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martedì 26 marzo 2013

Domenica di Pasqua


Dal Vangelo secondo Luca (Lc 24,1-12)   ---   vangelo della veglia

Il primo giorno della settimana, al mattino presto [le donne] si recarono al sepolcro, portando con sé gli aromi che avevano preparato. Trovarono che la pietra era stata rimossa dal sepolcro e, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù. Mentre si domandavano che senso avesse tutto questo, ecco due uomini presentarsi a loro in abito sfolgorante. Le donne, impaurite, tenevano il volto chinato a terra, ma quelli dissero loro: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea e diceva: "Bisogna che il Figlio dell'uomo sia consegnato in mano ai peccatori, sia crocifisso e risorga il terzo giorno"». Ed esse si ricordarono delle sue parole e, tornate dal sepolcro, annunciarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri. Erano Maria Maddalena, Giovanna e Maria madre di Giacomo. Anche le altre, che erano con loro, raccontavano queste cose agli apostoli. Quelle parole parvero a loro come un vaneggiamento e non credevano ad esse. Pietro tuttavia si alzò, corse al sepolcro e, chinatosi, vide soltanto i teli. E tornò indietro, pieno di stupore per l'accaduto.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 20,1-9)   ---   vangelo del giorno

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

 

In questa Domenica di Pasqua sentiremo due brani di vangelo: durante la veglia Lc 24,1-12 e nella messa del giorno Gv 20,1-9.

Appartengono a due tradizioni diverse, quella lucana e quella giovannea, e infatti narrano in maniera diversamente specifica quel «primo giorno della settimana». Eppure entrambi hanno un elemento comune che salta subito agli occhi: nel giorno più importante dell’anno liturgico, durante la festa principale dei cristiani, nel momento in cui si celebra il mistero fondamentale della vita di Gesù, cioè la sua risurrezione da morte, Gesù non è sulla scena.

Si parla di lui, lo si nomina, si ricordano le sue parole, ma lui non c’è.

Altri dominano la scena.

Questo è molto interessante perché, oltre a ricordarci che la risurrezione di Gesù non ha avuto testimoni e dunque non è mai stata raccontata “in presa diretta” (come invece è successo per la sua vita pubblica e in particolare per la sua passione e morte), ci dice anche che il vangelo più che una cronistoria della vita di Gesù, è la messa per iscritto del nascere della fede dei suoi discepoli e delle sue discepole. Si racconta cioè, non il fatto della risurrezione, ma il come lo sono venuti a sapere i suoi, le reazioni di fronte a questa notizia e il farsi strada della loro fede in essa.

Annuncio di resurrezione e costruirsi della fede in essa sono dunque narrate insieme, attorcigliate indivisibilmente.

Sottolineo questo perché a volte noi corriamo il rischio di pensare che la rivelazione del volto del Padre che Gesù ha attuato con la sua vita, sia una cosa; mentre il nostro coinvolgimento in questa vicenda, sia un’altra, quasi una reazione che arriva in seconda battuta, a posteriori: prima c’è la storia di Gesù (quasi un pacchetto di notizie e verità preconfezionate) e poi ci siamo noi (che dobbiamo deciderci rispetto a queste notizie e a queste verità).

In realtà la rivelazione attestata (cioè fatta testo, fatta libro) dell’evento Gesù, ha già dentro di sé il momento umano del coinvolgimento nella vicenda del Signore. Il come si sono “mossi sulla scena” i suoi durante la passione, morte e risurrezione di Gesù, fa anch’esso parte della rivelazione! I tradimenti, i rinnegamenti, gli abbandoni, le menzogne, gli insulti, gli sputi, gli sbeffeggi… come anche la premura nel tirar giù dalla croce il suo corpo, l’avvolgerlo nel sudario, il deporlo in un sepolcro, il prepararsi per pulirne e ungerne il corpo… sono tutti elementi di rivelazione: quando Dio arriva, succede questo. Succede sempre questo.

Sottolineare il “sempre” è proprio per dire che non sono elementi “accessori”, casuali, contingenti: ma strutturanti la rivelazione di Dio. Sono questi i sentimenti umani di sempre legati al sopraggiungere del Dio di Gesù: l’incomprensione, la sensazione di incontenibilità (“è troppo” per star dentro alla nostra misura), la paura di perderlo, la paura di perdersi a causa sua, l’affetto viscerale che fa muovere le donne «il primo giorno della settimana»… l’incredulità…

Ecco perché credo sia fondamentale fermarsi sul come i vari personaggi in scena si sono determinati in quei giorni di risurrezione, sul chi hanno deciso di essere, ponendo quei gesti, avendo quei sentimenti, pronunciando quelle parole.

È indubbio che un posto speciale in questo andare a vedere come si muovono i personaggi ce l’abbiano le donne. Quasi non si sapeva – leggendo fino a qui i testi evangelici – che c’erano anche loro tra i più “vicini” a Gesù (solo qualche accenno qua e là, mai approfondito, mai sviscerato) e invece qui – alla fine – prendono un posto preponderante: che fa dedurre, che quel posto ce l’abbiano sempre avuto, perché uno non si inventa immischiato nella pelle dell’altro in pochi giorni.

In più, se non fosse stato così, non lo avrebbero certo scritto nei loro vangeli queste prime comunità di credenti… Perché la figura della donna, soprattutto come testimone, non aveva alcun valore a quei tempi (come lo stesso Luca lascia intendere: «Quelle parole parvero a loro come un vaneggiamento e non credevano ad esse») e perciò se non fosse proprio stato così – se cioè Gesù risorto per primo non fosse proprio andato dalle sue amiche femmine – non lo avrebbero mai detto. Era infatti controproducente dirlo (controproducente per l’annuncio cristiano) e quindi – se fosse stato falso – di certo a nessuno sarebbe venuto in mente di inventarselo. Perciò, se è scritto, è perché non hanno proprio potuto fare a meno di dirlo… e anzi, dobbiamo ringraziare questi uomini, sconvolti loro stessi probabilmente da questo annuncio previo alle femmine, per aver avuto il coraggio di non censurarlo, di non far prevalere il “buon senso” del “tenercelo per noi, senza però dirlo in giro”, ma di aver fatto risuonare fino ai confini del mondo che il risorto per prime l’hanno visto le donne.

Dunque, innanzitutto le donne.

Esse già durante la passione e morte di Gesù hanno iniziato a far capolino in una maniera finora mai emersa. Ce lo mostra anche la liturgia di questa settimana santa. Infatti il Lunedì Santo il vangelo che viene proposto è Gv 12,1-11, nel quale è narrata l’unzione di Betania, quando cioè Maria, sorella di Lazzaro, «prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo».

