Non sta a me concedere i primi posti …
I tre testimoni privilegiati dei momenti più intensi della manifestazione di Gesù – Pietro, Giovanni e Giacomo, che vedono la resurrezione della figlia di Giairo, la trasfigurazione, l’agonia nell’orto – non ne capiscono nulla, totalmente impregnati come sono della logica di “potenza e competizione” del mondo – come tutti. Marco ci racconta tre tentativi di Gesù di spiegare con sempre maggior trepidazione ed angoscia, almeno agli amici più cari, il vero mistero della sua vita, che si stava ormai concludendo. Dopo il primo tentativo, c’è lo scontro con Pietro. Dopo il secondo, c’è la totale incomprensione dei discepoli, che blocca in loro ogni voglia di domande e spiegazioni. Dopo il terzo, ecco l’esito: una specie di complotto dei due fratelli per essere primi di tutti gli altri, vicini al suo trono. Questa volta Gesù reagisce dolcemente, forse ormai convinto e consegnato al suo destino di totale solitudine, incomprensibile davvero non solo alla logica del mondo, ma anche ai suoi poveri amici, incapaci, adesso, di fargli compagnia – se questo vuol dire mangiare lo stesso pane, bere lo stesso calice, avere lo stesso battesimo. Capiranno dopo … È un Dio troppo diverso (dal loro!) quel Padre che l’ha mandato nel mondo. Un Padre nel quale, appunto, Gesù è rimasto l’unico a credere. Un Dio troppo diverso dal dio che ci hanno insegnato e che elaboriamo continuamente dentro di noi … anche dopo il Vangelo, a costo di manipolare e stropicciare continuamente la sua esperienza e le sue parole.
La maturazione della esperienza umana di Gesù, avvolta nel mistero della sua preghiera e del suo dialogo vitalendi totale dedizione e di libera adesione al Padre, dentro la storia che viveva, vicenda dopo vicenda, arriva al suo culmine, con una consapevolezza ormai compiuta del significato e della destinazione della sua vita, nel confronto con le profezie delle Scritture, che “parlavano di lui” – scrivendogli nel cuore, con tracce di gioia e di dolore, di adesione e di angoscia, la sua identità – la drammatica “gloria” che il Padre gli ha preparato. Con quanto struggimento Gesù si sarà specchiato nell’eletto – il servo del Signore – venuto per salvare (giustificare) i fratelli, diventato reietto e disprezzato, uomo dei dolori che ben conosce il patire… Lo Spirito, che l’aveva “spinto” (Mc 1,12) nel deserto, gli fa vedere ora come cresce una radice in terra arida, lungo un percorso umano sconvolgente anche per lui. Il cammino verso Gerusalemme, gli farà soffrire nella storia degli uomini, l’irrepetibile esplosiva intrecciata identità dei tre interlocutori del dramma della nostra salvezza (Lui, il Padre e lo Spirito). Un cammino di eventi, di delusioni, di intuizioni, di spiegazioni infruttuose… illuminato però dalla preghiera e dalla sua comprensione sempre più viva e drammatica del “compimento” delle Scritture. Sarà proprio questa l’esperienza centrale della sua vita: un’esperienza drammatica che gli fa comprendere e accogliere il compimento dell’Alleanza annunciato dai profeti. Questa esperienza vorrà poi insegnare ai suoi discepoli perché la possano vivere e ripetere anche loro, per sapere e capire chi è lui – e chi sono loro – e, quindi, come seguirlo: “Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni” (Lc 24,44ss).
Ma perché era (ed è!) impossibile capire Dio? Perché Gesù stesso l’ha capito “con forti grida e lacrime…”, “essendo stato lui stesso provato in ogni cosa”? Perché Dio non si può capire: c’è un solo modo per “capirlo”: affidarsi totalmente a lui. Questa è l’esperienza di Gesù – del suo cammino verso Gerusalemme, della sua agonia nel Getsemani, del suo corpo appeso alla croce. Invece noi abbiamo dentro – incancellabile e irreprimibile – una diversa domanda a Dio. É la domanda di Giovanni e Giacomo – qualunque nome abbia dio nelle varie culture: noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo! Un Dio che esaudisca finalmente i miei desideri é “il nostro Dio”! Lo scontro decisivo tra il desiderio dell’uomo e il desiderio di Dio si fa improcrastinabile di fronte alla croce del Signore. L’uomo, infatti, non è! Deve ancora diventare ciò che vuol essere – e vuol essere il primo. Non è una colpa: è la sua natura di bisogno, anche se questa fame lo fa diventare competitivo e spesso aggressivo e oppressore. Gli è congeniale un Dio dell’Onnipotenza, che giustifichi e protegga il suo progetto di primato su tutti, e questa è la sua religione. Questa religione si è lacerata sulla croce! Si è scontrata con un Dio che gli rovescia l’altare e la teologia – e finisce reietto e disprezzato sul legno maledetto. A questo punto non può che dirgli, con la parola dei teologi sotto la croce: scendi di lì, se no, non sei più il mio dio! Pietro, Giacomo, Giovanni … ogni uomo reagisce così, in modo più o meno mascherato. Fin dalle radici della “nostra storia, infatti, “rifiutiamo questo Dio, che non risponde alle nostre attese.
