Nessuna pagina del vangelo, eccetto forse l’ultima cena, e così animata dall’intreccio dei volti che si cercano, si guardano, si amano, si chiamano, si rabbuiano, si rattristano, – davanti agli altri volti degli astanti, prima incuriositi, poi sconcertati, e poi ancor più sbigottiti – e Gesù che li “guarda bene in faccia” ...
…quanto è vero che – di fronte alla Parola che irrompe nella storia! – frigge e si consuma la fittizia coesione che tiene insieme giunture e midolla, spirito e anima, sentimenti e pensieri del nostro mondo personale e sociale... e le nostre intime strutture psichiche, che parevano assodate da una vita, rivelano la fragilità precaria della nostra fede...
Ecco “un tale”, che per Matteo è un signore ricco e, secondo Luca, ancor giovane, di certo devoto e di ottime intenzioni, un cosiddetto ‘notabile’ compito – tutto il contrario dei bambini di cui si diceva appena prima – che è affascinato dal giovane maestro e profeta, tanto che gli corse incontro e si inginocchiò di fronte a lui!. Ma che disastro, per il Regno! Infatti, è finita che, inorridito per la parola di Gesù, se ne andò rattristato! Cos’è capitato, che tutti e tre i sinottici lo ricordano con eccezionale attenzione? Entra in campo, nell’insegnamento di Gesù, qualcosa di altrettanto importante e coinvolgente per la vita dell’uomo che la “sessualità” della pagina precedente. Potremmo dire che entra in campo “l’economia” – cioè il nostro intreccio vitale con i beni di cui viviamo, con il bisogno famelico che ne abbiamo, con l’investimento affettivo ed esistenziale che ci mettiamo e che ci costituisce umani – a fronte del dramma di chi non ha nulla!
Al centro del racconto (di ogni racconto evangelico) il mistero tacito di ogni incontro di fede (anche come semplice ricerca di un senso profondo e duraturo della nostra vita), che diventa un incontro decisivo con Gesù. Come se Gesù lo aspettasse da sempre: “allora Gesù, fissatolo lo amò!” Da qui è cominciato il dramma di quella piccola storia di allora, divenuta nel vangelo parabola viva di tutta la storia grande, della quale quell’evento è divenuto paradigma e fermento, insieme. Dove ancor più si rivela il segreto di sempre, di ogni nostra storia, quando ti prende dentro la certezza, come appare da tutta la Bibbia, che Dio si gioca nella tua storia con molto più sbilanciamento di te – in questa proposta paradossale di una solidarietà d’amicizia, alla quale però solo lui è capace di esser fedele. È lui l’innamorato che cerca appassionatamente di conquistarti! E così subito appare che l’amore di Dio – la sua voglia di Alleanza eterna con noi – è eccessivo... per i nostri contenitori fragili e timorosi di esserne troppo coinvolti e sconvolti. Questo racconto incombe sulla nostra chiesa (nel suo lungo percorso) – come sulla nostra storia personale e comunitaria – almeno da Costantino imperatore in poi!. Se questa “parola” è, infatti, la discriminante esemplare della nostra appartenenza o disappartenenza al Regno, a noi sembra di fatto una favola degli entusiasmi iniziali – una cosa un po’ irreale – piuttosto che un’indicazione autorevole e sicura (pratica!), come sembrerebbe indicare Gesù. Ma per nostra fortuna se ne sono accorti subito gli apostoli stessi, i quali, prima stupefatti, poi “enormemente” sbigottiti, si domandavano fra loro: allora, chi può essere salvato?... E così hanno provocato un chiarimento indubbiamente radicale e garantito, ma che ancora più ha aggravato e appesantito la nostra situazione di inadeguatezza: “impossibile agli uomini”, parola di Gesù stesso! Possibile solo a Dio, dunque! – è una cosa divina – e affare suo. Quanti saremmo oggi in questa “sua” chiesa, se all’entrata, ci avessero sottoposti a questo criterio? È vero che la Chiesa non è il Regno, ma dovrebbe almeno esserne l’ostetrica, per spingerci una buona volta a rinascere, a seguire davvero Gesù! O non sarà proprio per questo dato di fatto – della rassegnata ma lucida impossibilità a seguire il Regno – che siamo ricchi stracolmi di beni e di vantaggi non regalati ai poveri? E deleghiamo questa “possibilità di conquistarci quaggiù la vita eterna” ai profeti inascoltati del Regno, così che poi tutto il nostro rapporto, personale e comunitario, con Gesù. ne rimane sfilacciato e svuotato – immiserito e avvelenato com’è dagli infiniti condizionamenti dei nostri beni “irrinunciabili”.
