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domenica 27 giugno 2010

Il Paradiso non può attendere...

L’uomo, fin dall’alba dei tempi, ha sempre creduto che per andare a Dio dovesse uscire da sé. Fino a sacrificare se stesso, fino a sacrificare la propria vita, il proprio corpo… Fino a sacrificare la propria storia e di quelli che incontrava sul proprio cammino… La verità è trascendente, si dice, supera l’uomo, e quindi se è trascendente – lo dice la parola – va cercata oltre l’uomo, va cercata fuori dall’uomo.

Per anni, per secoli, per millenni, fin dall’uomo dell’età della pietra e fino all’ultimo uomo del futuro, cercare Dio è sempre stato – e sempre umanamente sarà – un tentativo dell’uomo di cercare Dio “in cielo”, tra le nuvole, sulla montagna, nel tempio. In un paradiso oltre il tempo, oltre la storia, oltre la vita… insomma l’eccelsa verità, il sommo bene, il bello supremo che è Dio, variamente interpretato dai filosofi e dalle religioni… è un Dio dell’aldilà… E in nome di questo aldilà si poteva, che dico, si doveva sacrificare tutto l’aldiquà… Amori, affetti, vita… La vita terrena perde così significato, uccidere un uomo, se fatto per Dio…, dare la vita, se fatto per Dio… era (è!?) il massimo di gloria possibile per un uomo… Dopo tutto, non era poi un gran sacrificio, vista l’insofferenza che abbiamo verso la vita che siamo costretti a vivere… infatti molti si danno la pena per rendersela più comoda anche a costo di dannare quella degli altri e di perdere la propria (purché futura!). Noi queste persone le condanniamo solo per invidia, infatti l’attesa di un premio nell’aldilà, con cui conduciamo la nostra vita nell’aldiquà, se ci pensiamo, non esce da quella stessa logica…

C’è il rischio allora di reinterpretare tutte le parole di Gesù e della Chiesa, che parlano di abnegazione e di sacrificio e persino di “premio eterno”, in questa chiave usurata: quasi che il Dio di Gesù Cristo, anche se finalmente scoperto Padre, in fondo non sia poi molto diverso dalla nostra idea primitiva di Dio. Il Dio di Gesù Cristo, sarà anche più buono, sarà anche più misericordioso, sarà anche meno giustizialista di quello che credevamo, ma è sempre un Dio a cui tutto va sacrificato!… Se non altro perché gli dobbiamo la vita: non questa terrena, che ci delude ogni giorno di più, ma almeno quella futura (sperando che sia migliore di quella di adesso…). E così con quella terrena paghiamo il dazio per avere in dono quella eterna. Capite? Non diciamo più che è una conquista, come dicevano i farisei; non è più un Dio cattivo, come affermavano i pagani… ma la sostanza in fondo non cambia: per incontrarlo devo uscire da me, dalla mia umanità, dai miei limiti, dai miei peccati.

Ma siamo sicuri che le cose stiano proprio così? Gli apostoli, sulla cui testimonianza noi fondiamo la nostra fede, ci parlano del comportamento di Dio in Gesù, che ci spinge a rivedere fino in fondo il nostro giudizio e quindi, il nostro cammino per incontrarlo.

Vorrei fissare l’attenzione non tanto su “chi è Dio”… ma su cosa la liturgia di oggi mi ha insegnato sulla struttura di questo incontro: sul “modo” di cercarlo e oserei dire, sul “luogo” in cui incontrarlo: ci chiediamo “dove e come incontrarlo?”, “dove e come cercarlo?”…

Non mi interessa quindi sapere ora chi è questo Dio, se è il vero Dio e se è il Dio di Gesù Cristo… Quello che mi interessa è cercare di cogliere la “struttura” di un possibile ipotetico incontro. Per poter finalmente provare ad essere strutturalmente cristiani… Papa Giovanni Paolo I, quando era ancora cardinale di Venezia, predicando ai suoi sacerdoti li invitava proprio a insegnare alla gente a incontrare Dio… e poi da questo incontro – diceva – ciascuno ne scoprirà il vero volto…

Ebbene io credo che da quando Gesù ha “preteso” di essere quel Dio che ha deciso di mostrarsi all’uomo con un volto di uomo (il suo!), gli schemi non possono essere più gli stessi e questo fatto non può essere senza conseguenze sulla modalità del nostro incontrarlo. Perché il ragionamento primitivo sopra descritto viene radicalmente capovolto. Per la prima volta l’uomo, in Gesù Cristo, fa la scoperta che Dio non è oltre la storia, oltre la vita, oltre la morte, oltre l’umanità, oltre l’uomo… E nei Vangeli, le donne per prime e poi gli altri discepoli, scoprono di poterlo incontrare proprio nel mezzo del loro peccato, finalmente perdonato, senza bisogno di sacrificio e mortificazione alcuna. A partire da Gesù Cristo, tutto allora cambia, tutto viene stravolto, e ciò che fino a ieri credevamo fosse la strada per incontrare Dio, si rivela una strada che lo smarrisce, che fallisce l’incontro e il Dio che credevamo di incontrare si rivela nient’altro che il fantasma delle nostre idee e il silenzio dei nostri cimiteri dove quel Dio preteso trascendente si rivela immanente nella mortificazione della vita.

Invece a partire da Gesù Cristo l’uomo, diventa il luogo dove io posso incontrare Dio: non tanto nel santo, non nel guru, non nel “perfetto” che fa i miracoli… Questo può anche accadere, ma solo pedagogicamente, perché io impari a incontrarlo nella morte e nella malattia (non oltre la morte, non oltre la malattia)…

Questo è il vero senso dei miracoli di Gesù: infatti tutti i miracolati si sono riammalati e sono morti… Perché io impari a incontrarlo nel mio peccato, nell’accettazione del mio limite: questo è il senso del perdono e dell’invito a non peccare più… Perché proprio questo è il peccato: il rifiuto del proprio limite, ad ogni livello… nell’amore, nel coraggio… e ridursi ad avere paura delle proprie paure. Perché io impari a incontrarlo in ogni uomo: anche nel soldato che mi costringe a fare mille miglia con lui, anche in colui che mi perseguita, anche in colui che mi odia: ecco perché il cristiano non ha nemici, non perché è buono, ma perché scopre che anche nel nemico, nel vivere un rapporto subalterno nei suoi confronti, mi è data la possibilità di incontrale Colui che ho sempre cercato: la verità di un Dio Padre…

Il “sacramento” di Dio è l’uomo in tutto quello che fa… nel bene e nel male! Per questo l’olio, il pane, il vino (dell’uomo!) diventano dono dello Spirito, luogo della presenza di Dio e diventano segno di una comunione tra di noi, nel bene e nel male, nella buona e nella cattiva sorte…
Perché si incontra Dio Padre solo ce ci si fa figli come Gesù, che si fa fratello anche di chi lo crocifigge.

In nome del Dio trascendente, i samaritani rifiutano ospitalità a Gesù e agli apostoli… In nome del Dio trascendente, i cristiani in Galazia, si divorano tra di loro, perché ciascuno vuole essere e restare fedele alle proprie tradizioni religiose… anche a costo di – per usare le parole dure di Paolo – divorarsi il fratello (proprio come Satana – direbbe Pietro – «che va in giro cercando chi divorare»…). Che è come dire che a furia di obbedire a Dio sacrificando il fratello, non si può che incontrare Satana, o se volete, la massima menzogna è difendere la verità con la spada del disprezzo… e infatti Gesù dirà di riporla nel fodero, perché la violenza uccide sempre la verità. Non a caso Gesù è «il mite» e Maria è la «piccola serva»: solo così la verità è vera.

E allora tutto diventa secondario, anche la ricerca della verità trascende… perché essa esiste solo in ciò che viviamo (per questo Cristo è la Verità: perché la fa!)… E noi viviamo quella concreta, immanente, nelle nostre rinnovate relazioni di un perdono sempre reciproco e sempre offerto…  E allora – p.es. – se per amore del fratello, per la custodia di questo rapporto, non devo mangiare la carne degli animali immolati per tutta la vita, me ne astengo con gioia…

Ecco allora quello che mi dicono le letture di oggi:
Dio si fa incontro attraverso una voce, un volto, un mantello gettato sulle spalle… nella storia quotidiana. Nella quale e per la quale tutto allora può essere sacrificato! Persino il nostro Dio (nell’Eucarestia che celebriamo Gesù ci ordina proprio questo: sacrificare Lui e noi con lui per fare comunione!). Perché non è sacrificato ma è investito per la comunione e si fa «centuplo», nel tesoro di un amico in più: i buoi di Eliseo diventano, come la sua chiamata, festa per tutti…
Allora non c’è più un Paradiso da attendere, perché il Paradiso è già qui, perché c’è già tutto per fare festa: c’è Dio, c’è il pane, c’è il vino, e il lavoro di chi ce li ha procurati e ha tutto imbandito e ci siamo noi per fare comunione… e ci sei tu col quale io posso fare comunione!

Cosa ci resta ancora da fare? Donare agli altri quello che qui abbiamo ricevuto… perché i morti la smettano di seppellire morti e la vita torni a rifiorire nella nostra vita.

