Le letture che la Chiesa ci propone per questa trentatreesima domenica del Tempo Ordinario, hanno tutte come punto di riferimento il “giorno del Signore”, con la sua valenza escatologica come (la/il) fine della storia: il libro del profeta Malachia ci parla del «giorno rovente come un forno» che sta per venire; Paolo ai Tessalonicesi se la prende con coloro che a causa di questo giorno, in cui è atteso il ritorno del Signore, «vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione»; e Gesù stesso nel Vangelo di Luca riferisce di una «fine».
Essa, immediatamente, in noi fa risuonare note arcaiche, di paura e grandiosità, di terrore e fragore, di curiosità e trepidazione... Ma se, per un momento, proviamo a lasciare il rimando emotivo immediato, sedimentato in noi dalla storia religioso-affettiva da cui proveniamo, e proviamo a guardare da vicino i testi, scopriamo che l’accento è posto su tutt’altri toni.
Malachia infatti, tentando una descrizione di «quel giorno», sottolinea come esso svelerà la realtà di ciascuno:
- da un lato l’inconsistenza di «tutti i superbi e [di] tutti coloro che commettono ingiustizia», raffigurata dall’immagine della paglia incendiata;
- dall’altro il rilucere della consistenza di chi ha costruito la vita come «cultore» del nome del Signore (come diceva la vecchia traduzione Cei); di chi, in altre parole, l’ha riconosciuto Signore della sua vita.
La prospettiva, dunque, non è quella (in noi automatica, ma anche tanto riduttiva) del giudizio universale inteso come una divisione tra buoni e cattivi, giusti e ingiusti, dabbene e malvagi. Qui – a partire dalla fine – si punta piuttosto l’attenzione sull’oggi… si parla infatti della consistenza della vita, del fondamento su cui la si è posta, della realizzazione di quello che dovevamo essere (figli)... in gioco non ci sono aspetti secondari, sovrastrutture della nostra vita, ma la Vita stessa, accolta («Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia») o rifiutata per vivere di se stessi («superbi») sopraffacendo gli altri («coloro che commettono ingiustizia»).
È dunque sull’orizzonte di senso della nostra vita (di qua) che la liturgia di oggi richiama l’attenzione. E anche le parole di Gesù secondo Luca vanno in questa direzione: non si sta facendo una previsione sulla distruzione del tempio di Gerusalemme, sul ritorno di Cristo risorto, sulla fine del mondo. Il punto prospettico lo si trova alla fine, quando si dice: «con la vostra perseveranza salverete le vostre ψυχας».
La Cei – prima della recente nuova traduzione – rendeva quest’ultima parola col termine anime, così che la traduzione suonava più o meno in questo modo: «con la vostra perseveranza salverete le vostre anime»; ora traduce con vita («con la vostra perseveranza salverete la vostra vita»).
Noi pur prediligendo di gran lunga la scelta della nuova traduzione, preferiamo lasciare comunque il termine originario greco che è meno compromesso. Esso infatti compare circa 800 volte nella Bibbia e spesso è tradotto con persona. È dunque inteso come ciò che indica la sede delle passioni, dei sentimenti, delle emozioni: ψυχη, ha quindi uno spettro semantico molto più ampio di quello che la parola anima (“salvarsi l’anima”) ha ormai assunto nel gergo comune, ed indica la personalità di ognuno. Rende anche meglio rispetto alla traduzione «con la vostra perseveranza salverete la vostra vita», perché quest’ultima mantiene un’intonazione un po’ troppo biologica/fisiologica nell’intendere la vita da salvare… Mentre appunto ψυχη, non è la vita biologica, ma la Vita umana in quanto umana, dunque sensata, riempita, realizzata, umanizzata…
Tenendo presenti queste considerazioni, risulta evidente come la prospettiva di Gesù nel pronunciare quella frase si riferisca al problema della sensatezza della vita, della sua consistenza, dunque della salvezza della singolarità di ciascuno, quella che Etty Hillesum descriverebbe così: «voglio solo cercare di essere quella che in me chiede di svilupparsi pienamente».
