cos’è l’anima?

Mi rendo sempre più conto che non conoscere le lingue è veramente un grande limite, per fortuna ho imparato mio malgrado almeno il francese... E allora voglio condividere con voi questo dono mettendo a disposizione alcuni articoli del sito la Croix, molto belli a mio parere e di grande aiuto per una formazione che per quanto elementare agevoli il formarsi di una mentalità nuova... I post avranno tutti questo logo, così da aiutarvi a riconoscerli subito ed eventualmente ad andare oltre se non vi interessano... Spero di fare comunque un servizio utile a molti...

Per comprendere il senso della parola «anima», bisogna partire da una «visione biblica dell’antropologia», piuttosto che da una «visione cristiana». Questa è stata molto influenzata dal dualismo greco secondo cui l’uomo è composto di un corpo e di un’anima. Al contrario, la Bibbia, non fa di questo “e” una separazione. Nella visione biblica, l’uomo è «corpo animato»: lo spirituale è lui stesso carnale (Péguy le spirituel est lui-même charnel). Mi sembra che questa «visione biblica» è importante per l’intelligenza della fede nella resurrezione, nell’eucaristia, nella chiesa, ecc.

L’espressione ebraica néfesh (tradotta quasi sempre con psychè in greco, con anima in latino e italiano) dice non una parte dell’uomo, ma la persona intera. Il salmista esprime il desiderio di tutto il suo essere dicendo: «L’anima mia ha sete di Dio» (Salmo 42,3).
Per molto tempo, le traduzioni hanno usato “anima” per néfesh, per psychè, e per (il latino) anima. Durante la mia infanzia, ho inteso citare la parola del Vangelo sotto la forma: «Qual vantaggio infatti avrà l'uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima?» (Matteo 16,26). Oggi questo versetto è meglio tradotto, nelle bibbie moderne [francesi], con: «se egli rovina la propria vita», o: «se questo è a prezzo della sua vita», o ancora: «se lo paga con la propria vita» [cfr la NV CEI: 16,25ss «Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?»]. Quando Gesù dice che egli è «venuto a pagare con la propria vita [con la propria psichè] la liberazione d’una moltitudine», si capisce ovviamente ch’egli è venuto a donare se stesso in riscatto – e non a donare la sua «anima» (Matteo 20,28).

Se voi domandate allora: «Che cos’è l’anima?» Noi possiamo rispondere: “È l’uomo, voi ed io, tutto l’uomo a cui è rivolto il grande paradosso evangelico: «Colui che, egoisticamente, vuol conservare la propria vita per se stesso [la sua psychè in greco] ne fa una vita perduta, rovinata; colui che l’avrà persa a causa mia la ritroverà»… Una frase che era ben difficilmente comprensibile quando la parola psychè era tradotta con anima (cfr Matteo 16,25).

Michel Souchon, gesuita
in collaborazione con “Croire aujourd'hui
(mia traduzione)

giovedì 28 febbraio 2008

Ciò che è gradito al Signore è che l'uomo sia

Il Vangelo (Gv 9,1-41) che la Chiesa ci propone per questa quarta domenica di Quaresima si presenta immediatamente, anche solo ad un primo colpo d’occhio, davvero imponente: esso percorre infatti ben 41 versetti! Ma non è solo, o non è tanto, per la sua mole che questo brano è così pregnante, quanto piuttosto per la sua densità.
È su di esso, perciò, che vorrei puntare l’attenzione, non senza però, tentare di introdurlo con le altre due letture, che ne danno in qualche modo una chiave interpretativa. Mi riferisco in particolare all’affermazione di 1Sam 16,7 «l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» e a quella di Ef 5,10 «Cercate di capire ciò che è gradito al Signore».
Dico questo perché in effetti mi pare che i molti temi trattati nel racconto evangelico in fin dei conti confluiscano nella logica dello svelamento dei cuori e di ciò che è gradito al Signore.
Inizio col dire qualcosa sullo svelamento dei cuori…
Quanto a questo primo aspetto mi pare interessante seguire il racconto evangelico soprattutto nella presentazione dei tre personaggi/gruppi principali che lo compongono: il cieco, i farisei, Gesù.