Adamo ed Eva hanno creduto al serpente e si sono affidati all’immagine suggerita da lui: non alla Parola, che dice loro cosa mangiare, cioè come essere uomini – come soddisfare il desiderio insaziabile che li fa uomini! E subito la competizione conflittuale originaria ha avvelenato le grandi relazioni: uomo-donna, uomo-mondo, uomo-fratello…
Il corpo di Cristo inchiodato alla croce è … il luogo dove va a finire Dio nella storia. È l’idea che ha Dio di sé nella storia (dare la sua vita in riscatto per molti!). È l’arresto dell’immagine di onnipotenza propria dell’uomo. Ogni altra nostra idea di Dio che non si rimodula alla luce della croce è fuorviante, o menzognera – o fuga, comunque, dalla Parola che si rivolge al nostro desiderio. É questo il trono di “gloria”, di fianco al quale ogni discepolo è chiamato a sedersi, a destra o a sinistra, più o meno vicino, secondo il disegno del Padre.
Se l’immagine che l’uomo ha di Dio non si spezza contro questa manifestazione del Dio/Parola, non accederemo mai all’idea vera di “uomo” – come invece prevede la profezia di Gesù: “Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti».”.
Il servizio – esser schiavo di tutti – è l’asse centrale della fede di Gesù, e quindi di chi vuole ascoltarlo e seguirlo. É l’unico modo per conoscere il Padre, il Dio di cui Gesù ci ha rivelato i segreti. “Per affrontarli seriamente dobbiamo porci un problema preliminare. La vera conoscenza dei misteri di Dio passa attraverso la via dell’umiltà, cioè attraverso la partecipazione alla tribolazione degli umili, attraverso il rifiuto della via degli «intelligenti» e degli «onesti». Per poter entrare nella conoscenza del mistero di Dio vale più una reale, pratica partecipazione alla tribolazione degli esclusi che non anni di studio teologico. Se voi passate un’ora sola ad addossarvi la disperazione di un disperato, voi siete già entrati nel mistero di Dio, la cui conoscenza non è di tipo concettuale, ma vitale. I veri preamboli della fede non sono di tipo intellettuale, come insegnavano a me. I preamboli erano questi: che Dio esiste, che l’uomo è libero (c’è il libero arbitrio) e che l’anima è immortale. Partendo da essi si arriva a dimostrare che Cristo è Dio. È una via intellettualistica maliziosa, perché evidentemente vi sono uomini semplici che non possono sapere che cos’è l’induzione e la deduzione. Chi possiede questi strumenti logici si accaparra perfino la conoscenza di Dio. Non è questa la via evangelica. La via evangelica è quella della partecipazione alla sofferenza degli umili. Il passare del tempo con la gente tribolata è conoscenza di Dio. Capire che in questo mondo le persone più delicate, più pure, sono le più perseguitate, le più reiette, e i mascalzoni hanno successo, è un primo passo, il primo preambolo per conoscere Dio (E.BALDUCCI, l’uomo planetario).
C’è dunque un primato, una competizione evangelica (una politica del Vangelo) a cui Gesù esorta i suoi amici, e nella quale ci ha preceduti come capocordata (Eb 2,10), perché è storicamente l’unica forma di amore gratuito: infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve (Lc 22,27). “Il figlio dell’uomo è venuto non per essere servito, ma per servire e dare la vita in riscatto per molti”. Cosa vuol dire “in riscatto per molti”?
«Tu hai fatto del male? Io pagherò al posto tuo» diceva Gandhi… Così ci ripete Gesù Cristo da duemila anni (...) chissà perché noi uomini siamo così sordi (...) Certo la sua voce è spesso piccola e silenziosa (...) ma poi Lui è nella celletta della nostra anima e non dovrebbe essere così difficile scendere laggiù ed abitare con Lui. Parole? No. Verità. Realtà.
