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sabato 21 agosto 2010

La porta stretta della conoscenza del «dove»

Incomunicabilità
(dal sito http://www.giovannirapiti.it/)
Una delle cose che mi riempiono di fiducia nella presenza dello Spirito Santo è constatare la genialità (inconscia?) con cui il liturgista ci propone l’accostamento delle letture. Così esse assumono una luce nuova e ciascuna aiuta la comprensione dell’altra… Per questo oggi la prima lettura assume un ruolo discriminante per cogliere in profondità l’annuncio nuovo della liturgia che la chiesa ci propone, soprattutto nel compimento evangelico.

Infatti apparentemente, leggendo il brano di Isaia che ci è proposto, noi ricaviamo un sentimento di consolazione per la salvezza universale… Questo è certamente vero, almeno per noi, ma se poniamo il brano nel suo contesto, le cose cambiano non poco e notiamo che questa parola non ha minimamente una intenzione consolante ma semmai per coloro a cui è destinata, doveva risuonare come un rimprovero acerrimo!
Precisamente, il brano in esame che conclude tutto il libro di Isaia, e precisamente la terza parte, detta del Terzo-Isaia, che fu un discepolo (o discepoli) della scuola isaiana (che resta quindi storicamente sconosciuto, si sa solo che ha vissuto due secoli dopo il profeta Isaia storico del sec. VIII a. C.), si pone in contrasto con il primo gruppo degli esiliati a Babilonia che ritornano a Gerusalemme (537 a.C.), i quali si considerano dei privilegiati – perché a loro era data la possibilità di sperimentare l’antico esodo – fino a disprezzare coloro che erano rimasti in Palestina e non erano mai andati in esilio. Il brano si riallaccia a Is 56,1-3 dove, lo stesso autore, già introduce il tema del ripudio da parte di Dio di coloro che si credono puri e santi: nel Tempio di Gerusalemme (!) entrano stranieri e pagani per celebrare la liturgia con la stessa dignità di Israele.
È importante sottolineare che il discorso non è rinviato alla fine dei tempi, ma intende parlare concretamente dell’«oggi» storico della storia di Israele. Se dal punto di vista teologico noi sappiamo che la piena realizzazione di questa parola appartiene alla Storia di Dio e alla realizzazione del suo regno, la valenza “inaudita” di questo brano sta tutta nella espressa volontà di Dio che tutto ciò accada nell’«oggi» di Israele: infatti ciò che si compie alla fine dei tempi, può compiersi solo se ha avuto un inizio nell’oggi della storia!

Un brano quindi che per noi “pagani” suona di consolazione, non doveva suonare così per i suoi originari destinatari… Ora è quest’ultimo l’insegnamento originario e rivelativo del brano: la necessità di superare una visione meschina della fede, che vuole “l’altro”, il diverso (colui che ha una “storia” diversa dalla nostra), il non fedele, il non puro… escluso, non tanto dalla misericordia di Dio, ma escluso dal culto “attuale” nel “tempio di Gerusalemme”: dalla sua stessa liturgia.

Il brano acquista così una valenza tutta nuova e di grande provocazione per noi “fedeli” nell’oggi della nostra storia italiana, europea e occidentale… Noi che ci crediamo gli autentici depositari della fede e i veri araldi del vangelo… fino a impedire “agli altri”, agli “stranieri” (di coloro che hanno una storia e quindi una cultura diversa dalla nostra), di …vivere la loro liturgia nel nostro tempio.

Insomma, l’autore della terza parte del libro di Isaia, che ha vissuto la deportazione dell’esilio, ha sviluppato i grandi temi del profeta Isaia capovolgendo questa prospettiva “autoreferenziale” e auto-assolutoria della fede. Nella sua prospettiva – in aperta polemica con i confratelli che ritornano dall’esilio babilonese – l’esilio a Babilonia, lungi dall’essere un privilegio è semmai il segno del rifiuto di Dio perché esso è stato la conseguenza del peccato e del ripudio di Dio, come il ritorno è frutto solo della sua misericordia.

È a questa prospettiva – peccato/punizione, liberazione/misericordia – che attinge anche il discorso dell’autore della seconda lettura, che come sappiamo è un giudeo convertito e ancora legato ai propri schemi culturali e cultuali e che la riflessione più cristocentrica della comunità credente (lo stesso vangelo di Luca nel brano di oggi), risolve piuttosto – soprattutto nel primo binomio – nella responsabilità personale dell’uomo: Dio non punisce nessuno, piuttosto è l’uomo che si autodistrugge nel non accogliere il progetto di giustizia del Padre.

Coloro pertanto che tornano da Babilonia nonostante la lodevole iniziativa di voler ricostruire la città santa e il tempio, non possono considerarsi degli avvantaggiati (anche se storicamente rivivono le gesta degli antichi fuggitivi dall’Egitto), ma devono fare penitenza e riconoscere il “castigo di Dio” come strumento purificatore della fede.

Al contrario, quei popoli considerati impuri, chiamati sprezzantemente “genti” (goìm), ora portano offerte in «vasi puri nel tempio del Signore» (Is 66,20) e quindi sono abilitati a celebrare la liturgia nel tempio di Yhwh: «anche tra loro mi prenderò sacerdoti leviti» (Is 66,21). Notare il paradosso: sono leviti coloro che leviti non sono! A cui non bisogna escludere, nella logica del brano, gli stessi persiani e gli stessi egiziani! Gli antichi e nuovi nemici.

È il capovolgimento radicale dell’immagine di Dio, del Dio liberatore e un po’ nazionalista dell’esodo e dell’esilio: nessun popolo è estraneo alla sua Presenza. La funzione di Israele lungi dall’essere di privilegio è quella di mettersi al servizio di questo culto universale: liberati dalla schiavitù forzata, per imparare a mettersi liberamente al servizio del regno di Dio (cfr Magnificat).

“Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze” (Lc 13,26).
Il Gesù di Luca, si colloca perfettamente in questa linea isaiana come attualizzazione e compimento ulteriore.

Il brano del Vangelo si inserisce all’interno di un contesto polemico dei giudei nei confronti di Gesù. Contesto che a sua volta si incardina nella grande struttura del Vangelo di Luca che descrive, nella sua seconda parte, un Gesù itinerante nel suo cammino teologico-esistenziale verso Gerusalemme (qui v. 22) vista come “luogo metastorico” del compimento delle scritture (Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme), e che ci suggerisce un ulteriore orizzonte a cui attingere per cogliere il senso del brano di oggi e soprattutto della risposta di Gesù.