L’immediata connotazione che ci viene data del cieco è quella peccaminosa. Sono i discepoli stessi a presentare questa antica credenza in un legame tra male fisico e colpa: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?».
Ma Gesù rifiuta immediatamente questa interpretazione operando un vero e proprio ribaltamento della considerazione di colui che ha davanti: lo toglie infatti dallo scontato riferimento al peccato e lo mette invece direttamente in relazione a Dio: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio». Tant’è che la sua connotazione di cieco cambia: «Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva».
Nonostante questo però il seguito del brano sembra fare nuovamente un passo indietro: ci ripresenta infatti ancora l’identità di quest’uomo soggiogata dai soliti pregiudizi culturali: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina, […] è uno che gli assomiglia». Finché arriva la svolta decisiva: lui stesso si riconosce e pone una parola di svelamento: «Sono io!».
Ma nemmeno questo sembra bastare: «i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista». Tanto che inizia tutto un processo di rimozione dell’evidenza, portato avanti con il discredito sistematico dell’interlocutore e culminante nell’affermazione (che è una regressione alla I cosa detta a riguardo del cieco): «Sei nato tutto nei peccati».
Questo ritorno all’indietro nel riconoscimento dell’identità del “nostro cieco” però ormai non è più convincente. Mentre all’inizio era assodata per tutti, e per il cieco stesso, la sua considerazione come di uno “punito a causa del peccato, suo o dei suoi genitori”, ora, dopo la novità inseritasi nell’incontro con Gesù, egli non è più lo stesso: nessuno più potrà convincerlo del contrario; lui infatti ha sperimentato sulla sua pelle che quell’«uomo che si chiama Gesù» gli ha cambiato la vita. Non serve la minaccia dei farisei, che pure riescono a intimorirgli i genitori; non basta l’incertezza di coloro che lo ricordavano mentre elemosinava; non ottiene risultati l’espulsione dalla sinagoga («lo cacciarono fuori»): egli ormai è libero, di una libertà diversa, fondata sull’incontro personale, su una promessa creduta, sulla carne trasformata… su un ordine degli affetti nuovo, che va dall’apparenza al cuore: «Credo, Signore!».
È la libertà a cui invece non riescono ad aprirsi i farisei: «Siamo ciechi anche noi?». Tutto il percorso di svelamento dei loro cuori che il brano ci fa percorrere infatti è come segnato da una spada di Damocle da cui essi non riescono a svincolarsi: «era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi». Ecco tutto il loro problema, la causa del loro irrigidirsi su posizioni insostenibili, che (come ogni volta che mancano argomentazioni convincenti) impongono con la violenza («lo cacciarono fuori»). Il loro schema religioso, politico, di salvaguardia del potere è messo in scacco dal gesto di Gesù, perché da un lato non potevano negare che Gesù non venisse da Dio: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?»; ma dall’altro neanche ammetterlo: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». E messi alle corde, nella scelta stringente tra il loro schema e l’evidente bontà di qualcosa che glielo fa scoppiare, scelgono lo schema: preferiscono la salvaguardia della regola al bene di un uomo; prediligono l’ordine costituito, l’universale, alla faccia del singolo… è questo il loro cuore, al di là dell’apparenza iper-osservante del loro stile di vita (cfr Mt 23,27: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all'esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume»): la conservazione dello status quo a scapito della gente, che è proprio il contrario del cuore di Gesù, che metterà in discussione lo status quo più status quo di tutti, che è la considerazione di Dio, (morendo) a favore degli uomini!
A proposito di Gesù… forse, fra tutti i disvelamenti, il suo è quello più intrigante. Lo si vede con chiarezza nell’evolversi delle parole del cieco, che ogni volta che è interrogato a suo proposito fa un passettino in avanti fino alla professione di fede finale in Gesù, Figlio dell’uomo. Scorrendo infatti le sue parole, vediamo come la partenza sia proprio legata ad un’immediatezza accessibile a chiunque: di Gesù infatti parla come di un uomo («L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista»). Ma poi c’è una prima progressione: «Allora dissero di nuovo al cieco: “Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?”. Egli rispose: “È un profeta!”». E poi di nuovo: «Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla».
