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sabato 13 novembre 2010

XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO: LA RISURREZIONE DEI MORTI: CREDIBILE O IN-CREDIBILE?

I testi che la liturgia di questa trentaduesima domenica del Tempo Ordinario ci propone, hanno come tematica centrale quella della risurrezione dei morti, pilastro della fede cristiana, ma anche questione tra le più assenti dalla sensibilità quotidiana del nostro vivere.


In parte forse per una motivazione che potremmo chiamare sociologica, per la quale l’uomo moderno e postmoderno si ritrova disilluso di fronte alla speranza di una vita che continua dopo la morte fisica (siamo tutti figli del razionalismo – che crede solo in ciò che è dimostrabile, misurabile, verificabile – della filosofia del sospetto – che lucidamente ha messo in discussione la religiosità illusoria della cristianità – delle grandi tragedie del Novecento – che hanno proposto con forza la domanda “Dov’è finito Dio?”…), in parte forse per una motivazione personale, nata ai piedi delle bare delle persone più care che lungo gli anni perdiamo per strada, senza che tornino, che si facciano sentire presenti, come se davvero fossero finite nel nulla…

Fatto sta che di fronte al dramma della morte, spesso la reazione più intima è proprio quella dell’incredulità nella risurrezione… Ci facciamo tanti discorsi, proviamo a convincerci – ciascuno nel dialogo profondo tra sé e sé –, ma in ultima analisi ci risulta in-credibile che la morte non sia la fine di tutto, ci risulta una pia illusione la speranza nella risurrezione della carne o perlomeno nell’immortalità dell’anima e ci ritroviamo a ripetere con santa Teresa di Gesù Bambino che sembra che «le tenebre assumendo la voce dei peccatori dicano, facendosi beffe di noi: “Tu sogni la luce... credi di uscire un giorno dalle brume che ti circondano. Vai avanti! Vai avanti! Rallegrati della morte, che ti darà non già ciò che tu speri, ma una notte più profonda, la notte del niente”» (C 278)…
Questa situazione – che i più piccoli tra noi ormai leggono come un’evidenza – non è scevra di conseguenze sul piano della vita dell’aldiqua. Sempre più infatti avvertiamo intorno a noi il bisogno di allungare la vita il più possibile, col grande sviluppo – che è sotto gli occhi di tutti – di una cultura “salutista”, “igienista”, “paurosa” verso tutto ciò che può arrecare danno alla salute, divenuto il primo dei beni da salvaguardare in vita… Un bisogno che vede nella malattia non più un normale aspetto della vita umana, ma ciò che radicalmente la dis-umanizza e dunque va aborrito, evitato, eliminato… Non a caso mentre per i nostri vecchi “ci si ammalava per morire”, oggi “si muore perché ci si ammala”… che non è un gioco di parole, ma quasi la traduzione del fatto che, essendo la malattia o l’invecchiamento (è la stessa cosa) la causa prima di morte, si vive pensando che eliminando o ritardando il più possibile (tendenzialmente all’infinito) questi aspetti della vita, appunto, si possa non morire…

Finendo così per elaborare una cultura che, illudendo le persone su una speranza di vita sempre più lunga, sostanzialmente censura la morte dagli argomenti di discussione quotidiani: ne sono esempio il fatto che sempre più nascondiamo ai bambini questa realtà (non gli facciamo vedere i morti), trovandoci – quando più bambini non siamo e di fronte alla morte inevitabilmente ci ritroviamo – assolutamente spiazzati, inebetiti, inconsolabili… Che è la medesima logica che sottosta agli strumenti mediatici (come i TG o i film), che – certo – propongono continuamente davanti ai nostri occhi scene di morte, ma così rapide e istantanee, che impediscono una vera riflessione in proposito, soprattutto l’acquisizione heideggeriana per cui il problema vero della vita non è che “si deve morire”, ma che “io devo morire”…

Con questi pochi accenni, anche se un po’ velocemente, la situazione odierna pare però ben tratteggiata nelle sue linee fondamentali: la caduta dell’“illusione” della vita dopo la morte; la concentrazione conseguente sulla vita nell’aldiqua, che – dunque – deve essere il più lunga possibile; la censura della questione del morire…

È su questo tessuto sociologico-personale che irrompe il messaggio evangelico («I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui») e il racconto – un po’ leggendario, ma di certo emblematico – dei sette fratelli Maccabei («E` preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati»). Annuncio, anch’esso non scevro di conseguenze per la vita (dell’aldiqua)… basti pensare all’esperienza stessa di Gesù e alla sua consegna alla vita e (poi) alla morte … possibile solo perché alimentata dalla fede che quella consegna – in ultima analisi – era la consegna al Padre, che tutto tiene e custodisce, e dalle cui mani nulla va perso per sempre…