Infatti la domanda del “tale” si inserisce in questo quadro e si colloca nella stessa prospettiva che il Terzo-Isaia ha stigmatizzato: è “ovvio” che lui si salva! La sua domanda verte necessariamente sugli altri! Soprattutto quelli non appartenenti al suo “gruppo” (cfr invece Lc 18,18). Gesù non risponde alla domanda, ma risponde alla “prospettiva” da cui nasce la domanda, capovolgendola (stesso metodo ad es. in 10,33)! Ancora una volta nonostante le apparenze! Proprie di una lettura di chi vuole restare all’interno dello schema della domanda e non si vuole sforzare a “entrare per la porta stretta” della prospettiva nuova inaugurata dalla risposta di Gesù (anche la Parola è «una porta stretta» anzi è la Prima)!

Gesù infatti allarga l’orizzonte per togliere ogni sicurezza a coloro che fanno dell’appartenenza alla religione “vera” (o da loro ritenuta tale, poco importa se a ragione o a torto), la garanzia dei propri privilegi. Nella fede (relazione/affidamento a Dio e al prossimo) – dice Gesù – non ci sono automatismi. Non basta più una religiosità del “dovere” (il fare “materiale” dell’imperativo kantiano della coscienza), ora è tempo della fede personale e coinvolgente, della “fede del rischio” che mette in gioco la vita nella dinamica interiore della relazione che si fonda sulla conoscenza sperimentale: non basta avere mangiato e bevuto in sua presenza e ascoltato la sua parola (Giuda, non solo per i cristiani, in questo è paradigmatico)…
Il mangiare e il bere, seppur gesti dell’intimità familiare e conviviale, quindi della consuetudine amichevole e confidenziale, non bastano…

Infatti nella nostra vita quotidiana facciamo l’esperienza che si può «stare» insieme, senza «essere» insieme, senza conoscersi. È una esperienza drammatica che mette lo scompiglio nella nostra vita, rivela false le nostre sicurezze e fa riemergere le paure rimosse e mai veramente superate. Lo stesso può accadere nelle “strutture religiose”: Gli ambienti chiusi che non interagiscono con il mondo circostante (cfr “il camminare” del Gesù lucano), sono destinati a produrre personalità fragili, paurose e spesso narcisistiche…
Di fronte ad un conflitto (anche positivo), ad un confronto, ad una interazione, è facile cedere all’istinto «solipsistico» e rinchiudersi nel rifiuto della relazione reale per non mettere in discussione se stessi e il castello di certezze su cui abbiamo costruito i bastioni della nostra falsa sicurezza. Il religioso che vive la comunità come rifugio e protezione, non come progetto dinamico di attuazione del regno di Dio, è un immaturo condannato a vivere “solitario” anche in mezzo agli altri. Vivere la vita di comunità (anche parrocchiale) vuol dire impegnarsi a vivere pienamente la propria umanità in modo armonico, perché solo nella pienezza dell’umanità può risplendere l’abbondanza della grazia e lo splendore della «solitudine» scelta come dimensione di vita di comunione. La «solitudine» infatti è la capacità di stare con se stessi nella profondità del proprio io abitato dalla presenza del Signore. La “solitudine” così intesa è vera comunione che si oppone a «solitarietà». Il credente «solitario» è radicalmente estraneo alla storia che vive (cfr invece Santa Teresa d’Avila: lo scopo del suo stare insieme è cambiare la storia) e si trova «solo» anche in mezzo alla propria gente. Uno così anche quando sta «insieme» agli altri, ne è parte esteriore, non è immerso nell’intima unione della vita ma ne resta – per usare le parole di Luca – “fuori”!: vive la famiglia o il lavoro – solo per fare un esempio – come incidenti o come condanne da scontare, non come «sacramenti di alleanza» e «altari di comunione» da condividere con tutti in vista dell’accoglienza del regno di Dio.
Vivere sotto lo stesso tetto, mangiare alla stessa mensa, pregare nella stessa cappella, eseguire scrupolosamente la stessa «regola», vivere gli stessi orari e impegni, non mette al riparo dal rischio della vita di relazione. Conventi, monasteri, seminari, famiglie, ambiti così fortemente qualificanti, dovrebbero allora diventare luoghi in cui le persone possano ritrovare se stesse e ritrovarsi. Il collante religioso da solo non basta infatti a creare le condizioni della vita comune: occorre che il nostro vivere diventi il luogo dove le nostre ferite (vecchie e nuove), possano trovare un unguento per essere guarite. Perché se siamo immaturi, se siamo non risolti, lo saremo dovunque vivremo e attorno a noi costruiremo rapporti e condizioni di vita immaturi.
Ora il Vangelo ci dice che le ferite dell’anima si curano con la presenza dell’abitare reciproco (cfr Gv 14,21ss e paralleli).

«Voi, non so di dove siete» (Lc 13,27).
La risposta di Gesù infatti è articolata e composta nella sua drammaticità. Egli per prima cosa dice di «non conoscere» cioè di «non sapère», il cui significato etimologico rimanda al parallelo del mangiare e bere (come anche al divorare la Parola ascoltata): anche se abbiamo gustato il cibo “non ci siamo gustati”… io non vi conosco perché non ho gustato, non ho potuto sperimentare il «sapore» della vostra presenza, nonostante abbiate condiviso con me cibo e bevanda. Il secondo rilievo è ancor più tragico: non conosco il vostro «dove», cioè il luogo dove voi esistete e diventate voi stessi; non conosco la vostra consistenza, l’abitazione del vostro cuore e quindi la profondità della vostra vita. Siete dissolti, dissipati, siete “altrove”. Siete zombie. Senza il «dove» della propria esistenza, noi siamo inesistenti: ciò che “non è da nessuna parte” semplicemente non esiste, anche se crede di esistere. Il «dove» indica la consapevolezza della prospettiva da cui si guarda alla vita, al futuro, al regno. La prima parola che Dio rivolge ad Adamo è infatti «Dove sei?» (Gen 3,9). La risposta del primo uomo è la consapevolezza della propria nudità (cfr Gen 3,10).

Gesù parla a persone per cui l’appartenenza religiosa esteriore era garanzia della propria identità. Al tempo di Gesù, tempo turbolento e di grandi trasformazioni, passaggio di due secoli e di due millenni, tempo di confusioni e di trapassi epocali, la religiosità era vissuta in maniera materiale: ma un ritrovarsi insieme nel Tempio, in casa, in chiesa, non vuol dire abitare l’uno nell’altro, accogliersi reciprocamente… per questo Luca definisce coloro che vivono così le relazioni umane e rituali «… operatori di ingiustizia!» (Lc 13,27).