Ma la cosa più interessante è che quest’uomo passa dal dire di Gesù che è un uomo, poi un profeta, poi un uomo di Dio e infine Figlio dell’uomo, proprio e solo perché lo ha esperito: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Questo non è un teologo, un sacerdote, un erudito… è uno che guarda ai fatti: «Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». È l’incontro che l’ha convinto, al di là di ogni possibile postuma dissuasione. Come la Samaritana di domenica scorsa: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?» (Gv 4,29).
Eccoli allora i cuori a cui guarda il Signore a scapito delle apparenze a cui guarda l’uomo: il cieco-peccatore-escluso capace di incontrare Dio in Gesù, che gli ridà Vita; i farisei-simbolo della religiosità (che sarebbe poi la mediazione universalmente riconosciuta per l’accesso al divino) cieca di fronte al Figlio dell’uomo, perché cieca su qualsiasi uomo (a cui preferisce la legge); e infine Gesù, nel cui cuore sta proprio l’altra cosa che cercavamo all’inizio: ciò che è gradito al Signore! E in Gesù… ciò che è gradito al Signore è che l’uomo sia. E questo viene prima di qualsiasi legge.

domenica 27 gennaio 2008

In principio… disse loro: “seguitemi!”

Arrestato Giovanni … Gesù cominciò a predicare!
C’è un raccordo di contiguità e discontinuità insieme – di compimento e diversità radicale tra Giovanni e Gesù. Le prime comunità cristiane hanno rilevato l’enorme importanza di questo legame, ed hanno scoperto così la novità assoluta di Gesù. La novità consiste nel tenere insieme una duplice polarità: il radicamento profondo nella tradizione e nella storia concreta degli uomini (l’incarnazione!), da una parte, e dall’altra il fermento esplosivo del suo messaggio e della sua efficacia nella condizione dolorosa ed oppressa della gente (liberazione o redenzione!). Questa è la forza propulsiva, umile ma incoercibile, del minuscolo seme di amore che il Padre lo ha mandato a seminare nel mondo…
Anche la comunità di Matteo rilegge a questo modo gli “inizi” di Gesù! Dopo l'arresto di Giovanni. Gesù cambia paese, casa, modo di vita. Come se, dopo il battesimo e le tentazioni nel deserto, gli premesse ormai in cuore in modo incontenibile l’urgenza della sua missione tra gli uomini… per riprendere la fiaccola della speranza, oscurata nella prigione del Battista, dove è stato messa a tacere la voce più forte di tutti i cercatori di Dio della storia biblica. In questo breve racconto è condensato ciò che la comunità di Matteo ha capito e vissuto nel suo primo impatto con la fede evangelica. Questo è il piccolo trattato di teologia del cominciamento della chiesa, non semplicemente degli inizi della chiesa storica. È l’inizio della chiesa di sempre – di cui diceva Gesù stesso: dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro (18,20).
Per capire il comportamento nuovo e originale di Gesù, che si sposta dal centro religioso e cultuale della Giudea alla Galilea delle genti, i discepoli sono andati a studiare le profezie dell’esilio, il tempo della distruzione e dispersione di ogni istituzione religiosa, ma anche il tempo del ricominciamento della fede. E le profezie antiche illuminano la storia presente: Gesù è andato a stare tra quelli che più di altri abitavano in terra tenebrosa… che dimoravano in terra e ombra di morte… perché è lui la luce! perché lui è il ricominciamento: In passato il Signore umiliò…, ma in futuro renderà gloriosa la via del mare!