venerdì 6 novembre 2009

Atei per amore

Le protagoniste di questa trentaduesima domenica del tempo ordinario, sono due vedove, quella di Sarepta e quella che Gesù vede nel tempio di Gerusalemme; due donne dunque; due donne povere; due donne sole; due donne emarginate… eppure, proprio loro diventano i personaggi principali di alcuni dei passi fondamentali del racconto biblico (il ciclo di Elia, il vangelo…).
Anche se forse ormai siamo un po’ abituati a questi stravolgimenti che la prospettiva biblica insinua dentro alla logica consueta in cui l’uomo vive, ragiona e giudica, non possiamo non tener desta l’attenzione e cogliere – con immenso stupore – la radicalità della scelta proprio di questi personaggi come rappresentanti emblematici della storia della fede di un popolo (Israele, prima; l’umanità intera, poi) e soprattutto non possiamo non far la fatica di andare a tentare di capire cosa voglia dire porre la vedova che «gettò due monetine», come esempio di autentica vita umana, in contrapposizione allo stile degli scribi…
Ciò che in particolare colpisce è lo stretto legame tra gli episodi concreti di queste donne che vengono raccontati nel testo biblico e il riferimento alla totalità della vita e della morte che attraversa le narrazioni delle loro storie: la vedova di Sarepta infatti dice «Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo» dove in questo “e poi moriremo” è contenuta tutta la radicalità della situazione che sta vivendo, della tragedia che la attraversa, della totalità chiamata in causa, la vita, la morte, l’esserci il non esserci, l’esistere, il morire…; della vedova del tempio, Gesù invece sottolinea come mentre gli altri gettavano nel tesoro del loro superfluo, lei «vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere», letteralmente “tutta la sua vita”…
Questa capacità tipicamente femminile di dare “tutta la propria vita” per ciò che si ama, mi ha fatto venire in mente una frase che spesso ripete mio fratello: “Una donna quando ama, diventa atea”… intendendo con ciò sottolineare come, mentre una certa modalità maschile, tende sempre – in qualche modo ad approcciarsi al reale che vive con una mentalità calcolatrice – una donna – laddove ama e lo fa veramente – non trova nessuna norma superiore alla dedizione totale dell’amore: nemmeno dio… ecco perché atea…
Questo emerge in maniera evidente nel racconto della triste storia della maga Circe che Concita De Gregorio ha mirabilmente rinarrato nel suo Malamore: «Si sa che i bambini vogliono sentire sempre la stessa storia. Questa poi è magnifica: racconta di una donna bellissima e anche orribile, a pensarci bene, orribile perché faceva paura. Una maga triste. […] Era diventata cattiva perché non voleva più stare sola, era disperata, tutti le davano dei baci, le dicevano: come si sta bene con te, si sta proprio benissimo come in paradiso. Poi se ne andavano, però. Dopo un po’ la salutavano e partivano. A volte non la salutavano nemmeno, partivano di notte senza dirle niente, così la mattina lei si svegliava e non trovava nessuno. […] Così lei restava di nuovo sola e alla fine si arrabbiava tantissimo, ma tantissimo. Allora faceva le magie.
[…] Euriloco era talmente terrorizzato che non riusciva a parlare. Quando alla fine si era calmato e Ulisse gli aveva di nuovo chiesto chi ci fosse in quella casetta in mezzo all’isola dove erano approdati, Euriloco aveva detto poche e chiare parole: una maga orribile e cattiva. “E che genere di magie farebbe?” aveva domandato Ulisse. “Magie del genere sparizioni e misteriose trasformazioni”. “Ah!” aveva detto Ulisse. […] Siccome tutte le volte che aveva mandato in perlustrazione due uomini e l’araldo, che poi sarebbe l’ambasciatore, era finita che qualcuno se li era mangiati, stavolta Ulisse decise di fare due gruppi di uomini e di tirare a sorte. Il primo gruppo l’avrebbe comandato lui e l’altro Euriloco, il suo uomo migliore, il capitano in seconda. Un gruppo sarebbe rimasto a fare la guardia alla nave, l’altro sarebbe andato a vedere chi c’era nella casetta. Toccò a Euriloco. Non che ne fosse molto contento, però era andato. E il giorno dopo era tornato da solo in preda al terrore. Euriloco era arrivato alla casa con venti uomini, avevano visto i leoni e i lupi che ci giravano intorno ma la cosa strana è che le bestie feroci non li avevano aggrediti, anzi: gli scodinzolavano intorno, come cani addomesticati quando accolgono il padrone. Bussarono alla porta e chiesero permesso. Un’ancella molto bella gli venne incontro e aprì la porta. Poi andò a chiamare la padrona di casa. E arrivò Circe.
Questa storia che Circe fosse una maga orribile e cattiva non è che sia proprio esatta. Tanto per cominciare non era affatto orribile, anzi era molto bella. Ma molto bella. Euriloco e i suoi rimasero a bocca aperta non appena la videro. È questa la prima cosa che andrebbe detta di Circe, che era una donna bellissima. Talmente bella che i nostri non riuscirono a trattenersi dall’entrare in casa sua, non appena lei li invitò. Tranne Euriloco, che di donne belle ne sapeva qualcosa e quindi rimase in disparte, si nascose dietro la casa e osservò tutta la scena. Lei gli dà da bere una pozione e li trasforma! […] In maiali. […] Qualcuno grugnì, a qualcuno spuntarono delle setole al posto dei peli sulle braccia, poi gli uscì fuori una coda arricciata e un muso da maiale. La magia le era venuta alla perfezione, Circe era molto soddisfatta. Anche stavolta quegli uomini non l’avrebbero lasciata e, come gli altri, trasformati in lupi o leoni, sarebbero rimasti a proteggerla e a farle compagnia su quell’isola sperduta. Euriloco si era preso un bello spavento a vedere i suoi compagni tramutati in maiali. Era tornato di gran corsa verso la nave. E aveva raccontato tutto a Ulisse. […] Ora ci va lui.
Sentì un rumore alle sue spalle, come di foglie, come il fruscio di un paio d’ali. Allora si fermò, si mise in ginocchio e chinò la testa. Aveva capito che quello era Ermes, dio dei ladri, poeta e fingitore e, cosa più importante di tutte, messaggero di Zeus. […] “Dove vai così di fretta, Odisseo?” disse Ermes. […] “Da Circe, la maga, mio signore” rispose Ulisse. […] “È una maga pericolosa, Circe” disse Ermes dai sandali alati. “Ma non è cattiva, e nemmeno orribile. Anzi, vedrai che è molto bella, molto. Lei vorrà darti da bere una pozione magica per trasformarti in qualche bestia selvatica. Perché vuole che restiate qui. Si sente sola, tutti gli uomini che vengono da lei poi scappano. Forse perché è troppo bella, o perché è un po’ magica… va be’, comunque tu prendi questa erba e mangiala, vedrai che la sua pozione non funzionerà. Lei allora vorrà stare con te, vorrà amarti. Tu fallo, lei merita il tuo amore. Ma falle promettere che poi libererà tutti i tuoi compagni. Devi essere molto furbo e deciso con lei, ma nello stesso tempo devi volerle molto bene. E Ulisse va [e] bussa alla sua porta.
Circe era davvero molto bella. E non sembrava neppure troppo cattiva. Certo era una donna determinata e, come aveva detto Ermes, c’era qualcosa di magico in lei, qualcosa che può fare anche un po’ paura. Ulisse fece come aveva detto Ermes e la pozione magica di Circe non funzionò. Lei all’inizio rimase abbastanza stupita, poi cominciò a fare gli occhi dolci e a cercare di incantare Ulisse. Allora lui tirò fuori la sua spada e la puntò verso il petto di Circe. “Tu adesso” le disse “devi liberare i miei compagni e trattarci come ospiti di riguardo”. Lei lo guardò spiazzata, non era abituata ad avere di fronte uomini così determinati e sicuri di sé. Allora Ulisse vide che non era poi troppo cattiva, e vide che in fondo ai suoi occhi c’era una grande dolcezza. Lasciò cadere la spada e la baciò. Circe e Ulisse stettero insieme un anno intero. […] Stettero molto bene. Avevano da mangiare, da bere, andavano a caccia, giocavano a dadi e ogni tanto andavano anche al mare. Le ancelle di Circe accudirono con molta attenzione i compagni di Ulisse. E Circe accudì Ulisse. La sera, spesso lui andava a guardare il mare dalle scogliere. E pensava alla sua casa e a Itaca. Però dopo un po’ Circe lo raggiungeva e cercava di distrarlo, insieme passeggiavano per i giardini dell’isola e parlavano. Si stava bene con Circe, era una donna molto intelligente, ed era molto divertente parlare con lei, non ci si annoiava. Ulisse raccontava della guerra di Troia, Circe degli dei e delle loro storie, e parlavano finché il sole non si era del tutto nascosto dietro il mare color del vino. Erano felici.
[Ma] Ulisse se ne andò e Circe restò di nuovo sola nella sua isola…». Vedova, anche lei!
Certo la storia di Circe è molto diversa da quella delle altre due vedove, soprattutto da quella del vangelo… eppure a sentirla, anche questa fa venire un po’ di giramento di pancia nel notare quanto, colei che abbiamo sempre considerato la cattiva di turno, in realtà era solo una donna che voleva amare… che dunque voleva dare la sua vita… una vita che nessuno era disposto a prendere, ma che indubbiamente rimanda alla stessa disposizione interiore delle due vedove delle letture, a dare la loro vita per amore e a darsi in modo talmente radicale da risultare atee, senza nessun dio, se non l’amato!
E – inaspettatamente – Gesù addita proprio questo lato del cuore femminile come quello giusto con cui stare al mondo! Non a caso è lo stesso che incarnerà a sua volta solo poche pagine dopo, morendo in croce per amore dell’umanità, senza dio… Di un dio che norma l’incondizionata dedizione dell’amore anche lui infatti è ateo! Mentre di una donna che dà incondizionatamente la sua vita per ciò che ama… beh… in quella dedizione lì, Egli ha riconosciuto il “suo Dio”!

Il sogno di Gesù per la sua chiesa

Gesù sta avvicinandosi alla conclusione (l’esodo) della sua avventura umana, a Gerusalemme e, man mano che espone sempre più chiaramente alle folle il suo “vangelo”, – come abbiamo potuto ascoltare nelle ultime domeniche – il conflitto con gli scribi, i farisei e i capi del popolo si fa più violento, perché questi sono gli unici che ne capiscono bene la drammatica alternativa al loro insegnamento e ancor più al loro comportamento: Lo udirono i capi dei sacerdoti e gli scribi e cercavano il modo di farlo morire. Avevano infatti paura di lui, perché tutta la folla era stupita del suo insegnamento (Mc 11,18). Gesù ha proposto con disarmata radicalità le esigenze “smisurate” del Regno nell’intimo delle dimensioni costitutive dell’uomo: dal conflitto sessuale si esce solo per fedeltà, dal conflitto economico si esce solo per comunione, dal conflitto per il potere si esce solo per servizio, come ha fatto il figlio dell’uomo …. Poi ha simbolicamente esautorato il tempio, divenuto un fico sterile e una spelonca di ladroni, indicando nel cuore dell’uomo la “casa” dell’incontro col Padre suo. Ha quindi ripreso e completato il comandamento “primo” sottolineandone la connessione essenziale col secondo: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza, e il prossimo tuo come te stesso (12,29s).É una questione di amore! Ma adesso, che il tempo del suo insegnamento è alla fine, davanti all’ostilità omicida della classe dirigente e all’incomprensione tonta dei discepoli, come spiegare cosa vuol dire “amare”?
Una donna, vedova e sola, gli viene in aiuto!
Lei non poteva neanche entrare nel tempio, ma solo nei dintorni consentiti alle donne. Chissà quante volte ha visto, sentito, sofferto che i capi preferissero passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti e … . divorare le case delle vedove, piuttosto che occuparsi dell’istruzione e assistenza al popolo. Era appunto anche lei una di queste vedove abbandonate e depredate, la categorie forse più ferita dalla precarietà estrema, priva di ogni sostegno! Dove avrà imparato una tale “totale” capacità di amore e affidamento? In lei si è condensato l’amore che Gesù andava inutilmente predicando da anni: In verità, vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri…. tutti gettarono dal loro superfluo, ma costei dalla sua miseria, gettò tutto quanto aveva, l’intera sua vita! È lei che ha esautorato il tempio da cui era esclusa e si e collocata nel cuore del Regno di Dio. Proprio una povera vedova, istituzionalmente “incompiuta” senza rimedio – come donna, come povera, come vedova, come analfabeta di cultura e di genere, incapace di valore testimoniale, inabile ad una autonoma preghiera o lettura delle Scritture … scopre che non in queste cose sta il cuore della nuova dinamica del Regno: ma nel donare tutt’intera la propria vita all’amore. L’amore è indivisibile, anche se l’apparenza aritmetica potrebbe suggerirne la parcellizzazione a settori (non a caso, infatti, aveva in mano due spiccioli, e avrebbe potuto darne uno al tempio e l’altro tenerlo per sé, ma dona tutt’e due!). Gesù ne è commosso. Aveva da poco detto a Bartimeo di Gerico, come a tanti altri e altre prima di lui: la tua fede ti ha salvato! Ma qui, chiamati a sé i suoi discepoli, vuol che assistano ad un evento nuovo: il suo amore “smisurato” l’ha salvata – e questo dovranno imparare se vogliono amare come lui ci ha amati!
… il sogno di Gesù
Lì, credo, di fronte a questa vedova, il Signore ha fatto il suo sogno più ardito, come vedesse realizzato l’anelito che in tutta la sua vita di messia e maestro non aveva ancora visto realizzare. In questa povera donna ha sognato la sua chiesa, presto vedova e spaventata, senza appoggi, dispersa come un gregge senza guida, magari in balia di pastori vili o incapaci, ma sempre umilmente irremovibile nel suo amore fedele, nell’affidamento totale al suo Signore – perché, pur dentro le prove e le ferite della storia, la sua vita tutt’intera rimaneva donata a lui! Affascinato da questa donna, Gesù vuol coinvolgere i discepoli in questo grande evento (pur impercettibile ai più). Come a dire: c’è qui davanti uno (una!) che è capace già adesso di ciò che dovrete imparare anche voi, per essere miei discepoli: “donare tutta la propria vita”. Questa povera vedova è dunque già sacerdote del nuovo tempio, non costruito da mani d’uomo. È protagonista di una nuova dinamica di salvezza, ignota agli uomini del tempio, perché è “amicizia” in Cristo che adesso verrà nella storia non solo e non più “in relazione al peccato”, ma, come suggerisce la lettera agli Ebrei, ormai spinto solo dalla predilezione di amore che lo coinvolge con noi! È la nuova alleanza predetta dai profeti! Gesù la scopre già in atto di fronte a Dio, nella vedova che ha davanti, discepola inconsapevole di quell’altra vedova di Sarepta (per di più straniera!), sua antenata spirituale, che offrì a Elia, il più grande profeta, la farina e l’olio della sua sopravvivenza. Gesù ha meditato, pregato e vissuto le Scritture, prima di spiegarcele (sa che parlavano di lui! “bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi” Lc 24,44). Ha capito il messaggio profetico di queste vedove che hanno donato tutto quanto avevano, tutta l’intera vita. Ancora di più: intuisce e sperimenta che, nelle mani della due vedove, il dono di tutto ciò che hanno (farina e olio, spiccioli e … la vita intera) fa diventare inesauribile ed eterno (cioè eucaristico) il dono stesso, per quanto piccolo e insignificante nella grande storia. Anzi, sarà questa dinamica che fermenterà la storia
“Se comprendiamo che questa è la legge profonda del mistero dell’esistenza, un rinnovarsi continuo, un andare avanti continuo, un gettare sempre oltre i confini la nostra vita, allora possiamo vivere con più pace, con più serenità e con più partecipazione al mistero di morte e di risurrezione che è il mistero cristiano, il mistero di Cristo e il mistero della nostra vita di uomini. Noi cristiani siamo chiamati a vivere la nostra vita con piena partecipazione e con una continua apertura alle realtà che avvengono nell’esistenza di cui facciamo parte. Perché noi ci possiamo chiudere, possiamo costruire tutti i nostri edifici, possiamo costruire le nostre società di assicurazione più perfette, possiamo costruire gli imperi più grandi e all’apparenza più duraturi, e poi improvvisamente si solleva un soffio misterioso nella coscienza di tutti gli uomini, che travolge tutte le nostre strutture più perfette. Quante cose abbiamo visto tramontare durante la nostra esistenza, e le credevamo permanentichi ritiene avidamente la propria vita, la perde; chi getta la propria vita, la trova, potenziata, per una risurrezione e per un rinnovamento di vita!”(G. Vannucci)
Il senso della chiesa … è nel dono/sfida di un amore nuovo, gratuito e indivisibile
Il cristiano che, per conoscenza delle Scritture, ma soprattutto per esperienza, ha capito e assaggiato il senso dell’eternità (eucaristica) a lui promessa e partecipata dal Signore Gesù, diviene capace di un’altro atteggiamento verso il tempo, lo spazio e le loro “egoistiche” esigenze di sopravvivenza a tutti i costi, sulle quali in genere l’uomo è ricattato! Solo colui che è fedele, umilmente radicato, ma con tensione inscindibile, all’avventura di Gesù e del suo vangelo, si sbilancia dal proprio baricentro, per tuffarsi nell’essenzialità del regno di Dio!senza farsi tanti perché,ma con tutto il cuore, l’anima, la mente, le forze … Qualcuno ci arriverà quasi inconsapevole, come il contadino ignaro che trova il tesoro nel campo. Altri invece per appassionata ricerca, come il mercante di perle. Solo un’esperienza del genere può comunque spiegare la radicalità e totalità della dedizione della vedova, che sorprende Gesù, perché ci vede la “propria” esperienza: Li amò sino alla fine. L’azione umana infatti ha una qualità diversa da ogni altro frammento di energia dell’universo: è capace di diminuire o dilatare l’amore, cioè di assorbire e storicizzare la benevolenza del Padre creatore, che impregna il mondo. Ogni azione umana, dunque, crea continuamente dei vuoti e dei pieni, apre spazi e possibilità nuove all’amore, a seconda che accoglie o frena le occasioni di amore. Meno l’uomo, dominato dalla paura di morire, tiene per sé, più fa un vuoto dentro si sé, che è subito occupato dall’amore: perché apre energie e risorse nel suo cuore e nei suoi beni, per la crescita dell’altro. “Se le nostre azioni, le nostre opere di cristiani – della chiesa – sono contrassegnate dall’apertura ad una assoluta gratuità, questa stabilirà un continuo flusso di bene e di grazia tra il cielo e noi. E ci libererà da tutte quelle solidificazioni create dall’ambizione vanitosa di porre una finalità alle nostre azioni, anche a quelle che riteniamo più conformi alle qualità cristiane. Amiamo «per», preghiamo «per», facciamo delle opere sociali «per»; motivare l’amore non è amare, avere una ragione per donare non è dono puro, avere una motivazione per pregare non è preghiera (id).
Infatti Dio ci ama perché ci ama – cioè perché ci vuol bene!