L’espressione tradotta letteralmente è «lavoratori d’ingiustizia – ergàtai adikìas» che è una connotazione più forte perché il termine «lavoratore» indica lo stato abituale e quindi l’impegno, l’intelligenza e la dedizione che bisogna mettere nel fare il proprio lavoro è cioè un’adesione sistematica e non occasionale! L’operatore può essere occasionale, il lavoratore è abituale. Il termine «ingiustizia» descrive la natura di chi non vuole instaurare una relazione vera: chi vive una religiosità di comodo è «ingiusto»; chi si accontenta di esteriorità è «ingiusto»; chi non è autentico nella verità di Dio è «ingiusto»; chi pretende di rinchiudere Dio nella prigione del proprio pensiero è «ingiusto»; chi non ama è «ingiusto»… La giustizia di Dio invece è la realizzazione del piano di salvezza e di pace nell’oggi della storia di ogni uomo. Il “lavoratore di ingiustizia” considera un Dio così come proprio nemico e mette tutto il suo “sforzo” (cfr sull’impegno dei figli delle tenebre Lc 16,8) perché il suo regno non si realizzi ma si realizzi il proprio (cfr il “Padre nostro”).

Ancora una volta ciò che Gesù descrive ed esige non è qualcosa che dovrà accadere (anche! cfr quanto detto sopra…), ma è qualcosa che è domandato all’oggi del credente. Infatti nel regno di Dio, il passato è già futuro perché «Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio» siederanno a mensa con tutti coloro che «verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno» (Lc 13,28-29). Nella storia dei patriarchi infatti è già contenuto in “seme” il futuro di tutta l’umanità che è invitata alle “nozze dell’Agnello”. È di questo futuro che il credente è invitato a farsi nella sua storia concreta a sua volta “seme” (cfr Gv 12,24).

[nota: i riferimenti esegetici sono presi dalle opere di Paolo Farinella]

venerdì 8 maggio 2009

Diventare suoi discepoli: il frutto della risurrezione


Sull’immagine biblica della Vigna converge il fascino dell’antica appassionata promessa di Dio di accudire l’uomo e insieme lo scoramento del cuore dell’uomo nel rifiuto di Dio o comunque nell’incapacità a intendersi con lui e dare frutti adeguati al suo amore! Piantare una vigna è una sfida di amore alla vita, al futuro, perché esige cura e passione, fa parte della casa e del pasto, si eredita come bene prezioso di famiglia, è luogo di lavoro e di incontro, di fatica e di gioia… per la vendemmia, il mosto, il vino! Ma la vigna è anche il luogo della delusione suprema di Dio e dell’uomo, il luogo del conflitto insanabile che porta all’uccisione del figlio del Signore della vigna, dopo lo sterminio dei suoi profeti (Mc12,1 e paralleli)! Dopo millenni, ancora, al nostro sguardo e alla nostra esperienza, rimane drammatico e insolubile il male nel mondo, ed ha ancora uno strascico tragico nella nostra storia l’antica disperazione di Dio, secondo il profeta: Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?... Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha fatto uva selvatica? Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi (Is 5,4ss). La vigna è uno delle grandi similitudini che Gesù ha scelto per dirci con linguaggio umano, nel contesto vitale della nostra cultura mediterranea, chi è lui per noi: “IO SONO” il pane, la luce, la porta, il pastore, la via, la verità … e la vita! Oggi ci dice: io sono la “vite” vera! come ci ha detto: io sono il pane vero ,la vita vera, il vero pastore… Per annunciare che in Lui finisce la storia dell’ infedeltà dell’uomo al suo stesso Padre, che l’ha piantato nel mondo. L’Agricoltore vede finalmente una vite fedele e feconda nel Figlio, nel quale tutti noi diventiamo, come discepoli, i suoi rami, la sua vigna – il popolo nuovo, redento e fedele per sempre
io sono la vera vite e il Padre mio è l’agricoltore!
Proprio per la sua densità di significato nel linguaggio biblico, la similitudine della vigna nel Vangelo di Giovanni contiene questa eccezionale garanzia: che da qualche parte, nel misterioso progetto di benevolenza di Dio, noi siamo radicati, vitalmente desiderati e legati da amore indissolubile, come nelle profondità della terra la vite è abbarbicata alle sue radici, che la nutrono e la fanno vivere. Non siamo orfani, isolati e abbandonati alla nostra sorte da un creatore inafferrabile e invisibile. Non siamo destinati a esaurirci nel nulla da cui siamo provenuti. Ma ancor più! L’annuncio (il Vangelo) che si fonda su questa garanzia di un legame vitale, va ben oltre. Tutta la vita di Gesù e la sua predicazione è mirata a coinvolgere l’uomo in questo progetto del Padre, realizzato finalmente nel Figlio, mandato nel mondo per salvarci. La fede dei discepoli consiste nel prendere atto di questa sorgente vitale da cui proveniamo e “rimanere” saldamente connessi ad essa. Gesù ci implora che rimaniamo in lui (8 volte in positivo e in negativo), perché solo così la sua opera di salvezza si comunica ai discepoli, i tralci di ieri e di oggi. Solo uniti al figlio siamo anche noi intimi a Dio. Rimanete in me… allora io rimango in voi … perché senza di me non potete far nulla! L’esigenza è così vitale e discriminante che sembra una minaccia, ma si tratta di conseguenza non punitiva ma naturale, vitale, come è appunto del tralcio se si stacca dalla vite: non è la vite che lo punisce, ma presto gli mancherà la linfa e si seccherà. Tutto è contenuto in un’unità di progetto, di amore vitale, di dedizione: un attaccamento esistenziale reciproco tra noi e Dio, in Cristo, che ne fa il mistero centrale del mondo e della sua storia, la convergenza in lui di tutto ciò che esiste.
se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi…
Rimanere in lui non è un riferimento sentimentale, un simbolico legame di riconoscenza, ma una spinta propulsiva intima che sconvolge il cuore e la mente con un preciso nuovo progetto di vita, che è forza e modello insieme: lui e le sue Parole, lui e i suoi comandamenti, lui e il suo legame vitale al Padre. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui! Una comunione di assimilazione vitale interiorizzata dall’uomo, non una precettistica morale dall’esterno. Il discepolo si trova coinvolto attraverso questa comunione dinamica vitale, in un tessuto di relazioni vive, dove i personaggi della similitudine giocano ognuno il proprio ruolo, assumono un volto preciso nell’intreccio di amore, conoscenza e liberazione dell’uomo, che è il Regno di Dio, che cresce nella storia. Il Padre, è l’Agricoltore. Gesù, è la vite nuova nella vigna ostile del mondo. Noi, siamo i tralci chiamati a “divenire” suoi discepoli, proprio perché coinvolti e immersi nella dinamica di Cristo crocifisso e risorto, che si ripete e si comunica a noi. Lo Spirito, è il sigillo di garanzia di questa nuovo contesto di relazioni vitali, di cui dice la lettera di Giovanni: in questo riconosciamo che lui rimane in noi: dallo Spirito che ci è dato! La descrizione della presenza misteriosa di questo vitale intreccio trinitario nella nostra umile storia è descritta da Gesù con parole forti e insistenti, che possono apparire similitudini oscure, ma a chi si arrischia in quest’avventura fanno ben capire cosa gli sta avvenendo:
rimanere … in lui, anzitutto, nella sua parola, nel suo legame, che attraverso di lui ci collega al Padre. Rimanere nelle conseguenze talora dolorose della sequela del suo Vangelo. Ma rimanere anche nella scoperta progressiva e liberante che davvero quanto succede (e ci succede!) per quanto possa sembrare così avverso ed ostico, va ricompreso, pregato e vissuto come sua vera quanto imprevista risposta a ciò che chiediamo: Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. Non tanto perché esaudisca i nostri desideri, che la sua Parola ci rivela piccoli e di corto respiro, ma perché li dilata secondo le sue promesse, rimettendoci in cammino verso i suoi orizzonti e dilatandoci il cuore secondo le sue misure. E così finiremo per chiedere quello che vuole lui… ed essere quindi sempre esauditi noi che, man mano che cresciamo, sappiamo sempre meno cosa domandare, e ci affidiamo all’anelito del suo Spirito, che geme in noi l’attesa del Padre nostro!
potare – Gesù stesso è stato potato così drasticamente da morirne… e solo così è stato abilitato nostra guida e salvatore. La potatura fa piangere la vite… gli taglia ogni illusione di estendersi dove la linfa naturale la spingerebbe: delusioni, lutti, malattie, ma soprattutto contrasti e conflitti e … incomprensioni, proprio con coloro che camminano con noi, nella stessa fede. Per S. Paolo il tormento dell’incomprensione delle esigenze superiori della fede da parte di chi faceva chiesa con lui, è stata la scarnificazione incessante di una vita. Il più delle volte ci ribelliamo, cerchiamo di proiettare ogni colpa nei vari soggetti coinvolti e perdiamo l’occasione di vedere la mano del Padre che taglia, pota, lega e slega, per non lasciarci nascondere ed illudere dietro il nostro fogliame infruttuoso. Una mano, la sua, talora indiscreta, se taglia non solo il tralcio che non porta frutto, ma anche ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto! Anche le opere buone può essere bene che siano tagliate!
produrre i frutti : c’è infine una realtà, sottesa tacitamente a tutta la similitudine evangelica della vite ed essenziale nella realizzazione vitale del cammino del discepolo: la linfa! Cioè lo Spirito, con il quale il Padre e il Figlio si amano, che ci tiene in vita nel legame alla Vite e al Vignaiolo, lo Spirito che piange con noi nelle nostre potature, il vero produttore dei “nostri” frutti … Solo lui può verificare in noi (come ha fatto in Gesù!) che… non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità. Così si avvicina la meta di ogni cammino: In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. La trasformazione che il rimanere in Gesù e l’accogliere le potature della storia, induce nel credente, lo fa “diventare” sempre più discepolo di Gesù. Vuol dire che sempre più si identifica (come il figlio) nella volontà del Padre, sempre più aumenta la sua disponibilità riconoscente ad accogliere nella vita i “diversi” progetti di Dio, che portano la salvezza al mondo… La preghiera diventa l’implorazione che attende e che fa … il Nome – il Regno – la Volontà del Padre. Questo vuol dire glorificare il Padre suo e nostro!
… la chiesa era in pace… si consolidava e camminava!
In tempi difficili e conflittuali, per la comunione ecclesiale (anche i nostri!) ci suona provocatoria e consolante insieme questa annotazione di Luca. La Chiesa si cui parla era appena uscita dalla persecuzione di Paolo stesso, e stava entrando nel conflitto interno drammatico dell’accesso dei pagani alla fede e nella persecuzione esterna di Erode, con l’assassinio di Giacomo e la dispersione dei discepoli… Ma di che pace si tratta? La chiesa vive entro una dialettica generata dai due fuochi che la tengono viva nella storia: il legame vitale al Cristo nel suo corpo che è la chiesa, attraverso la quale ci e donato Battesimo, Parola ed Eucaristia e la sollecitudine appassionata per chi è fuori della chiesa, la missione inarrestabile verso chi è lontano e diverso e rifiutato, e, proprio per questo, intimo a Gesù, che sulla croce coinvolge nell’amore del Padre persino i suoi uccisori! Infatti non saremo in pace finché non riusciremo a fare dell’umanità una sola famiglia, con tutte le creature, liberate dalla corruzione e dalla morte. Allora c’è una pace profetica, già disponibile prima della pace finale, mentre siamo ancora immersi nella complessità conflittuale e talora oppressiva della storia: purché sia sempre orientata all’universalità dell’amore. Non è la pace auto centrata e aggressiva di una setta. È una pace che per adesso è unilaterale ed eccentrica, perché non ha il baricentro in sé, ma lancia instancabilmente il ponte della benevolenza lontano da sé, presso l’altro che è ostile, dove il Padre ci aspetta. Per questo anche se i sentimenti sono feriti, le risposte deludenti, amare o aggressive… e spesso il nostro cuore ci rimprovera, perché ci sentiamo incapaci a reggere, sappiamo che Dio è più grande del nostro cuore. E tiene fede alle sue promesse!