Come diceva don Claudio Cacioli, attuale Ispettore dei Salesiani di Lombardia e Emilia, «Noi cristiani entriamo nella settimana più santa della vita di Gesù e quindi della nostra vita accompagnati da una donna, che non fa una predica, che non fa una riflessione di tipo spirituale, ma fa un gesto di grande carica sensuale, di grande affettività nei confronti di Nostro Signore Gesù Cristo. E lo fa in totale libertà. Se potessimo fermarci un po’, tutta una serie di particolari – i capelli sciolti, i piedi… – potrebbero dirci che quella sera lì, in quella stanza, avviene qualche cosa che non è un gesto simbolico. No, no! Avviene proprio un’esplosione di amore che si manifesta come di solito l’amore si deve manifestare: non con le paroline dolci, ma con un abbraccio, con una carica anche di carnalità, di affettività, perché noi siamo fatti di carne e sangue.

Noi entriamo nella Settimana Santa accompagnati da questa donna qua. Non entriamo nella Settimana Santa accompagnati dagli apostoli. E in quella pagina del vangelo Gesù insiste nel dire che quel gesto lì, è un gesto che non solo è giusto che venga fatto, ma è un gesto che illumina di significato quello che viene dopo. Cioè quello che viene dopo – la Passione, Morte e Risurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo – o sta sotto l’insegna di un amore non a chiacchiere, ma a gesti concreti, oppure non è comprensibile. […] Perché ci sono gesti che avvengono soltanto nell’intimità e sono capaci di comunicare una custodia che è infinita. Prima di essere dilaniato dai flagelli dei Romani, il corpo di Nostro Signore Gesù Cristo è entrato in una dinamica di intimità con questa donna che ha versato l’olio, l’ha accarezzato… E lui ha detto che in quel gesto lì c’era questo immenso amore che lo avrebbe custodito anche nella sua sepoltura. […] Il Signore aveva bisogno di una carezza anche lui. Non ha bisogno di una predica o di risolvere tutti i problemi del mondo. Ha bisogno di essere custodito nell’intimità» [don Claudio Cacioli SDB, Eucaristia e affettività, Conferenza del 15 febbraio 2011].

È la medesima custodia dell’intimità che muove anche le donne di quel «primo giorno della settimana», anche loro con oli e aromi tra le mani, per ungere quel che ormai è solo il cadavere, il corpo morto di quell’uomo cui hanno voluto così bene…

Ma per le donne – mi pare di poterlo dire da donna – la cura del corpo altrui è elemento intrinseco dell’identità… foss’anche di un corpo morto, che però si vuol riconsegnare alla terra pulito, “in ordine” (come ci hanno ripetuto chissà quante volte le nostre mamme prima di uscire per andare a scuola), rivestito con abiti lavati e “stirati”, perché sia bello.

Che poi lo sanno anche loro che tanto non lo vedrà più nessuno, perché poi lo mettono nella cassa e poi nella tomba… ma intanto a loro sembra di aver fatto tutto l’umano possibile per replicare alla tragedia della morte. Una replica totalmente inutile – lo sanno anche loro – ma giusto così, perché la morte – pur vittoriosa e irrimediabile – non abbia almeno del tutto l’ultima parola. L’ultima parola è che io mi prendo cura del tuo corpo morto, del tuo corpo che mi è così caro.

Pensiamo dunque a cosa ha voluto dire per le donne del vangelo non trovare più il suo corpo, non poterlo rivedere neanche per quell’ultima volta, per quell’ultima replica inutile ma fondamentale alla morte…

E infatti il primo pensiero è che gliel’abbiamo rubato! Che quegli uomini che l’avevano così inumanamente straziato, vogliano essere così sadici e crudeli da togliergli anche quell’ultimo gesto di cura, di pulitura, di amore.

 

Invece… qualcosa d’altro era accaduto a quel corpo… Qualcuno che amava quel corpo tanto quanto loro – il Padre di ciascuno figlio dell’uomo che nasce su questa terra – Colui che poteva dare una replica efficace alla morte, lo aveva risuscitato, rendendo quel corpo non solo pulito, ma splendente, non solo oggetto di cura, ma vivo!

E sono proprio loro le prime a vederlo così! Prima fra tutte, secondo Giovanni Maria di Magdala… la prima da cui il Signore vuole andare.

E per capire quanto questa scelta sia radicale, basta provare a chiederci da chi andremmo noi se ci capitasse di risorgere… o più umilmente, chi vorremmo accanto nella nostra morte.

È intenso così il rapporto che Gesù ha avuto con le sue amiche: non una relazione superficiale, nemmeno una relazione funzionale a qualcos’altro (a portare un messaggio, a far capire delle cose…). No! Una relazione profondamente coinvolgente, tale da costruirlo come uomo: Gesù si è davvero fatto uomo (cioè è diventato proprio quell’uomo lì e non un altro), lasciandosi plasmare dalla storia e dalle storie delle persone che ha incontrato, conosciuto, amato.

 

È in questa consistenza umana amante che Dio ha riconosciuto se stesso, in questo suo Figlio rivelatore definitivo del suo volto Egli ha detto chi è. Per questo Gesù non poteva rimanere morto: perché l’ultima parola di Dio sul mondo è che i pezzetti di bene che ci scambiamo (quelli che Gesù chiamava “Regno di Dio”) sono più forti della morte, in Lui si “eternizzano”.

 
Buona Pasqua a tutti.

mercoledì 10 giugno 2009

Che senso ha dire Dio e corpo insieme?

È sempre un po’ difficile argomentare riguardo a certe “tematiche” che la Chiesa nelle sue annuali feste liturgiche ci propone. Il rischio è infatti quello o di dire sempre le stesse cose… o di trovare l’appiglio “ad effetto” per variare un po’ sul tema, senza però riuscire a cogliere in profondità il mistero celebrato.
In questa domenica per esempio l’invito che la festa del Corpus Domini implica, è quello di fermarsi a riflettere sul mistero dell’incarnazione, dell’istituzione dell’eucaristia, della presenza reale di Cristo nell’ostia consacrata (per stare solo alle tematiche immediate e tralasciare quelle correlate), che però – a ben vedere – sono praticamente tutto il mistero cristiano… E allora come fare, in poche righe a tracciare qualche commento su fronti così ampi? Come farlo, soprattutto, evitando i rischi classici della predicazione sopra delineati: usare tante parole e tanti “effetti speciali” per nascondere il niente che si sta dicendo e per velare la fatica dell’oratore di cogliere davvero ciò che è implicato in quanto si celebra; chiudersi in un più onesto, ma non meno infruttuoso silenzio apofatico?
Perché è così difficile? Perché in particolare alcune tematiche lo sono così tanto?
Perché rimandano a problematiche vaste, apparentemente complicate, in qualche modo da riservare agli esperti, sostanzialmente lontane dalla vita: Cosa vuol dire per esempio celebrare la festa del Corpus Domini? Del corpo e sangue del Signore? Cosa implica credere in questa realtà?