"Convertitevi, perché il Regno dei Cieli è vicino"
L’annuncio di Gesù è lo stesso del Battista, perché per tutti e due la disponibilità a “cambiare mentalità” è la premessa necessaria ad ogni conversione. Ma per Giovanni questa è la fine del suo messaggio e della sua missione di precursore. Per Gesù questo stesso annuncio è un’apertura, è l’inizio. Perché in Gesù il Regno non solo si fa prossimo, ma comincia “a camminare”. É lui il Regno, è lui la presenza salvatrice del Padre nella storia quotidiana degli uomini! Ecco perchè non chiama la gente nel deserto ma neanche nel tempio …È lui che va dove la gente vive: sul lavoro, nelle case, per le strade, nei villaggi… nelle loro sinagoghe (di sabato!) : Gesù “va attorno per tutta la Galilea”: e cosa vede? Vede nel cuore degli uomini e della società il conflitto tra una realtà dura e pesante da portare e la spinta vitale di una speranza che non riesce a farsi strada, perchè sottoposta al giogo che l'opprimeva, alla sbarra che gravava le sue spalle e al bastone del suo aguzzino… Proprio perché Gesù va dove l’uomo vive (sul lavoro, nella famiglia, nella società e nelle sue istituzioni) tocca con mano che la gente fa fatica, è a disagio, al buio… e vede gli uomini che dimorano in terra e ombra di morte. L’ombra di morte è la paura, e la paura nasce nel cuore man mano che la speranza deperisce, senza che una luce rischiari le tenebre in cui ci sentiamo immersi… Ma, ecco la buona notizia: una luce ha fatto irruzione nell’ombra! I primi discepoli ne hanno un ricordo vivissimo, con alcune caratteristiche ‘mitiche’ della loro esperienza appassionata di chiesa nascente.

  • “Venite dietro a me!” È Gesù che raduna i discepoli con il fascino di una Parola sicura, neanche ancora spiegata, ma talmente carica di forza determinata e serena, che sembra non ammettere replica alla chiamata. Con/vince dal di dentro! Con questa stessa parola li costituisce “seguaci”: “venite dietro me!” Questa chiamata gli rimodella l’anima: diventa lo statuto definitivo della loro vita. Lo capiranno più tardi, dopo averlo seguito, amato e anche rinnegato, che ‘esser suoi discepoli’ (venite dietro di me!) vuol dire una consegna assoluta: niente mai più anteporre a Gesù!
  • La coesione de gruppo è la chiamata stessa di Gesù! I discepoli arrivano a lui in modo diverso, talora indicati per nome, talora contagiandosi reciprocamente, ma è sempre il suo sguardo e la sua parola che inserisce questo rapporto personale nel cuore di ognuno e li collega in una comunione inscindibile, perché non fondata su un proposito o una scelta o una promessa o un obbligo morale, o un’amicizia anche se contiene un poco di tutto questo : ma è una misteriosa appartenenza a lui, che il suo sguardo di predilezione ha seminato in loro! E che Parola ed Eucaristia nutrono e confortano…
  • Le sue parole sono vere – e si ripetono in noi! Già dai primi passi un fuoco (il fuoco degli inizi) s’accende nel cuore dei discepoli. Ma ci vorranno anni perché lo capiscano e soltanto la sua morte e risurrezione (con il dono del suo Spirito) li renderà veramente capaci, a loro volta, di infiammare la gente, divenire a loro volta pescatori di uomini – e quindi finalmente capire dal di dentro la sua missione e il suo Spirito. Ma fin da queste primi inizi, il fuoco c’è già. Ognuno prova il sussulto interiore per il “verificarsi” già adesso di frammenti di una speranza nutrita da sempre. Gesù operava quel che diceva: alla sua parola, al suo tocco, al suo sguardo le miserie, le malattie e i peccati degli uomini guarivano. La sua azione non si esauriva in un invito, in un rito di penitenza, tanto meno in una condanna del peccatore… Gesù andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando la buona novella del regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo. Questo è l’elemento fondamentale della novità di Gesù, rispetto agli scribi, ai sacerdoti, ai profeti precedenti. Una capacità mai vista di insegnare, consolare, guarire … in ogni incontro: dopo anni di parole sterili, dopo una vita di tentativi inutili. Quando già la speranza sta spegnendosi, ecco scoccare il contatto, una scintilla nuova tra speranza e verità, tra utopia profetica e realtà storica. Questa è la novità “cristiana”, e i testimoni sono stupiti perchè gli elementi della natura, gli spiriti e i demoni, le malattie e la morte gli obbediscono!