mercoledì 11 febbraio 2009

Chiesa 2.0


Aggiungo qui, per riconoscenza, una parte dell'email ricevuta, che mi ha stimolato a una risposta (che qui integro ulteriormente), che credo mi abbia aiutato e possa aiutarci a fare ulteriormente chiarezza del senso e del significato di quello che stiamo facendo con la decisione di aprire e di tenere aperto questo Blog, fin che servirà allo scopo.

Onestamente, l’idea di un «obbligo» di commento non mi entusiasma: possono essere presentati argomenti che non si sente propri, si può non entrare nel sito per un po’ di tempo, però condivido l’idea di animare il blog, di renderlo più compartecipato. Personalmente, ho sempre vissuto in modo molto positivo la presenza di commenti nel mio di blog, ma ho anche sempre accettato il fatto di non sapere se un determinato post fosse apprezzato o meno, o addirittura ignorato.
Ad ogni modo... cercherò di impegnarmi ;). Un caro saluto a tutta la comunità e grazie per questo spazio ***.

Strettamente parlando non credo che si possa parlare di un «obbligo al commento», l’obbligo, se c’è, si può formulare in questi termini: «Se volete che io butti un pezzo della mia vita a fare un Blog, dovete mostrarmi che serve allo scopo per cui è stato creato! E cioè il consolidamento di un dialogo e di un’amicizia tra di noi: Altrimenti a me non interessa più e lo chiudo!».

Naturalmente delle osservazioni espresse nell’email sopra riportata sono ovviamente cosciente, tanto sono sensate!
Ma il problema qui è un altro e molto più ricco ed è proprio ciò che mi ha spinto a crearlo e a scrivere ulteriormente questo post...

Proviamo a spiegarlo più ampiamente, allargando gli orizzonti...