venerdì 2 ottobre 2009

Il primato di Dio

Per problemi tecnici, pubblichiamo oggi anche la lectio di settimana scorsa.

In questa ventiseiesima domenica del tempo ordinario, le letture che la Chiesa ci propone indicano un percorso comune; con evidenza questa consonanza è rintracciabile nella linearità tematica tra la prima lettura tratta dal libro dei Numeri (anche i due anziani che, pur essendo iscritti per andare alla tenda non ci erano andati, profetizzano) e la prima parte del vangelo di Marco (c’è qualcuno che scaccia i demoni nel nome di Gesù senza essere uno di quelli che lo seguiva); ma allo stesso modo essa è presente anche nella seconda lettura tratta dalla lettera di Giacomo e nella seconda parte del vangelo, che rispetto a quanto precede sembrerebbe invece mostrare una cesura.
Ciò che fa da collante a tutto questo materiale biblico è infatti la proposta che da esso emerge: che al centro del cuore di ciascun uomo ci sia il suo rapporto col Signore, che sia Lui – appunto – Signore della nostra vita, che abbia lui quello che – se la parola non fosse talmente abusata da suonare ormai sinistra – chiameremmo “primato”.
E per cogliere in che senso le letture vadano in questa direzione, credo sia utile farsi aiutare da un noto biblista, don Bruno Maggioni, che, nel suo Il racconto di Marco, Cittadella editrice, Assisi 199912, in proposito alla prima parte del vangelo odierno, scriveva: «Dietro la rimostranza di Giovanni (abbiamo visto un estraneo scacciare demoni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito) si vede con chiarezza quell’egoismo di gruppo (così frequente), quella meschina paura di concorrenza, che spesso si maschera di fede (infatti la sua pretesa è di tutelare l’amore di Dio), ma che in realtà è una delle sue più profonde smentite. Il discepolo puntiglioso e gretto – ma anche profondamente insicuro – mal sopporta che lo Spirito soffi dove vuole. Ne è invidioso, si sente smentito e tradito: non dovrebbe lo Spirito di Dio essere solo nelle nostre mani, così che appaia con chiarezza che noi, noi soli, ne siamo portatori? Torna alla mente un episodio dell’A.T. [guarda caso, la nostra prima lettura…]: Mosè comunicò lo Spirito di Dio a settanta anziani, che erano usciti dal campo e si erano radunati presso il tabernacolo. Ma un giovane notò con sorpresa che lo Spirito si era posato anche su Eldad e Medad, due anziani che non si erano uniti al gruppo e che non erano usciti dal campo, e anch’essi si misero a profetizzare. E Giosuè esclamò: Mosè, Signore mio, proibisciglielo! Mosè invece gli rispose: sei tu geloso per me? Fosse profeta tutto il popolo di Dio e avesse il Signore posto il suo Spirito su ciascuno di loro! (Numeri 11,16-30). Gli autentici amici di Dio, come Mosè e Gesù, godono della liberalità dello Spirito. Non se ne sentono smentiti, perché amano Dio e non se stessi, e questo è il punto. Invece molti puntigliosi sostenitori di Dio – vorrei dire tutti i puntigliosi sostenitori di Dio – in realtà sostengono se stessi, il proprio recinto. […] “La tolleranza di Gesù [invece] esclude ogni forma di puntigliosa ortodossia” [R.SCHNACKENBURG, Vangelo secondo Marco]».


In proposito mi sembra interessante – anche per una certa attualizzazione e concretizzazione di quanto detto – citare un altro testo, che – se non provenisse da dove proviene – farebbe di certo sobbalzare qualche lettore. Il testo arriva infatti dal Convegno europeo sulla pastorale vocazionale “Seminatori del Vangelo della vocazione: una Parola che chiama e invia” (Roma, 2-5 luglio 2009), che immediatamente rimanderebbe ad una certa puntigliosità dell’ortodossia, e che invece presenta una tale apertura e ariosità da lasciare sbalorditi (positivamente sbalorditi!). La citazione è tratta in particolare dalla relazione di Rosanna Virgili, intitolata Il vangelo della vocazione e le dinamiche della chiamata e della risposta. Ella scrive: «Il fine primo di una vocazione cristiana è quello di essere compagni, di restare accanto all’altro, per sempre. È un patto con l’umanità. Ciò vuol dire restare accanto a Gesù stesso “Ogni volta che avrete dato un bicchiere d’acqua fresca ad uno di questi miei piccoli l’avrete fatto a me”. La missione di tutta la Chiesa è questa: stare accanto all’umanità, sempre e dovunque essa si mostri, si nasconda o si perda. È la stessa vocazione di Dio. […] Questa vocazione all’essere accanto, vicino, in una posizione orizzontale degli uni con gli altri chiede la testimonianza di una autentica prassi di comunione, all’interno della Chiesa stessa. […] È tempo che invece di pensare a costruire una torre sempre più alta e ambigua, che sfiori il cielo e dove ognuno cerca di occupare un livello più in alto, ma che si rivela una cattedrale nel deserto, pensiamo a scendere e ad abitare le case, a formare nuove famiglie e chiese di fraternità dove tutte le vocazioni trovino posto, dignità e parola, le une accanto alle altre: gli uomini e le donne, le nubili, le vedove, i celibi, gli sposati, i religiosi e i preti, i vecchi, i giovani e i bambini, manager e poeti, che trovino uno sguardo di incontro, si pongano in un cerchio ideale che gli permetta di riconoscersi gli uni negli altri, dinanzi al Volto di Dio, “nel timore del Signore”. La Chiesa guardi ai fiori delle sue vocazioni, come ad un giardino di carismi. La Chiesa senta se stessa e si faccia sentire al mondo dove vive, come una realtà di amicizia, di rispetto vicendevole, di cammino condiviso, di fatica comune, di sequela del Signore Risorto. Un concerto di voci, che non tema fragilità e debolezza, errori e conflitti, non abbia paura né vergogna della sua carne umana, e dia musica ed ossigeno a tante diverse intelligenze, esperienze, coscienze. Il concerto originale e stupendo della sua fraternità. Oggi siamo chiamati a un nuovo discernimento dei doni dello Spirito. Poiché le vocazioni cambiano e trovano nuove incarnazioni al ritmo della storia. Il Verbo vuole farsi carne. Non possiamo cancellare la forza creativa di quel Verbo, di quella incatturabile parola di Spirito. Perché non pensare a quanti carismi potrebbero essere davvero riconosciuti e valorizzati? Perché fermarci soltanto alle forme tradizionali, nelle quali peraltro, troppo ha contato l’aspetto della deontologia della sessualità? Perché finire per diventare patetici e financo idolatri nell’ansia di trovare a tutti i costi il modo di non chiudere strutture e case religiose e servirsi pertanto di ‘vocazioni cerotto’ che offendono la dignità di tutti, del Signore in primis? Tutte cose del resto estranee alle esigenze di quel ‘Vangelo spirituale’ di cui parla Paolo».
La liberalità dello Spirito dunque, che permette di non essere idolatri delle proprie ansie e – fingendo di difendere Dio – idolatri di se stessi. Una liberalità di cui sono capaci i veri amici di Dio (come Gesù e Mosè, diceva Maggioni), coloro che amano Dio e non se stessi!
Ma se – come si diceva all’inizio – questo è perfettamente in linea con quanto presentato dalla prima lettura e della prima parte del vangelo, in che senso invece vale anche per la seconda lettura, in cui Giacomo si scaglia contro i ricchi, e per la seconda parte del vangelo in cui si parla dello scandalo?
Forse una possibile risposta la si può trovare facendo riferimento ad altre citazioni (evangeliche e non). Innanzitutto la famosissima «Non potete servire Dio e la ricchezza» (6,24), che mostra immediatamente come problema di fondo sia il medesimo di quanto proposto finora: Chi/cosa c’è al centro del cuore? Qual è il nostro tesoro? «Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,21).
E in secondo luogo, ancora Maggioni, che scrive: «Col suo linguaggio («se il tuo piede è scandalo taglialo; se il tuo occhio è scandalo, cavalo»), Gesù afferma l’esigenza di una decisione senza riserve per il Regno [non per il paradiso!], l’assoluta necessità di porlo al primo posto».
Ecco dunque il problema: Chi/cosa c’è al primo posto?
Chiaramente le Scritture indicano che dovrebbe esserci il Signore, il suo Regno, il nostro rapporto con Lui. Eppure a noi tutto questo sembra così strano, così estrinseco rispetto al nostro normale sentire. Non perché siamo meschini o cattivi: a parole, siamo tutti d’accordo a dire che al centro del cuore non ci devono essere i soldi, il potere, me stessa… Ma perché proprio il Signore? Perché non la persona che amo, o i figli, i fratelli, gli amici, i genitori, … ?
Perché vuole quel posto? E perché immediatamente questo a noi suona storto, perché ci pare un esclusivismo troppo stringente? Dio non sarà mica geloso dei miei affetti più cari?
Ma a fronte di tutti questi dubbi, ancora una volta la domanda che sorge spontanea è: Di quale Dio stiamo parlando? Di quale Regno? Di quale rapporto?
Non certo di quello fondato evangelicamente, su quel Gesù che – da risorto – prima di tornare al Padre, corre dal suo affetto più caro, Maria; su quel Gesù che non ha mai scisso missione e identità, mostrandosi l’amore del Padre, amando i fratelli, in particolare i poveri; su quel Gesù che ai suoi non ha detto altro che “amatevi tra di voi come io vi ho amati”, ipotizzando anche un giudizio universale fondato su un bicchiere d’acqua dato ad uno dei suoi piccoli…
Primato di Dio, sua signoria nella nostra vita, priorità della venuta del Regno, fondamentalità del rapporto col Padre, non possono allora essere vissuti – per essere evangelici, dunque veri – con la puntigliosa e acida e gretta e arida e gelosa esclusività escludente, ma solo con la ariosa liberalità dello Spirito che include fraternamente ogni piccolo, ogni povero, ogni uomo.
Per concludere, con un’ultima citazione: «L’amore per Dio e l’amore per i fratelli sono co-originari: in questo nuovo anno di esilio e solitudine la lontananza dai miei fratelli e dai miei poveri mi porta ad un patimento che cerco di “tenere”, riferendomi con più intensità al Signore (“Siamo rimasti, ancora una volta, solo io e Te”). Ma la lontananza dai miei fratelli e dai miei poveri mi rende meno esperta anche nella relazione con Dio… O forse, invece che un circolo vizioso, si può instaurare un circolo virtuoso, in cui la vicinanza solitaria al Signore mi rende più esperta nell’amare i miei fratelli e i miei poveri? Anche perché di gente ce n’è anche qui…» (dal Diario di un esilio).