Tra noi e il Signore (o il suo Regno!) ci stanno di mezzo i poveri … e i nostri beni – alternativi! Ponte o barriera! Infatti, ecco il dilemma drammatico: se vuoi rispondere all’amore con il quale il Signore ti ha fissato: una cosa sola ti manca: và, vendi quello che hai e dállo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e séguimi. Non si ratta di una nuova legge o di un altro comandamento, sconosciuto prima! Se però i beni sono il tuo tesoro, allora, con più o meno compromessi, indietreggi nel cammino verso Gesù perchè questo tesoro rispunta nel cuore come la tua vera sicurezza palpabile e misurabile, irrinunciabile – e quindi svuoti l’alternativa di “seguire Gesù” di ogni spessore. Non puoi seguire due padroni... e allora diventi sempre più schizofrenico. È la prassi normale, felpata e pasticciata, della nostra chiesa e delle nostre comunità (oltre che personale), rimediata poi con elemosine e surrogati caritativi successivi, per anestetizzare il rimorso di eludere un vangelo “eccessivo”. Il “cercatore della salvezza” – che pure parte sincero – si accorge amaramente che, a star troppo vicino ai suoi beni, si allontana dal Signore, e viceversa – anche se nella ingenuità dell’entusiasmo giovanile prima “correva verso di lui”. Per avvicinarlo davvero a sé, Gesù lo provoca a dare i suoi beni ai poveri, perché questi abitano sempre nei dintorni del Regno. I poveri non sono subito “Gesù”. Ma dalla loro parte è facile venire presso Gesù, per seguirlo. Perché l’impedimento inconsapevole verso il Signore erano proprio i “molti beni” – e i poveri sono il luogo giusto dove spenderli. Fuori di metafora, la logica o la legge fondamentale della nostra sussistenza economica (che vuol dire la “legge della nostra casa”: alimentare, parentale, affettiva, finanziaria, ideologica, religiosa…) è la difesa strenua del possesso dei beni, con la conseguente inevitabile rapina competitiva dei concorrenti. La nuova “legge di casa”, (l’economia del Regno), alla quale ci chiama il Signore, è invece la logica del dono! “Quello che hai, dallo ai poveri!”. Qui si rivela il tranello intrinseco ad ogni ricerca religiosa: persino di un galantuomo, credente e pio, che però non cercava la salvezza (la vita eterna) come dono del Padre, ma soltanto come la prosecuzione eterna del suo bene totale, l’assicurazione “casco” su sé e i suoi beni! Appena ne sente le condizioni improrogabili, proclamate subito chiarissime dal Signore – per avere la vita eterna bisogna staccarsi dai beni! ...lui almeno capisce che ogni altro aggiustamento è ipocrita! Se ne andò rattristato.