Prendo sempre più coscienza del fatto che il Magistero nella chiesa, seppur necessario, può generare una malattia «professionale» tipicamente clericale e particolarmente diffusa tra noi religiosi e sacerdoti e anche tra i vescovi e persino tra i laici (pare che Giovanni Paolo II si lamentasse del «clericalismo dei laici italiani»)... Questa «malattia» ci porta, tra l’altro, ad avere solo un atteggiamento «magisteriale».

Constato sempre di più che la chiesa parla e sa parlare soltanto ex cathedra, dall’alto, a questi (ironizzo): «poveri laici tenuti nell’ignoranza – ma conniventi perché fa comodo anche ai laici in quanto deresponsabilizza – e che bisogna continuamente condurre»... Constato anche che sempre troppi laici passano la vita a lamentarsi che la chiesa non li ascolta e quando si offre loro l’opportunità di farlo, sono troppo prigionieri della mentalità che afferma che «su certe cose i laici devono solo obbedire (e al limite confessarsi e pentirsi della loro disobbedienza)»... Già H. De Lubac, al Conilio Vat II ironizzava sulla posizione del laico nella chiesa: «Seduto, in piedi e in ginocchio!»

Credo che sia da tempo giunto il momento di tornare concretamente, in ogni ambito e spazio, a un rapporto più fraterno che come dice il termine, esige che sia paritario, perché riconoscendoci tutti figli «naturali» dello stesso Padre ci riconosciamo tutti in ascolto reciproco.

Questo implica che nessuno ha il monopolio dello Spirito Santo, nemmeno il Papa! E come la storia dimostra, nemmeno la chiesa: il diritti dell’uomo e della donna, l’ecologia, il rifiuto della guerra, la libertà religiosa, sono solo alcuni dei temi che ci hanno visto, come chiesa, rincorrere a fatica, ansimando e sbuffando e zoppicando, la storia «secolare e laica» che ci anticipava e anticipa sempre, segno che lo Spirito è presente non solo nei laici cristiani ma anche in quelli non cristiani!...

Il Web della seconda generazione (Web 2.0) permette proprio questa «orizzontalità» percorrendo e attraversando le distanze di età, spazio, tempo e cultura e sesso... Ecco qui dunque la grande occasione per farlo...

Constato che una certa chiesa (che si riempie la bocca di dialogo per svuotarsene il cuore e liberarsene la coscienza) non lo fa, e non lo farà mai perché vorrebbe dire cedere parte del potere. Quella chiesa sogna piuttosto un ritorno al linguaggio ermetico e settario su cui si struttura necessariamente una «verticalità» nella relazione… Emblematico a questo proposito è il ritorno della «messa in latino» in cui la posizione del celebrante dà le spalle all’assemblea (!) in quanto non solo esprime il rifiuto di parlare il linguaggio del proprio tempo (troppo «democratico»!?) ma nasconde, dietro la conclamata sollecitazione unitaria e pacificatrice, una subdola volontà di imperio verticistica: non è un caso che sia stata introdotta contro il parere della stragrande maggioranza dell’episcopato mondiale!

Allora, stante così le cose, io dico e propongo: per quel che ci compete, cominciamo noi!
Io da tempo concretamente condivido questo atteggiamento con i mie confratelli… Questa è la pro-vocazione di fondo, del modo con cui nell’Eremo di Cassano vogliamo vivere concretamente il nostro rapporto con i laici prima di tutto e poi anche con i non-laici (!)... Per questo personalmente cerco di evitare, se non per ragioni di reale necessità e di «mediazione storica», di fare quell’apostolato tradizionale che tanto ha contribuito a formare quella mentalità di cui parlavo sopra. E se proprio «devo» farlo lo faccio cercando di mettermi in posizione di ascolto e non di insegnamento soltanto (anche se la deformazione mentale clericale a volte crea brutti scherzi anche a me).

Insomma lo schema di fondo dovrebbe essere questo: «Io do a te quello che io ho vissuto e conosciuto, tu dai a me quello che hai vissuto e conosciuto e insieme facciamo discernimento e camminiamo in questa storia» e spesso è più quello che si ap-prende di quello che si dona...

Vivere il Vangelo, cioè dare al Vangelo la possibilità di essere vissuto, comincia prima di tutto da questo atteggiamento di fondo, da questa modalità: cfr i dialoghi di Gesù e come spesso cambi idea sollecitato dal suo interlocutore (spesso interlocutrice! e pure pagana!) e come Gesù stesso, nell’uso delle parabole, abbia «inventato» una nuova forma, per quel tempo, di comunicazione (guardacaso dialogica e quindi «bidirezionale»)...

A «Roma» non lo vogliono capire… ma non esiste evangelizzazione senza dialogo! E il dialogo si realizza solo in una comunicazione «bidirezionale»: e il sito del Vaticano, il Papa su You-Tube, la TV Sat2000, ecc., fanno ancora parte strutturalmente e mentalmente di una forma di comunicazione «unidirezionale»!

È impressionante notare come non esista una email pubblica per il Papa o per i Cardinali, mentre un qualunque Capo di Stato occidentale ne ha una, così come ogni senatore e deputato italiano ed europeo (ovviamente con una segreteria che filtra, accorpa e poi consegna e risponde, ma che non esclude il «contatto diretto»).
Di inviare una email al Papa (vivo!), invece neanche se ne parla. In questo modo però il «vertice» perde realmente il diretto contatto con la «base» (sempre che al «vertice» interessi!)...
Ma di questa mancanza di comunicazione «bidirezionale» prima o poi ne risente tutto «il corpo», «vertice» compreso (ma è l’ultimo ad accorgersene, mentre la «base» se ne è accorta da tempo perché la «patisce» sulla propria «pelle»).
Questo è valido a maggior ragione per la chiesa. La chiesa si è compresa fin dall’inizio come «un corpo»: il corpo di Cristo. Ma un corpo le cui «parti» non comunicano tra di loro muore! Non basta che le «membra» comunichino con «la testa» (Cristo, nell’immagine paolina: cfr Colossesi 1,18; 1,24), è altrettanto necessario perché non vadano in necrosi che comunichino tra di loro (cfr Corinzi 12,12ss)... Anzi questa è la condizione perché comunichino con «la testa»: se vanno in necrosi infatti come possono comunicare con «la testa»?

Di questo si era reso conto già Giovanni XXIII che pare sia uscito qualche volta dal Vaticano in incognito e in «borghese» per vedere «che aria si respira nel mondo».

Ovviamente una email, un Blog, un Forum, non sono «il mondo» (nemmeno il «mio mondo»), né possono sostituire il contatto «dei corpi» in una vita vissuta insieme... ma almeno è un segno che può preludere ad un cambiamento di mentalità...

Certo questo esige anche dai laici un salto di qualità che li spinga ad uscire dal terreno tranquillo della «riserva indiana» in cui pastoralmente sono stati confinati e in cui si crogiolano nell’illusione di meritarsi «le verdi praterie di Manitù», per cominciare a comunicare andando oltre i «segnali di fumo»… (Si può imparare anche da Tex Willer!)...