Finché si tratta di dire che Gesù nella sua vita terrena aveva un corpo, fatto di carne ed ossa, tutto fila via liscio: qualsiasi cristiano lo ammetterebbe senza fare una piega; così come il dire che nell’ultima cena Egli abbia offerto il suo corpo e il suo sangue, che noi riceviamo ancora oggi a messa. Ma quando si incomincia a dire che Gesù non era un semplice inviato di Dio (come ce ne furono tanti nell’AT), non era un uomo che Dio ha scelto per svolgere una missione, non era neanche un corpo umano che Dio ha animato e condotto come una marionetta per assolvere ad un compito, ma era lui stesso Dio… le cose si fanno complicate. La domanda diventa infatti: Che senso ha parlare di corporeità per Dio?
I più di fronte a quello che appare un complesso problema intellettuale e cervellotico, si stufano, si perdono e lasciano perdere… Anche perché – come già detto – lo avvertono come qualcosa di assolutamente staccato dalla loro quotidianità: di fatto superfluo e dunque inutile rispetto al loro vivere. Ci si accontenta di dire: il parroco da piccolo mi ha insegnato che c’è Dio, che è Padre, Figlio e Spirito Santo. Il Figlio è sceso sulla terra, si è fatto uomo: quindi era Dio e uomo; è morto per noi e prima di morire ha istituito l’eucaristia donandoci pane e vino, che sono suo corpo e suo sangue. Cosa questo voglia dire, implichi o come avvenga, son problemi del parroco: a me basta andare a messa, dire le preghiere e fare l’offerta, che il problema religioso è risolto. Il resto della vita è un altro conto…
Qualcuno invece – più ardito – insiste molto su questo versante cristiano della “corporeità” di Dio, suggellata dal fatto che il gesto più importante che Gesù ci abbia lasciato ha in sé i segni poveri del pane e del vino, suo corpo e suo sangue. Insistono molto perché individuano in questa logica corporea, una dinamica importantissima per l’individuazione dell’identità umana: la fine cioè di tutto il disprezzo (ereditato dalla filosofia greca) di ciò che è carnale e di tutta l’esaltazione spiritualistica – e disincarnata – che per secoli ha mortificato l’umano, a favore di un’impostazione più unitaria – non più dualistica – su chi l’uomo sia; con tutte le conseguenze sul piano ecclesiale, culturale, sociale che questo nuovo modello antropologico promuove (per esempio l’uguale importanza delle vocazioni, la pari dignità dei membri della Chiesa, la rivalutazione della corporeità, la libertà da certi moralismi, ecc…).
Altri invece, proprio per queste stesse conseguenze ecclesiali, sociali, culturali, si distanziano un po’ da questa insistenza sulla corporeità in Dio, spaventati da una riduzione troppo umana/umanizzata del mistero divino.
In questa situazione sembra proprio che, allora, centrale diventi rispondere alla domanda posta prima: Che senso ha parlare di corporeità per Dio? Infatti solo indagando questa questione, si potrà risvegliare dal torpore il gran numero di persone che avvertono questi discorsi come lontani dalla loro vita, si potrà cioè rendere ragione della loro centralità, non semplicemente ribadendola (come spesso avviene nella predicazione) senza motivarla, ma investigando “il succo del discorso”; e solo in questo modo inoltre si potrà prendere posizione tra l’eterno doppio fronte intra-ecclesiale, diviso tra chi vorrebbe sempre una sottolineatura forte della corporeità e chi invece preferisce trascurarla un po’; solo così infine si potrà prendere posizione non tanto come tifosi di un partito e dunque appassionati, ma determinati solo dal campanilismo, quanto piuttosto sulla base di una capacità di rendere ragione delle proprie posizioni…
Addentrandoci dunque nella complessità di questa problematica, mettiamo subito in luce cosa c’è in gioco: Perché fa così problema pensare insieme Dio e corpo?
Perché tutta la storia della religiosità umana, fin dentro al testo biblico ha pensato Dio come incorporeo, nel senso di illimitato e illimitabile, infinito e invulnerabile, che sono tutte caratteristiche che necessitano una non corporeità: chi ha un corpo ha dei confini e soprattutto è feribile. Scrive Elaine Scarry [in La sofferenza del corpo, il Mulino, Bologna 1990 (1985), 348-49.353-54.360-61]: «In tutto l’Antico Testamento, il potere e l’autorità di Dio sono una conseguenza, estrema e continuamente ribadita, del fatto che gli uomini hanno un corpo ed Egli ne è privo. È questo fatto che, prima di tutto, viene trasformato nella revisione cristiana, poiché, nonostante la differenza tra uomo e Dio continui ad essere immensa come lo era stata nelle Scritture ebraiche, il fondamento di tale differenza non è più costituito dal fatto che uno abbia un corpo e l’Altro no. La trasformazione non riguarda tanto l’oggetto della fede quanto la struttura stessa della fede, la natura dell’immaginazione religiosa. […] Tale modificazione insiste sul fatto che l’onnipotenza, come anche più modeste forme di potere, deve essere connessa alla sensibilità corporea. Non è che il concetto di potere venga eliminato, né tanto meno scompare l’idea della sofferenza: è la precedente relazione tra loro che viene meno. Essi non sono più manifestazioni l’uno dell’altra: il dolore di una persona non è il segno del potere di un’altra. La dimensione della vulnerabilità umana non corrisponde più alla dimensione dell’invulnerabilità divina. Essi sono ora slegati e possono pertanto aver luogo congiuntamente: Dio è sia onnipotente sia soggetto al dolore. […] Connettere sensibilità e autorità, attribuire autorità alla sensibilità, significa collocare il dolore e il potere dalla stessa parte. […] Una delle caratteristiche peculiari del dolore è che il suo opposto, il potere, può trovarsi in un luogo differente; tuttavia, è possibile avvertirne la presenza o l’assenza, l’aumento o la diminuzione, in relazione all’aumentare o al diminuire del dolore. Di solito, la variazione di una coppia di contrari non è parallela ma inversa; l’aumento dell’umido corrisponde a una diminuzione del secco; muovendoci verso est ci allontaniamo da ovest; l’aumento della luce fa diminuire le tenebre. Tuttavia, il fenomeno del dolore ha frequentemente luogo in situazioni in cui il suo accrescimento è accompagnato da un accrescimento di un potere che si accumula altrove. La nuova relazione che si instaura nel Vangelo tra il corpo del credente e l’oggetto della fede sovverte questa relazione di esclusione tra dolore e potere, poiché colloca nello stesso luogo sensibilità e autorità, che non si possono pertanto più avere una alle spese dell’altra. Il conferimento dell’autorità dello spirito alla sensibilità ha come conseguenza anche la dissoluzione del confine tra corpo e voce e permette quindi il passaggio dall’uno all’altra. Nell’Antico Testamento, il corpo appartiene solo all’uomo, e la voce, nella sua forma estrema e priva di attributi, appartiene solo a Dio. Con la croce, ciascuno mantiene la propria collocazione originaria, ma nel contempo fa la sua comparsa nella sfera da cui era stato precedentemente escluso».
Ecco dunque l’implicazione del parlare insieme di Dio e di corpo – possibile solo in Gesù – e cioè lo scardinamento di un’atavica immaginazione religiosa implicante la separabilità di principio di alcuni ambiti: il cielo/la terra; il potere/il patire; il corpo/lo spirito; Dio/l’uomo; il soprannaturale/il naturale; la grazia/la libertà; ecc… In Gesù è cioè richiesta una conversione dell’idea di Dio, dell’idea dell’uomo e della ragione che si usa per pensarli che è talmente scaravoltante i luoghi comuni, le convinzioni sedimentate in secoli di storia, le precomprensioni che succhiamo dal seno di nostra madre, che nemmeno due millenni di cristianesimo sono ancora riusciti a digerire.
La lunga citazione riportata mostra qualche sprazzo, indica qualche possibile percorso rispetto a cosa voglia dire questo prendere sul serio l’inedito Dio cristiano che pur restando Dio non può più essere detto – in Gesù – senza corpo; che pur restando onnipotente, non può più essere detto – in Gesù – invulnerabile; che pur restando infinito, in Gesù può essere detto realmente presente in un pezzo di pane e in un goccio di vino. Ma soprattutto che pur restando Dio, non può più essere detto – in Gesù – a prescindere dall’uomo e a priori rispetto alla sua storia con lui, tanto che «L’accesso al senso specifico per la trascendenza divina coincide con il riconoscimento per la propria singolarità (questa è la fede: accogliersi come quell’uomo), giacché la trascendenza divina si rivela dando luogo alla unicità individuale. L’accesso a Dio coincide con l’accesso a io. I due poli sono inseparabili anche se sono né assimilabili, né omologabili» [S. UBBIALI, Il sacramento cristiano, p. 128].
Ma assumere questa prospettiva vuol dire rivedere molti dei nostri schematismi religiosi (individuali ed ecclesiali). Per fare solo un esempio significativo, assumere questa prospettiva vorrebbe dire smettere di pensare il rapporto dell’uomo con Dio come un tentativo di superamento od estraniazione dalla storia, dalla realtà, dalla corporeità, come se queste dimensioni andassero superate, come se da esse bisognasse elevarsi… ma piuttosto pensare il rapporto con Dio come inestricabile dalle nostre dinamiche antropologiche, ammettendo quindi che per l’accesso al sacro ciascuno è di per sé – proprio e solo in quanto umano – già abilitato: accettando a vantaggio della libertà dell’uomo, il rischio del relativismo.