L’uomo non buono, l’uomo incapace di perdono, l’uomo che ama ferire, l’uomo che vuole la vendetta, l’uomo falso non sono uomini cattivi, incapaci di perdono, falsi necessariamente. Lo sono perché non hanno incontrato sul loro cammino una creatura capace di comprenderli, di amarli, di farsi carico delle loro colpe... [Annalena Tonelli]
SU SPIRITUALITA’ E POLITICA
(da un incontro con don Giuseppe Dossetti : un cristiano in politica)
Non si può sostenere una compatibilità di principio tra esperienza di fede e politica, nè una incompatibilità assoluta; ci può essere invece un servizio episodico, più o meno lungo, ma sempre limitato nell’arco dell’esistenza. La realtà dei politici di professione, che sono tali da trenta o quarantanni, credo che non la si possa ammettere. Non si tratta di una ragione moralistica, ma di un princi¬pio. […]
La vita politica è una vita molto dispersiva. Ho fatto una grande fatica per tenermi in mano. Sono episodi personali, ma che parlano, proprio per questo, da sè. La vita politica è un servizio totale, globale, estenuante, con orari impossibili; anche se si disciplina seriamente, richiede una disponibilità ad lavoro che è logorante, logorante lo spirito. Accadeva, faccio un esempio, che il buon Gonella fissasse la direzione del partito alle dieci di sera; si cominciava e si andava avanti sfiniti, fino alla quattro del mattino […]. Ero estenuato anche dal merito dei problemi trattati. Al mattino andavo a messa, l’unica cosa che potevo fare era di piantarmi lì, nel banco, e ascoltare. Magari ascoltavo anche due o tre messe, ma proprio come un somaro, come il giumento del salmo. Pur tenendomi in mano così, non potevo resistere per molto tempo; a meno di non prendere tutto con una superficialità suprema. Allora si può vivere anche degli anni in politica, ma non si fa più politica.
Il pensiero, la responsabilità, il tormento, il ritorno continuo sui problemi supremi, tutto ciò si incrocia, si accavalla. Il Signore si può servire per un momento di noi. Dobbiamo appunto pensare che Lui fa come con i limoni spremuti, ci butta poi nel cestino. A questo dobbiamo essere prontissimi. La politica, per contro, educa a un bisogno di fare, a una necessità di comandare, ad una mentalità che sancisce il primato dell’azione e della gestione, che è contraddittoria con una vita spirituale comunque concepita. Però nonostante tutto dico: non c’è incompatibilità di principio tra fede e politica, può accadere che a volte siamo chiamati a fare politica, in una circostanza, in un determinato momento, per un certo breve periodo, episodicamente. È un servizio che in un certo momento può esserci chiesto, purché noi siamo ben convinti che il servizio deve poi durare poco. Ci sono amici in parlamento, che hanno pensato il loro servizio, anche per confidenze che ho avuto, come un servizio quarantennale.
Rispetto alla grande battaglia che si combatteva in quegli anni, io ho perduto. Non è questo che conta. Io ritengo che, per certi aspetti, anche politici, quello che è stato fatto, abbia avuto una certa efficacia in un certo momento. Non è stata la delusione per l’insuccesso personale a convincermi che dovevo andarmene. Questo l’ho detto più volte, e lo confermo oggi più a ragion veduta. A convincermi che dovevo andarmene sono stati dei giudizi storici su una certa situazione della politica in Italia. Essi non riguardavano soltanto l’inefficacia della politica che si stava facendo e alla quale non credevo di poter consentire. Vedevo già allora con chiarezza dove si poteva andare a finire, perché certi pericoli, che adesso sono diventati delle catastrofi, li avevo visti nettissimamente nel 1946.
Quando ho lasciato l’attività politica nel 1951 ero convinto che non si poteva operare diversamente in quelle condizioni del nostro Paese e del mondo cattolico italiano . L’ostacolo maggiore stava in una certa cattolicità che c’era in Italia; i motivi dell’insuccesso fatale venivano da lì.