Insomma vorremmo far fare un salto di qualità alla chiesa (attraverso il nostro frammento di chiesa) sia nel vissuto comunitario di Cassano, sia nel vissuto comunitario di quella realtà (Sì, realtà! Perché esiste e fa parte della nostra realtà!) comunicativa che sempre Giovanni Paolo II chiamava il «Sesto Continente»...

È solo una piccola goccia nel mare infinito della storia... ma ogni mare per quanto grande sia è sempre fatto di gocce.

Almeno noi ci proviamo…

La proposta allora è questa: «Vogliamo provarci insieme?».


giovedì 17 aprile 2008

Parola che trasforma i conflitti in comunione

…iniziano i conflitti nella chiesa dei discepoli di Gesù…
Le tre letture sono una testimonianza intensa della vita e dei problemi dei discepoli di Gesù alle prese con il grande dramma del Nuovo Testamento: come vivere senza la presenza fisica di Gesù? Come entrare nell’ultima beatitudine che Gesù stesso ci ha augurato: beati quelli che pur non avendo visto crederanno? (Gv 20,29). Il disagio sorto nella fervente e unanime comunità di Gerusalemme di cui ci racconta Luca, le tensioni sulla centralità di Cristo, che è insieme pietra scartata per gli uni e pietra angolare per gli altri, il rinnovarsi, nella comunità, delle domande dei tre discepoli, Tommaso (Gv 14,5), Filippo (Gv 14,8) e Giuda Taddeo (Gv 14,22)… sono esempi che esprimono le difficoltà, i dubbi e i contrasti che nascevano tra i discepoli di Gesù verso la fine del primo secolo. Ma sono anche l’eco degli interrogativi eterni che scavano nel cuore dell’uomo la sua sete inestinguibile… L’elaborazione delle risposte a questi disagi, tramandataci nel Nuovo Testamento è una strada maestra, aperta e ricca di indicazioni paradigmatiche essenziali per affrontare anche noi, illuminati dallo stesso Spirito, la nostra situazione odierna.
Sorse un malcontento…
Goggusmòs” - si chiama nel greco biblico questo malcontento – che è una parola onomatopeica, come in italiano “borbottamento” o brontolamento o mormorazione… usata già nella versione greca dei LXX, con significato forte di reazione amara o risentimento acido contro Mosè e contro Dio, a proposito della mancanza di cibo nel deserto. “Mosè disse: «Quando il Signore vi darà alla sera la carne da mangiare e alla mattina il pane a sazietà, sarà perché il Signore ha inteso le mormorazioni, con le quali mormorate contro di lui. Noi infatti che cosa siamo? Non contro di noi vanno le vostre mormorazioni, ma contro il Signore»” (Es 16,8). Il termine è ripreso da Giovanni a proposito di Gesù: “…il borbottamento riguardo a lui era grande tra le folle: alcuni dicevano : è buono; altri: no, ma inganna la folla!” (7,12)… In quale comunità o famiglia o gruppo non capita? C’è sempre il momento in cui si insinua un disagio, una sofferenza sorda, un malcontento… che finiscono per diventare prima mormorazioni o lamenti malcelati, poi proteste e recriminazioni… Le prime comunità non ne erano immuni e si domandavano: come rimediare le preferenze ingiuste, le sperequazioni interne e le rivalità che ne nascono? Come convivere con idee e visioni della vita tanto diverse e talora contrapposte? Come preservare la comunità dalle lacerazioni, senza condannare o emarginare o estirpare le persone (i fratelli) con l’intento di togliere il male? Gli Apostoli suggeriscono un metodo originale per svolgere le tensioni in risorsa per una maggior comunione: per prima cosa è necessario il coinvolgimento di tutti nell’analisi del disagio, perché tutti se ne responsabilizzino; poi si impone una differenziazione dei carismi e delle competenze per affrontare l’aumentata complessità della comunità; ne deriva quindi la conferma sempre ribadita del nucleo vitale della comunione ecclesiale che è la preghiera e l’annuncio instancabile della Parola. Questo processo favorisce sempre più una dinamica circolare delle tre coessenziali dimensioni della grazia cristiana: identità, comunione e missione. Dove il carisma dell’autorità, il continuo confronto fraterno con la base, la spinta propulsiva del vangelo verso l’esterno, rende la comunità intensamente coesa ma plurale all’interno, e perciò capace di capire le diverse situazioni culturali dei vari popoli e paesi all’esterno… Per cui il “protagonista” che si impone e trionfa non è una parte o l’altra della chiesa, ma la “Parola” (di Gesù!), che cresce… illumina, perdona e guarisce.
Non sia turbato il vostro cuore!
Nella narrazione di Giovanni Gesù esorta i suoi a non lasciarsi prendere dallo scoramento! Questa insistenza nel ribadire parole d'incoraggiamento per superare i turbamenti e le divergenze, è un segno che ci dovevano essere tendenze molto diverse anche nelle comunità giovannee, con tanta gente che si riteneva più veritiera e ortodossa degli altri, di coloro, cioè, che forse si lasciavano affascinare dal bisogno di adattare ai tempi le forme e tradizioni antiche e venerande, a costo di sofferenze, offese e condanne reciproche. Quale strada per uscirne? Nel testo di Giovanni si intessono l’insegnamento di Gesù, le provocazioni storiche della comunità di neo convertiti e l’esperienza della comunione “ritrovata”, nell’avverarsi della presenza dello Spirito promesso da Gesù. Non è necessario che tutti pensino allo stesso modo e facciano le stesse scelte, per vincere queste profonde paure: ma ciò che è essenziale è che tutti accettino Gesù come rivelazione del Padre (via, verità e vita) e rinnovino in sua memoria la sua passione di servizio e d'amore. Nella casa del Padre mio ci sono molti posti! La “casa del padre” prima era il tempio… adesso Dio è andato ad abitare nel cuore squarciato del Figlio in croce, la nuova abitazione storica della misericordia del Padre, il nuovo “luogo” dove nasce e si purifica continuamente la chiesa. Qui tutti hanno diritto al posto preparato per ciascuno di noi da Gesù stesso, che da sempre ci attende… Se uno accetta di dimorare nel Figlio, proprio lì trova la comunione indissolubile con i fratelli, qualunque difficoltà o incomprensione insorga. L’ “andarsene da noi” di Gesù è infatti il cammino stesso di passione, morte e risurrezione, per raggiungere la sua glorificazione presso il Padre. In questo cammino che rinnova con noi, egli ci accompagna (perché dove sono io siate anche voi…), affinché insieme con lui anche noi raggiungiamo il Padre (se conoscete me, conoscerete anche il Padre!).
«Chi ha visto me ha visto il Padre».
Filippo forse aspirava a una visione religiosa più alta o più mistica e più dimostrativa («Mostraci il Padre!»), -forse era un desiderio diffuso nelle comunità di Giovanni. È certo che continua comunque ad essere il desiderio di tutti noi. Ma dove e come incontrare Dio? Ecco l'interrogativo sotteso all'intero quarto vangelo, che è iniziato con la dichiarazione forte: Dio nessuno l'ha mai visto (1,18). Gesù risponde chiaramente che la sua persona e la sua vita, la sua storia umana e la sua fine - sono lo spazio in cui Dio si è reso visibile e conoscibile. Nell'incarnazione del Figlio di Dio l'invisibilità di Dio è venuta in mezzo a noi in carne umana… ha camminato tra gli uomini. Ma ora non è più visibile o percepibile al modo che l’uomo dei sensi e della ragione vorrebbe. Tutto quello che Dio voleva dire all'uomo, lo ha detto con le parole di Cristo: “Le parole che io vi dico, non le dico da me”. Tutto quello che Dio vuol fare per l'uomo, lo ha fatto in Cristo: “Il Padre che è in me compie le sue opere”, fino alla solenne proclamazione: In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre. Dunque, arrivato presso il Padre ad intercedere per noi, ci rende capaci di fare come lui, sviluppando nel tempo la sua opera. Che consiste nell’accogliere e annunciare l’amore misericordioso del Padre in tutto il mondo. E renderlo visibile: «Nessuno ha mai visto Dio, ma se ci amiamo scambievolmente, Dio dimora in noi» (1 Gv 4,12). La presenza visibile di Dio vissuta, annunciata e trasmessa a noi in Gesù, si gioca dunque su questo discrimine: l’amore… fino alla fine (Gv 13,1) La scelta, per il discepolo come per la comunità, soprattutto nei momenti di scoramento e di tentazione di fuga e divisione, è drammatica: per cui Pietro ci raccomanda: “stringetevi a Cristo, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio; anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale…” Ancora una volta, stringersi a Cristo e unirci tra noi, pietre disperse, in una comunione “edificante” la comunità, è la stessa cosa!