mercoledì 16 settembre 2009

Un Dio da aiutare...

Roberto Saviano è diventato l’architrave della ribellione civile in Italia dopo l’uscita di Gomorra, libro che ha finito per odiare. L’incontro con lo scrittore dalla vita blindata si trasforma, inevitabilmente, in una riflessione sul ruolo della Chiesa in quelle terre del Sud, schiacciate tra l’arroganza dei forti e la codardia dei deboli; sul rapporto di Saviano con Dio e con la fede; sulla sua sfrenata ambizione, un peccato mortale che gli consente, però, di resistere. Riflessioni prive di embargo ai pensieri più scomodi.

Saviano, lei si è spesso rivolto alla sua terra, nella speranza di un gesto di ribellione. È cambiato qualcosa in questi anni? La scomparsa di Castel Volturno o della camorra dalle prime pagine dei giornali è figlia del successo della militarizzazione del territorio? O è il silenzio di sempre che accompagna le vite di scarto, che si possono dimenticare, dopo le emergenze contingenti?
«La militarizzazione del territorio è stata la risposta immediata dello Stato, forse inevitabile. Ha abbassato, in alcuni casi, la conflittualità tra clan; in altri momenti, ha aiutato qualche inchiesta. Ma siamo ancora lontani dallo sconfiggere la camorra. Purtroppo, la ciclicità mediatica impone sempre, dopo una fase di attenzione, un lunghissimo momento di disattenzione. Cosa che mi dispiace, perché queste storie hanno appassionato e appassionano i lettori. È evidente che non si può chiedere al giornale di dare una notizia solo per impegno morale o di orientare una linea editoriale solo in nome dei principi di giustizia. Ma queste notizie, in realtà, facevano vendere il giornale. Perché le persone vogliono sapere».

Anche di recente, lei ha difeso la memoria di don Peppe Diana, il parroco di Casal di Principe, ucciso per mano camorristica nel 1994. Al di là di alcune figure di martiri, qual è il ruolo della Chiesa locale nel combattere la camorra o la mafia?
«Non ci si può rapportare alla Chiesa come a un monolite. D’istinto, mi verrebbe da dire che se c’è stata resistenza nella mia terra e se io, nel corso degli anni, sono riuscito ad avere una qualche coscienza antimafia, lo devo ad alcune figure di Chiesa. Il vescovo emerito di Caserta, Raffaele Nogaro, è stato per decenni un riferimento in Campania, non solo nella lotta alla camorra, ma nel prendere le distanze dalla borghesia imprenditrice camorristica. A Napoli, poi, c’è il cardinale Sepe, figura di peso in un momento difficilissimo per la città, con la politica che ha perso autorevolezza, con la camorra che è tornata a sparare in modo indiscriminato, con gli arresti di importanti imprenditori. Devo dire che questa è la Chiesa in prima linea. Poi, purtroppo, c’è anche tutto il resto. La Chiesa, cioè, che preferisce girarsi dall’altra parte, che ogni volta che si parla di camorra pensa che sia un modo per spaventare i fedeli. Quando Nogaro arrivò nel casertano da Udine e nelle sue omelie citava la camorra, alcuni preti locali gli chiedevano espressamente di non pronunciare quella parola. Perché così s’infangava la povera gente».

E le ragioni di questa «posizione morbida»?
«Sono tante. Un prete che decide d’intraprendere una lotta del genere deve, ad esempio, essere disposto a subire anche l’oltraggio della diffamazione. Don Peppe Diana, ancora prima di essere ucciso, per il solo fatto che s’impegnava, che girava nelle scuole e scriveva documenti, veniva sistematicamente diffamato. Perché un prete che non sta nella sua stanzetta a confessare le vecchiette o a dare le caramelle ai bambini, è un sacerdote che viene visto con sospetto. Se indirizza la sua autorevolezza e la sua parola verso altro, mette paura. Soprattutto se quell’altro detiene il potere. Mi ricordo che don Peppe cominciò a denunciare il voto di scambio. Padre Puglisi, ucciso a Palermo, lo stesso. Non è un caso che, dal giorno dopo l’assassinio di questi due preti del Sud d’Italia, iniziò una campagna di diffamazione. Molto forte nei confronti di don Peppe; un po’ meno contro don Puglisi. Ma solo perché l’antimafia siciliana è molto più sviluppata di quella della mia terra. Impegnarsi vuol dire soprattutto rischiare. Non solo la vita, ma la propria serenità. Spesso è questa la ragione che spinge un sacerdote a non agire in questi territori. Perché è molto difficile vedere d’improvviso la propria vita in bocca a moltissime persone e la propria credibilità e onestà insultate da gomiti e venticelli della camorra. Per chi decide di combattere, il primo scoglio è questo. Poi, sul campo, si riesce a ottenere anche autorevolezza. Ma è un lavoro molto lungo».

Il fatto che la sua sia una terra di missione pastorale, come una qualsiasi parrocchia africana, che riflessione le suscita?
«Castel Volturno, dove c’è la missione dei padri comboniani, è davvero una città africana. Della diaspora africana, come ebbi modo di ricordare in occasione della morte della sudafricana Miriam Makeba, venuta a cantare e a morire a Castel Volturno in un concerto in onore dei ragazzi africani ammazzati e anche per me. Quello che fanno i comboniani in quella realtà – uso una parola che potrebbe apparire altisonante, ma non lo è – ha del miracoloso».

Lei ha detto: chi vive male diventa un uomo peggiore. Lei cova odio e grande voglia di vendetta verso chi la costringe a vivere nella sua gabbia. Non trova un po’ paradossale diventare una persona cattiva per il suo senso etico e di giustizia? Ha la percezione di quale potrebbe essere l’approdo di questo percorso?
«No. La mia è una vita abbastanza schizofrenica. Sul piano pubblico, riesco a essere sempre molto controllato; sul piano privato, sono spezzato. Ecco perché dico che chi vive male diventa male. Sei ossessionato da te stesso. L’opinione pubblica commenta ogni cosa che fai e la commenta con superficialità. Questo succede a tutti, lo so. Ma almeno gli altri possono passeggiare, avere una vita normale con cui ammortizzare il peso delle difficoltà. Invece, non solo la mia condizione mi pesa molto, ma mi pesa doverla farla condividere a chi mi sta vicino, il quale deve cambiare sempre casa e subire la scorta, una pressione forte, l’attenzione dell’opinione pubblica. E questo è molto difficile. Mi ha dato molto dolore, anche se adesso l’ho elaborato, vedere il deserto attorno a me nella mia terra d’origine. Sentire le parole più feroci partire da lì. L’indifferenza più forte, la rabbia, l’invidia. Mi sono spesso chiesto: ma davvero posso essere invidiato da qualcuno? E la risposta è sì: chiunque ha la possibilità di emergere crea un senso di rancore, perché, se tu parli, mi ricordi che io non ho parlato. Vedere l’atteggiamento che hanno avuto i miei amici è stata una delle cose più dolorose della mia vita. Quando ho ricevuto la scorta, nessuno è andato da mia madre a chiedere se aveva bisogno di qualcosa. Delle due l’una: o ho meritato di ricevere questo comportamento, o queste persone hanno talmente fatto il callo sul cuore, sull’anima circa queste vicende, che ormai non si accorgono più di niente. E la mia storia è una delle tante che vedono passare davanti a loro».

Qual è il suo rapporto con Dio? Problematico, inesistente, accantonato?
«Ho un rapporto costante con le letture religiose. Il mio rapporto con Dio passa attraverso i testi sacri. Soprattutto la Torah e i Vangeli. Mi è sempre piaciuta l’idea che ha Hans Jonas, filosofo di origine ebraica, di un Dio da aiutare. Di un Dio non onnipotente e che quindi si trova, come l’uomo, a doversi scontrare con un male. Un Dio non onnipotente è un Dio che mi è molto simpatico. Negli ultimi anni è aumentata esponenzialmente la riflessione religiosa. Che in gran parte della mia vita non ho avuto. E le persone che hanno creduto nel mio dolore e non hanno risposto con cinismo, con la solita tiritera che la mia era tutta un’operazione di marketing, sono state le persone religiose, con fede. Nel tempo, ho iniziato a percepire che la fede, spesso, è stato il vero motore delle persone di buona volontà che nelle zone più difficili del Sud han cercato di trasformare le cose». di Gianni Ballerini su Avvenire

giovedì 27 agosto 2009

Un Dio meticcio

Dopo la lunga “pausa” estiva, caratterizzata dalla lettura del capitolo 6 di Giovanni, la liturgia riparte con la lettura corsiva del vangelo di Marco. Siamo al capitolo 7, quello che segue appunto la moltiplicazione dei pani nella versione di questo evangelista e le guarigioni di Gesù nella regione di Gennesaret. Quel brano si concludeva con un’atmosfera assai positiva: «Là dove giungeva, in villaggi o città o campagne, deponevano i malati nelle piazze e lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello; e quanti lo toccavano venivano salvati», Mc 6,56, che è il versetto immediatamente precedente all’incipit del brano odierno. Quest’ultimo si apre invece bruscamente su una scena di controversia con i farisei e gli scribi, che richiama da vicino l’atmosfera dura che domenica scorsa aveva tratteggiato Giovanni.
L’occasione della discussione in questo caso è la critica che viene mossa a Gesù perché i suoi discepoli «non si comportano secondo la tradizione degli antichi», nella fattispecie «prendono cibo con mani impure, cioè non lavate», come spiega il testo stesso.
La reazione di Gesù («Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti…») mostra come oggetto del contendere non siano tanto le puntuali e contingenti mancate abluzioni, quanto piuttosto la logica che sta dietro al rimprovero.
Gesù infatti non si sofferma a giustificare i suoi sul perché non si siano lavati le mani prima di mangiare, ma in modo veemente svela la dinamica che soggiace alla polemica farisaica: e cioè il mis-conoscimento del rapporto dell’uomo con la legge di Dio e dunque con Dio stesso.
Si tratta di un mis-conoscimento che – stando a come prosegue l’incalzante risposta di Gesù – si colloca a due livelli: innanzitutto vi è un mis-conoscimento antropologico (legato cioè a chi l’uomo sia) e poi un mis-conoscimento teologico (legato a chi Dio sia).