venerdì 8 maggio 2009

Diventare suoi discepoli: il frutto della risurrezione


Sull’immagine biblica della Vigna converge il fascino dell’antica appassionata promessa di Dio di accudire l’uomo e insieme lo scoramento del cuore dell’uomo nel rifiuto di Dio o comunque nell’incapacità a intendersi con lui e dare frutti adeguati al suo amore! Piantare una vigna è una sfida di amore alla vita, al futuro, perché esige cura e passione, fa parte della casa e del pasto, si eredita come bene prezioso di famiglia, è luogo di lavoro e di incontro, di fatica e di gioia… per la vendemmia, il mosto, il vino! Ma la vigna è anche il luogo della delusione suprema di Dio e dell’uomo, il luogo del conflitto insanabile che porta all’uccisione del figlio del Signore della vigna, dopo lo sterminio dei suoi profeti (Mc12,1 e paralleli)! Dopo millenni, ancora, al nostro sguardo e alla nostra esperienza, rimane drammatico e insolubile il male nel mondo, ed ha ancora uno strascico tragico nella nostra storia l’antica disperazione di Dio, secondo il profeta: Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?... Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha fatto uva selvatica? Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi (Is 5,4ss). La vigna è uno delle grandi similitudini che Gesù ha scelto per dirci con linguaggio umano, nel contesto vitale della nostra cultura mediterranea, chi è lui per noi: “IO SONO” il pane, la luce, la porta, il pastore, la via, la verità … e la vita! Oggi ci dice: io sono la “vite” vera! come ci ha detto: io sono il pane vero ,la vita vera, il vero pastore… Per annunciare che in Lui finisce la storia dell’ infedeltà dell’uomo al suo stesso Padre, che l’ha piantato nel mondo. L’Agricoltore vede finalmente una vite fedele e feconda nel Figlio, nel quale tutti noi diventiamo, come discepoli, i suoi rami, la sua vigna – il popolo nuovo, redento e fedele per sempre
io sono la vera vite e il Padre mio è l’agricoltore!
Proprio per la sua densità di significato nel linguaggio biblico, la similitudine della vigna nel Vangelo di Giovanni contiene questa eccezionale garanzia: che da qualche parte, nel misterioso progetto di benevolenza di Dio, noi siamo radicati, vitalmente desiderati e legati da amore indissolubile, come nelle profondità della terra la vite è abbarbicata alle sue radici, che la nutrono e la fanno vivere. Non siamo orfani, isolati e abbandonati alla nostra sorte da un creatore inafferrabile e invisibile. Non siamo destinati a esaurirci nel nulla da cui siamo provenuti. Ma ancor più! L’annuncio (il Vangelo) che si fonda su questa garanzia di un legame vitale, va ben oltre. Tutta la vita di Gesù e la sua predicazione è mirata a coinvolgere l’uomo in questo progetto del Padre, realizzato finalmente nel Figlio, mandato nel mondo per salvarci. La fede dei discepoli consiste nel prendere atto di questa sorgente vitale da cui proveniamo e “rimanere” saldamente connessi ad essa. Gesù ci implora che rimaniamo in lui (8 volte in positivo e in negativo), perché solo così la sua opera di salvezza si comunica ai discepoli, i tralci di ieri e di oggi. Solo uniti al figlio siamo anche noi intimi a Dio. Rimanete in me… allora io rimango in voi … perché senza di me non potete far nulla! L’esigenza è così vitale e discriminante che sembra una minaccia, ma si tratta di conseguenza non punitiva ma naturale, vitale, come è appunto del tralcio se si stacca dalla vite: non è la vite che lo punisce, ma presto gli mancherà la linfa e si seccherà. Tutto è contenuto in un’unità di progetto, di amore vitale, di dedizione: un attaccamento esistenziale reciproco tra noi e Dio, in Cristo, che ne fa il mistero centrale del mondo e della sua storia, la convergenza in lui di tutto ciò che esiste.
se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi…
Rimanere in lui non è un riferimento sentimentale, un simbolico legame di riconoscenza, ma una spinta propulsiva intima che sconvolge il cuore e la mente con un preciso nuovo progetto di vita, che è forza e modello insieme: lui e le sue Parole, lui e i suoi comandamenti, lui e il suo legame vitale al Padre. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui! Una comunione di assimilazione vitale interiorizzata dall’uomo, non una precettistica morale dall’esterno. Il discepolo si trova coinvolto attraverso questa comunione dinamica vitale, in un tessuto di relazioni vive, dove i personaggi della similitudine giocano ognuno il proprio ruolo, assumono un volto preciso nell’intreccio di amore, conoscenza e liberazione dell’uomo, che è il Regno di Dio, che cresce nella storia. Il Padre, è l’Agricoltore. Gesù, è la vite nuova nella vigna ostile del mondo. Noi, siamo i tralci chiamati a “divenire” suoi discepoli, proprio perché coinvolti e immersi nella dinamica di Cristo crocifisso e risorto, che si ripete e si comunica a noi. Lo Spirito, è il sigillo di garanzia di questa nuovo contesto di relazioni vitali, di cui dice la lettera di Giovanni: in questo riconosciamo che lui rimane in noi: dallo Spirito che ci è dato! La descrizione della presenza misteriosa di questo vitale intreccio trinitario nella nostra umile storia è descritta da Gesù con parole forti e insistenti, che possono apparire similitudini oscure, ma a chi si arrischia in quest’avventura fanno ben capire cosa gli sta avvenendo:
rimanere … in lui, anzitutto, nella sua parola, nel suo legame, che attraverso di lui ci collega al Padre. Rimanere nelle conseguenze talora dolorose della sequela del suo Vangelo. Ma rimanere anche nella scoperta progressiva e liberante che davvero quanto succede (e ci succede!) per quanto possa sembrare così avverso ed ostico, va ricompreso, pregato e vissuto come sua vera quanto imprevista risposta a ciò che chiediamo: Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. Non tanto perché esaudisca i nostri desideri, che la sua Parola ci rivela piccoli e di corto respiro, ma perché li dilata secondo le sue promesse, rimettendoci in cammino verso i suoi orizzonti e dilatandoci il cuore secondo le sue misure. E così finiremo per chiedere quello che vuole lui… ed essere quindi sempre esauditi noi che, man mano che cresciamo, sappiamo sempre meno cosa domandare, e ci affidiamo all’anelito del suo Spirito, che geme in noi l’attesa del Padre nostro!
potare – Gesù stesso è stato potato così drasticamente da morirne… e solo così è stato abilitato nostra guida e salvatore. La potatura fa piangere la vite… gli taglia ogni illusione di estendersi dove la linfa naturale la spingerebbe: delusioni, lutti, malattie, ma soprattutto contrasti e conflitti e … incomprensioni, proprio con coloro che camminano con noi, nella stessa fede. Per S. Paolo il tormento dell’incomprensione delle esigenze superiori della fede da parte di chi faceva chiesa con lui, è stata la scarnificazione incessante di una vita. Il più delle volte ci ribelliamo, cerchiamo di proiettare ogni colpa nei vari soggetti coinvolti e perdiamo l’occasione di vedere la mano del Padre che taglia, pota, lega e slega, per non lasciarci nascondere ed illudere dietro il nostro fogliame infruttuoso. Una mano, la sua, talora indiscreta, se taglia non solo il tralcio che non porta frutto, ma anche ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto! Anche le opere buone può essere bene che siano tagliate!
produrre i frutti : c’è infine una realtà, sottesa tacitamente a tutta la similitudine evangelica della vite ed essenziale nella realizzazione vitale del cammino del discepolo: la linfa! Cioè lo Spirito, con il quale il Padre e il Figlio si amano, che ci tiene in vita nel legame alla Vite e al Vignaiolo, lo Spirito che piange con noi nelle nostre potature, il vero produttore dei “nostri” frutti … Solo lui può verificare in noi (come ha fatto in Gesù!) che… non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità. Così si avvicina la meta di ogni cammino: In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. La trasformazione che il rimanere in Gesù e l’accogliere le potature della storia, induce nel credente, lo fa “diventare” sempre più discepolo di Gesù. Vuol dire che sempre più si identifica (come il figlio) nella volontà del Padre, sempre più aumenta la sua disponibilità riconoscente ad accogliere nella vita i “diversi” progetti di Dio, che portano la salvezza al mondo… La preghiera diventa l’implorazione che attende e che fa … il Nome – il Regno – la Volontà del Padre. Questo vuol dire glorificare il Padre suo e nostro!
… la chiesa era in pace… si consolidava e camminava!
In tempi difficili e conflittuali, per la comunione ecclesiale (anche i nostri!) ci suona provocatoria e consolante insieme questa annotazione di Luca. La Chiesa si cui parla era appena uscita dalla persecuzione di Paolo stesso, e stava entrando nel conflitto interno drammatico dell’accesso dei pagani alla fede e nella persecuzione esterna di Erode, con l’assassinio di Giacomo e la dispersione dei discepoli… Ma di che pace si tratta? La chiesa vive entro una dialettica generata dai due fuochi che la tengono viva nella storia: il legame vitale al Cristo nel suo corpo che è la chiesa, attraverso la quale ci e donato Battesimo, Parola ed Eucaristia e la sollecitudine appassionata per chi è fuori della chiesa, la missione inarrestabile verso chi è lontano e diverso e rifiutato, e, proprio per questo, intimo a Gesù, che sulla croce coinvolge nell’amore del Padre persino i suoi uccisori! Infatti non saremo in pace finché non riusciremo a fare dell’umanità una sola famiglia, con tutte le creature, liberate dalla corruzione e dalla morte. Allora c’è una pace profetica, già disponibile prima della pace finale, mentre siamo ancora immersi nella complessità conflittuale e talora oppressiva della storia: purché sia sempre orientata all’universalità dell’amore. Non è la pace auto centrata e aggressiva di una setta. È una pace che per adesso è unilaterale ed eccentrica, perché non ha il baricentro in sé, ma lancia instancabilmente il ponte della benevolenza lontano da sé, presso l’altro che è ostile, dove il Padre ci aspetta. Per questo anche se i sentimenti sono feriti, le risposte deludenti, amare o aggressive… e spesso il nostro cuore ci rimprovera, perché ci sentiamo incapaci a reggere, sappiamo che Dio è più grande del nostro cuore. E tiene fede alle sue promesse!