    Gesù non ci ha lasciato in eredità questo potere nei suoi aspetti miracolosi, i quali, del resto, anche per lui sono soltanto ‘segni’ della sua vera Signoria di amore sulla storia e sulla natura. È questa Signoria inerme che anche a noi ha donato con il suo Spirito (At 1,8). Ora niente può più farci del male, perché in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati (Rom 8,37). Ogni suo seguace diventa discepolo quando sperimenta di essere a sua volta pescatore dei suoi fratelli: testimone della gioia dello spirito quando qualche piccolo, malato, ferito, soggiogato dalla paura, è preservato dal male, davanti ai nostri occhi!.

Una tiepida chiesa alla ricerca di poteri fittizi…
…a guardarci allo specchio noi cristiani di oggi! alla luce di questo fervore della chiesa evangelica nascente, risalta ancor di più la stagione ecclesiale stanca e triste, che stiamo vivendo, almeno in occidente.
Noi somministriamo alla gente “cristiana” soprattutto sacramentalizzazione, precetti morali, inquadramento ideologico… E siccome la gente ci segue sempre meno, siamo spesso in atteggiamento agguerrito e aggressivo per difendere o recuperare spazi, istituzioni, leggi o radici … e renderle più cristiane. Illudendoci che queste poi preservino la fede. È il metodo inverso di quello evangelico. E qui sta il nodo dirimente della nostra tentazione ecclesiastica! Il potere, pur ricercato per ‘fini buoni’, di natura sua vanifica la croce di Cristo, perché la croce non è un incidente di percorso, ma la “necessaria” conseguenza di aver rinunciato ai mezzi del potere, sbilanciandosi del tutto per l’amore gratuito. Ma non riusciremo a rinunciare davvero al potere se non assaggiando un’altra gioia più grande … Nel vangelo, invece che i verbi sedentari di possesso o di conquista, predominano i verbi di movimento, di missione. Gesù si sposta continuamente e mette in moto altri discepoli, semplici, umili, ignoranti, laici, uomini e donne (cfr Lc 8,1-3 – il corrispettivo del nostro testo). La sua proposta è coinvolgimento profondo dei cuori, anzitutto. Poi è paziente e costante trasformazione delle idee su Dio Padre, se stessi, gli uomini, la storia… Poi è esperienza viva di rinascita interiore e comunitaria di pacificazione delle relazioni, almeno nei barlumi di speranza che si accendono nell’ombra della paura … per sanare gli incubi di panico che crescono dove non c’è più speranza viva.
Solo ripercorrendo il cammino della chiesa nascente ci riappassioneremo… al seguito di Gesù!

~~~~~~

…Padre, credo che mi capisca…
sono stata ferita al cuore, bruciata al cuore.
È una ferita ed è un fuoco.
Sono sicura che un giorno il Signore mi abbia accordato
una piccolissima scintilla dell’amore del suo Cuore
e che questa scintilla ha acceso il braciere.
E allora non ne posso più, perché nessun cuore umano è fatto a questa misura.
Non può contenere tutto questo amore.
Padre, sogno l’amore, ma un amore
come non l’ho ancora visto spiegare in un libro,
soprattutto come non l’ho visto mai raccomandare nei consigli alle religiose,
un amore che sia insieme divino e umano.
Sogno che si possa donare tanta tenerezza a tutti,
una tenerezza che sia così divina, pur uscendo da un cuore umano,
da non portare con sé fatalmente il disordine dei sensi.
Perché, padre, non è possibile amare ardentemente e insieme con purezza?
Crede che sarebbe realizzabile?
Se ci provassimo prima noi
e poi insegnassimo a tutte le piccole sorelle a dilatare il cuore?
Per quale motivo, per il fatto di essere religiose, dovremmo chiudere il cuore
anziché aprirlo di più. Non solo nel fondo, ma nell’espressione?
Le assicuro che il mondo ha bisogno di amore.
Vorrei potere amare tutti gli essere umani del mondo intero.
Vorrei mettere una scintilla di amore in ogni angolo del mondo:
in Egitto, in Brasile, presto in Giappone.
Basta una scintilla ad appiccare incendi nei boschi della Provenza.
Perché non dovremmo creare bracieri nel mondo intero?
Passando a Saint-Fons ho visto tutte le ciminiere delle fabbriche
e ho pensato che un giorno vi manderò delle piccole sorelle.