Avvicinarsi al Signore vuol dire dunque avvicinarsi al “suo modo di essere”… e il “suo modo di essere” è quello dei poveri: abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo... (Fil 2,5ss). Dunque “la logica del dono” proposta a chi vuol seguire Gesù, non è frutto di una pur lodata osservanza morale, ma è una condizione “evangelica” di un altra qualità! Chi accoglie con tutto il suo cuore il vangelo, può possedere dei beni e mantenerli, ma finirà per svuotarsene... quando storicamente incontra chi non li ha, quando dovrà schierarsi concretamente per il Regno: perché allora scatterà nel suo cuore la scelta preferenziale: niente mai anteporre a Gesù, al suo vangelo e ai poveri in cui egli vive. Non per dovere, ma perché così ha fatto Gesù – anzi così è Gesù! Solo così lo si incontra, a livello vitale, non psichico, non immaginario. Il resto è religiosità alienante, devozione vuota, fonte di tristezza inguaribile – perché ammalata dall’infezione della dis/umanizzazione dell’altro, cui io assisto senza personalmente compromettermi. La tristezza è anche la conferma che non si può contattare Gesù, senza passare per di qua! Se invece si passa per di qua, tutto ritorna nel circolo del dono o dell’amore condiviso, che risana le parentele egocentriche ed esclusive, le proprietà discriminanti e recintate… E dunque, “casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi” – i nostri beni esistenziali! – ” ridiventano (a causa mia e a causa del vangelo), il luogo gioioso o il nido aperto, dove crescere, donarsi ed essere custoditi.
“Gesù Cristo è il centro del Regno di Dio, il centro di tutta la storia della salvezza, il centro di ogni vita di discepolo. Ma non si tratta del nome “Gesù Cristo”, bensì della realtà. Ora, questa realtà di Cristo si manifesta soltanto a chi vive in lui, con lui, facendo la stessa esperienza umana. Per questo c’è una centralità della povertà come accesso alla centralità di Gesù Cristo”. [José Comblin, Le sfide di Cristiani del XXI secolo]
Il “Patto delle catacombe” per una Chiesa serva e povera
Il 16 novembre del 1965, pochi giorni prima della chiusura del Vaticano II, una quarantina di padri conciliari hanno celebrato una Eucaristia nelle catacombe di Domitilla, a Roma, chiedendo fedeltà allo Spirito di Gesù. Dopo questa celebrazione, hanno firmato il “Patto delle Catacombe”.
Il documento è una sfida ai “fratelli nell’Episcopato” a portare avanti una “vita di povertà”, una Chiesa “serva e povera”, come aveva suggerito il papa Giovanni XXIII.
I firmatari – fra di essi, molti brasiliani e latinoamericani, poiché molti più tardi aderirono al patto – si impegnavano a vivere in povertà, a rinunciare a tutti i simboli o ai privilegi del potere e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale. Il testo ha avuto una forte influenza sulla Teologia della Liberazione, che sarebbe sorta negli anni seguenti.
Uno dei firmatari e propositori del Patto fu dom Helder Câmara, il cui centenario della nascita è stato celebrato il 7 febbraio. Ecco il testo:
Noi, vescovi riuniti nel Concilio Vaticano II, illuminati sulle mancanze della nostra vita di povertà secondo il Vangelo; sollecitati vicendevolmente ad una iniziativa nella quale ognuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la presunzione; in unione con tutti i nostri Fratelli nell’Episcopato, contando soprattutto sulla grazia e la forza di Nostro Signore Gesù Cristo, sulla preghiera dei fedeli e dei sacerdoti della nostre rispettive diocesi; ponendoci col pensiero e la preghiera davanti alla Trinità, alla Chiesa di Cristo e davanti ai sacerdoti e ai fedeli della nostre diocesi; nell’umiltà e nella coscienza della nostra debolezza, ma anche con tutta la determinazione e tutta la forza di cui Dio vuole farci grazia, ci impegniamo a quanto segue:
1. Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende. Cfr. Mt 5,3; 6,33s; 8,20.
Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti), nelle insegne di materia preziosa (questi segni devono essere effettivamente evangelici). Cf. Mc 6,9; Mt 10,9s; At 3,6. Né oro né argento.
Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca, ecc.; e, se fosse necessario averne il possesso, metteremo tutto a nome della diocesi o di opere sociali o caritative. Cf. Mt 6,19-21; Lc 12,33s.
Tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione finanziaria e materiale nella nostra diocesi ad una commissione di laici competenti e consapevoli del loro ruolo apostolico, al fine di essere, noi, meno amministratori e più pastori e apostoli. Cf. Mt 10,8; At. 6,1-7.
Rifiutiamo di essere chiamati, oralmente o per scritto, con nomi e titoli che significano grandezza e potere (Eminenza, Eccellenza, Monsignore…). Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di Padre. Cf. Mt 20,25-28; 23,6-11; Jo 13,12-15.
Nel nostro comportamento, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo quello che può sembrare un conferimento di privilegi, priorità, o anche di una qualsiasi preferenza, ai ricchi e ai potenti (es. banchetti offerti o accettati, nei servizi religiosi). Cf. Lc 13,12-14; 1Cor 9,14-19.
Eviteremo ugualmente di incentivare o adulare la vanità di chicchessia, con l’occhio a ricompense o a sollecitare doni o per qualsiasi altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare i loro doni come una partecipazione normale al culto, all’apostolato e all’azione sociale. Cf. Mt 6,2-4; Lc 15,9-13; 2Cor 12,4.
Daremo tutto quanto è necessario del nostro tempo, riflessione, cuore, mezzi, ecc., al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi laboriosi ed economicamente deboli e poco sviluppati, senza che questo pregiudichi le altre persone e gruppi della diocesi. Sosterremo i laici, i religiosi, i diaconi o i sacerdoti che il Signore chiama ad evangelizzare i poveri e gli operai condividendo la vita operaia e il lavoro. Cf. Lc 4,18s; Mc 6,4; Mt 11,4s; At 18,3s; 20,33-35; 1Cor 4,12 e 9,1-27.
Consci delle esigenze della giustizia e della carità, e delle loro mutue relazioni, cercheremo di trasformare le opere di “beneficenza” in opere sociali fondate sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze, come un umile servizio agli organismi pubblici competenti. Cf. Mt 25,31-46; Lc 13,12-14 e 33s.
Opereremo in modo che i responsabili del nostro governo e dei nostri servizi pubblici decidano e attuino leggi, strutture e istituzioni sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo armonico e totale dell’uomo tutto in tutti gli uomini, e, da qui, all’avvento di un altro ordine sociale, nuovo, degno dei figli dell’uomo e dei figli di Dio. Cf. At. 2,44s; 4,32-35; 5,4; 2Cor 8 e 9 interi; 1Tim 5, 16.
Poiché la collegialità dei vescovi trova la sua più evangelica realizzazione nel farsi carico comune delle moltitudini umane in stato di miseria fisica, culturale e morale – due terzi dell’umanità – ci impegniamo:
-a contribuire, nella misura dei nostri mezzi, a investimenti urgenti di episcopati di nazioni povere;
-a richiedere insieme agli organismi internazionali, ma testimoniando il Vangelo come ha fatto Paolo VI all’Onu, l’adozione di strutture economiche e culturali che non fabbrichino più nazioni proletarie in un mondo sempre più ricco che però non permette alle masse povere di uscire dalla loro miseria.
2. Ci impegniamo a condividere, nella carità pastorale, la nostra vita con i nostri fratelli in Cristo, sacerdoti, religiosi e laici, perché il nostro ministero costituisca un vero servizio; così:
-ci sforzeremo di “rivedere la nostra vita” con loro;
-formeremo collaboratori che siano più animatori secondo lo spirito che capi secondo il mondo;
-cercheremo di essere il più umanamente presenti, accoglienti…;
-saremo aperti a tutti, qualsiasi sia la loro religione. Cf. Mc 8,34s; At 6,1-7; 1Tim 3,8-10.
3. Tornati alle nostre rispettive diocesi, faremo conoscere ai fedeli delle nostre diocesi la nostra risoluzione, pregandoli di aiutarci con la loro comprensione, il loro aiuto e le loro preghiere.
