La prima lettura di questa ventottesima domenica del tempo ordinario, raccoglie uno stralcio del discorso che il re Salomone avrebbe fatto parlando della sapienza. Al di là della finzione letteraria, ciò che è interessante è la ripetuta sottolineatura di quanto la sapienza sia preferibile ad ogni altra cosa egli potesse richiedere nella preghiera: «La preferii a scettri e troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto, non la paragonai neppure ad una gemma inestimabile, perché tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento. L’ho amata più della salute e della bellezza, ho preferito avere lei piuttosto che la luce»; e commenta: «perché lo splendore che viene da lei non tramonta».
Ciò che dunque rende la sapienza così desiderabile è il fatto che essa, a dispetto di tutte le altre cose pure desiderabili (scettri, troni, ricchezza, gemme inestimabili, oro, argento, salute, bellezza, luce…), non tramonti, possegga cioè una dimensione di eternità, di non corruttibilità: è qualcosa che può rimanere.
Il problema di Salomone è dunque il problema di ogni uomo: è il problema della salvezza, del fatto che la vita che spendiamo non sia vana, che qualcosa di essa rimanga, che abbia un senso, che noi rimaniamo. Nonostante oggi suoni anacronistico dire “il problema della salvezza” e nessuno pare preoccuparsene, in realtà se esso viene declinato – per esempio traducendolo in domande quali “Che senso ha la vita se poi si muore?”, “Cosa sono qui a fare?”, “Come è giusto spendere la vita?”, “Per cosa vale la pena farlo?”, “E tutto questo mio correre, affannarmi, preoccuparmi, darmi da fare, ha qualche futuro?”, “Io sono destinato a finire nel niente, e così tutte le persone che amo e tutto ciò che mi circonda?”, ecc… – salta immediatamente all’occhio come questo sia IL problema, il problema di tutti e di ciascuno.
Non a caso il capitolo 7 del libro della Sapienza da cui è tratta la nostra prima lettura iniziava sottolineando la parità di condizione – dal punto di vista del problema esistenziale – tra chi parla (Salomone) e ciascun uomo; i versetti 1-6 infatti suonano così: «Anch’io sono un uomo mortale uguale a tutti, discendente del primo uomo plasmato con la terra. La mia carne fu modellata nel grembo di mia madre, nello spazio di dieci mesi ho preso consistenza nel sangue, dal seme d’un uomo e dal piacere compagno del sonno. Anch’io alla nascita ho respirato l’aria comune e sono caduto sulla terra dove tutti soffrono allo stesso modo; come per tutti, il pianto fu la mia prima voce. Fui allevato in fasce e circondato di cure; nessun re ebbe un inizio di vita diverso. Una sola è l’entrata di tutti nella vita e uguale ne è l’uscita. Per questo pregai». E precisamente a questo punto iniziano i versetti 7-11 che compongono la nostra prima lettura, con la scelta salomonica di chiedere, su tutto, la sapienza.
A ben guardare il problema è il medesimo che assilla anche il “tale” di cui si parla nel vangelo, che proprio per cercare una risposta a questo angosciante mistero, «corse incontro» a Gesù «e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”».
Il problema è lo stesso, è il nostro, è quello di tutti: Cosa dobbiamo fare? Cosa dobbiamo fare per vivere una vita buona? E come facciamo a capire cosa è una vita buona? E poi, “buona” per chi? Verso cosa corriamo? Verso dove andiamo? Verso chi? E perché? Qualcuno lungo la storia ha parlato di premi, di aldilà, di vita dopo la morte… Era vero? E come si fa per guadagnarseli? Quali prove, quali sforzi, quali sacrifici? E se non è vero, cosa sono qui a fare? Ha senso ciò che faccio, se è destinato al niente? E se decido di sfruttare comunque questa cosa – che è la vita – che mi sono ritrovato a vivere, cosa devo fare perché non sia un’occasione sciupata?
Ce n’è per tutti… Perché nessuno è esentato dal problema del finire delle cose… del finire delle persone… del finire di se stesso… è un’evidenza che continuamente ci si ripresenta e ravviva l’angoscia dentro…
Dunque proviamo ad andare insieme a questo “tale” da Gesù, per chiedere a lui allora cosa dobbiamo fare per avere in eredità la vita eterna… Immediatamente la risposta di Gesù sembra ricalcare la tradizione: risponde come ci si aspetta che risponda, come avrebbe risposto qualsiasi rabbì del tempo… In qualche modo suscitando una certa delusione in chi domandava, «Gesù gli disse: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”. Egli allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”».
La delusione arriva dal fatto che l’indicazione di Gesù ricalca ciò che si è già da sempre fatto e che ugualmente non ha saziato la domanda di senso, non è sembrata una risposta adeguata alla prova della vita, se non altro non ha risolto il problema di questo “tale”.
Gesù si accorge di questa delusione e ha una reazione imprevista. Che si tratti di reazione lo si evince da quel “allora Gesù”, che segue immediatamente ciò che aveva detto colui che lo aveva interrogato, «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza»: «Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò».