Passando a Péage de Roussillon,
ho visto il quartiere operaio delle fabbriche del Rodano
e ho pensato che anche là manderò delle piccole sorelle…

Padre, ci vogliono dappertutto focolai di amore!...

Parigi, 21 ottobre 1947

[Magdeleine, Il padrone dell’impossibile, PM, Casale M. pp.199]

venerdì 26 ottobre 2007

gloria Dei vivens pauper

«Il Signore è giudice e non v'è presso di lui preferenza di persone. Non è parziale con nessuno contro il povero, anzi ascolta proprio la preghiera dell'oppresso».
Mi vien da dire: “Beati i poveri! Proprio la loro preghiera è ascoltata! La nostra invece…”.
Ma a dire “la loro preghiera” non sarò mica come quel fariseo che si tira fuori dalla solidarietà umana dicendo: «non sono come gli altri uomini».
In effetti mi accorgo di come sia una reazione immediata non identificarmi coi poveri… Insomma si fa poi sempre parte di quelli che non si dicono ricchi, ma di certo non muoiono di fame; che non sono premi Nobel, ma insomma neanche dei grandi ignoranti; che non sono senza colpe, ma nemmeno dei super peccatori… In fin dei conti le principali povertà del nostro mondo (economiche, culturali, morali…) ci sfiorano, o anche ci toccano, ma non ci identificano. Tant’è che anche nel mondo della vita religiosa pare si preferisca “farsi poveri”, piuttosto che “esserlo”.
Questo istintivo prendere le distanze dall’auto-identificarsi come poveri mi pare comprensibile seguendo gli schemi comuni: a nessuno piace essere nell’indigenza, aver bisogno di un altro, riconoscersi incapace, fallito, sbagliato, brutto, sporco… è troppo per l’alta considerazione che abbiamo di noi stessi, anzi, in qualche misura, che dobbiamo avere di noi stessi, dato che in questo mondo siamo gli unici di cui ci possiamo fidare… tutte le solidità e le solidarietà sono crollate: il lavoro è ridotto a competizione, i matrimoni (e le relazioni amorose in genere) sembrano destinati a finire o a ridurre alla reciproca estraneità i due, le amicizie hanno sempre l’ombra del “volersi bene per interesse”…
In realtà prendere le distanze dalla com-passione con l’umano e tirarsi fuori da un enorme popolo (l’umanità) che soffre, spera, pecca, teme, geme non salva nessuno, come invece istintivamente ci verrebbe da pensare, mossi più dalla irrazionale paura della morte che da un lucido desiderio di Vivere.
Anche perché per quanto ci tiriamo fuori dalle situazioni contingenti di povertà (e di peccato «non sono come gli altri uomini»), non possiamo non sfuggire alla nostra condizione ontologica di poveri. E in proposito vorrei citare una pagina eloquente di A.Rizzi[1]:

L’uomo è povertà
In quanto oggetto e destinatario dell’agape l’uomo è l’essere-di-bisogno; dove bisogno dice a un tempo la relazione a un insieme di beni da fruire e la problematicità del possesso di quei beni. Nella prima faccia il bisogno dice ricchezza, almeno virtuale, potenzialità di espansione e di felicità; nella seconda, dice che ogni bene conquistato non è mai garantito, che ogni ricchezza acquistata è sempre insicura, ogni espansione precaria, ogni felicità fragile. Non siamo mai le cose che abbiamo, neppure le più intime: il nostro modo di essere è l’avere, in un senso più profondo di quanto dica l’abituale distinzione tra essere e avere. Infatti quella distinzione si istituisce sul piano valutativo, come discriminazione tra beni autentici e beni estranianti; ma sia gli uni che gli altri non diventano mai noi stessi al punto da essere inalienabili, rimangono sempre sotto il segno dell’aleatorietà. Qui non siamo più sul piano della valutazione, ma della struttura dell’esistenza umana, di quella che possiamo chiamare povertà radicale dell’uomo. […] Povertà non è sinonimo di finitezza. Un essere finito potrebbe avere tutto ciò che gli compete, e averlo in maniera così salda e sicura da non correre pericoli per la propria realizzazione: […] parlare di povertà in questo caso avrebbe senso soltanto misurando l’uomo su un metro, a lui estrinseco, di infinito. […] Povertà non è limite del proprio