Aiutaci Dio ad essere fedeli.
In ricordo di dom Helder Câmara
…quanto è vero che – di fronte alla Parola che irrompe nella storia! – frigge e si consuma la fittizia coesione che tiene insieme giunture e midolla, spirito e anima, sentimenti e pensieri del nostro mondo personale e sociale... e le nostre intime strutture psichiche, che parevano assodate da una vita, rivelano la fragilità precaria della nostra fede...
Ecco “un tale”, che per Matteo è un signore ricco e, secondo Luca, ancor giovane, di certo devoto e di ottime intenzioni, un cosiddetto ‘notabile’ compito – tutto il contrario dei bambini di cui si diceva appena prima – che è affascinato dal giovane maestro e profeta, tanto che gli corse incontro e si inginocchiò di fronte a lui!. Ma che disastro, per il Regno! Infatti, è finita che, inorridito per la parola di Gesù, se ne andò rattristato! Cos’è capitato, che tutti e tre i sinottici lo ricordano con eccezionale attenzione? Entra in campo, nell’insegnamento di Gesù, qualcosa di altrettanto importante e coinvolgente per la vita dell’uomo che la “sessualità” della pagina precedente. Potremmo dire che entra in campo “l’economia” – cioè il nostro intreccio vitale con i beni di cui viviamo, con il bisogno famelico che ne abbiamo, con l’investimento affettivo ed esistenziale che ci mettiamo e che ci costituisce umani – a fronte del dramma di chi non ha nulla!
Al centro del racconto (di ogni racconto evangelico) il mistero tacito di ogni incontro di fede (anche come semplice ricerca di un senso profondo e duraturo della nostra vita), che diventa un incontro decisivo con Gesù. Come se Gesù lo aspettasse da sempre: “allora Gesù, fissatolo lo amò!” Da qui è cominciato il dramma di quella piccola storia di allora, divenuta nel vangelo parabola viva di tutta la storia grande, della quale quell’evento è divenuto paradigma e fermento, insieme. Dove ancor più si rivela il segreto di sempre, di ogni nostra storia, quando ti prende dentro la certezza, come appare da tutta la Bibbia, che Dio si gioca nella tua storia con molto più sbilanciamento di te – in questa proposta paradossale di una solidarietà d’amicizia, alla quale però solo lui è capace di esser fedele. È lui l’innamorato che cerca appassionatamente di conquistarti! E così subito appare che l’amore di Dio – la sua voglia di Alleanza eterna con noi – è eccessivo... per i nostri contenitori fragili e timorosi di esserne troppo coinvolti e sconvolti. Questo racconto incombe sulla nostra chiesa (nel suo lungo percorso) – come sulla nostra storia personale e comunitaria – almeno da Costantino imperatore in poi!. Se questa “parola” è, infatti, la discriminante esemplare della nostra appartenenza o disappartenenza al Regno, a noi sembra di fatto una favola degli entusiasmi iniziali – una cosa un po’ irreale – piuttosto che un’indicazione autorevole e sicura (pratica!), come sembrerebbe indicare Gesù. Ma per nostra fortuna se ne sono accorti subito gli apostoli stessi, i quali, prima stupefatti, poi “enormemente” sbigottiti, si domandavano fra loro: allora, chi può essere salvato?... E così hanno provocato un chiarimento indubbiamente radicale e garantito, ma che ancora più ha aggravato e appesantito la nostra situazione di inadeguatezza: “impossibile agli uomini”, parola di Gesù stesso! Possibile solo a Dio, dunque! – è una cosa divina – e affare suo. Quanti saremmo oggi in questa “sua” chiesa, se all’entrata, ci avessero sottoposti a questo criterio? È vero che la Chiesa non è il Regno, ma dovrebbe almeno esserne l’ostetrica, per spingerci una buona volta a rinascere, a seguire davvero Gesù! O non sarà proprio per questo dato di fatto – della rassegnata ma lucida impossibilità a seguire il Regno – che siamo ricchi stracolmi di beni e di vantaggi non regalati ai poveri? E deleghiamo questa “possibilità di conquistarci quaggiù la vita eterna” ai profeti inascoltati del Regno, così che poi tutto il nostro rapporto, personale e comunitario, con Gesù. ne rimane sfilacciato e svuotato – immiserito e avvelenato com’è dagli infiniti condizionamenti dei nostri beni “irrinunciabili”.