Per quanto riguarda l’uomo infatti, Gesù mostra come il modo legalistico–puritano di intendere la legge da parte dei farisei, di fatto avvalli l’idea che sia ciò che sta fuori dall’uomo a “contaminarlo”. Come spiega bene Raniero La Valle nel suo Se questo è un Dio ciò ha origini molto lontane: «Risalendo alle origini, il primo impulso documentato nell’esperienza di Israele è stato quello di stabilire una netta separazione dal sacro (per gli ebrei qadoš). Se il sacro fa male [«Chi vede Dio muore»], meglio prenderne le distanze, fissare una netta demarcazione di confini. Ma la cosa non è affatto facile, perché il sacro non si fa agevolmente circoscrivere, invade tutta la realtà. […] E se il sacro malefico invadeva tutta la realtà, il problema era appunto quello di ritagliarne e separarne lo spazio profano, una specie di zona franca di ciò che restava indenne e disponibile all’uomo. E così fu fatto, e sul confine fu fissata una barriera protettiva, i cui effetti, come spesso è dei muri, saranno devastanti. La barriera era quella che distingueva l’impuro dal puro; e le norme di purità furono poste a garanzia di tutto il sistema. […] All’inizio al sacro si sposava il termine impuro, al profano il termine puro. Impuro è ciò che sta in contatto col sacro, e ne viene contaminato. […] Poi le cose cambiano […]: l’impurità viene legata al peccato, e il rapporto tra le due coppie di opposti [puro-impuro; sacro-profano] si inverte, da parallelo che era; è la purità, non più l’impurità che viene attirata nella sfera del divino; distinguere il sacro dal profano coincide ormai con la separazione del puro dall’impuro. Dio tre volte qadoš, sacro, sacro, sacro, come lo cantano i cherubini di Isaia (Is 6,3) è puro; è il mondo, è il profano, è la storia che giacciono nell’impurità. […] Questa concezione del contrasto tra puro e impuro è troppo importante, è troppo potente nella sua pretesa di invadere e spartire l’intera realtà umana e divina, per liquidarla come una fissazione di rubricisti, per non interrogarsi sulla sua persistenza storica, per non chiedersi se non sia rimasta all’opera fino a oggi, anche se in forme sempre mutate. Anche le pulizie etniche vengono da lì. E non basta nemmeno dirimere la questione se alla coppia sacro-profano corrisponda la coppia impuro-puro o viceversa. […] Ancora più necessario è chiedersi in che cosa consista l’essere puro o impuro, sia che a essere puro sia il sacro, come è ormai nel senso comune, sia che lo fosse il profano, come era all’inizio. […] Ora dalla lettura delle prescrizioni bibliche, dalla ricognizione dei testi ebraici antichi […] risulta che il connotato essenziale della purità consiste nella separazione dei diversi, e che il disordine della impurità consiste nella loro reciproca contaminazione. La purità sta nella omogeneità e identità con se stesso di ognuno dei due ordini, il sacro e il profano, l’impurità sta nella loro congiunzione, confusione, interferenza. Per estensione, la purità è non mischiarsi con l’altro da sé, l’impurità è il meticciato. La purità è la solitudine, l’impurità è la compagnia. […] Quella che si afferma è una antropologia della disuguaglianza per natura degli esseri umani. La discriminazione tra puro e impuro degenera in una discriminante tra uomini e no, perfetti e incompiuti, nobili e volgari, integri per natura e malriusciti e contaminati. La categoria puro-impuro diventa il paradigma e il primo travestimento culturale di una discriminazione, e perciò di un dominio, che percorrerà tutta la storia» [pagg. 76-86].
Ciò che mi contamina è dunque ciò che sta fuori di me, è l’altro. Questa è la mentalità ebraica dei farisei che parlano a Gesù e però anche la nostra, basta pensare che per non farci contaminare ne abbiamo fatti morire altri 75 in mare senza soccorrerli.
Questa è la logica antropologica che Gesù invece vuole ribaltare, alla quale anzi si oppone con violenza: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». Gesù cioè – quello che Raniero La Valle arriva a chiamare il “Dio meticcio”, proprio per sottolineare questa opposizione alla logica della contaminazione che arriva da fuori – rimette a fuoco dal suo punto di vista la “questione uomo”: non sono le cose esterne il problema dell’uomo, ma è l’uomo stesso ad essere problema per se stesso. Ognuno è cioè richiamato a se stesso, alla qualità della sua interiorità, allo spessore della sua intimità più intima, al cuore del suo cuore. Questa è la sede del puro e dell’impuro, del sacro e del profano, che al di là dell’abbinamento di significato, vuol dire che è il cuore dell’uomo la sede di una vita buona o meno. E non buona in senso solo morale, ma nel pieno senso esistenziale, evangelico, umano. Gesù, in buona sostanza, riconduce l’uomo a sé, mostrando che è ora di smetterla di “arrangiarsi” nella vita dando la colpa ad altro o ad altri o ad Altro, cioè pensandola, decidendola, vivendola secondo una logica che non mi chiama mai in causa personalmente, ma trova sempre il problema ad extra. È tra te e te – pare dire Gesù – che si determina la qualità della vita.
E questo – come dicevamo – non può non contemplare anche il livello del rapporto col Signore. La relazione al sacro che mettevano in atto i farisei (e noi con loro) è infatti una relazione de-responsabilizzante. Basta definire i confini, basta sapere cosa si può fare e cosa no, basta conoscere cosa è dovuto a Dio, che tutto è risolto: il resto è il mio spazio, sono le mie cose, è la mia vita, Lui è fuori, nel suo spazio, nelle sue cose, nella sua vita. Ma così la relazione non esiste: è solo rimandata o circoscritta alle cose, mai ai cuori dei due interlocutori.
Ma questo non è Dio.
Scrive infatti ancora Raniero La Valle: «Se [Dio] ci avesse tenuto alla purità, alla non contaminazione, alle identità prigioniere di se stesse, non avrebbe fatto l’uomo a sua immagine, non avrebbe introdotto la riproduzione sessuata, causa di tutte le combinazioni e le differenze, non avrebbe dato corso alla storia, la quale senza relazioni non sarebbe possibile».
Soprattutto non è il Dio di Gesù Cristo.
«Con l’apparizione di Dio nel bambino neonato accadde la caduta di tutta la strutturazione della realtà nelle categorie di puro e impuro e la sua riconduzione a unità. Il primo segno è che per il parto non si trova luogo – che fosse una casa o un albergo – dove fosse possibile osservare le regole di purità», (cfr Lev. 12,2 per le regole di purità per la donna che aveva appena partorito e Is 1,3 per la vicinanza agli animali). «Se quella era la nuova “Presenza” di Dio sulla terra, essa si manifesta quindi fuori del luogo deputato, e fino ad allora esclusivo; fuori del santo dei santi, fuori del tempio, senza la mediazione dei sacerdoti vestiti solo di lino; è un’altra struttura del divino che cade. Ciò troverà poi piena esplicazione nella risposta di Gesù alla Samaritana («Né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre; i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità, Giov. 4,21-23) e nel fatto che la sua morte e risurrezione avverranno fuori della città, fuori del tempio. Ma è già alla nascita che egli si pone fuori del recinto del sacro. […] La divisione tra sacro e profano entra in crisi con l’incarnazione. In quella che nella liturgia e nell’arte sacra chiamiamo “epifania di Gesù”, non ve n’è più traccia. Finisce quell’ambiguo gioco di rimandi tra puro e impuro, tra sacro puro e profano impuro. E cade non perché sopravviene una concezione più avanzata, ma perché ne viene meno (ne viene tolto) il presupposto radicale: la giustapposizione tra il divino e l’umano, l’intransitabilità della soglia che divide il mondo da Dio. Se l’invasione di campo del sacro nel profano e del profano nel sacro, la mescolanza, la contaminazione tra Dio e uomo rappresentano la massima impurità, proprio questa Dio sceglie e fa sua. Il gesto sorprendente di Dio è di mantenere la distinzione ma di abolire la distanza. […] La massima impurità diventa pertanto la nuova forma dell’economia divina: la comunione del sacro col profano (nulla è più riservato, tutto è riportato alla condizione comune), il meticciato tra il divino e l’umano. Il Dio puro dell’assoluta trascendenza si impasta anche lui di terra, e si presenta nel volto di Cristo come divino e umano insieme, “perfetto nella divinità e perfetto nell’umanità, veramente Dio e veramente uomo”, come professa il Concilio di Calcedonia. Un Dio meticcio» [pagg. 97.115-118].