essere; è limite dentro il proprio essere. […] Ma abbiamo detto povertà radicale. E con questo intendiamo porre una distinzione tra le situazioni attuali, effettive, di povertà e quella condizione di base, quella fragilità che permane anche nelle situazioni di opulenza e di esteriore sicurezza, e che nessun possesso o potere può superare. […] È questa crepa che chiamo povertà radicale; quella che una famosa immagine biblica chiama i piedi d’argilla che reggono la statua di metalli preziosi. […] Ma: gloria Dei vivens pauper. Quest’espressione di Oscar Romero, che riprende e precisa quella di Ireneo [gloria Dei vivens homo], costituisce la definizione dell’essere umano alla luce dell’agape divina. Dire che Dio ama l’uomo come altro da sé equivale a dire che nell’uomo egli ama il povero: non ciò che l’uomo ha ed è, ma quell’essere-di-bisogno che è bisogno di avere e di essere. […] Ma proprio questa povertà, che in sé non ha né è nulla di amabile, viene amata da Dio e da lui colmata: e in questo gesto Dio si rivela Dio. Dunque, la volontà di colmare il povero – ogni uomo in quanto povero – è la parola originaria che Dio dice su di sé: è la sua gloria. Quando parliamo della predilezione di Dio per i poveri non tracciamo un limite al suo amore – quasi Dio amasse soltanto coloro che sono attualmente poveri – ma indichiamo il luogo privilegiato in cui riconoscere questo amore. Nella preferenza di Dio per i poveri attuali si testimonia la qualità del suo amore per tutti gli uomini nella loro povertà radicale”.


Ecco perché è così importante l’incipit del vangelo che la liturgia di questa domenica ci propone: «Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri».
Il presumere di essere giusti non è solo un problema morale, non è un essere non troppo politicamente corretti… La questione è molto più decisiva, molto più radicale e attraversa l’orizzonte di senso in cui l’uomo si pone:
- quello dell’auto-fondazione su se stessi, in cui Dio è escluso (sono giusto, sono io l’autore della mia giustizia: «O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo») e in cui gli altri sono disprezzati, guardati come concorrenti o al massimo come “gratificatori” del nostro essere giusti;
- quello dell’affidamento a un Altro («Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore»), che crea la solidarietà tra uomini, quindi tra poveri.
Quest’ultima è proprio la scelta di Paolo, l’unica che gli permette di restare saldo anche in una situazione estrema come quella che gli fa dire «nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato». Tant’è che le sue parole tralucono eloquentemente quanto i suoi “piedi d’argilla” si siano piantati su un fondamento sicuro, anzi sull’unico Fondamento: «Carissimo, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede».
[1] A.Rizzi, Dio in cerca dell’uomo. Rifare la spiritualità, edizioni paoline, p. 48-51.

mercoledì 17 ottobre 2007

Rivoluzionario e Sognatore, l’uomo tra sufficienza e necessità

Rivoluzionario e sognatore sono due termini che nel sentire comune di tutti noi hanno significati ben delineati e che possiamo sintetizzare con facilità. Il rivoluzionario è, per lo più, ritenuto colui che con una forte carica ideologica ha un approccio pragmatico con la realtà, tendenzialmente è portato a prendere di petto le situazioni. Il sognatore invece è piuttosto alieno ad affrontare i problemi attraverso l’azione, preferisce la fuga o l’alienazione; spesso vive in un mondo parallelo che si è costruito per proteggersi.

Si può tuttavia, tentare una diversa considerazione di questi due tipi umani, analizzandoli nella dialettica che generano ponendoli uno di fronte all’altro, e singolarmente di fronte al reale.
Così al di là del loro etimo, e del loro significato storico, tentiamo una miscelazione e reinterpretazione dei due nella loro dialettica storica alla luce, poi, del Vangelo.
Siamo tuttavia certi che l’uomo in quanto tale, cosciente o meno di ciò, ha in sé entrambe le possibilità, ognuno con diverse modulazioni.