Anche nella Chiesa non mi facevo illusioni. Per la mia professione di canonista sapevo cosa era la Chiesa e cosa poteva essere in determinate situazioni. Non c’è stata delusione, neanche lì, neanche nella Chiesa. Ne prendevo atto con semplicità, e non mi stupivo di niente. Di fatto non mi sono mai lamentato con nessuno. La decisione di smettere ogni attività politica è venuta dalla convinzione che bisognasse operare più profondamente, a monte, in una cultura del tutto nuova e in una vita cristiana coerente. Poi il passaggio è stato radicalizzato; è passata anche la cultura e rimasta solo la vita cristiana.
Spesso questo rapporto tra fede e politica diventa lacerante. Capisco come da una parte si senta una responsabilità immediata che non si può lasciare, dall’altra ci sia l’urgenza di una scelta diversa. Anche io, quando sono stato membro della commissione della Costituente, ho sentito questo bisogno. Fatta la Costituzione me ne volevo andare, però ho ricevuto l’imposizione di proseguire, di rinnovare il mandato, che non ho tuttavia portato a termine.
Viviamo in una crisi epocale. Io credo che non siamo ancora al fondo, neppure alla metà di questa crisi. Sempre più ci sto pensando. Sono convinto che lo scenario culturale, intellettuale, politico non ha ancora esplicitato tutte le sue potenzialità. Noi dobbiamo considerarci sempre di più alla fine della terza guerra mondiale; una guerra che non è stata combattuta con spargimento di sangue nell’insieme, ma che pure c’è stata in questi decenni.[…] Il rimescolio dei popoli, delle culture, delle situazioni è molto più complesso di quello che non fosse nel 1918. È un rimescolio totale. In più c’è la grande incognita dell’Islam, una incognita in qualche modo imprevedibile. [… ] Siamo dinnanzi all’esaurimento delle culture. Non vedo nascere un pensiero nuovo né da parte laica, né da parte cristiana. Siamo tutti immobili, fissi su un presente, che si cerca di rabberciare in qualche maniera, ma non con il senso della profondità dei mutamenti. Non è catastrofica questa visione, è reale; non è pessimista, perché io so che le sorti di tutti sono nelle mani di Dio. La speranza non vien meno, la speranza che attraverso vie nuove e imprevedibili si faccia strada l’apertura a un mondo diverso, un pochino più vivibile, certamente non di potere. Questa speranza, globale in un certo senso, è speranza per tutto il mondo, perché la grazia di Dio c’è, perché Cristo c’è , e non la localizza in niente, tanto meno in noi.
L’unico grido che vorrei fare sentire oggi è il grido di chi dice: aspettatevi delle sorprese ancora più grosse e più globali e dei rimescolii più totali, attrezzatevi per tale situazione. Convocate delle giovani menti che siano predisposte per questo e che abbiano, oltre che l’intelligenza, il cuore, cioè lo spirito cristiano. Non cercate nella nostra generazione una risposta , noi siamo veramente solo dei sopravvissuti.
(Brani di un’intervista che si trova ora in BAILAMME n. 18-1
I tre testimoni privilegiati dei momenti più intensi della manifestazione di Gesù – Pietro, Giovanni e Giacomo, che vedono la resurrezione della figlia di Giairo, la trasfigurazione, l’agonia nell’orto – non ne capiscono nulla, totalmente impregnati come sono della logica di “potenza e competizione” del mondo – come tutti. Marco ci racconta tre tentativi di Gesù di spiegare con sempre maggior trepidazione ed angoscia, almeno agli amici più cari, il vero mistero della sua vita, che si stava ormai concludendo. Dopo il primo tentativo, c’è lo scontro con Pietro. Dopo il secondo, c’è la totale incomprensione dei discepoli, che blocca in loro ogni voglia di domande e spiegazioni. Dopo il terzo, ecco l’esito: una specie di complotto dei due fratelli per essere primi di tutti gli altri, vicini al suo trono. Questa volta Gesù reagisce dolcemente, forse ormai convinto e consegnato al suo destino di totale solitudine, incomprensibile davvero non solo alla logica del mondo, ma anche ai suoi poveri amici, incapaci, adesso, di fargli compagnia – se questo vuol dire mangiare lo stesso pane, bere lo stesso calice, avere lo stesso battesimo. Capiranno dopo … È un Dio troppo diverso (dal loro!) quel Padre che l’ha mandato nel mondo. Un Padre nel quale, appunto, Gesù è rimasto l’unico a credere. Un Dio troppo diverso dal dio che ci hanno insegnato e che elaboriamo continuamente dentro di noi … anche dopo il Vangelo, a costo di manipolare e stropicciare continuamente la sua esperienza e le sue parole.
