Le letture che la Chiesa ci propone in questa trentunesima domenica del tempo ordinario, non sono quelle consuete, riportate cioè dal messale alla voce “XXXI domenica del tempo ordinario”, bensì quelle che fanno riferimento alla festa di tutti i santi. Tale solennità infatti – che quest’anno ricorre proprio di domenica – è una delle poche, ritenute talmente importanti, da sostituire l’abituale liturgia domenicale.
Tale importanza, è presto spiegata, ricordando come questa festa implichi la memoria di tutti i santi che la storia della Chiesa ha prodotto, dunque la convocazione di tutto l’insieme di “uomini perfetti” che 2000 e più anni di vicenda cristiana hanno visto sfilare sul palcoscenico dell’umanità.
Questa ampia schiera di gente riuscita – le cui gesta e irreprensibilità sono ben note a tutti – suscita immediatamente grande reverenza e timoroso rispetto, soprattutto perché richiamano – almeno per come li presentano gli agiografi – toni eroici e note sovra umane (tipo super-man, il super-uomo appunto) per noi assolutamente impensabili e di certo irraggiungibili…
Paradossalmente però, a fronte di questa grande ammirazione, proprio la loro irraggiungibilità, li rende in qualche modo “fuori dalla realtà”, superflui, quasi inutili: se non possiamo far molto altro che venerarli, perché somigliargli è difficile ed eguagliarli impossibile, ad un certo punto non resta che appenderli a qualche muro, metterli su qualche mensola e lasciarli lì a prender polvere…
Rispetto alle nostre storie contorte e travagliate, problematiche e a volte tragiche, faticose e indaffarate, hanno infatti davvero poco da dire…
Inoltre – sempre che questo possa essere detto di un santo, anzi di tutti i santi – hanno il piccolo difetto di non suscitare nemmeno più grandi entusiasmi… Non solo la loro irraggiungibilità ha fatto rinunciare i più a incamminarsi sulla via della loro sequela, ma – tra le nuove generazioni – le loro scelte risultano quasi incomprensibili, le loro storie strane… fanno quasi ridere e di certo non accendono l’ardore di imitarli in nessuno…
Sarà colpa dei santi? Incartapecoriti nel loro perbenismo?
O forse sarà colpa di quel lento, ma progressivo scivolamento verso l’imbalsamazione affettiva che le loro storie, in realtà pienamente umane, carnali, fatte di sudore e sangue, come le nostre, hanno lentamente subito quando si è deciso di innalzarli agli onori degli altari?
Perché, stando all’effettività della storia, uno non diventa mai santo da solo: e non semplicemente nel senso che la santità è un dono di Dio, che uno per diventare santo deve aver avuto genitori santi, ecc… ecc… ecc… Ma molto più concretamente, perché, per finire sul calendario, ciascun santo ha avuto bisogno di almeno un altro uomo che gli riconoscesse questa sua santità.
In altre parole: chi ha vissuto accanto a quegli uomini e a quelle donne che noi domenica ricordiamo come i santi e le sante della storia della Chiesa, non può averne ricevuto il rimando asettico che spesso le loro storie – riviste e corrotte da chi le ha redatte – suscitano in noi. Questi sono uomini e donne capaci di dare la vita, di pensare modi inediti di vivere il vangelo, di scontrarsi con le gerarchie, di essere lasciati soli, di smuovere la coscienza di intere generazioni (pensiamo all’immensa diffusione della proposta di vita di san Francesco, con lui ancora vivente; o al pullulare di monasteri carmelitani riformati con santa Teresa di Gesù; o all’adesione alla cura per i giovani suscitata da san Giovanni Bosco, per citare solo i più famosi)… Nelle diversissime modalità della loro santità, questi sono quindi uomini e donne che hanno creato intorno a sé fervore e passione, ardore e coraggio, amore e dedizione… almeno in quelle persone che – alla loro morte – hanno iniziato a dire: “Questo merita davvero di essere additato come esempio di vita cristiana”…
Tra l’altro – come sta a ricordarci il vangelo delle beatitudini di Mt 5 («Beati i poveri in spirito… Beati gli afflitti… Beati i perseguitati per causa della giustizia) – non perché risultassero “riusciti” (quanti sono morti soli, uccisi, senza vedere i frutti del loro spendersi… quanti hanno indossato stracci, dormito per strada, saltato i pasti… quanti sono stati incompresi, reietti, processati…), ma perché – guardati dall’impensabile sguardo amoroso di Dio – hanno iniziato a guardare con gli stessi occhi anche la gente e il mondo… e qualcuno se n’è accorto…