Come sempre, allora, di fronte a questo tipo di problematiche per l’uomo si pone la questione “da che parte stare”, “per quale posizione decidere”, “a cosa credere”… sapendo che la scelta di astenersi – percorsa oggi da troppe persone perché la Chiesa non si faccia carico del problema – è già una scelta…

La cosa interessante è che – a differenza di quel che si pensa di solito, e cioè che da una parte stanno quelli dis-illusi (nel senso di realistici, legati alla mentalità razionalistica, quantificabile, dimostrabile), mentre dall’altra gli illusi (i creduloni, i bigotti) – né l’uno né l’altro versante ha in mano la dimostrazione per la sua posizione: non si può dimostrare che Dio esista e che ci aprirà la vita eterna, certo; ma non si può dimostrare nemmeno il contrario… Per entrambe le posizioni si tratta di “credere in” qualcosa, cioè – ultimamente – di una fede…

La fede dei Sadducei (di ieri e di oggi) ha come base l’osservazione (smagata, dicono loro) della realtà, per cui tutta una serie di elementi testimoniano che Dio non c’è e che la vita finisce nella tomba.

La fede dei cristiani invece si fonda sulla Parola di Dio – anche se è interessante che, soprattutto sul versante cattolico, ancora oggi siamo di fronte ad un’ignoranza abissale da questo punto di vista (sarà anche per questo che non sappiamo più rendere ragione della nostra fede? Tanto che i nostri ragazzi – pur battezzati e cresimati e tutto il resto – accettano senza sobbalzare che “tanto dopo la morte non c’è niente”, come dicono di solito?).

La fede dei cristiani si fonda sulla Parola di Dio, che come ha insegnato il Concilio Vaticano II e in particolare la Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione (Dei Verbum), è, sì, materialmente contenuta nel testo biblico, ma è eminentemente rintracciabile nella vita di Gesù, cioè nel modo in cui lui – vivendo – ha impegnato la sua libertà, ha deciso di sé, ha deciso chi essere…

Ecco perché la credibilità dell’annuncio della risurrezione della carne è da “misurare” sulla credibilità della persona di Gesù… come a dire che è sulla base di quanto riteniamo affidabile (degno di fede) Gesù, che dobbiamo dar credito al suo vangelo, cioè alla buona notizia che non solo Dio c’è, ma è un Padre che vuole la salvezza (cioè la Vita piena) per ciascun uomo… una Vita piena che non ha fine.

Il problema è quindi a questo livello… Quanto valgono, di fronte alle ragioni che porta il sadduceo che c’è in me (o la sua versione post-moderna) e che mi suscita così tanta angoscia, le ragioni di credibilità di Gesù di Nazareth, della sua vita, del suo vangelo? La fede sta tutta qua.

2 commenti:

Denise Cecilia ha detto...

Questo commento è stato eliminato dall'autore.

Denise Cecilia ha detto...

Che anche la scienza si basi su una fede (e nello specifico, stringendo molto, sulla fede nella correttezza sia morale sia metodologica delle persone autorevoli che ci hanno preceduto fondando le discipline, o che guidano la comunità scientifica oggi) è un assunto che ho recentemente incontrato anche altrove e che ho trovato illuminante - l'argomentazione concisa e precisa che raccoglie tanti precedenti spunti mai abbastanza definiti o approfonditi.

E' cruciale e mi piace ciò che scrivi sul fatto che la nostra fede si fondi non tanto sulla credibilità del messaggio (perché se si trattasse solo di questo, potremmo altrettanto ben aderire a un sacco di credenze e stili di vita che non siano questi di cui parliamo) ma sulla credibilità che il messaggero ha per noi - senza con ciò svalutare quel che ha da dire, ovviamente...
... ho colto da un tempo brevissimo come la differenza non nasca da un corpus di teoria o di ritualità (per quanto significativo e profondo possa essere) ma dall'esistenza e dalla qualità di una precisa relazione. Voglio dire: razionalmente lo sapevo da mo'. Ma concretamente ancora non ci arrivavo, la relazione era una chiave delle cose che sapevo raccontare ma non agire - non come la agivo in anni ormai lontanissimi.
Insomma senza incontro relazionale non c'è contenuto convincente che tenga. Eppure sembra che due livelli tanto diversi fra loro tendano ancora a confondersi come nulla fosse, in noi...

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