Il rivoluzionario è colui che scopre prima, contesta poi, le ingiustizie valendosi, se necessario, dell’azione violenta. È colui che sottopone a una critica corrosiva tutto i reale, a cui lui stesso scopre d’appartenere, impiegando la ragione. Così facendo trova una forte dissonanza tra le realizzazioni storiche umane e l’ideale-utopia che porta in sé. Scopre, qualcuno direbbe, l’Assurdo: l’inconciliabilità tra desiderio e realtà storica. Il rivoluzionario è uomo che non tollera e non sopporta ma agisce-combatte-cambia. Il rivoluzionario però non può sottrarre sé stesso dall’analisi critica. Giunge così al punto di crisi-giudizio, in cui fa la scoperta di essere esso stesso soggetto sottoposto alla grande possibilità negativa, emersa inesorabilmente nel lucido percorso critico rivoluzionario.
Teologicamente: “appare il grande No di Dio: la sua totale estraneità a questo mondo, che pone il rivoluzionario in una condizione di crisi”. Questa, come conseguenza dell’analisi critica, colpisce al cuore il metodo usato dal rivoluzionario. Il metodo infatti per essere giustificato necessita di solide fondamenta. E come può il rivoluzionario, che scopre di sottostare e far parte esso stesso della ingiusta realtà, creare dopo la lotta e anche durante, un ordinamento giusto? Cadrà nell’insuperabile sconfitta che si proponeva di vincere! Renderà cioè, se agirà, “male per male”.
Il rivoluzionario non accetta, infatti, la realtà storica nel suo divenire, nel suo progresso lento e continuo poiché storico. Il rivoluzionario quindi sarà necessario, ma non potrà essere considerato l’uomo nel suo aspetto più proprio. Bisogna puntualizzare che comunque questa posizione del rivoluzionario è assolutamente maggiormente autentica e preferibile rispetto a quella del reazionario. In quanto sotto la grande possibilità positiva (evangelica, e che protesta!), è l’Amore a giudicare il reazionario definitivamente nel torto, nonostante il torto in cui si trova il rivoluzionario se agisce. Poiché amandoci gli uni gli altri secondo il comandamento nuovo di Gesù, non possiamo voler mantenere l’ordine esistente come tale. Noi attuiamo il comandamento dell’Amore e così il “Nuovo abbatte il vecchio”… “vi è stato detto ma io vi dico…”.
La possibilità nuova che si apre è quella che qualcuno ha chiamato “l’in-azione”. “Che altro posso fare di fronte al “nemico” dopo la riflessione critica, se non ritornare da ogni fare originario, da ogni risposta alla domanda, da ogni azione alla presupposizione?!... Deo soli gloria…”

Il sognatore dal canto suo mescola e combina in sé le potenzialità e le caratteristiche del rivoluzionario e della realtà, secondo una creatività propria, cogliendone così gli aspetti d’ulteriorità, di superamento, rimanendo disinteressato a una realizzazione storica di ciò che sogna. È semplicemente stupito di poter e di aver sognato una ulteriorità della realtà. Il sognatore è colui che davvero è affascinato e nutrito dall’Ulteriorità che lo interroga nella realtà, che produce in esso domande. Così il sognatore avrà il compito di convertire il rivoluzionario a una precedenza dell’Ulteriorità del sogno, sopra e prima del cambiamento storico. D’altro canto il rivoluzionario avrà fornito quella previa e necessaria critica rivoluzionaria che permette un ancoraggio del sognatore alla realtà e che rivela la crisi in cui versano tutte le strutture e i tentativi, religioni e pensieri umani. Sinteticamente potremmo dire che il sognatore si apre alla possibilità che un altro agisca attraverso di lui. Lasciando, cioè, che accada ciò che in relazione con la realtà ha sognato e che con la critica rivoluzionaria ha scoperto di non possedere. È la profezia dell’Avvento di una “impossibile possibilità che accada”, proprio lì dove ci si trova senza alcun sufficiente ostacolo che possa arrestarlo, il Regno del Padre nella storia dell’uomo… Freud direbbe: “che è un Dio, questo, che alla lunga ha la meglio, vince”… e noi aggiungiamo perché vuole tutti e patisce per tutti il nostro lasciarci liberi.
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