venerdì 17 luglio 2009

L’empatia di Dio fatta uomo tra gli uomini

EmpatiaAnche a noi avviene, in certi momenti di grazia, che si aprano gli occhi della mente e crollino le barriere del cuore e allora si liberano i grandi orizzonti che pure ci sono stati annunciati e ci premono dentro... Allora ci accorgiamo delle prigionie cultuali o spiritualistiche (sempre tragicamente discriminanti!) nelle quali siamo chiusi. E si accendono scintille che illuminano le esigenze del vangelo nella vita difficile di ogni giorno. Interiorità e missione – e il loro indissolubile rapporto – è il tema delle letture di oggi! cioè l’adesione convinta del cuore al messaggio di amore del Signore, e la tensione per realizzarlo nella vita relazione con sé e relazione con gli altri – custodia e accudimento della propria fragile autenticità intima, e, insieme, disponibilità aperta e intensa al dono di sé. Ogni bene deperisce se non custodito, ma anche imputridisce, se non è condiviso. Gesù vuol introdurre i discepoli a questo equilibrio, perché possano divenire gli umili testimoni della nuova umanità. Uomini comuni, impregnati dall’ambiente religioso, ma non molto osservanti e culturalmente prigionieri inconsapevoli “della legge fatta di prescrizioni e decreti” … vengono coinvolti in cose più grandi di loro. E ci hanno trasmesso questa esperienza, stupiti e ammirati, talora incapaci e smarriti… intuendo l’interiorità sovrumana di questo Maestro fuori misura. Anche senza capire bene del tutto ciò che dovevano trasmettere. Una verità di cui non possono portare tutto il peso… un mistero di amore che solo lungo i secoli, sotto la guida dello Spirito, lascia emergere la sua potenza di fuoco, sotto le sembianze impercettibili di un piccolo fermento o di un seme di senape…
Interiorità e missione
Pochi versetti, il vangelo di oggi! Sufficienti a farci intuire, ancora una volta, la profonda empatia che faceva vibrare il cuore di Gesù di fronte alla gente con cui si trova a vivere. Tanto più se si pensa alla “missione sperimentale” sorprendente ed emozionante, dalla quale i discepoli provengono, in questo momento, stanchi e contenti. La missione, perché? Perché il messaggio che era venuto a portare e con il quale aveva un poco contagiato i suoi discepoli, non poteva esser conservato senza comunicarlo, proprio perché è un messaggio di liberazione e di comunione d’umanità. Empatia vuol dire sentire e comprendere l’altro, cioè entrare in vibrazione “nel proprio interno”, con ciò che la gente sente dentro di sé. Gesù sente e si commuove dell’entusiasmo e della sorpresa dei discepoli, partecipa del loro dolore per i rifiuti e della loro gioia per i casi di guarigione. Come sempre, mette in comunione il suo essere interiore con le interiorità lacerate che incontra, per condurle ad unità liberandole dai lacci che ne impediscono la dilatazione e l’armonia. Ed avvia a questo lavoro di ricostruzione dolce e intensa dell’umanità frantumata e stanca i suoi discepoli. Ma questi ne sono scossi interiormente, se pur entusiasti… e perciò li invita alla custodia e accudimento della loro interiorità, perché rimanga vigile e autentica, e non si svuoti … in mestiere impersonale, o formale, cultuale o miracolistico. Il gruppetto dei discepoli ne è travolto: era infatti molta la gente che andava e veniva e non avevano neanche più il tempo di mangiare. Per cui ritornerà l’invito all’umile saggezza di ritrovarsi un poco in disparte a riposarsi. Occorre prendere distanza interiore, confrontarsi, ricondursi all’essenziale. Se no si rischia il formalismo, si appassisce la passione, si rischia l’ipocrisia o la schizofrenia…
La passione messianica
Gesù si commosse per loro. E ricomincia così il circolo empatico di vibrazione interiore per la solitudine abbandonata, che troppa gente soffre nel suo deserto interiore, e allora occorre abbandonare il momento di distanziamento per rituffarsi a insegnar loro ciò che “dentro di lui” abita ed è il dono essenziale della sua identità: il riferimento interiore che lo costituisce – il volto del Padre, che mai lo abbandona – che lui ci comunica, perché anche noi possiamo fondare su questo asse interiore il tessuto delle nostre relazioni. La commozione “dentro” – il lasciarsi smuovere il cuore per patire la “commozione” dell’altro, non è solo il filo conduttore del racconto. È la presenza rivelatrice della benevolenza paterna di Dio in mezzo a noi. La gente sente emanare da Gesù e ora anche dal suo gruppo di discepoli, questa straordinaria passione per l’umanità malata e per questo li ricerca e li rincorre. E allora Gesù entra ancora in empatia profonda, soffre con loro la loro dispersione, e addirittura, a stare al verbo greco “gli sussultano le viscere”… si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose. Il progetto di un momento di riposo entra in conflitto con la sofferenza della folla che domanda, muta, attenzione e accudimento. Il principio che prevale è quello di essere a disposizione dell’uomo sempre… Il tempo dell’uomo appartiene alla “commozione per l’altro”, alla compassione, sempre. I discepoli imparano l’arte ardua di dimenticarsi – l’unica stretta strada che mantiene viva e autentica la passione messianica, e ne segna già il destino.
L’annuncio del regno
Sempre più Gesù diventa “rivelazione” che promana dall’intimo della sua persona – come qualcosa che lo ha avvinto dal di dentro ed entra in vibrazione irresistibile di fronte alla sofferenza! Gesù diventa sempre più dimostrazione vivente, prova umana, testimone visibile del Regno, appunto perché in lui i discepoli vedono e sentono ciò che avviene quando una persona lascia che sia Dio a guidare la sua vita, a “regnare” in lui! I discepoli capiranno cosa voleva dire quando ripeteva: “di me parlano le Scritture”. Che vuol dire, appunto, cosa Dio aveva in mente quando chiamava Abramo, Isacco, Giacobbe… fino a Mose e ai profeti … : «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo…Dopo tanti tentativi e innumerevoli vicissitudini, adesso è arrivata la vera liberazione, non secondo le misure di potenza delle attese umane, ma in modo piccolo e modesto, come un seme, che poi crebbe fino a diventare albero grande, dove la gente poteva ripararsi (Mc 4,31-32). E la gente stessa si incaricava di diffondere la notizia. Gesù, che era stato misconosciuto dai suoi compaesani, ha appena assaporato il destino dei profeti di essere inascoltati e anche perseguitati, ma proprio adesso, secondo Marco, intensifica la sua azione raggruppando un piccolo nucleo di discepoli… che manda in missione. Giovanni, l’ultimo e più grande di tutti i profeti, nel frattempo è stato imprigionato e assassinato da Erode. Gesù dilata la sua azione in molti modi: scaccia gli spiriti immondi, cura i malati e coloro che sono maltrattati, libera coloro che sono esclusi a causa di impurità rituali, accoglie gli emarginati e fraternizza con loro. È una passione che si rivela. Passione per il Padre e per la gente povera ed abbandonata della sua terra. Lì dove trova gente che lo ascolta, parla e trasmette il Vangelo.
Lo scontro con l’insegnamento dottrinale
I maestri del popolo, come sempre, hanno imparato nelle sinagoghe, nelle scuole del tempio, nei seminari… hanno imparato anche seriamente la storia della salvezza raccontata nelle Scritture. Recitano a memoria le formule e le preghiere prescritte, ma non hanno dentro di sé la passione, l’empatia, l’autorevolezza forte e dolce di un’interiorità costruita e consolidata da poter trasmettere… per contagio d’amore. La gente si è accorta della diversità : «Un insegnamento nuovo! Dato con autorevolezza! Diverso da quello degli scribi!» (Mc 1,22.27. Da qui la gelosia e la persecuzione. Non pochi magari erano interiormente sensibili e capivano il vicolo chiuso in cui la “religione” ufficiale viene sempre a trovarsi. Molti altri ci vivevano sopra, come dice il profeta: Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati. È una della forme più gravi del peccato strutturale, che nella Bibbia è all’origine di tutto il concatenarsi del “male” o meglio dell’impossibilità di uscire dal vicolo cieco della violenza e dal disordine interiore di un’umanità che ha perso le sue radici in Dio, e appare come il coltivare e il gestire un modo sbagliato di relazionare. Da Adamo ed Eva fino ad oggi il peccato dell’origine è appunto la sopraffazione reciproca… tramandata, purtroppo, per così dire, nella prassi dei pastori corrotti… mentre a parole dicono il contrario! Finalmente la cura di questa inguaribile malattia passa attraverso la compassione del cuore di Gesù!
Egli infatti è la nostra pace!
Paolo, dopo qualche anno, quando l’annuncio dell’avventura di Gesù il Risorto comincia a risuonare nel mondo allora conosciuto, rilegge con occhio teologico il coinvolgimento di Gesù nella storia umana perennemente insanguinata dalla competizione – che uccide ogni possibile compassione tra gli uomini, rendendo anzi la vittoria sull’altro (la censura di ogni compassione!) l’unica vera soluzione politica definitiva di ogni conflitto. L’inimicizia è la vera chiave di lettura dei conflitti di potere. Il potere infatti non sa cos’è la com/passione, è di natura sua cinico e monopolistico, insidiato da ogni concorrente, che va sottomesso o eliminato! Tutta la scienza politica da Aristotele, a Platone, ad Agostino… a Macchiavelli, ad Hobbes, a Schmitt ruota attorno alla contrapposizione amico / nemico. Gesù proprio qui è intervenuto: abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace. … distruggendo in se stesso l’inimicizia. Come costo di sangue, per lui, la croce! Ma solo così anche noi, invincibilmente lontani da noi stessi, possiamo diventare vicini… per presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito.

giovedì 18 giugno 2009

La scintilla di Dio presente nella storia...

Che cosa mi sta insegnando quello che sta accadendo Iran?
1° che certe letture razziste sul mondo islamico sono alla prova dei fatti oltretutto stupide: il mondo islamico non è quel mondo monolitico che gli xenofobi di bassa lega vogliono farci credere: ils sont comme nous!...
2° che il principio cardine del sistema democratico, come quello del rispetto del responso del voto, è ormai un sentire comune a tutta l'umanità, senza distinzione di cultura e religione: Su questo l'umanità è già "una"!
3° che gli iraniani hanno una coscienza democratica più grande di noi italiani...
4° che la sete dell'uomo per ciò che egli intende esprimere con la parola "libertà", è più grande di ogni paura e più forte di ogni tortura.



Sono millenni che il potere di ogni colore e di ogni fede cerca di soffocarla o almeno addomesticarla, sembra a volte riuscirci, ma in realtà la obbliga a scavare in profondità e prima o poi essa riemerge, più chiara e più forte...

Ci hanno provato tutti: hanno creato sistemi sofisticati di controllo, dall'Inquisizione di ieri, alla manipolazione mediatica di oggi...
L'abbiamo creduta definitivamente morta, ma dopo qualche giorno è sempre risorta...

Sempre imperfetta e sempre perfettibile, impara dai propri errori... Piccola e fragile come un seme di senape, cresce e si sviluppa come un baobab africano alla cui ombra chiunque può riprendere vita per continuare il cammino...

Cresce, restando piccola; si rafforza, conservandosi fragile... Per questo ci custodisce solo se sappiamo custodirala!

Il suo volto, per chi osa guardarla negli occhi, è quello del Figlio; il suo cuore, per chi vuole posarvi il capo, è quello del Padre; il suo flusso, per chi accetta di viverne, si chiama Spirito...
In una parola, Dio è il suo nome e la sua eco è l'Uomo... E per tutti si chiama Libertà...

Non ha importanza allora se la storia sembrerà smentirci perché chi la invoca oggi, come spesso è accaduto, la soffocherà domani, ora sappiamo che è sua la vittoria e che il nostro sperare non sarà mai vano...

mercoledì 10 giugno 2009

Che senso ha dire Dio e corpo insieme?

È sempre un po’ difficile argomentare riguardo a certe “tematiche” che la Chiesa nelle sue annuali feste liturgiche ci propone. Il rischio è infatti quello o di dire sempre le stesse cose… o di trovare l’appiglio “ad effetto” per variare un po’ sul tema, senza però riuscire a cogliere in profondità il mistero celebrato.
In questa domenica per esempio l’invito che la festa del Corpus Domini implica, è quello di fermarsi a riflettere sul mistero dell’incarnazione, dell’istituzione dell’eucaristia, della presenza reale di Cristo nell’ostia consacrata (per stare solo alle tematiche immediate e tralasciare quelle correlate), che però – a ben vedere – sono praticamente tutto il mistero cristiano… E allora come fare, in poche righe a tracciare qualche commento su fronti così ampi? Come farlo, soprattutto, evitando i rischi classici della predicazione sopra delineati: usare tante parole e tanti “effetti speciali” per nascondere il niente che si sta dicendo e per velare la fatica dell’oratore di cogliere davvero ciò che è implicato in quanto si celebra; chiudersi in un più onesto, ma non meno infruttuoso silenzio apofatico?
Perché è così difficile? Perché in particolare alcune tematiche lo sono così tanto?
Perché rimandano a problematiche vaste, apparentemente complicate, in qualche modo da riservare agli esperti, sostanzialmente lontane dalla vita: Cosa vuol dire per esempio celebrare la festa del Corpus Domini? Del corpo e sangue del Signore? Cosa implica credere in questa realtà?