La maturazione della esperienza umana di Gesù, avvolta nel mistero della sua preghiera e del suo dialogo vitalendi totale dedizione e di libera adesione al Padre, dentro la storia che viveva, vicenda dopo vicenda, arriva al suo culmine, con una consapevolezza ormai compiuta del significato e della destinazione della sua vita, nel confronto con le profezie delle Scritture, che “parlavano di lui” – scrivendogli nel cuore, con tracce di gioia e di dolore, di adesione e di angoscia, la sua identità – la drammatica “gloria” che il Padre gli ha preparato. Con quanto struggimento Gesù si sarà specchiato nell’eletto – il servo del Signore – venuto per salvare (giustificare) i fratelli, diventato reietto e disprezzato, uomo dei dolori che ben conosce il patire… Lo Spirito, che l’aveva “spinto” (Mc 1,12) nel deserto, gli fa vedere ora come cresce una radice in terra arida, lungo un percorso umano sconvolgente anche per lui. Il cammino verso Gerusalemme, gli farà soffrire nella storia degli uomini, l’irrepetibile esplosiva intrecciata identità dei tre interlocutori del dramma della nostra salvezza (Lui, il Padre e lo Spirito). Un cammino di eventi, di delusioni, di intuizioni, di spiegazioni infruttuose… illuminato però dalla preghiera e dalla sua comprensione sempre più viva e drammatica del “compimento” delle Scritture. Sarà proprio questa l’esperienza centrale della sua vita: un’esperienza drammatica che gli fa comprendere e accogliere il compimento dell’Alleanza annunciato dai profeti. Questa esperienza vorrà poi insegnare ai suoi discepoli perché la possano vivere e ripetere anche loro, per sapere e capire chi è lui – e chi sono loro – e, quindi, come seguirlo: “Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni” (Lc 24,44ss).
Ma perché era (ed è!) impossibile capire Dio? Perché Gesù stesso l’ha capito “con forti grida e lacrime…”, “essendo stato lui stesso provato in ogni cosa”? Perché Dio non si può capire: c’è un solo modo per “capirlo”: affidarsi totalmente a lui. Questa è l’esperienza di Gesù – del suo cammino verso Gerusalemme, della sua agonia nel Getsemani, del suo corpo appeso alla croce. Invece noi abbiamo dentro – incancellabile e irreprimibile – una diversa domanda a Dio. É la domanda di Giovanni e Giacomo – qualunque nome abbia dio nelle varie culture: noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo! Un Dio che esaudisca finalmente i miei desideri é “il nostro Dio”! Lo scontro decisivo tra il desiderio dell’uomo e il desiderio di Dio si fa improcrastinabile di fronte alla croce del Signore. L’uomo, infatti, non è! Deve ancora diventare ciò che vuol essere – e vuol essere il primo. Non è una colpa: è la sua natura di bisogno, anche se questa fame lo fa diventare competitivo e spesso aggressivo e oppressore. Gli è congeniale un Dio dell’Onnipotenza, che giustifichi e protegga il suo progetto di primato su tutti, e questa è la sua religione. Questa religione si è lacerata sulla croce! Si è scontrata con un Dio che gli rovescia l’altare e la teologia – e finisce reietto e disprezzato sul legno maledetto. A questo punto non può che dirgli, con la parola dei teologi sotto la croce: scendi di lì, se no, non sei più il mio dio! Pietro, Giacomo, Giovanni … ogni uomo reagisce così, in modo più o meno mascherato. Fin dalle radici della “nostra storia, infatti, “rifiutiamo questo Dio, che non risponde alle nostre attese.
Adamo ed Eva hanno creduto al serpente e si sono affidati all’immagine suggerita da lui: non alla Parola, che dice loro cosa mangiare, cioè come essere uomini – come soddisfare il desiderio insaziabile che li fa uomini! E subito la competizione conflittuale originaria ha avvelenato le grandi relazioni: uomo-donna, uomo-mondo, uomo-fratello…
Il corpo di Cristo inchiodato alla croce è … il luogo dove va a finire Dio nella storia. È l’idea che ha Dio di sé nella storia (dare la sua vita in riscatto per molti!). È l’arresto dell’immagine di onnipotenza propria dell’uomo. Ogni altra nostra idea di Dio che non si rimodula alla luce della croce è fuorviante, o menzognera – o fuga, comunque, dalla Parola che si rivolge al nostro desiderio. É questo il trono di “gloria”, di fianco al quale ogni discepolo è chiamato a sedersi, a destra o a sinistra, più o meno vicino, secondo il disegno del Padre.