Tra noi e il Signore (o il suo Regno!) ci stanno di mezzo i poveri … e i nostri beni – alternativi! Ponte o barriera! Infatti, ecco il dilemma drammatico: se vuoi rispondere all’amore con il quale il Signore ti ha fissato: una cosa sola ti manca: và, vendi quello che hai e dállo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e séguimi. Non si ratta di una nuova legge o di un altro comandamento, sconosciuto prima! Se però i beni sono il tuo tesoro, allora, con più o meno compromessi, indietreggi nel cammino verso Gesù perchè questo tesoro rispunta nel cuore come la tua vera sicurezza palpabile e misurabile, irrinunciabile – e quindi svuoti l’alternativa di “seguire Gesù” di ogni spessore. Non puoi seguire due padroni... e allora diventi sempre più schizofrenico. È la prassi normale, felpata e pasticciata, della nostra chiesa e delle nostre comunità (oltre che personale), rimediata poi con elemosine e surrogati caritativi successivi, per anestetizzare il rimorso di eludere un vangelo “eccessivo”. Il “cercatore della salvezza” – che pure parte sincero – si accorge amaramente che, a star troppo vicino ai suoi beni, si allontana dal Signore, e viceversa – anche se nella ingenuità dell’entusiasmo giovanile prima “correva verso di lui”. Per avvicinarlo davvero a sé, Gesù lo provoca a dare i suoi beni ai poveri, perché questi abitano sempre nei dintorni del Regno. I poveri non sono subito “Gesù”. Ma dalla loro parte è facile venire presso Gesù, per seguirlo. Perché l’impedimento inconsapevole verso il Signore erano proprio i “molti beni” – e i poveri sono il luogo giusto dove spenderli. Fuori di metafora, la logica o la legge fondamentale della nostra sussistenza economica (che vuol dire la “legge della nostra casa”: alimentare, parentale, affettiva, finanziaria, ideologica, religiosa…) è la difesa strenua del possesso dei beni, con la conseguente inevitabile rapina competitiva dei concorrenti. La nuova “legge di casa”, (l’economia del Regno), alla quale ci chiama il Signore, è invece la logica del dono! “Quello che hai, dallo ai poveri!”. Qui si rivela il tranello intrinseco ad ogni ricerca religiosa: persino di un galantuomo, credente e pio, che però non cercava la salvezza (la vita eterna) come dono del Padre, ma soltanto come la prosecuzione eterna del suo bene totale, l’assicurazione “casco” su sé e i suoi beni! Appena ne sente le condizioni improrogabili, proclamate subito chiarissime dal Signore – per avere la vita eterna bisogna staccarsi dai beni! ...lui almeno capisce che ogni altro aggiustamento è ipocrita! Se ne andò rattristato.
