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venerdì 2 ottobre 2009

Lectio autobiografica

Il tentativo di chi scrive è stato quello di portare avanti, da un paio d’anni a questa parte, una stesura settimanale della lectio sui testi liturgici della domenica; un tentativo nato con un duplice scopo: da un lato avere la possibilità fattiva e senza “scappatoie” di un confronto personale costante con la Parola di Dio, e dall’altro quello di poter concorrere alla riflessione altrui proponendo quello che – soprattutto il vangelo – suggeriva.
Ovviamente la considerazione di questo secondo profilo, ha in qualche modo inevitabilmente fatto propendere il genere letterario degli scritti verso una prospettiva sistematica, leggibile da tutti, lasciando per certi aspetti in ombra il profilo personale, le implicazioni emotive, i rimandi a persone e fatti reali…
Ma, mentre riflettevo sulle letture che la Chiesa ci propone per questa ventisettesima domenica del tempo ordinario, ho pensato che stavolta mi era proprio impossibile dire qualcosa di sensato e non ipocrita sui testi, senza coinvolgere in qualche modo la mia storia personale.
E allora – piuttosto che far finta di niente e sviluppare una riflessione asettica sul matrimonio/amore di coppia cristiano (che è l’oggetto delle letture odierne) – preferisco raccontarvi – per una volta – quello che questi testi suscitano nella mia pancia, quello che dicono a me, figlia di separati, dimenticata – come tutti gli altri – dalle gerarchie cattoliche, che mentre pontificano dalle loro cattedre lontane dalla realtà e sputano sentenze su chi le scelte le paga con lacrime e sangue, non si ricordano che le loro parole le udiamo/udivamo anche noi figli!
Perché, per quanto il momento della separazione e tutto quanto ne consegue (sballottamenti, non avere uno dei genitori in casa, ecc…) sia sicuramente foriero di sofferenze, ferite, traumi (che pian piano crescendo vanno affrontati, integrati e per quanto possibile affrancati), niente è però più lacerante a livello identitario che vivere in una comunità che mentre da un lato ti propone l’ideale evangelico, dall’altro condanna i tuoi (genitori, in questo caso), ti chiede cioè quasi di scegliere (senza dirlo, ovviamente, perché forse si rende conto della brutalità e ne ha un po’ pudore): se sei dei nostri sei contro i tuoi; se sei coi tuoi, non puoi essere dei nostri. Se sei dei nostri, cioè, devi schierarti nel giudizio comune di condanna nei confronti di chi trasgredisce quell’altisonante “l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto”; se non lo fai risulti non allineato… fuori, appunto.