sabato 14 marzo 2009

Il tempio di Dio… e il corpo dell’uomo

Il tempio di Dio… e il corpo dell’uomo
L’uomo compiuto
C’è una autorevolezza che viene dalla verità interiore di una persona, il fascino dell’autenticità, che tutti attorno sentono, alcuni accogliendola come un dono e uno stimolo, altri rifiutandola come un rimprovero o una sfida. Uomo compiuto, uno lo può essere soltanto diventando progressivamente quello che è, perché si è costruito così fin dall’inizio, orientando i suoi sentimenti, i suoi gesti, le sue parole nella costante, faticosa e gioiosa, fedeltà del processo della vita, a partire dall’istintualità infantile congenita in noi, in ascolto della “voce” che lo chiama da dentro – nella sua piccola nicchia socioculturale che lo permea da fuori.
Se lo sdegno della passione talora esplode, è sempre per la difesa dei diritti altrui violati o vilipesi, non per sé, perché non ha bisogno di difendere se stesso, confortato interiormente dalla testimonianza viva della verità. Allora il suo corpo, luogo, strumento e materia del crearsi dell’identità personale, da minuscolo germoglio di carne a uomo compiuto, è diventato la creta dove l’antica immagine di Dio ha trovato espressione, dove il progetto va compiendosi, la casa dove il Padre è venuto ad abitare, ormai indistruttibile, perché impregnata dal suo amore.
Gesù, erede della millenaria storia di Israele, è l’ebreo compiuto che ne incarna l’anelito ininterrotto di cercatori e ascoltatori della parola di Dio. Finché questo cammino non è terminato, e morte e risurrezione non hanno ancora sigillato l’alleanza nuova nel suo corpo, l’antica casa di Dio, il tempio, doveva servire solo alla preghiera incessante, che implora nell’attesa dell’ “eletto”, nel quale Dio potesse finalmente compiacersi. Gli idoli non devono assolutamente profanare la casa del Padre, tanto meno il dio alternativo, che è mammona, il denaro, il mercato – la svendita dell’amore!
Le dieci parole
Per capire la qualità intensa delle dieci parole, l’intenzione profonda che le definisce nella loro diversità irriducibile alla normativa morale e giuridica, occorre vederle dal punto di vista di Gesù, l’ebreo fedele, in cui hanno raggiungo il loro compimento e manifestato il loro vero senso. E allora si illuminano e, se materialmente appaiono come orientamenti fondamentali di diritto naturale, sono invece proposte di amore e vanno vissute come il tessuto dialogico di un’alleanza personale, nelle quali Gesù assume e porta a compimento la storia di predilezione di Dio per il suo popolo. Dove Dio si rivela un interlocutore appassionato fino alla gelosia, sin da quando, preso da compassione per il popolo che soffriva e piangeva nella condizione servile, lo ha liberato dalla schiavitù d’Egitto e condotto con affettuose ali d’aquila nel deserto, verso il Sinai, per farne il suo popolo libero e fedele. Un Dio affamato di un contraccambio del suo popolo, dal quale desidera un’appartenenza totale, per introdurlo in un mistero di amore dove ogni raffigurazione, concetto o nome è inadeguato ed osceno, come imprigionare l’amore in una gabbia. Un amore innominabile per troppa intensità, non per distanza o reticenza. Allora la pretesa esasperata di fedeltà assoluta della prima parte di queste “parole” è la conseguenza della trepidazione di un amore che sente come un tradimento personale (un adulterio) ogni perversione verso gli idoli, perché questi prima che “dei” concorrenti o alternavi, sono la deturpazione del volto e l’abbrutimento del cuore del popolo amato. Non dai comandamenti si allontanano, infatti, ma dal suo amore, che li farebbe felici! La tentazione è sempre la stessa, nelle sue diverse forme storiche condizionate dalla situazione culturale del momento: impossessarsi della potenza di Dio, per farne uno strumento al servizio dei propri desideri di onnipotenza. Per questo nella storia, man mano che ci si purifica da questa pretesa e ci si immerge nell’umile condizione umana, Dio è silenzio, cioè sempre meno si osa mettere in bocca a Dio le nostre parole. E perfino chi ne ha incarnato totalmente, senza uguali, le dieci parole… alla fine gli rimane solo l’implorazione, di fronte al silenzio di dio, di non essere abbandonato! Nessuno come Gesù patirà sulla sua pelle il mistero abissale del silenzio di Dio, al quale, nel momento supremo della vita (come dice il vangelo di Marco) potrà rispondere solo con un grido inarticolato di totale consegna (15,37).
I giudei esigono segni
Gesù rifiuta apparentemente la provocazione dei giudei (e dei credenti di ogni tempo) che chiedono segni, ma di fatto la esaudisce, prevedendo e lasciando che la logica perversa del rifiuto dell’amore distrugga il suo corpo: Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra. (Mt 12,40). Questa forza interiore di fedeltà assoluta all’amore è la sua vera “autorità”, contro la quale ogni potere spezza le sue armi, pur sicure di poterlo vincere! e dimostrando proprio con questo, che l’amore, che sembra inerme e disarmato, di fatto è invincibile… nella sua impotenza! Ed è proprio per questo che il corpo di Gesù umiliato, torturato e ucciso, diventa la nuova vera abitazione, il vero tempio di Dio, che è amore! E qui, in questo luogo sacro, il Padre scende a compiacersi di trovare chi ha ascoltato la sua parola fino a diventare, come Dio, amore. Un corpo di carne che diventa amore è il luogo di Dio, è divino!
Egli parlava del tempio del suo corpo
…il nuovo tempio del culto di Dio è dunque il corpo dell’uomo, attraverso un passaggio, una pasqua, che proprio per renderci capaci di questo amore abissale, passa attraverso il dono “fisico” della vita, e scende come ogni corpo nel ventre della terra. L’osservanza radicale e compiuta della legge, pallida immagine del progetto di Dio sulla natura e sulla storia, porta fino a questa soglia, non può andare oltre. È esterna all’uomo, scritta su lastre di pietra, non ancora incisa sul cuore degli uomini. Giudei, che si fidano solo di segni divini, e greci, alla ricerca di una superiore sapienza umana, sono parimenti bloccati di fronte a questa soglia. Noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani. La maturità cristiana è il lungo cammino, alla sequela di Cristo, per fare del proprio “corpo di carne” il tempio, il luogo di “riconoscenza” del Padre, dove la legge e la giustizia sperimentano la propria impotenza, per l’invincibile tentazione contrattuale di cui sono intrise, che fa di ogni rapporto con Dio un consapevole o inconsapevole mercato, dove non il volere, ma il potere di Dio è la merce più ricercata. Ma Dio è stoltezza, scandalo e debolezza… in questo mercato! e la religiosità del credente, come la sapienza dell’ateo, giustamente aborrono un tale scambio!
I suoi discepoli si ricordarono… e credettero “nella scrittura” e “nella parola di Gesù”.
Il male della storia, la sofferenza dell’innocente, come del colpevole, l’ineluttabilità della morte… ci mettono di fronte alle fauci dell’incomprensibile o del nulla… dove il non senso mette a nudo la nostra precarietà - la nostra radicale lontananza da Dio. E la fede non è l’esenzione dall’angoscia del male nella storia, al contrario. Perché credere nell’unicità del Dio di Gesù sta proprio in questo, credere che egli è capace di stare dove non c’è posto per lui! E il posto dove non c’è posto per Dio, deve essere attraversato da chi vuole unirsi a Dio, cioè seguire Gesù, Servo e Signore, … fin dove la sua avventura umana ha toccato il fondo! Non è stato Gesù ad abbandonare Dio, ma è stato l’amore del Padre a spingerlo fin dove c’era l’assenza, il non senso della sofferenza e del silenzio di Dio (G. Ruggeri). Che Dio abiti, ormai, l’umile impotenza del corpo dell’uomo, la precarietà del suo desiderio inesausto, molto più che il simbolo sacro e religioso dove noi lo costringiamo, dovremmo ormai ricordarcelo e crederlo, perché ce l’aveva detto… e la sua Parola, confermata dalla Risurrezione, è ormai il compimento delle Scritture, che proprio questo di Lui avevano profetizzato!