Finché si tratta di dire che Gesù nella sua vita terrena aveva un corpo, fatto di carne ed ossa, tutto fila via liscio: qualsiasi cristiano lo ammetterebbe senza fare una piega; così come il dire che nell’ultima cena Egli abbia offerto il suo corpo e il suo sangue, che noi riceviamo ancora oggi a messa. Ma quando si incomincia a dire che Gesù non era un semplice inviato di Dio (come ce ne furono tanti nell’AT), non era un uomo che Dio ha scelto per svolgere una missione, non era neanche un corpo umano che Dio ha animato e condotto come una marionetta per assolvere ad un compito, ma era lui stesso Dio… le cose si fanno complicate. La domanda diventa infatti: Che senso ha parlare di corporeità per Dio?
I più di fronte a quello che appare un complesso problema intellettuale e cervellotico, si stufano, si perdono e lasciano perdere… Anche perché – come già detto – lo avvertono come qualcosa di assolutamente staccato dalla loro quotidianità: di fatto superfluo e dunque inutile rispetto al loro vivere. Ci si accontenta di dire: il parroco da piccolo mi ha insegnato che c’è Dio, che è Padre, Figlio e Spirito Santo. Il Figlio è sceso sulla terra, si è fatto uomo: quindi era Dio e uomo; è morto per noi e prima di morire ha istituito l’eucaristia donandoci pane e vino, che sono suo corpo e suo sangue. Cosa questo voglia dire, implichi o come avvenga, son problemi del parroco: a me basta andare a messa, dire le preghiere e fare l’offerta, che il problema religioso è risolto. Il resto della vita è un altro conto…
Qualcuno invece – più ardito – insiste molto su questo versante cristiano della “corporeità” di Dio, suggellata dal fatto che il gesto più importante che Gesù ci abbia lasciato ha in sé i segni poveri del pane e del vino, suo corpo e suo sangue. Insistono molto perché individuano in questa logica corporea, una dinamica importantissima per l’individuazione dell’identità umana: la fine cioè di tutto il disprezzo (ereditato dalla filosofia greca) di ciò che è carnale e di tutta l’esaltazione spiritualistica – e disincarnata – che per secoli ha mortificato l’umano, a favore di un’impostazione più unitaria – non più dualistica – su chi l’uomo sia; con tutte le conseguenze sul piano ecclesiale, culturale, sociale che questo nuovo modello antropologico promuove (per esempio l’uguale importanza delle vocazioni, la pari dignità dei membri della Chiesa, la rivalutazione della corporeità, la libertà da certi moralismi, ecc…).
Altri invece, proprio per queste stesse conseguenze ecclesiali, sociali, culturali, si distanziano un po’ da questa insistenza sulla corporeità in Dio, spaventati da una riduzione troppo umana/umanizzata del mistero divino.
In questa situazione sembra proprio che, allora, centrale diventi rispondere alla domanda posta prima: Che senso ha parlare di corporeità per Dio? Infatti solo indagando questa questione, si potrà risvegliare dal torpore il gran numero di persone che avvertono questi discorsi come lontani dalla loro vita, si potrà cioè rendere ragione della loro centralità, non semplicemente ribadendola (come spesso avviene nella predicazione) senza motivarla, ma investigando “il succo del discorso”; e solo in questo modo inoltre si potrà prendere posizione tra l’eterno doppio fronte intra-ecclesiale, diviso tra chi vorrebbe sempre una sottolineatura forte della corporeità e chi invece preferisce trascurarla un po’; solo così infine si potrà prendere posizione non tanto come tifosi di un partito e dunque appassionati, ma determinati solo dal campanilismo, quanto piuttosto sulla base di una capacità di rendere ragione delle proprie posizioni…
Addentrandoci dunque nella complessità di questa problematica, mettiamo subito in luce cosa c’è in gioco: Perché fa così problema pensare insieme Dio e corpo?
Perché tutta la storia della religiosità umana, fin dentro al testo biblico ha pensato Dio come incorporeo, nel senso di illimitato e illimitabile, infinito e invulnerabile, che sono tutte caratteristiche che necessitano una non corporeità: chi ha un corpo ha dei confini e soprattutto è feribile. Scrive Elaine Scarry [in La sofferenza del corpo, il Mulino, Bologna 1990 (1985), 348-49.353-54.360-61]: «In tutto l’Antico Testamento, il potere e l’autorità di Dio sono una conseguenza, estrema e continuamente ribadita, del fatto che gli uomini hanno un corpo ed Egli ne è privo. È questo fatto che, prima di tutto, viene trasformato nella revisione cristiana, poiché, nonostante la differenza tra uomo e Dio continui ad essere immensa come lo era stata nelle Scritture ebraiche, il fondamento di tale differenza non è più costituito dal fatto che uno abbia un corpo e l’Altro no. La trasformazione non riguarda tanto l’oggetto della fede quanto la struttura stessa della fede, la natura dell’immaginazione religiosa. […] Tale modificazione insiste sul fatto che l’onnipotenza, come anche più modeste forme di potere, deve essere connessa alla sensibilità corporea. Non è che il concetto di potere venga eliminato, né tanto meno scompare l’idea della sofferenza: è la precedente relazione tra loro che viene meno. Essi non sono più manifestazioni l’uno dell’altra: il dolore di una persona non è il segno del potere di un’altra. La dimensione della vulnerabilità umana non corrisponde più alla dimensione dell’invulnerabilità divina. Essi sono ora slegati e possono pertanto aver luogo congiuntamente: Dio è sia onnipotente sia soggetto al dolore. […] Connettere sensibilità e autorità, attribuire autorità alla sensibilità, significa collocare il dolore e il potere dalla stessa parte. […] Una delle caratteristiche peculiari del dolore è che il suo opposto, il potere, può trovarsi in un luogo differente; tuttavia, è possibile avvertirne la presenza o l’assenza, l’aumento o la diminuzione, in relazione all’aumentare o al diminuire del dolore. Di solito, la variazione di una coppia di contrari non è parallela ma inversa; l’aumento dell’umido corrisponde a una diminuzione del secco; muovendoci verso est ci allontaniamo da ovest; l’aumento della luce fa diminuire le tenebre. Tuttavia, il fenomeno del dolore ha frequentemente luogo in situazioni in cui il suo accrescimento è accompagnato da un accrescimento di un potere che si accumula altrove. La nuova relazione che si instaura nel Vangelo tra il corpo del credente e l’oggetto della fede sovverte questa relazione di esclusione tra dolore e potere, poiché colloca nello stesso luogo sensibilità e autorità, che non si possono pertanto più avere una alle spese dell’altra. Il conferimento dell’autorità dello spirito alla sensibilità ha come conseguenza anche la dissoluzione del confine tra corpo e voce e permette quindi il passaggio dall’uno all’altra. Nell’Antico Testamento, il corpo appartiene solo all’uomo, e la voce, nella sua forma estrema e priva di attributi, appartiene solo a Dio. Con la croce, ciascuno mantiene la propria collocazione originaria, ma nel contempo fa la sua comparsa nella sfera da cui era stato precedentemente escluso».
Ecco dunque l’implicazione del parlare insieme di Dio e di corpo – possibile solo in Gesù – e cioè lo scardinamento di un’atavica immaginazione religiosa implicante la separabilità di principio di alcuni ambiti: il cielo/la terra; il potere/il patire; il corpo/lo spirito; Dio/l’uomo; il soprannaturale/il naturale; la grazia/la libertà; ecc… In Gesù è cioè richiesta una conversione dell’idea di Dio, dell’idea dell’uomo e della ragione che si usa per pensarli che è talmente scaravoltante i luoghi comuni, le convinzioni sedimentate in secoli di storia, le precomprensioni che succhiamo dal seno di nostra madre, che nemmeno due millenni di cristianesimo sono ancora riusciti a digerire.
La lunga citazione riportata mostra qualche sprazzo, indica qualche possibile percorso rispetto a cosa voglia dire questo prendere sul serio l’inedito Dio cristiano che pur restando Dio non può più essere detto – in Gesù – senza corpo; che pur restando onnipotente, non può più essere detto – in Gesù – invulnerabile; che pur restando infinito, in Gesù può essere detto realmente presente in un pezzo di pane e in un goccio di vino. Ma soprattutto che pur restando Dio, non può più essere detto – in Gesù – a prescindere dall’uomo e a priori rispetto alla sua storia con lui, tanto che «L’accesso al senso specifico per la trascendenza divina coincide con il riconoscimento per la propria singolarità (questa è la fede: accogliersi come quell’uomo), giacché la trascendenza divina si rivela dando luogo alla unicità individuale. L’accesso a Dio coincide con l’accesso a io. I due poli sono inseparabili anche se sono né assimilabili, né omologabili» [S. UBBIALI, Il sacramento cristiano, p. 128].
Ma assumere questa prospettiva vuol dire rivedere molti dei nostri schematismi religiosi (individuali ed ecclesiali). Per fare solo un esempio significativo, assumere questa prospettiva vorrebbe dire smettere di pensare il rapporto dell’uomo con Dio come un tentativo di superamento od estraniazione dalla storia, dalla realtà, dalla corporeità, come se queste dimensioni andassero superate, come se da esse bisognasse elevarsi… ma piuttosto pensare il rapporto con Dio come inestricabile dalle nostre dinamiche antropologiche, ammettendo quindi che per l’accesso al sacro ciascuno è di per sé – proprio e solo in quanto umano – già abilitato: accettando a vantaggio della libertà dell’uomo, il rischio del relativismo.

sabato 14 marzo 2009

Il tempio di Dio… e il corpo dell’uomo

Il tempio di Dio… e il corpo dell’uomo
L’uomo compiuto
C’è una autorevolezza che viene dalla verità interiore di una persona, il fascino dell’autenticità, che tutti attorno sentono, alcuni accogliendola come un dono e uno stimolo, altri rifiutandola come un rimprovero o una sfida. Uomo compiuto, uno lo può essere soltanto diventando progressivamente quello che è, perché si è costruito così fin dall’inizio, orientando i suoi sentimenti, i suoi gesti, le sue parole nella costante, faticosa e gioiosa, fedeltà del processo della vita, a partire dall’istintualità infantile congenita in noi, in ascolto della “voce” che lo chiama da dentro – nella sua piccola nicchia socioculturale che lo permea da fuori.
Se lo sdegno della passione talora esplode, è sempre per la difesa dei diritti altrui violati o vilipesi, non per sé, perché non ha bisogno di difendere se stesso, confortato interiormente dalla testimonianza viva della verità. Allora il suo corpo, luogo, strumento e materia del crearsi dell’identità personale, da minuscolo germoglio di carne a uomo compiuto, è diventato la creta dove l’antica immagine di Dio ha trovato espressione, dove il progetto va compiendosi, la casa dove il Padre è venuto ad abitare, ormai indistruttibile, perché impregnata dal suo amore.
Gesù, erede della millenaria storia di Israele, è l’ebreo compiuto che ne incarna l’anelito ininterrotto di cercatori e ascoltatori della parola di Dio. Finché questo cammino non è terminato, e morte e risurrezione non hanno ancora sigillato l’alleanza nuova nel suo corpo, l’antica casa di Dio, il tempio, doveva servire solo alla preghiera incessante, che implora nell’attesa dell’ “eletto”, nel quale Dio potesse finalmente compiacersi. Gli idoli non devono assolutamente profanare la casa del Padre, tanto meno il dio alternativo, che è mammona, il denaro, il mercato – la svendita dell’amore!
Le dieci parole
Per capire la qualità intensa delle dieci parole, l’intenzione profonda che le definisce nella loro diversità irriducibile alla normativa morale e giuridica, occorre vederle dal punto di vista di Gesù, l’ebreo fedele, in cui hanno raggiungo il loro compimento e manifestato il loro vero senso. E allora si illuminano e, se materialmente appaiono come orientamenti fondamentali di diritto naturale, sono invece proposte di amore e vanno vissute come il tessuto dialogico di un’alleanza personale, nelle quali Gesù assume e porta a compimento la storia di predilezione di Dio per il suo popolo. Dove Dio si rivela un interlocutore appassionato fino alla gelosia, sin da quando, preso da compassione per il popolo che soffriva e piangeva nella condizione servile, lo ha liberato dalla schiavitù d’Egitto e condotto con affettuose ali d’aquila nel deserto, verso il Sinai, per farne il suo popolo libero e fedele. Un Dio affamato di un contraccambio del suo popolo, dal quale desidera un’appartenenza totale, per introdurlo in un mistero di amore dove ogni raffigurazione, concetto o nome è inadeguato ed osceno, come imprigionare l’amore in una gabbia. Un amore innominabile per troppa intensità, non per distanza o reticenza. Allora la pretesa esasperata di fedeltà assoluta della prima parte di queste “parole” è la conseguenza della trepidazione di un amore che sente come un tradimento personale (un adulterio) ogni perversione verso gli idoli, perché questi prima che “dei” concorrenti o alternavi, sono la deturpazione del volto e l’abbrutimento del cuore del popolo amato. Non dai comandamenti si allontanano, infatti, ma dal suo amore, che li farebbe felici! La tentazione è sempre la stessa, nelle sue diverse forme storiche condizionate dalla situazione culturale del momento: impossessarsi della potenza di Dio, per farne uno strumento al servizio dei propri desideri di onnipotenza. Per questo nella storia, man mano che ci si purifica da questa pretesa e ci si immerge nell’umile condizione umana, Dio è silenzio, cioè sempre meno si osa mettere in bocca a Dio le nostre parole. E perfino chi ne ha incarnato totalmente, senza uguali, le dieci parole… alla fine gli rimane solo l’implorazione, di fronte al silenzio di dio, di non essere abbandonato! Nessuno come Gesù patirà sulla sua pelle il mistero abissale del silenzio di Dio, al quale, nel momento supremo della vita (come dice il vangelo di Marco) potrà rispondere solo con un grido inarticolato di totale consegna (15,37).
I giudei esigono segni
Gesù rifiuta apparentemente la provocazione dei giudei (e dei credenti di ogni tempo) che chiedono segni, ma di fatto la esaudisce, prevedendo e lasciando che la logica perversa del rifiuto dell’amore distrugga il suo corpo: Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra. (Mt 12,40). Questa forza interiore di fedeltà assoluta all’amore è la sua vera “autorità”, contro la quale ogni potere spezza le sue armi, pur sicure di poterlo vincere! e dimostrando proprio con questo, che l’amore, che sembra inerme e disarmato, di fatto è invincibile… nella sua impotenza! Ed è proprio per questo che il corpo di Gesù umiliato, torturato e ucciso, diventa la nuova vera abitazione, il vero tempio di Dio, che è amore! E qui, in questo luogo sacro, il Padre scende a compiacersi di trovare chi ha ascoltato la sua parola fino a diventare, come Dio, amore. Un corpo di carne che diventa amore è il luogo di Dio, è divino!
Egli parlava del tempio del suo corpo
…il nuovo tempio del culto di Dio è dunque il corpo dell’uomo, attraverso un passaggio, una pasqua, che proprio per renderci capaci di questo amore abissale, passa attraverso il dono “fisico” della vita, e scende come ogni corpo nel ventre della terra. L’osservanza radicale e compiuta della legge, pallida immagine del progetto di Dio sulla natura e sulla storia, porta fino a questa soglia, non può andare oltre. È esterna all’uomo, scritta su lastre di pietra, non ancora incisa sul cuore degli uomini. Giudei, che si fidano solo di segni divini, e greci, alla ricerca di una superiore sapienza umana, sono parimenti bloccati di fronte a questa soglia. Noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani. La maturità cristiana è il lungo cammino, alla sequela di Cristo, per fare del proprio “corpo di carne” il tempio, il luogo di “riconoscenza” del Padre, dove la legge e la giustizia sperimentano la propria impotenza, per l’invincibile tentazione contrattuale di cui sono intrise, che fa di ogni rapporto con Dio un consapevole o inconsapevole mercato, dove non il volere, ma il potere di Dio è la merce più ricercata. Ma Dio è stoltezza, scandalo e debolezza… in questo mercato! e la religiosità del credente, come la sapienza dell’ateo, giustamente aborrono un tale scambio!
I suoi discepoli si ricordarono… e credettero “nella scrittura” e “nella parola di Gesù”.
Il male della storia, la sofferenza dell’innocente, come del colpevole, l’ineluttabilità della morte… ci mettono di fronte alle fauci dell’incomprensibile o del nulla… dove il non senso mette a nudo la nostra precarietà - la nostra radicale lontananza da Dio. E la fede non è l’esenzione dall’angoscia del male nella storia, al contrario. Perché credere nell’unicità del Dio di Gesù sta proprio in questo, credere che egli è capace di stare dove non c’è posto per lui! E il posto dove non c’è posto per Dio, deve essere attraversato da chi vuole unirsi a Dio, cioè seguire Gesù, Servo e Signore, … fin dove la sua avventura umana ha toccato il fondo! Non è stato Gesù ad abbandonare Dio, ma è stato l’amore del Padre a spingerlo fin dove c’era l’assenza, il non senso della sofferenza e del silenzio di Dio (G. Ruggeri). Che Dio abiti, ormai, l’umile impotenza del corpo dell’uomo, la precarietà del suo desiderio inesausto, molto più che il simbolo sacro e religioso dove noi lo costringiamo, dovremmo ormai ricordarcelo e crederlo, perché ce l’aveva detto… e la sua Parola, confermata dalla Risurrezione, è ormai il compimento delle Scritture, che proprio questo di Lui avevano profetizzato!

