L’episodio del cieco Bartimeo che la Chiesa ci propone nel vangelo di questa trentesima domenica del tempo ordinario è particolarmente significativo: ad una prima lettura infatti esso potrebbe apparire come uno dei tanti miracoli di Gesù raccontati dai testi evangelici, che per lo più noi abbiamo già sentito, riconosciamo e di cui magari sappiamo anche rinarrare la vicenda, ma che assolutamente non sapremmo collocare né geograficamente, né “cronologicamente” (tra virgolette, perché si fa evidentemente riferimento alla cronologia della ricostruzione evangelica).
In realtà invece è molto importante tentare di indagare perché l’evangelista collochi il racconto di un determinato evento (nel nostro caso questo miracolo) proprio a quel punto della narrazione: episodi e vicenda complessiva infatti si richiamano e rimandano al fine di formare il volto di Gesù che l’evangelista vuole annunciare.
Questo discorso assume ancor maggior rilievo nel nostro caso, poiché l’episodio del cieco Bartimeo è l’ultimo dei miracoli di Gesù che la narrazione del vangelo di Marco riporta ed è collocato immediatamente prima dell’inizio del racconto della passione. Non a caso siamo ormai in terra di Giudea, precisamente sulla strada che da Gerico porta a Gerusalemme (la medesima in cui Luca collocherà la parabola del buon samaritano, Lc 10,29-35).
Come si tentava di dire in precedenza, tutte queste annotazioni non sono marginali, e bisognerà dunque rendere ragione del fatto che l’ultimo miracolo che Marco decide di raccontare è la guarigione di un cieco, proprio mentre Gesù sta ormai entrando a Gerusalemme, dove sa di incontrare la morte.
Dunque la guarigione di un cieco… o meglio la guarigione di questo cieco.
Questa sottolineatura non è irrilevante, perché se, in chiusura della parte centrale del vangelo e in apertura della sua sezione finale, siamo di fronte a un episodio che fa da sintesi a quanto lo precede e da ingresso a quanto segue, assume un ruolo del tutto significativo il fatto che di questo cieco, siano ricordati il nome e la famiglia: Bartimeo, figlio di Timeo.
Ciò infatti – proprio in chiave sintetica dell’annuncio finora portato avanti da Gesù, nella sua vita pubblica – ribadisce un primo elemento essenziale: quello dell’individualità mai negata di coloro che Gesù incontra. L’ultimo miracolo infatti è “fatto” non a un uomo qualunque, ma a questo cieco: Bartimeno, non chiunque, viene sanato: ciò ribadisce per l’ennesima e ultima volta (“ultima”, almeno in questi termini) che nell’incontro con Dio non è la genericità che salvaguarda l’universalità (non perché Gesù ha salvato un cieco, allora può salvare tutti i ciechi), ma precisamente la singolarità: proprio nella vicenda personalissima tra Gesù e Bartimeo si inquadra la possibilità per ciascuno di instaurare la stessa relazione col Signore. La “stessa” che però non è la “medesima”! Elemento essenziale di quel rapporto è infatti l’unicità dei soggetti in campo. La relazione con Gesù allora ha nella sua “struttura universale” l’immancabile implicazione personale. Non può essere dunque chiamato “modello” quello che si può evincere dall’ultimo e sintetico miracolo narrato da Marco: non siamo infatti di fronte a una struttura semplicemente da ripetere o mimare, senza implicazione personale; come se chiunque potesse sostituire – a prescindere – Bartimeo. Piuttosto potremmo parlare di “paradigma”: e cioè di quella struttura originaria che per essere ripercorsa necessita l’adesione del singolo.
Ciò diventa immediatamente evidente se si prosegue nell’individuazione di tale “paradigma” che la vicenda personale di Bartimeo pone in atto e che identifica gli altri elementi sintetici di questo episodio, appunto, “paradigmatico”, data la posizione che occupa.