domenica 27 gennaio 2008

In principio… disse loro: “seguitemi!”

Arrestato Giovanni … Gesù cominciò a predicare!
C’è un raccordo di contiguità e discontinuità insieme – di compimento e diversità radicale tra Giovanni e Gesù. Le prime comunità cristiane hanno rilevato l’enorme importanza di questo legame, ed hanno scoperto così la novità assoluta di Gesù. La novità consiste nel tenere insieme una duplice polarità: il radicamento profondo nella tradizione e nella storia concreta degli uomini (l’incarnazione!), da una parte, e dall’altra il fermento esplosivo del suo messaggio e della sua efficacia nella condizione dolorosa ed oppressa della gente (liberazione o redenzione!). Questa è la forza propulsiva, umile ma incoercibile, del minuscolo seme di amore che il Padre lo ha mandato a seminare nel mondo…
Anche la comunità di Matteo rilegge a questo modo gli “inizi” di Gesù! Dopo l'arresto di Giovanni. Gesù cambia paese, casa, modo di vita. Come se, dopo il battesimo e le tentazioni nel deserto, gli premesse ormai in cuore in modo incontenibile l’urgenza della sua missione tra gli uomini… per riprendere la fiaccola della speranza, oscurata nella prigione del Battista, dove è stato messa a tacere la voce più forte di tutti i cercatori di Dio della storia biblica. In questo breve racconto è condensato ciò che la comunità di Matteo ha capito e vissuto nel suo primo impatto con la fede evangelica. Questo è il piccolo trattato di teologia del cominciamento della chiesa, non semplicemente degli inizi della chiesa storica. È l’inizio della chiesa di sempre – di cui diceva Gesù stesso: dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro (18,20).
Per capire il comportamento nuovo e originale di Gesù, che si sposta dal centro religioso e cultuale della Giudea alla Galilea delle genti, i discepoli sono andati a studiare le profezie dell’esilio, il tempo della distruzione e dispersione di ogni istituzione religiosa, ma anche il tempo del ricominciamento della fede. E le profezie antiche illuminano la storia presente: Gesù è andato a stare tra quelli che più di altri abitavano in terra tenebrosa… che dimoravano in terra e ombra di morte… perché è lui la luce! perché lui è il ricominciamento: In passato il Signore umiliò…, ma in futuro renderà gloriosa la via del mare!
"Convertitevi, perché il Regno dei Cieli è vicino"
L’annuncio di Gesù è lo stesso del Battista, perché per tutti e due la disponibilità a “cambiare mentalità” è la premessa necessaria ad ogni conversione. Ma per Giovanni questa è la fine del suo messaggio e della sua missione di precursore. Per Gesù questo stesso annuncio è un’apertura, è l’inizio. Perché in Gesù il Regno non solo si fa prossimo, ma comincia “a camminare”. É lui il Regno, è lui la presenza salvatrice del Padre nella storia quotidiana degli uomini! Ecco perchè non chiama la gente nel deserto ma neanche nel tempio …È lui che va dove la gente vive: sul lavoro, nelle case, per le strade, nei villaggi… nelle loro sinagoghe (di sabato!) : Gesù “va attorno per tutta la Galilea”: e cosa vede? Vede nel cuore degli uomini e della società il conflitto tra una realtà dura e pesante da portare e la spinta vitale di una speranza che non riesce a farsi strada, perchè sottoposta al giogo che l'opprimeva, alla sbarra che gravava le sue spalle e al bastone del suo aguzzino… Proprio perché Gesù va dove l’uomo vive (sul lavoro, nella famiglia, nella società e nelle sue istituzioni) tocca con mano che la gente fa fatica, è a disagio, al buio… e vede gli uomini che dimorano in terra e ombra di morte. L’ombra di morte è la paura, e la paura nasce nel cuore man mano che la speranza deperisce, senza che una luce rischiari le tenebre in cui ci sentiamo immersi… Ma, ecco la buona notizia: una luce ha fatto irruzione nell’ombra! I primi discepoli ne hanno un ricordo vivissimo, con alcune caratteristiche ‘mitiche’ della loro esperienza appassionata di chiesa nascente.