venerdì 17 ottobre 2008

Il lungo travagliato cammino della …laicità


La semplicissima e imprevista risposta di Gesù alla trappola insidiosa dei Farisei, nel contesto della sua testimonianza globale, ha seminato un fermento poderoso nella storia dell’umanità, che forse ancora non ha dato i suoi frutti migliori… Ci sono voluti secoli di sofferenze e ribellioni, di avanzamenti e di regressi, di equivoci e di interferenze spurie, ma anche di profeti incompresi, per arrivare ad accorgersi della potenza esplosiva e sorprendente nascosta nel Vangelo, anche a proposito dei difficili rapporti tra ambito religioso e ambito politico. Il cammino percorso (e quanto ancora a noi tocca inventare…) è espresso con lucida consapevolezza in recenti e importanti dichiarazioni di Benedetto XVI.

“… sul problema delle relazioni tra sfera politica e sfera religiosa Cristo aveva già offerto il criterio di fondo in base al quale trovare una giusta soluzione. Lo fece quando, rispondendo ad una domanda che gli era stata posta, affermò: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” (Mc 12,17). … Lei ha del resto utilizzato, Signor Presidente, la bella espressione di “laicità positiva” per qualificare questa comprensione più aperta. In questo momento storico in cui le culture si incrociano tra loro sempre di più, sono profondamente convinto che una nuova riflessione sul vero significato e sull’importanza della LAICITÀ è divenuta necessaria. E’ fondamentale infatti, da una parte, insistere sulla distinzione tra l’ambito politico e quello religioso al fine di tutelare sia la libertà religiosa dei cittadini che la responsabilità dello Stato verso di essi e, dall’altra parte, prendere una più chiara coscienza della funzione insostituibile della religione per la formazione delle coscienze e del contributo che essa può apportare, insieme ad altre istanze, alla creazione di un consenso etico di fondo nella società”. (Benedetto XVI, Alle autorità dello Stato…, Parigi, venerdì 12 settembre 2008)


… Alla struttura fondamentale del cristianesimo appartiene la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio (cfr Mt 22, 21), cioè la distinzione tra Stato e Chiesa o, come dice il Concilio Vaticano II, l'autonomia delle realtà temporali. Lo Stato non può imporre la religione, ma deve garantire la sua libertà e la pace tra gli aderenti alle diverse religioni; la Chiesa come espressione sociale della fede cristiana, da parte sua, ha la sua indipendenza e vive sulla base della fede la sua forma comunitaria, che lo Stato deve rispettare. Le due sfere sono distinte, ma sempre in relazione reciproca… Senz'altro, la fede ha la sua specifica natura di incontro con il Dio vivente — un incontro che ci apre nuovi orizzonti molto al di là dell'ambito proprio della ragione. … È qui che si colloca la dottrina sociale cattolica: essa non vuole conferire alla Chiesa un potere sullo Stato. Neppure vuole imporre a coloro che non condividono la fede prospettive e modi di comportamento che appartengono a questa.… non è compito della Chiesa far essa stessa valere politicamente questa dottrina: essa vuole servire la formazione della coscienza nella politica… Questo significa che la costruzione di un giusto ordinamento sociale e statale, mediante il quale a ciascuno venga dato ciò che gli spetta, è un compito fondamentale che ogni generazione deve nuovamente affrontare. Trattandosi di un compito politico, questo non può essere incarico immediato della Chiesa. Ma siccome è allo stesso tempo un compito umano primario, la Chiesa ha il dovere di offrire attraverso la purificazione della ragione e attraverso la formazione etica il suo contributo specifico, affinché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili. (
Encicl. Deus caritas est, n. 28)

Ambiguità e profezia della laicità
Laicità vuol dire, semplificando un po’ una parola carica di molti significati, l’autonomia delle realtà terrene, create con una loro dinamica propria – e riscoperte (se fosse possibile)… quasi prima che l’uomo le impregni della sua investitura di senso (ideologico e affettivo) – dunque secondo la loro identità profonda creaturale. La Bibbia racconta di un lungo e travagliato cammino più simbolico che storiografico, per svestire il creato da ogni sacralizzazione che assolutizzava (divinizzandoli) gli astri, i fenomeni potenti terrestri e celesti, e soprattutto i grandi valori umani del potere, della sessualità, dell’arte… riportandoli a ciò che veramente sono (cioè laicizzandoli!). I racconti della creazione, dell’origine dell’uomo, della fede dei patriarchi, della liberazione dall’Egitto, … hanno questa funzione di riportare a Dio (mistero innominabile e ingestibile dall’uomo!) l’origine e il senso di tutto, ma proprio per questo di “sconsacrare” di ogni valenza religiosa autonoma, di ogni carica divina o magica tutto il mondo e la storia – affidati totalmente all’uomo, alla sua umile e grande responsabilità di cuore pensante del creato. Questo cammino di liberazione dell’uomo e del popolo dalle sue paure ed angosce, dall’oppressione della schiavitù mentale, morale e fisica, per portarlo alla libertà di figlio di Dio e alla capacità di assumere la responsabilità della propria salvezza, viene poi polarizzato dalla “promessa” del Messia - o, nell’espressione di Gesù, dall’arrivo del Regno di Dio. Il messaggio biblico attraversa tutti gli spessori della creazione e sconvolge le concezioni con le quali nei diversi tempi e culture l’uomo si è autoplasmato e trova il suo approdo (escatologico ma proprio perché terrestre e storico) nella evoluzione della creazione stessa: “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto…” (Rom 8,19ss).
La vocazione messianica: l’uomo re – sacerdote – profeta!
Gesù è l’erede consapevole e il compimento ormai maturo di questo cammino. Chi si aspettava un riformatore religioso è rimasto deluso. L’atteggiamento suo non è propriamente l’orientamento religioso, che spinge l’uomo al di là della realtà mondana e storica, per paura dell’abisso della morte, e lo lega a riti e sacrifici e comportamenti, codificati nelle varie religioni per ottenere il favore di Dio… Gesù ha invece assunto un orientamento messianico, preoccupato degli uomini, ai quali ha rivelato un Dio Padre, sollecito soprattutto dei più poveri e disprezzati, per fare della terra e della storia il luogo della liberazione dell’uomo dalle catene dell’oppressione, morale, fisica, politica e religiosa – “adesso”, nella nostra storia , ma infine rompendo, con la sua resurrezione, l’ultima suprema barriera oppressiva, che è la morte. Quando però hanno tentato di strumentalizzarlo politicamente, Gesù si è rifiutato, perché il suo Regno, esplosivo fermento seminato in questo mondo, non è della pasta di questo mondo. Ci ha offerto invece la possibilità, proprio per questa resurrezione della carne, di ri/assumere e promuovere, per grazia, ciò che nella promessa biblica era essenziale: cioè la finalità stessa della creazione, lanciata da Dio verso il compimento di sé. Chiunque collabori alla liberazione dell’uomo oppresso, sta rispondendo ad una “vocazione” messianica, come Isaia dice di Ciro, il quale non ha fatto un gesto religioso, perché, non conosceva affatto Dio, ma divenne “l’eletto” inconsapevole del disegno di Dio. Chiunque infatti si inserisce in questo dinamismo di liberazione, anche ateo o altrimenti credente, ha in sé una qualità messianica (cioè “di Cristo”), pur non appartenendo alla religione cristiana e tantomeno alla chiesa. Si aprono così significati ed orizzonti alla “laicità”… veramente “importanti”, e, come dice il Papa “necessari”, ormai, per dialogare con l’uomo di oggi in una condizione multiculturale e plurietnica come la nostra – riscoprendo un terreno comune di collaborazione e valorizzazione dell’apporto insostituibile dell’altro nella sua diversità. Il potere di Cesare arriva dunque fin dove arriva la sua moneta e le sue istituzioni, accolte e rispettate, ma considerate anche loro integralmente “laiche”, cioè storicamente relative e provvisorie, rifiutandone qualsiasi attribuzione assoluta o in qualche modo divina, come hanno testimoniato migliaia di martiri.
La trappola odierna…
…tutto sembrerebbe semplice, almeno a livello teorico. Ma ogni educatore o genitore o uomo attento alla crescita degli altri, più piccoli soprattutto, sa quanto è difficile mediare le preoccupazioni e gli strumenti educativi (e pastorali) con la crescita della libertà di chi viene educato o guidato. Eppure il traguardo dell’educatore è di rendersi inutile, di fronte alla acquisita autonomia dell’educando. Qui sorgono i conflitti e le ambiguità (e le oppressioni). La chiesa (docente!), forte di un’ulteriore rivelazione, come un’educatrice ansiosa e impaziente, patisce talora la tentazione (al di là delle dichiarazioni solenni), di chiudere i problemi e decidere le soluzioni delle varie emergenze storiche in campo filosofico o educativo o politico, anche per i fedeli, al fine di ottenere orientamenti legislativi o amministrativi conformi alla sua visione delle situazioni. Ma formare discepoli sul principio d’autorità, se sempre è rischioso, in campo di fede contrasta con l’essenza stessa della fede, che è adesione personale della coscienza libera. Le intenzioni possono certamente essere rette, ma storicamente condizionate da limiti culturali pesanti, come la storia conferma. Si rischia così di trattare eternamente da educandi… fedeli ormai adulti e preparati. Dare a Dio quel che è di Dio, è rivolto a tutti, anche alla Chiesa, e vuol dire investire la coscienza dell’uomo della libertà di perseguire consapevolmente gli obiettivi della creazione stessa, attraverso la ricerca della ragione, il confronto umile e aperto, il dialogo con chiunque sia anch’egli in ricerca… e offrire anche la testimonianza umile della propria fede. Ma più che l’insistenza esasperata sulle soluzioni “cristiane” dei problemi di oggi, convincerà la dedizione cordiale e gratuita della propria benevolenza.
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