Avvicinarsi al Signore vuol dire dunque avvicinarsi al “suo modo di essere”… e il “suo modo di essere” è quello dei poveri: abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo... (Fil 2,5ss). Dunque “la logica del dono” proposta a chi vuol seguire Gesù, non è frutto di una pur lodata osservanza morale, ma è una condizione “evangelica” di un altra qualità! Chi accoglie con tutto il suo cuore il vangelo, può possedere dei beni e mantenerli, ma finirà per svuotarsene... quando storicamente incontra chi non li ha, quando dovrà schierarsi concretamente per il Regno: perché allora scatterà nel suo cuore la scelta preferenziale: niente mai anteporre a Gesù, al suo vangelo e ai poveri in cui egli vive. Non per dovere, ma perché così ha fatto Gesù – anzi così è Gesù! Solo così lo si incontra, a livello vitale, non psichico, non immaginario. Il resto è religiosità alienante, devozione vuota, fonte di tristezza inguaribile – perché ammalata dall’infezione della dis/umanizzazione dell’altro, cui io assisto senza personalmente compromettermi. La tristezza è anche la conferma che non si può contattare Gesù, senza passare per di qua! Se invece si passa per di qua, tutto ritorna nel circolo del dono o dell’amore condiviso, che risana le parentele egocentriche ed esclusive, le proprietà discriminanti e recintate… E dunque, “casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi” – i nostri beni esistenziali! – ” ridiventano (a causa mia e a causa del vangelo), il luogo gioioso o il nido aperto, dove crescere, donarsi ed essere custoditi.
“Gesù Cristo è il centro del Regno di Dio, il centro di tutta la storia della salvezza, il centro di ogni vita di discepolo. Ma non si tratta del nome “Gesù Cristo”, bensì della realtà. Ora, questa realtà di Cristo si manifesta soltanto a chi vive in lui, con lui, facendo la stessa esperienza umana. Per questo c’è una centralità della povertà come accesso alla centralità di Gesù Cristo”. [José Comblin, Le sfide di Cristiani del XXI secolo]
Il “Patto delle catacombe” per una Chiesa serva e povera
Il 16 novembre del 1965, pochi giorni prima della chiusura del Vaticano II, una quarantina di padri conciliari hanno celebrato una Eucaristia nelle catacombe di Domitilla, a Roma, chiedendo fedeltà allo Spirito di Gesù. Dopo questa celebrazione, hanno firmato il “Patto delle Catacombe”.
Il documento è una sfida ai “fratelli nell’Episcopato” a portare avanti una “vita di povertà”, una Chiesa “serva e povera”, come aveva suggerito il papa Giovanni XXIII.
I firmatari – fra di essi, molti brasiliani e latinoamericani, poiché molti più tardi aderirono al patto – si impegnavano a vivere in povertà, a rinunciare a tutti i simboli o ai privilegi del potere e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale. Il testo ha avuto una forte influenza sulla Teologia della Liberazione, che sarebbe sorta negli anni seguenti.
Uno dei firmatari e propositori del Patto fu dom Helder Câmara, il cui centenario della nascita è stato celebrato il 7 febbraio. Ecco il testo:
Noi, vescovi riuniti nel Concilio Vaticano II, illuminati sulle mancanze della nostra vita di povertà secondo il Vangelo; sollecitati vicendevolmente ad una iniziativa nella quale ognuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la presunzione; in unione con tutti i nostri Fratelli nell’Episcopato, contando soprattutto sulla grazia e la forza di Nostro Signore Gesù Cristo, sulla preghiera dei fedeli e dei sacerdoti della nostre rispettive diocesi; ponendoci col pensiero e la preghiera davanti alla Trinità, alla Chiesa di Cristo e davanti ai sacerdoti e ai fedeli della nostre diocesi; nell’umiltà e nella coscienza della nostra debolezza, ma anche con tutta la determinazione e tutta la forza di cui Dio vuole farci grazia, ci impegniamo a quanto segue:
1. Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende. Cfr. Mt 5,3; 6,33s; 8,20.
Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti), nelle insegne di materia preziosa (questi segni devono essere effettivamente evangelici). Cf. Mc 6,9; Mt 10,9s; At 3,6. Né oro né argento.
Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca, ecc.; e, se fosse necessario averne il possesso, metteremo tutto a nome della diocesi o di opere sociali o caritative. Cf. Mt 6,19-21; Lc 12,33s.
Tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione finanziaria e materiale nella nostra diocesi ad una commissione di laici competenti e consapevoli del loro ruolo apostolico, al fine di essere, noi, meno amministratori e più pastori e apostoli. Cf. Mt 10,8; At. 6,1-7.
Rifiutiamo di essere chiamati, oralmente o per scritto, con nomi e titoli che significano grandezza e potere (Eminenza, Eccellenza, Monsignore…). Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di Padre. Cf. Mt 20,25-28; 23,6-11; Jo 13,12-15.
Nel nostro comportamento, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo quello che può sembrare un conferimento di privilegi, priorità, o anche di una qualsiasi preferenza, ai ricchi e ai potenti (es. banchetti offerti o accettati, nei servizi religiosi). Cf. Lc 13,12-14; 1Cor 9,14-19.
Eviteremo ugualmente di incentivare o adulare la vanità di chicchessia, con l’occhio a ricompense o a sollecitare doni o per qualsiasi altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare i loro doni come una partecipazione normale al culto, all’apostolato e all’azione sociale. Cf. Mt 6,2-4; Lc 15,9-13; 2Cor 12,4.
Daremo tutto quanto è necessario del nostro tempo, riflessione, cuore, mezzi, ecc., al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi laboriosi ed economicamente deboli e poco sviluppati, senza che questo pregiudichi le altre persone e gruppi della diocesi. Sosterremo i laici, i religiosi, i diaconi o i sacerdoti che il Signore chiama ad evangelizzare i poveri e gli operai condividendo la vita operaia e il lavoro. Cf. Lc 4,18s; Mc 6,4; Mt 11,4s; At 18,3s; 20,33-35; 1Cor 4,12 e 9,1-27.
Consci delle esigenze della giustizia e della carità, e delle loro mutue relazioni, cercheremo di trasformare le opere di “beneficenza” in opere sociali fondate sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze, come un umile servizio agli organismi pubblici competenti. Cf. Mt 25,31-46; Lc 13,12-14 e 33s.
Opereremo in modo che i responsabili del nostro governo e dei nostri servizi pubblici decidano e attuino leggi, strutture e istituzioni sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo armonico e totale dell’uomo tutto in tutti gli uomini, e, da qui, all’avvento di un altro ordine sociale, nuovo, degno dei figli dell’uomo e dei figli di Dio. Cf. At. 2,44s; 4,32-35; 5,4; 2Cor 8 e 9 interi; 1Tim 5, 16.
Poiché la collegialità dei vescovi trova la sua più evangelica realizzazione nel farsi carico comune delle moltitudini umane in stato di miseria fisica, culturale e morale – due terzi dell’umanità – ci impegniamo:
-a contribuire, nella misura dei nostri mezzi, a investimenti urgenti di episcopati di nazioni povere;
-a richiedere insieme agli organismi internazionali, ma testimoniando il Vangelo come ha fatto Paolo VI all’Onu, l’adozione di strutture economiche e culturali che non fabbrichino più nazioni proletarie in un mondo sempre più ricco che però non permette alle masse povere di uscire dalla loro miseria.
2. Ci impegniamo a condividere, nella carità pastorale, la nostra vita con i nostri fratelli in Cristo, sacerdoti, religiosi e laici, perché il nostro ministero costituisca un vero servizio; così:
-ci sforzeremo di “rivedere la nostra vita” con loro;
-formeremo collaboratori che siano più animatori secondo lo spirito che capi secondo il mondo;
-cercheremo di essere il più umanamente presenti, accoglienti…;
-saremo aperti a tutti, qualsiasi sia la loro religione. Cf. Mc 8,34s; At 6,1-7; 1Tim 3,8-10.
3. Tornati alle nostre rispettive diocesi, faremo conoscere ai fedeli delle nostre diocesi la nostra risoluzione, pregandoli di aiutarci con la loro comprensione, il loro aiuto e le loro preghiere.
Aiutaci Dio ad essere fedeli.
In ricordo di dom Helder Câmara
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