sabato 1 novembre 2008

Il tempo e l'eternità

Dall’«avere e spendere» al «donare e spendersi»

Il fascino della giovinezza che non ha mai fine è il grande imbroglio, occulto o palese, che viene teso a tutti noi dalla moda corrente e dai trend che infestano il nostro quotidiano. Per poco che ci si guardi in giro e si osservi, la corsa all’apparire, al coprire le rughe e allo scoprire i corpi, è frenetica e travolgente. Oggi un mercato fiorente è proprio quello del fitness, del lifting, del silicone, del botulino, di una medicina che non garantisce all’individuo di diventare persona sana e vigorosa ma che gli crea l’illusione di un traguardo inesistente e che si sposta sempre più in là. Comunque che gli anni «si tengano»!
Si rimuove, prima di tutto, la realtà. Quindi la mistificazione concerne l’umano in sé.
Cresce così il degrado sotto tutti i profili, perché la vita come dono di incontro con Dio e fra i fratelli non è più considerata come essere insieme pellegrini, viandanti che, tenendo fisso lo sguardo sul Fratello Gesù, corrono incontro al Padre.
Tutto viene scardinato e inizia la grande corsa che poggia su due piedi con due nomi differenti: Avere e Spendere. L’accumulo, allora, diventa il grande scopo e la meta di ogni desiderio, si accumula tutto e di tutto, così che la casa (e le case) sembrano botteghe di cianfrusaglie e conservano, in bella mostra, tutti gli oggetti e dispositivi del proprio «status symbol». Case esibite, non vissute e che si riducono a dormitori.
Avere e Spendere tengono il passo, lo accelerano e vincono primati... fasulli... Conti in banca opulenti che gli eredi consumeranno come neve al sole, irridendo magari alla fatica sottesa. Residenze geniali ed avanguardiste: vuote di figli, di amici, vuote di calore umano. Crociere da nababbi che stordiscono e consentono di pavoneggiare l’abilità del proprio medico estetista.
Quando ci si stende a letto, posto che Morfeo non giunga subito attirato da qualche pillolletta all’uopo ingurgitata, la coscienza (o quel che ne resta) non ha mai un sobbalzo? Se così avvenisse il cumulo non sarebbe ancora diventato spam!
Il guaio reale è che si corre il contagio: spam genera spam!
Eppure tutti muoiono, cioè abbandonano misteriosamente il loro corpo, anche se reso perfetto dal botulino e dai muscoli sodi e lucidi. Se qualcuno sparge le ceneri dei trapassati con intento religioso e mistico, volendoli unire alla creazione, al suo divenire e al suo ritornare al Creatore, quanti le spargono per non avere più un punto di riferimento, cioè la tomba, che diventa terrificante perché ineludibile?
L’amicizia con Dio, avere sperimentato la Sua Presenza, dentro di noi e nella creazione, genera per Avere e Spendere una nuova identità, trasparente e chiara: Donare e Spendersi .
Donare e Spendersi sa guardare ai fratelli e alle sorelle in simultanea con se stesso, le proprie necessità. I propri desideri allora si aprono, comprendono e accettano quelli degli altri. Come non condividere il pane? La libertà della coscienza e della propria religione? Come non desiderare vantaggiosa per tutti una vita ecologica e pacifica? Donare e Spendersi non conosce l’esibizione, la vanagloria, il tornaconto e non apre la carta di credito. Donare e Spendersi si consuma e sa bene che, solo così facendo, apre il tempo all’eternità, a quella vita in cui tutti ci ritroveremo, deposte le nostre spoglie per ritrovarle trasfigurate.
L’alchimia è certa, scatenata da Donare e Spendersi ora, in tutti i momenti dell’esistenza, per costruire quella città celeste, Gerusalemme, costruita da pietre vive: ciascuno di noi nella sua realtà non mistificata.
Allora il morto, morto non è, risulta vivente nel Vivente, il Cristo dinanzi al Padre.
I nostri trapassati, mancati, estinti, con tutti i sinonimi che si possono inventare, indicano persone che furono insieme a noi ma che già stanno creando il noi eterno, in nostra attesa. Morti e, quindi, santi, non in senso canonico ma ormai come persone che poste dinanzi all’ultima decisione del loro esistere hanno riconosciuto in Dio il Volto del Dio dell’Agape.
Donare e Spendersi non camminano soli, dimenticati, gettati nel tempo e nella storia, camminano con tutti i viventi, sempre in lieto e continuo raccordo, una realtà istantanea che batte e precede Skype. A costo zero perché non esiste moneta, non esiste scambio, esiste solo il gioioso condividere.
Il passo Donare e Spendersi, allora, si fa alacre e ogni ruga diventa geografia di vita sulla crisalide che sembra avvizzita ma invece si sta aprendo alla sua maturità, in piena fioritura. Non in solitudine ma già da ora insieme e pur nell’attesa di poter far parte di quel grande cerchio che loda e canta «l’amore che move il sole e l’altre stelle».
di Cristiana Dobner in Sir, 29 ottobre 2008