Infatti, quando Gesù chiama beati quelli che ha di fronte e attribuisce tale “titolo” ai diseredati della terra, sta dicendo qualcosa di molto lontano da quello che le rivisitazioni e agiografie pie dei santi ci insegnano… e sta invece dicendo qualcosa a cui le vite reali di questi uomini e donne che noi chiamiamo santi, si approssima molto: nelle beatitudini infatti Gesù sta presentando il mondo come Dio lo vede…
Il problema infatti sta tutto nella logica che conduce a chiamare uno “santo” o “beato”. È evidente che se per me “beato” è uno che ha tanti soldi, sto usando una logica diversa che se chiamo “beato” uno che di soldi non ne ha nemmeno mezzo… così come è diversa la prospettiva di chi chiama “santo” uno che passa l’esistenza a mortificare le sue passioni, rispetto a quella di chi attribuisce tale qualifica a uno che si dedica ai drammi dei derelitti della terra…
In questo senso, non possono avere alle spalle la stessa logica, i santi presentati nei nostri calendari, con i beati che sta individuando Gesù sulla montagna… Ma la domanda vera è: i santi veri – non il racconto della loro vita che ne hanno fatto poi – assomigliano di più alla logica di Gesù o a quella del calendario? E soprattutto perché si è preferito portare avanti la prospettiva “da calendario”, nel raccontare le loro vite, piuttosto che quella evangelica, che invece incarnavano (preferenza che nessuno può negare e che sarebbe immediatamente dimostrabile uscendo per strada e intervistando sul concetto di “santità/beatitudine” le prime persone che si incontrano)? Perché, cioè, si è preferito l’ideale stoico a quello del discorso della montagna?
Forse perché ad un certo punto insegnare che per Gesù (dunque per Dio) “beati” fossero gli incompiuti è sembrato davvero troppo paradossale; troppo difficile da comprendere; troppo immorale da proporre… si è di certo pensato che Gesù, lì, ragionasse “per iperbole”, che usasse cioè queste categorie estreme, per dare invece ben più applicabili consigli morali… e pian piano si è iniziato a depotenziare – quasi senza accorgersene – il carattere eversivo della proposta evangelica.
Gesù infatti, con quel suo discorso, ben più che dare consiglietti morali, voleva invece rompere con la logica mondana, per cui i “beati” sono i ricchi; ma anche con la logica religiosa, per cui i “beati” sono gli irreprensibili, gli stoici, gli im-passibili, i pii… esattamente quelli che invece tutti abbiamo presenti perché continuamente ripresentati su quelli che – non a caso – si chiamano “santini”… quegli uomini e donne con l’aureola, il giglio bianco e le mani congiunte in preghiera…
Gesù cioè, sia verso il mondo, sia verso la religione (che è solo una riproposizione indorata/incensata della logica del mondo), ha rotto con la prospettiva per cui “beato” è chi riesce a tirarsi fuori dalla condizione umana: o perché – mondanamente – è fuori dalla viscosità fangosa in cui stanno gli altri (i ricchi, i potenti, i dominatori…); o perché – spiritualmente – si “elevano”, cioè si tolgono dalla condizione in cui tutti gli altri si trovano (gli asceti, gli eremiti, i sacerdoti…).
Per lui piuttosto, “beati”, sono coloro che nella loro condizione umanamente umana ci stanno; coloro che non vogliono tirarsi fuori da ciò che sono; che non vogliono essere ciò che non sono; essere dei per dominare sugli altri. Ma che riconoscono che nel loro essere uomini e donne non manca niente per essere beati!
E Gesù ha creduto talmente questa cosa, che lui –che era Dio – si è immerso in questa umanità umana… insegnando all’uomo che per fare l’uomo non c’è bisogno di diventare dio; e che “essere Dio” – quello vero – vuol dire far essere l’uomo, uomo!
E i santi sono santi precisamente perché hanno colto ed incarnato questo! Non perché erano “santini”, come voleva ridurli una certa prospettiva ecclesiastica, che in questo modo disinnescava il detonatore della proposta evangelica di Gesù che metteva in discussione il loro essere fuori dalla storia, sopra gli altri; ma perché – immersi nella storia del loro tempo – l’hanno saputa guardare e abitare con lo sguardo del Padre.
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