Per problemi tecnici, pubblichiamo oggi anche la lectio di settimana scorsa.
In questa ventiseiesima domenica del tempo ordinario, le letture che la Chiesa ci propone indicano un percorso comune; con evidenza questa consonanza è rintracciabile nella linearità tematica tra la prima lettura tratta dal libro dei Numeri (anche i due anziani che, pur essendo iscritti per andare alla tenda non ci erano andati, profetizzano) e la prima parte del vangelo di Marco (c’è qualcuno che scaccia i demoni nel nome di Gesù senza essere uno di quelli che lo seguiva); ma allo stesso modo essa è presente anche nella seconda lettura tratta dalla lettera di Giacomo e nella seconda parte del vangelo, che rispetto a quanto precede sembrerebbe invece mostrare una cesura.
Ciò che fa da collante a tutto questo materiale biblico è infatti la proposta che da esso emerge: che al centro del cuore di ciascun uomo ci sia il suo rapporto col Signore, che sia Lui – appunto – Signore della nostra vita, che abbia lui quello che – se la parola non fosse talmente abusata da suonare ormai sinistra – chiameremmo “primato”.
E per cogliere in che senso le letture vadano in questa direzione, credo sia utile farsi aiutare da un noto biblista, don Bruno Maggioni, che, nel suo Il racconto di Marco, Cittadella editrice, Assisi 199912, in proposito alla prima parte del vangelo odierno, scriveva: «Dietro la rimostranza di Giovanni (abbiamo visto un estraneo scacciare demoni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito) si vede con chiarezza quell’egoismo di gruppo (così frequente), quella meschina paura di concorrenza, che spesso si maschera di fede (infatti la sua pretesa è di tutelare l’amore di Dio), ma che in realtà è una delle sue più profonde smentite. Il discepolo puntiglioso e gretto – ma anche profondamente insicuro – mal sopporta che lo Spirito soffi dove vuole. Ne è invidioso, si sente smentito e tradito: non dovrebbe lo Spirito di Dio essere solo nelle nostre mani, così che appaia con chiarezza che noi, noi soli, ne siamo portatori? Torna alla mente un episodio dell’A.T. [guarda caso, la nostra prima lettura…]: Mosè comunicò lo Spirito di Dio a settanta anziani, che erano usciti dal campo e si erano radunati presso il tabernacolo. Ma un giovane notò con sorpresa che lo Spirito si era posato anche su Eldad e Medad, due anziani che non si erano uniti al gruppo e che non erano usciti dal campo, e anch’essi si misero a profetizzare. E Giosuè esclamò: Mosè, Signore mio, proibisciglielo! Mosè invece gli rispose: sei tu geloso per me? Fosse profeta tutto il popolo di Dio e avesse il Signore posto il suo Spirito su ciascuno di loro! (Numeri 11,16-30). Gli autentici amici di Dio, come Mosè e Gesù, godono della liberalità dello Spirito. Non se ne sentono smentiti, perché amano Dio e non se stessi, e questo è il punto. Invece molti puntigliosi sostenitori di Dio – vorrei dire tutti i puntigliosi sostenitori di Dio – in realtà sostengono se stessi, il proprio recinto. […] “La tolleranza di Gesù [invece] esclude ogni forma di puntigliosa ortodossia” [R.SCHNACKENBURG, Vangelo secondo Marco]».
In proposito mi sembra interessante – anche per una certa attualizzazione e concretizzazione di quanto detto – citare un altro testo, che – se non provenisse da dove proviene – farebbe di certo sobbalzare qualche lettore. Il testo arriva infatti dal Convegno europeo sulla pastorale vocazionale “Seminatori del Vangelo della vocazione: una Parola che chiama e invia” (Roma, 2-5 luglio 2009), che immediatamente rimanderebbe ad una certa puntigliosità dell’ortodossia, e che invece presenta una tale apertura e ariosità da lasciare sbalorditi (positivamente sbalorditi!). La citazione è tratta in particolare dalla relazione di Rosanna Virgili, intitolata Il vangelo della vocazione e le dinamiche della chiamata e della risposta. Ella scrive: «Il fine primo di una vocazione cristiana è quello di essere compagni, di restare accanto all’altro, per sempre. È un patto con l’umanità. Ciò vuol dire restare accanto a Gesù stesso “Ogni volta che avrete dato un bicchiere d’acqua fresca ad uno di questi miei piccoli l’avrete fatto a me”. La missione di tutta la Chiesa è questa: stare accanto all’umanità, sempre e dovunque essa si mostri, si nasconda o si perda. È la stessa vocazione di Dio. […] Questa vocazione all’essere accanto, vicino, in una posizione orizzontale degli uni con gli altri chiede la testimonianza di una autentica prassi di comunione, all’interno della Chiesa stessa. […] È tempo che invece di pensare a costruire una torre sempre più alta e ambigua, che sfiori il cielo e dove ognuno cerca di occupare un livello più in alto, ma che si rivela una cattedrale nel deserto, pensiamo a scendere e ad abitare le case, a formare nuove famiglie e chiese di fraternità dove tutte le vocazioni trovino posto, dignità e parola, le une accanto alle altre: gli uomini e le donne, le nubili, le vedove, i celibi, gli sposati, i religiosi e i preti, i vecchi, i giovani e i bambini, manager e poeti, che trovino uno sguardo di incontro, si pongano in un cerchio ideale che gli permetta di riconoscersi gli uni negli altri, dinanzi al Volto di Dio, “nel timore del Signore”. La Chiesa guardi ai fiori delle sue vocazioni, come ad un giardino di carismi. La Chiesa senta se stessa e si faccia sentire al mondo dove vive, come una realtà di amicizia, di rispetto vicendevole, di cammino condiviso, di fatica comune, di sequela del Signore Risorto. Un concerto di voci, che non tema fragilità e debolezza, errori e conflitti, non abbia paura né vergogna della sua carne umana, e dia musica ed ossigeno a tante diverse intelligenze, esperienze, coscienze. Il concerto originale e stupendo della sua fraternità. Oggi siamo chiamati a un nuovo discernimento dei doni dello Spirito. Poiché le vocazioni cambiano e trovano nuove incarnazioni al ritmo della storia. Il Verbo vuole farsi carne. Non possiamo cancellare la forza creativa di quel Verbo, di quella incatturabile parola di Spirito. Perché non pensare a quanti carismi potrebbero essere davvero riconosciuti e valorizzati? Perché fermarci soltanto alle forme tradizionali, nelle quali peraltro, troppo ha contato l’aspetto della deontologia della sessualità? Perché finire per diventare patetici e financo idolatri nell’ansia di trovare a tutti i costi il modo di non chiudere strutture e case religiose e servirsi pertanto di ‘vocazioni cerotto’ che offendono la dignità di tutti, del Signore in primis? Tutte cose del resto estranee alle esigenze di quel ‘Vangelo spirituale’ di cui parla Paolo».