venerdì 23 maggio 2008

Chi mangia di me vivrà per me

Io darò la mia carne per la vita del mondo
La domenica del “Corpo del Signore” chiude simbolicamente le “feste” pasquali del Dio della nostra salvezza, perché il dono dello Spirito della Pentecoste, che ci ha rivelato il misterioso abbraccio Trinitario in cui viviamo, ci lascia in dono questo cibo essenziale alla “sopravvivenza”, nel cammino difficile della storia in cui noi ancora viviamo, dopo che Gesù ci ha lasciato ‑ prima che ritorni.
Giovanni non racconta l’istituzione dell’Eucaristia, già ampiamente spiegata negli altri testi dei vangeli e di Paolo, che giravano nelle prime comunità cristiane. Al suo posto mette la lavanda dei piedi, come gesto in cui condensa il senso dell’esistenza di Gesù e questo lungo capitolo 6°, nel quale il Maestro stesso spiega “l’eucaristia” (come noi diremmo). In questo serrata discussione con i giudei, ove la provocazione è evidente, per smuovere l’attenzione dei discepoli e di quelli che sono disposti ad ascoltarlo, fino ad oggi, Gesù non espone una proposta religiosa, una formula di preghiera o un rito simbolico riservato ai discepoli privilegiati – ma il senso e la salvezza del mondo intero. Non usa il termine “corpo”, come negli altri testi eucaristici del N. T., ma ‘carne e sangue’, ad indicare ancora più crudamente la dimensione fisica, biologica, corruttibile e precaria dell’ “animale” umano trafitto, che deve essere assolutamente “mangiato”! Il riferimento all’agnello pasquale richiama il retroterra simbolico antico dell’avventura fondante per Israele: la liberazione dalla schiavitù egiziana e l’errabonda parabola del deserto… allargata oramai alla salvezza dell’umanità intera. Solo attraverso e dentro questa umanità di carne donata e mangiata “scandalosamente” si apre la possibilità della salvezza eterna (cioè totale, storica, presente tra noi quaggiù ‑ e futura, che duri per sempre!). Con una ripetizione martellante dei termini “mangiare/bere carne/sangue e vita vera/eterna, si stringe un legame fisico tra di loro tanto indissolubile che esclude ogni possibilità di interpretazione psicologica o spirituale o sentimentale.
In una storia assetata senz’acqua, … c’è un segreto nel cuore dell’uomo
Nella terra arida, luogo di serpenti velenosi e scorpioni… è capitato il miracolo che indica presente la tenerezza di Dio che accudisce il suo popolo oppresso e disperato. Dalla roccia durissima è scaturita l’acqua, e in un deserto grande e spaventoso è arrivata la manna sconosciuta alle generazioni precedenti… Senza chiudere gli occhi sulla sofferenza e sul dolore, la sete e la fame, il lamento e la ribellione che segnano di lacrime e sangue la storia del popolo e dell’umanità tutta, la lettura che ostinatamente Israele si propone della propria vicenda storica è sempre aperta alla speranza: “ricordati!”... Tutto il cammino che il Signore ci fa fare nel deserto della vita ha questo scopo: perché si sveli a noi stessi “cosa abbiamo in cuore”. Non è per umiliarci o farci soffrire che instancabilmente Dio si occupa dell’uomo, nonostante la durezza della sua “cervice”. Ma lo accompagna per fargli scoprire il segreto per divenire “umani”, cioè per superare la soglia dell’animalità della carne che vuole sopravvivere ad ogni costo ed incattivisce perché non lo può! È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita (63).
Non di solo pane vive l’uomo… ma di ogni Parola che esce dalla bocca di Dio.
La Parola che si rivolge ad un volto” per farlo rispecchiare in sé , per farlo crescere in ciò che lui ha già nel cuore, è l’unica risposta adeguata all’anelito insopprimibile di libertà e amore che c’è nel cuore dell’uomo. Dunque, solo la “parola” di Colui che l’ha creato a propria immagine e somiglianza, lo può liberare. Ogni altro legame è costituzionalmente “servile”, al di là delle buone intenzioni, delle dipendenze educative, delle regressioni insuperabili … Tutto l’alveo delle relazioni nelle quali siamo intessuti fin dal ventre della madre, che modella la nostra vita affettiva, economica, politica (e ci fa uomini) è intossicato dai serpenti avvelenati e dagli scorpioni, dai quali già i nostri padri sono stati contagiati. Il suo motore è la competizione drammatica per la vita, che oppone carne a carne, in una guerra all’ultimo sangue, ove il più forte sopravvive mangiandosi il più debole… mors tua, vita mea: la tua morte è la mia sopravvivenza!
Il rovesciamento eucaristico
Le religioni hanno tentato di assumere e trasfigurare questa dinamica tendenzialmente omicida nel rito del “sacrificio”, per cui si offre a Dio quanto si ha di più caro e prezioso per sé e per il proprio futuro (sostentamento e prosecuzione della vita… come i primogeniti, le vergini… e poi, in sostituzione, gli animali…), come capri espiatori! Ma proprio perché ancora piccoli e indifesi… sono le vittime scelte dal potere sacro del sacerdote. La proposta di Gesù è tanto eversiva che genera continui fraintendimenti negli ascoltatori… ma soprattutto è tanto radicale e coinvolgente che provoca repulsione e rifiuto. Eppure questo è il centro di fuoco del messaggio e della vita di Gesù. Il senso della sua esistenza e la sua dinamica esplosiva di salvezza. Il sacerdote e la vittima in lui si identificano, eliminando ogni violenza sull’altro: solo sé stessi si può offrire in sacrificio! solo di sé si può dare da mangiare la carne e da bere il sangue. Non facendo deliberatamente del male a sé stessi, ma assorbendo su di sé il male del mondo, opponendosi al suo potere oppressivo e menzognero, per fermarne il contagio. Questo è l’unico modo non violento che ci è possibile. A partire da Gesù, il dono della propria vita per nutrire gli altri, diventa il cuore del cristianesimo: il “servizio” di amore che ci ha donato per contagiarne il mondo: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me.
Questa è l’arma segreta invincibile e necessaria: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Nel buio della nostra storia anonima, lenta e faticosa, è questo l’estremo rimedio ‑ decisivo per vincere la competizione, la contesa, la sopraffazione che avvelenano la vita degli uomini, con la connivenza di ogni potere ‑ religioso compreso. Ogni autorità o potere o interesse, infatti, che non accettasse logica, vuol dire che è disposto ad autodistruggersi, perché crede più nella forza inerme dell’amore che nella forza armata del potere. Ma è l’unica strada per fare di tutta l’umanità un solo corpo, come dice Paolo.
Questo linguaggio è duro!
…infatti questa è la versione eucaristica del nocciolo duro del messaggio evangelico: Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà (Lc 17,33). L’unico punto su cui Gesù non può cedere e si gioca l’abbandono dei discepoli stessi: volete andarvene anche voi? È ancora Pietro che ci offre l’uscita che mette insieme la debolezza tonta che ci accumuna a tutti, con la consapevolezza di sapersi chiamati per grazia: Da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna!
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