Certo, si dice ai più perplessi, la condanna è per il peccato, non per il peccatore, ma intanto chi non può far la comunione sono i peccatori e non il peccato, o chi viene stigmatizzato come “diverso”, come “cattivo”, come “anti-cristiano” sono i separati, non la separazione (che di fatti in tutti gli altri campi è ben più che tollerata!).
E intanto tu – figlio – stai lì nel mezzo a cercare di capire cosa sia giusto seguire: se l’amore profondo e viscerale e vitale che ti lega a tua madre e a tuo padre, o una condanna straziante a cui però sembra invitare il vangelo stesso, con quelle solite frasi decontestualizzate che ti citano: «l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto», «Sono infatti venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre» (Mt 10,35), «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26), ecc, ecc, ecc…
Con il risultato che la stragrande maggioranza dei figli sceglie i genitori, passando immediatamente a far parte della categoria dei “maledetti” (perché si sa… “i figli di separati o diventano gay o delinquenti”…) e abbandonando – senza neanche incontrarla – la via evangelica che la chiesa gli avrebbe proposto, se solo lui “fosse stato dei suoi”; altri si fondamentalizzano, nascondendo le proprio pecche familiari o prescindendone (e condannandosi dunque alla continua reiterazione della scissione interiore); altri – più fortunati come la sottoscritta – tenendo ben stretti i genitori, intercettano per vie non convenzionali la proposta evangelica (un prete particolarmente illuminato, una realtà ecclesiale matura e aperta, la possibilità di studiare, incontri particolarmente felici con “uomini di Dio”, ecc…) e scoprono che essa andava in ben altra direzione rispetto a quella che i burocrati del sacro o – come amano farsi chiamare – i custodi della dottrina, per ignoranza, codardia o interesse, sventolavano.
Per intenderci… nessun dubbio che il vangelo di oggi indichi con chiarezza che la separazione sia una cosa negativa (ma questo lo sapevano già e meglio di tutti proprio i separati e i loro figli, senza bisogno di scomodare tanti predicatori: bastava chiederglielo) e che invece una vita d’amore indiviso sia il meglio che un uomo e una donna possano sperare.
Ma… sarà altrettanto vero che esso implichi una minaccia infernale per chi si separa (in quel «l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto»)?
In altre parole: siamo davvero sicuri che questo brano di vangelo – a differenza di tutto il resto del vangelo – vada assunto in maniera ab-soluta, cioè sciolta dal contesto, dal resto del vangelo, dalla persona di Gesù, ecc…? Come se ogni volta che si presenta una situazione di separazione matrimoniale, al di là delle circostanze, delle storie delle persone, del loro percorso interiore, comunque la sentenza sia già stata scritta: «l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto»? Può il Dio di Gesù, il volto di Dio cioè che emerge dall’esperienza cristiana di Gesù, coincidere con questa mentalità legalistica e contabile? Davvero la valutazione di una vita da parte del Signore avviene in questi termini? E se sì, solo in questo caso o sempre? Perché se è sempre, ci siam dentro tutti, ma ci sono un sacco di pagine evangeliche che smentiscono questa linea (una su tutte, la parabola del padre misericordioso). Se invece è solo in questo caso, non ci si spiega perché…
Evidentemente per chi scrive la logica non può essere assolutamente questa: di questo dio, noi siamo atei, semplicemente perché non è il Dio di Gesù… Ma allora?
Allora, forse, bisogna tentare di illuminare il problema leggendo attentamente questo testo, contestualizzandolo, capendo a che problematiche fa riferimento, quali domande sottende e accogliere quello che a partire da lì e mai fuori di lì, ci dice; evitando soprattutto di strumentalizzarlo per assecondare le nostre logiche di gestione del reale: in altre parole, evitando di usarlo per rispondere a domande diverse, rispetto a quelle per cui è sorto.
Un po’ come avveniva settimana scorsa, quando alla frase «Chi non è contro di noi è per noi» (Mc 9,40) faceva da pendant «Chi non è con me è contro di me» (Mt 12,30 e Lc 11,23) e Maggioni commentava: «Non c’è contraddizione. Sono le differenti situazioni a spiegare la differenza delle affermazioni».
Cerchiamo allora di capire la situazione del nostro discusso testo: innanzitutto va notato come l’occasione della domanda dei farisei («se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie») non sia neutra, ma connotata in senso negativo, «alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, gli domandavano se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie».