Ecco perché quando «la Chiesa rilegge le profezie tragiche del Signore sulla distruzione del tempio, con tutte le sue decorazioni e rifiniture, … e sulla sofferenza e lo stermino di tanta gente del popolo, con carestie, malattie, torture … e nasce nei discepoli sbigottiti l’eterna domanda dell’uomo nella sventura: “Ma allora quando il Regno?”, Gesù non risponde, e attira invece la loro attenzione sul “prima” della fine, perché è questo il momento della nostra responsabilità: il tempo in cui siamo visitati- e anche noi, come Gerusalemme e i suoi abitanti, rischiamo di non accorgerci del passaggio del Signore. Marco, prima che le cose avvengano, dice ai cristiani della prima generazione come attenderlo, in quei frangenti tragici. Luca, dopo che quelle cose sono già avvenute, dice alla seconda generazione e a tutti noi … come attenderlo sempre, in ogni tornante della storia, finché il Signore arriva» [Giuliano].
Innanzitutto nel vangelo di Luca si dice che, per salvare le nostre ψυχας (per cercare – cioè – di essere quello che in noi chiede di svilupparsi pienamente), è necessario seguire la via dell’“impastarsi” nella storia, nella drammatica della storia (non quella della fuga mundi!): «di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta», «sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni», «si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno, e vi saranno di luogo in luogo terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandi dal cielo». È una drammatica che appunto non resta – e non deve restare – tangente rispetto al discepolo, ma lo incrocia e tocca nell’intimo: «metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e a governatori», «sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e metteranno a morte alcuni di voi; sarete odiati da tutti per causa del mio nome».
E nella tragicità di questa storia – unico luogo per la salvezza delle nostre anime, per la costruzione della consistenza delle nostre ψυχας – pochi ma sostanziali punti di riferimento:
1. «Guardate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno sotto il mio nome dicendo: “Sono io” e: “Il tempo è prossimo”; non seguiteli», cioè non c’è un’altra via di salvezza che non sia quella cristica, la sua! La durezza della storia, la sua difficile intelligibilità, il frastornamento che ci provoca, il non senso che spesso ci rimanda, non devono arrivare a inquinare il cuore del nostro dar credito al Dio di Gesù. Ogni altra strada è inevitabilmente illusoria perché parte dall’uomo, anzi, peggio, dalla sua paura di morire!
E infatti, non a caso, la seconda parola che Gesù pone sulla drammatica della storia è:
2. «non vi terrorizzate», non lasciate cioè che a determinare la vostra vita, le vostre scelte, il vostro impegnarvi o meno, il vostro amare o meno, le vostre ψυχας, sia il terrore. Esso è solo mortifero: blocca gli zampilli di vita, chiude gli spiragli di luce, immobilizza il desiderio di appassionarsi, indurisce il cuore, spegne il sorriso…
Sulla base di che cosa, allora, possiamo Vivere e non “morire nel terrore”? Sulla certezza che:
3. «nemmeno un capello del vostro capo perirà». Sulla certezza, cioè, che ciò che fonda la possibilità della Vita è l’assicurazione di una cura, di una presenza, di una vicinanza, di un intreccio possibile con la libertà di Dio!
È quanto anche Paolo ribadisce nella sua esortazione finale: «a questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace», come a dire che nella fede/fiducia nel Signore Gesù Cristo, è possibile vivere nella pace del cuore, costruendo dentro a questa storia (drammatica) – e solo dentro a questa storia drammatica – la nostra evangelica singolarità!
«Mio Dio, prendimi per mano, ti seguirò da brava, non farò troppa resistenza. Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita, cercherò di accettare tutto e nel modo migliore. Ma concedimi di tanto in tanto un breve momento di pace. Non penserò più, nella mia ingenuità, che un simile momento debba durare in eterno, saprò anche accettare l’irrequietezza e la lotta. Il calore e la sicurezza mi piacciono, ma non mi ribellerò se mi toccherà stare un po’ al freddo, purché tu mi tenga per mano. Andrò dappertutto allora, e cercherò di non aver paura. E dovunque mi troverò, io cercherò d’irraggiare un po’ di quell’amore, di quel vero amore per gli uomini che mi porto dentro. Ma non devo neppure vantarmi di questo “amore”. Non so se lo possiedo. Non voglio essere niente di così speciale, voglio solo cercare di essere quella che in me chiede di svilupparsi pienamente. A volte credo di desiderare l’isolamento di un chiostro. Ma dovrò realizzarmi tra gli uomini, e in questo mondo. E lo farò, malgrado la stanchezza e il senso di ribellione che ogni tanto mi prendono. Prometto di vivere questa vita sino in fondo».
Dal Diario di Etty Hillesum
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1 commento:
chiedo scusa per aver postato sia la lectio di questa settimana che quella di settimana scorsa solo oggi... problemi tecnici... non del computer ma della sottoscritta :o)
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