La liberalità dello Spirito dunque, che permette di non essere idolatri delle proprie ansie e – fingendo di difendere Dio – idolatri di se stessi. Una liberalità di cui sono capaci i veri amici di Dio (come Gesù e Mosè, diceva Maggioni), coloro che amano Dio e non se stessi!
Ma se – come si diceva all’inizio – questo è perfettamente in linea con quanto presentato dalla prima lettura e della prima parte del vangelo, in che senso invece vale anche per la seconda lettura, in cui Giacomo si scaglia contro i ricchi, e per la seconda parte del vangelo in cui si parla dello scandalo?
Forse una possibile risposta la si può trovare facendo riferimento ad altre citazioni (evangeliche e non). Innanzitutto la famosissima «Non potete servire Dio e la ricchezza» (6,24), che mostra immediatamente come problema di fondo sia il medesimo di quanto proposto finora: Chi/cosa c’è al centro del cuore? Qual è il nostro tesoro? «Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,21).
E in secondo luogo, ancora Maggioni, che scrive: «Col suo linguaggio («se il tuo piede è scandalo taglialo; se il tuo occhio è scandalo, cavalo»), Gesù afferma l’esigenza di una decisione senza riserve per il Regno [non per il paradiso!], l’assoluta necessità di porlo al primo posto».
Ecco dunque il problema: Chi/cosa c’è al primo posto?
Chiaramente le Scritture indicano che dovrebbe esserci il Signore, il suo Regno, il nostro rapporto con Lui. Eppure a noi tutto questo sembra così strano, così estrinseco rispetto al nostro normale sentire. Non perché siamo meschini o cattivi: a parole, siamo tutti d’accordo a dire che al centro del cuore non ci devono essere i soldi, il potere, me stessa… Ma perché proprio il Signore? Perché non la persona che amo, o i figli, i fratelli, gli amici, i genitori, … ?
Perché vuole quel posto? E perché immediatamente questo a noi suona storto, perché ci pare un esclusivismo troppo stringente? Dio non sarà mica geloso dei miei affetti più cari?
Ma a fronte di tutti questi dubbi, ancora una volta la domanda che sorge spontanea è: Di quale Dio stiamo parlando? Di quale Regno? Di quale rapporto?
Non certo di quello fondato evangelicamente, su quel Gesù che – da risorto – prima di tornare al Padre, corre dal suo affetto più caro, Maria; su quel Gesù che non ha mai scisso missione e identità, mostrandosi l’amore del Padre, amando i fratelli, in particolare i poveri; su quel Gesù che ai suoi non ha detto altro che “amatevi tra di voi come io vi ho amati”, ipotizzando anche un giudizio universale fondato su un bicchiere d’acqua dato ad uno dei suoi piccoli…
Primato di Dio, sua signoria nella nostra vita, priorità della venuta del Regno, fondamentalità del rapporto col Padre, non possono allora essere vissuti – per essere evangelici, dunque veri – con la puntigliosa e acida e gretta e arida e gelosa esclusività escludente, ma solo con la ariosa liberalità dello Spirito che include fraternamente ogni piccolo, ogni povero, ogni uomo.
Per concludere, con un’ultima citazione: «L’amore per Dio e l’amore per i fratelli sono co-originari: in questo nuovo anno di esilio e solitudine la lontananza dai miei fratelli e dai miei poveri mi porta ad un patimento che cerco di “tenere”, riferendomi con più intensità al Signore (“Siamo rimasti, ancora una volta, solo io e Te”). Ma la lontananza dai miei fratelli e dai miei poveri mi rende meno esperta anche nella relazione con Dio… O forse, invece che un circolo vizioso, si può instaurare un circolo virtuoso, in cui la vicinanza solitaria al Signore mi rende più esperta nell’amare i miei fratelli e i miei poveri? Anche perché di gente ce n’è anche qui…» (dal Diario di un esilio).
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