Ciò che muove alla domanda non è quindi una situazione concreta, un dramma familiare, un problema personale di chi interroga Gesù: manca totalmente il pathos legato alla tragicità di un evento (che invece è sempre presente quando per esempio lo interpellano per guarire, chi una figlia, chi un figlio, chi un amico, ecc…). Si tratta piuttosto di una domanda posta con lo scopo di mettere in difficoltà Gesù, di metterlo alla prova, di trovare qualche elemento di discredito nel suo insegnamento.
Evidentemente – come in tutti gli altri casi – il modo di porre la domanda, in qualche modo incanala la risposta (che è il motivo per cui spesso ci sentiamo rispondere che la domanda è mal posta: proprio perché chi è interrogato non vuole percorrere – nel rispondere – l’incanalamento in cui la domanda lo costringe e che a lui pare scorretto; che è anche il motivo per cui spesso Gesù risponde facendo a sua volta una domanda). Qui Gesù risponde, ma ovviamente, a domanda generica (non nel senso di banale, ma di non personale) fornisce una risposta generica: interpella Mosè e – di fronte al fatto che quello aveva dato la possibilità del ripudio – ricorda come questo fosse avvenuto non perché quello fosse il progetto di Dio, ma per la durezza del loro cuore.
Come a dire: il desiderio di Dio per l’uomo e per la donna era altro, sia nel senso di diverso, sia nel senso di esageratamente più bello, impareggiabile; poi, per la durezza del vostro cuore, si è dovuto trovare qualche rattoppo, aggiustamento, compromesso.
Ma qual era questo “desiderio di Dio per l’uomo e per la donna”? Era quello che diventassero una carne sola, che cioè si amassero a tal punto e in maniera così limpida, da non essere più 2, ma 1, per sempre.
E la cosa scalda ancora di più il cuore se, a pensarci bene, si nota che questa prospettiva non è lontana da quanto il nostro cuore spesso anela e desidera senza poterlo confessare: noi cerchiamo questo dalla vita, 2 braccia tra cui morire in pace, qualcuno – fuori dalla cerchia familiare, in cui il bene è sentito sempre come un po’ dovuto – che ci ami per quello che siamo, che sia pronto a riaccoglierci, a tenerci, a custodirci, a morire per noi… Tutto il resto è niente, perfino il sesso.
E se non osiamo nemmeno più desiderare questo è perché la vita ci ha ferito, il mondo pare smentire questa come possibilità reale, la paura di rimanere “fregati” la fa da padrona… eppure, è quello l’inconfessato desiderio di ogni cuore, anche il più cinico.
Ma allora Gesù forse voleva dire proprio questo: a chi banalizzava l’amore, l’esperienza più grande che un uomo e una donna possono vivere, utilizzandolo come oggetto di una domanda provocatoria, o come questione su cui inserire la mentalità contabile (Posso sposarmi con l’uscita di sicurezza? Misurando quanto dò e quanto mi dà? Senza mai giocarmi definitivamente prima di aver misurato l’altra?), egli risponde in una maniera dura, riportando al centro la questione fondamentale, che diventino una carne sola! Questo è allora l’oggetto del discorso di Gesù, la smentita completa di una mentalità contabile nei rapporti che contano (con chi si ama, con Dio…) e lo spalancamento di una possibilità d’amore insperata, essere con un altro / con un’altra una carne sola per sempre.
La prospettiva allora è molto più ampia che la rispostina pronta al nostro problema contemporaneo dei separati… Il problema è ciò che un rapporto d’amore dovrebbe essere nell’idea di Dio, è ciò che la Chiesa dovrebbe proporre e favorire come rapporto d’amore e con essa la società, l’educazione, le forme sociali quotidiane… E allora forse, ci vorrebbe un po’ più di umiltà e rispetto nel giudicare le esperienze d’amore altrui, perché a volte assomigliano molto di più all’idea che Dio aveva di amore tra uomo e donna, alcuni matrimoni secondi, che i primi… e in ogni caso lui «non si vergogna di chiamarli fratelli».

3 commenti:

Mario ha detto...

Divina! Come sempre, ma questa volta ancor di più! Che il Signore ti conservi così limpida e trasparente!

greg50 ha detto...

Ciao Chiara, la tua ‘lectio autobiografica’ è bellissima e coraggiosa! Molte delle cose che scrivi sono comuni a tanti cattolici (come me) lasciati soli e reietti da questa chiesa gerarchica, ma non voglio aggiungere nulla alla tua completezza. Un saluto affettuoso. Greg

chia ha detto...

ciao ragazzi :o)

non esagerate coi complimenti che io sono timida...

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