  • “Venite dietro a me!” È Gesù che raduna i discepoli con il fascino di una Parola sicura, neanche ancora spiegata, ma talmente carica di forza determinata e serena, che sembra non ammettere replica alla chiamata. Con/vince dal di dentro! Con questa stessa parola li costituisce “seguaci”: “venite dietro me!” Questa chiamata gli rimodella l’anima: diventa lo statuto definitivo della loro vita. Lo capiranno più tardi, dopo averlo seguito, amato e anche rinnegato, che ‘esser suoi discepoli’ (venite dietro di me!) vuol dire una consegna assoluta: niente mai più anteporre a Gesù!
  • La coesione de gruppo è la chiamata stessa di Gesù! I discepoli arrivano a lui in modo diverso, talora indicati per nome, talora contagiandosi reciprocamente, ma è sempre il suo sguardo e la sua parola che inserisce questo rapporto personale nel cuore di ognuno e li collega in una comunione inscindibile, perché non fondata su un proposito o una scelta o una promessa o un obbligo morale, o un’amicizia anche se contiene un poco di tutto questo : ma è una misteriosa appartenenza a lui, che il suo sguardo di predilezione ha seminato in loro! E che Parola ed Eucaristia nutrono e confortano…
  • Le sue parole sono vere – e si ripetono in noi! Già dai primi passi un fuoco (il fuoco degli inizi) s’accende nel cuore dei discepoli. Ma ci vorranno anni perché lo capiscano e soltanto la sua morte e risurrezione (con il dono del suo Spirito) li renderà veramente capaci, a loro volta, di infiammare la gente, divenire a loro volta pescatori di uomini – e quindi finalmente capire dal di dentro la sua missione e il suo Spirito. Ma fin da queste primi inizi, il fuoco c’è già. Ognuno prova il sussulto interiore per il “verificarsi” già adesso di frammenti di una speranza nutrita da sempre. Gesù operava quel che diceva: alla sua parola, al suo tocco, al suo sguardo le miserie, le malattie e i peccati degli uomini guarivano. La sua azione non si esauriva in un invito, in un rito di penitenza, tanto meno in una condanna del peccatore… Gesù andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando la buona novella del regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo. Questo è l’elemento fondamentale della novità di Gesù, rispetto agli scribi, ai sacerdoti, ai profeti precedenti. Una capacità mai vista di insegnare, consolare, guarire … in ogni incontro: dopo anni di parole sterili, dopo una vita di tentativi inutili. Quando già la speranza sta spegnendosi, ecco scoccare il contatto, una scintilla nuova tra speranza e verità, tra utopia profetica e realtà storica. Questa è la novità “cristiana”, e i testimoni sono stupiti perchè gli elementi della natura, gli spiriti e i demoni, le malattie e la morte gli obbediscono!
    Gesù non ci ha lasciato in eredità questo potere nei suoi aspetti miracolosi, i quali, del resto, anche per lui sono soltanto ‘segni’ della sua vera Signoria di amore sulla storia e sulla natura. È questa Signoria inerme che anche a noi ha donato con il suo Spirito (At 1,8). Ora niente può più farci del male, perché in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati (Rom 8,37). Ogni suo seguace diventa discepolo quando sperimenta di essere a sua volta pescatore dei suoi fratelli: testimone della gioia dello spirito quando qualche piccolo, malato, ferito, soggiogato dalla paura, è preservato dal male, davanti ai nostri occhi!.

Una tiepida chiesa alla ricerca di poteri fittizi…
…a guardarci allo specchio noi cristiani di oggi! alla luce di questo fervore della chiesa evangelica nascente, risalta ancor di più la stagione ecclesiale stanca e triste, che stiamo vivendo, almeno in occidente.
Noi somministriamo alla gente “cristiana” soprattutto sacramentalizzazione, precetti morali, inquadramento ideologico… E siccome la gente ci segue sempre meno, siamo spesso in atteggiamento agguerrito e aggressivo per difendere o recuperare spazi, istituzioni, leggi o radici … e renderle più cristiane. Illudendoci che queste poi preservino la fede. È il metodo inverso di quello evangelico. E qui sta il nodo dirimente della nostra tentazione ecclesiastica! Il potere, pur ricercato per ‘fini buoni’, di natura sua vanifica la croce di Cristo, perché la croce non è un incidente di percorso, ma la “necessaria” conseguenza di aver rinunciato ai mezzi del potere, sbilanciandosi del tutto per l’amore gratuito. Ma non riusciremo a rinunciare davvero al potere se non assaggiando un’altra gioia più grande … Nel vangelo, invece che i verbi sedentari di possesso o di conquista, predominano i verbi di movimento, di missione. Gesù si sposta continuamente e mette in moto altri discepoli, semplici, umili, ignoranti, laici, uomini e donne (cfr Lc 8,1-3 – il corrispettivo del nostro testo). La sua proposta è coinvolgimento profondo dei cuori, anzitutto. Poi è paziente e costante trasformazione delle idee su Dio Padre, se stessi, gli uomini, la storia… Poi è esperienza viva di rinascita interiore e comunitaria di pacificazione delle relazioni, almeno nei barlumi di speranza che si accendono nell’ombra della paura … per sanare gli incubi di panico che crescono dove non c’è più speranza viva.
Solo ripercorrendo il cammino della chiesa nascente ci riappassioneremo… al seguito di Gesù!

~~~~~~

…Padre, credo che mi capisca…
sono stata ferita al cuore, bruciata al cuore.
È una ferita ed è un fuoco.
Sono sicura che un giorno il Signore mi abbia accordato
una piccolissima scintilla dell’amore del suo Cuore
e che questa scintilla ha acceso il braciere.
E allora non ne posso più, perché nessun cuore umano è fatto a questa misura.
Non può contenere tutto questo amore.
Padre, sogno l’amore, ma un amore
come non l’ho ancora visto spiegare in un libro,
soprattutto come non l’ho visto mai raccomandare nei consigli alle religiose,
un amore che sia insieme divino e umano.
Sogno che si possa donare tanta tenerezza a tutti,
una tenerezza che sia così divina, pur uscendo da un cuore umano,
da non portare con sé fatalmente il disordine dei sensi.
Perché, padre, non è possibile amare ardentemente e insieme con purezza?
Crede che sarebbe realizzabile?
Se ci provassimo prima noi
e poi insegnassimo a tutte le piccole sorelle a dilatare il cuore?
Per quale motivo, per il fatto di essere religiose, dovremmo chiudere il cuore
anziché aprirlo di più. Non solo nel fondo, ma nell’espressione?
Le assicuro che il mondo ha bisogno di amore.
Vorrei potere amare tutti gli essere umani del mondo intero.
Vorrei mettere una scintilla di amore in ogni angolo del mondo:
in Egitto, in Brasile, presto in Giappone.
Basta una scintilla ad appiccare incendi nei boschi della Provenza.
Perché non dovremmo creare bracieri nel mondo intero?
Passando a Saint-Fons ho visto tutte le ciminiere delle fabbriche
e ho pensato che un giorno vi manderò delle piccole sorelle.
Passando a Péage de Roussillon,
ho visto il quartiere operaio delle fabbriche del Rodano
e ho pensato che anche là manderò delle piccole sorelle…

Padre, ci vogliono dappertutto focolai di amore!...

Parigi, 21 ottobre 1947

[Magdeleine, Il padrone dell’impossibile, PM, Casale M. pp.199]

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