Ebbene, in questo «lo amò», sta tutto il senso del brano. Tutto ciò che segue infatti – e che conosciamo a memoria (la proposta di Gesù di andare, vendere tutto ciò che aveva, darlo ai poveri, poi tornare da lui e seguirlo; il diniego e l’andarsene rattristato dell’altro; l’affermazione di Gesù dell’assoluta difficoltà per i ricchi di entrare nel Regno; lo sconvolgimento dei discepoli a tale annuncio) – mostra come l’incomprensione tra Gesù e quel tale – e forse tra noi e la Vita – non stia tanto nelle parole, nelle soluzioni, nelle proposte, più o meno accettabili e accettate; ma nella logica con cui si pensa la Vita.
L’ansia di questo “tale” infatti e tutti gli elementi che compongono il suo modo di porsi di fronte a Gesù e il suo modo di domandare, rimandano ad una prospettiva per cui la Vita è una conquista. Come dicevamo anche nelle nostre domande esplicative, tutto ruota intorno alla questione del “Cosa devo fare?”… Quali sforzi, quali sacrifici, quali rinunce? Oppure: quali imprese, quali fatiche, quali eroicità?
In evidenza è dunque l’attività dell’uomo, il suo doversi dare da fare, il suo dover – appunto – conquistare una meta, realizzare un successo, afferrare un risultato.
La prospettiva di Gesù invece va esattamente nel verso opposto: «Lo amò»; cioè come primo approccio ha esattamente quello di togliere l’altro dalla sua frenetica attività e di porlo in una situazione di passività, recettività: prima che quello decida se accettare o meno la sua proposta, anzi, prima ancora di formulargliela, Gesù lo investe di benevolenza, di uno sguardo amante, dell’invito ad entrare in quel suo spazio interiore che ha allargato per farci stare anche lui, l’ultimo arrivato.
E non solo, ma proseguendo, continuamente ripropone questa logica: quando poi effettivamente formula la sua proposta, invitando quell’uomo ricco a lasciare tutto, darlo ai poveri e seguirlo (suggerendogli dunque di mettersi nella posizione di chi si deve affidare, piuttosto di chi deve gestire); quando ai discepoli “sconcertati” e “stupiti” dichiara l’impossibilità umana a costruirsi una salvezza; quando infine mostra come però l’impossibilità umana, diventi possibile in Dio, dunque in un mettere il Lui la propria vita…
Il succo di tutto il brano dunque non credo sia propriamente quello di un invito a lasciare tutto ciò che abbiamo o – come lo abbiamo spesso ridotto noi – a lasciare simbolicamente qualcosa di nostro – dato che lasciare tutto è impensabile –; quanto piuttosto lasciare la logica della conquista per la logica dell’affidamento (che è l’unica poi, che, anche materialmente, consente di lasciare tutto senza rimpianti e inacidimenti postumi).
L’invito di Gesù cioè sembra essere quello di chi suggerisce all’uomo di porsi nella vita in maniera nuova. Da quando infatti siamo “gettati” in questo mondo, il nostro tentativo innato e immediato è quello di salvarci la vita, di imparare a gestire le situazioni, a controllarle, a dominarle: per sapere sempre cosa fare, come farla ed eventualmente cadere in piedi. E tentiamo di usare questa strategia anche nelle cose che invece gestibili non sono: l’amore, il dolore, la morte, la vita nuova che ogni tanto sgorga… E ci ritroviamo a chiedere al Signore: “Cosa dobbiamo fare?”, “Come si gestisce il dolore, l’amore, la morte, la nascita, …?”.
Ma l’evidenza continuamente ci rimanda che per quanto proviamo e magari a volte ci vada anche bene, restano cose non in nostro possesso, non dominabili, non controllabili. Ed ecco il senso di fallimento, la frustrazione, la delusione, la disperazione: perché non poter gestire la morte, vuol dire dover morire e restare morti, per quanto ci compete…
Fin qui noi…
Dentro qui, quell’uomo di Nazareth, che i cristiani credono essere il Figlio di Dio, inserisce la sua buona notizia: l’impossibilità di salvarvi la vita non è disperante, perché non doveva nemmeno essere una vostra preoccupazione; essa infatti è già nelle mani sicure del Padre. È lui che salva la vita, per questo essa diventa vivibile e non nei termini di una giungla dove il più forte vince, ma nei termini di una casa, dove si può davvero essere fratelli e prendersi cura dei piccoli, perché la vita di tutti è al sicuro e l’altro non ha motivo di essermi rivale o nemico o avversario, perché non ha niente da guadagnare sulla mia pelle…
È quello che fin da piccoli impariamo, ancora più originariamente che l’istinto di sopravvivenza e dunque – forse – più autenticamente: infatti appena “gettati” in questo mondo, prima di imparare a sopravvivere, abbiamo imparato a stare nelle mani di colui/colei tra le cui mani inevitabilmente ci hanno messo … ed è questo affidamento naturale e inevitabile per tutti e per ciascuno che ci ha fatto uomini e donne – più di qualsiasi altra cosa… forse davvero allora, come diceva il vangelo di domenica scorsa, dovremmo ritornare a essere bambini…
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