Mi riferisco in particolare al fatto che come sempre nei miracoli di guarigione, l’avvenuto risanamento sia attribuito da Gesù alla fede degli uomini o delle donne che gli stanno di fronte: «Va’, la tua fede ti ha salvato».
Questo delinea chiaramente il “paradigma” della relazione con il Signore. Essa non avviene attraverso una certificazione intellettualistica: non così si conosce la verità; ma nemmeno attraverso una fede cieca: un’adesione a dogmi o precetti su cui l’uomo non può esercitare alcuna razionalità.
Piuttosto organo di conoscenza del reale – dunque della verità – anche la propria (che è l’identità) – è la fede: è cioè quel credito dato a qualcuno o qualcosa, sulla base di un’affidabilità riconosciuta.
Questa è la modalità in cui sempre si disvela la realtà di Gesù a chi lo incontra e riconosce. Questa è anche la via paradigmatica di Bartimeo, che avendo avuto notizia di Gesù e ritenendo quest’ultima affidabile, aveva iniziato ad urlare, incurante dei rimproveri, finché non lo avevano ascoltato: «Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”. Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”. Gesù si fermò e disse: “Chiamatelo!”. Chiamarono il cieco, dicendogli: “Coraggio! Àlzati, ti chiama!”. Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù».
Che le cose stiano così è rivelato anche dal fatto che proprio su questa affidabilità del messaggio di Gesù – o più precisamente dell’uomo Gesù, coincidente col suo messaggio – erano andati in crisi i discepoli stessi. Ciò che aveva creato infatti – a partire dal capitolo 8 – l’incomprensione degli apostoli, traghettata fino al brano precedente al nostro (cfr. il vangelo di domenica scorsa, ventinovesima del tempo ordinario) e che sarà uno degli elementi decisivi dei racconti di passione (Gesù abbandonato dai suoi), è precisamente il fatto che l’annuncio (prima) e la realtà (poi) di un messia crocifisso risulta in-credibile, non credibile, appunto, non degna di fede.
Non a caso – come dicevamo – viene posto come elemento sintetico finale, un miracolo in cui viene sanata la cecità: per comprendere quanto infatti è stato finora annunciato e quanto sta per accadere sotto gli occhi di tutti, serve essere guariti dalla cecità che impedisce di leggere in quegli eventi l’attestazione affidabile della messianicità di Gesù e in essa della paternità di Dio.
Cecità dalla quale i discepoli della prima ora saranno guariti solo a fatti compiuti. Solo a posteriori.
Marco scrive infatti proprio quando questa cecità degli apostoli è stata ormai sanata, ma consapevole che i loro occhi nella croce non vedevano la rivelazione della salvezza.
Proprio perché alla prima Chiesa è invece così chiaro il fraintendimento/cecità di chi era là, quando Gesù passò su questa terra – tanto che i vangeli con grande coraggio non tacciono sulla debolezza dei testimoni della prima ora –, l’evangelista pone un miracolo di guarigione degli occhi in apertura del racconto di passione: per vedere la passione e morte di Gesù – e non per guardarla soltanto – c’è bisogno di tornare a percorrere la strada di Bartimeo: attaccare il cuore all’esperienza di un uomo la cui vita, il cui messaggio e la cui pretesa sono ritenute credibili – cosa che, come il nascere e il morire, l’innamorarsi e il perdonare, non possono che essere vissute da noi in prima persona.
Forse proprio perché siamo in una società in cui l’autocoscienza è sempre più osteggiata nel suo formarsi, consapevolizzarsi e fortificarsi (la morte è allontanata dalla consapevolezza dei cittadini; il dolore è anestetizzato; il lavoro serializzato; l’uomo reso banalmente un caso fra i molti – “uno dei tanti”; ecc…), proprio le esperienze in cui è implicato l’esserci coinvolto (l’amare, il morire, il credere…) sono quelle che siamo sempre meno capaci di vivere.
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