Se l’immagine che l’uomo ha di Dio non si spezza contro questa manifestazione del Dio/Parola, non accederemo mai all’idea vera di “uomo” – come invece prevede la profezia di Gesù: “Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti».”.
Il servizio – esser schiavo di tutti – è l’asse centrale della fede di Gesù, e quindi di chi vuole ascoltarlo e seguirlo. É l’unico modo per conoscere il Padre, il Dio di cui Gesù ci ha rivelato i segreti. “Per affrontarli seriamente dobbiamo porci un problema preliminare. La vera conoscenza dei misteri di Dio passa attraverso la via dell’umiltà, cioè attraverso la partecipazione alla tribolazione degli umili, attraverso il rifiuto della via degli «intelligenti» e degli «onesti». Per poter entrare nella conoscenza del mistero di Dio vale più una reale, pratica partecipazione alla tribolazione degli esclusi che non anni di studio teologico. Se voi passate un’ora sola ad addossarvi la disperazione di un disperato, voi siete già entrati nel mistero di Dio, la cui conoscenza non è di tipo concettuale, ma vitale. I veri preamboli della fede non sono di tipo intellettuale, come insegnavano a me. I preamboli erano questi: che Dio esiste, che l’uomo è libero (c’è il libero arbitrio) e che l’anima è immortale. Partendo da essi si arriva a dimostrare che Cristo è Dio. È una via intellettualistica maliziosa, perché evidentemente vi sono uomini semplici che non possono sapere che cos’è l’induzione e la deduzione. Chi possiede questi strumenti logici si accaparra perfino la conoscenza di Dio. Non è questa la via evangelica. La via evangelica è quella della partecipazione alla sofferenza degli umili. Il passare del tempo con la gente tribolata è conoscenza di Dio. Capire che in questo mondo le persone più delicate, più pure, sono le più perseguitate, le più reiette, e i mascalzoni hanno successo, è un primo passo, il primo preambolo per conoscere Dio (E.BALDUCCI, l’uomo planetario).
C’è dunque un primato, una competizione evangelica (una politica del Vangelo) a cui Gesù esorta i suoi amici, e nella quale ci ha preceduti come capocordata (Eb 2,10), perché è storicamente l’unica forma di amore gratuito: infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve (Lc 22,27). “Il figlio dell’uomo è venuto non per essere servito, ma per servire e dare la vita in riscatto per molti”. Cosa vuol dire “in riscatto per molti”?
«Tu hai fatto del male? Io pagherò al posto tuo» diceva Gandhi… Così ci ripete Gesù Cristo da duemila anni (...) chissà perché noi uomini siamo così sordi (...) Certo la sua voce è spesso piccola e silenziosa (...) ma poi Lui è nella celletta della nostra anima e non dovrebbe essere così difficile scendere laggiù ed abitare con Lui. Parole? No. Verità. Realtà.
L’uomo non buono, l’uomo incapace di perdono, l’uomo che ama ferire, l’uomo che vuole la vendetta, l’uomo falso non sono uomini cattivi, incapaci di perdono, falsi necessariamente. Lo sono perché non hanno incontrato sul loro cammino una creatura capace di comprenderli, di amarli, di farsi carico delle loro colpe... [Annalena Tonelli]
SU SPIRITUALITA’ E POLITICA
(da un incontro con don Giuseppe Dossetti : un cristiano in politica)
Non si può sostenere una compatibilità di principio tra esperienza di fede e politica, nè una incompatibilità assoluta; ci può essere invece un servizio episodico, più o meno lungo, ma sempre limitato nell’arco dell’esistenza. La realtà dei politici di professione, che sono tali da trenta o quarantanni, credo che non la si possa ammettere. Non si tratta di una ragione moralistica, ma di un princi¬pio. […]
La vita politica è una vita molto dispersiva. Ho fatto una grande fatica per tenermi in mano. Sono episodi personali, ma che parlano, proprio per questo, da sè. La vita politica è un servizio totale, globale, estenuante, con orari impossibili; anche se si disciplina seriamente, richiede una disponibilità ad lavoro che è logorante, logorante lo spirito. Accadeva, faccio un esempio, che il buon Gonella fissasse la direzione del partito alle dieci di sera; si cominciava e si andava avanti sfiniti, fino alla quattro del mattino […]. Ero estenuato anche dal merito dei problemi trattati. Al mattino andavo a messa, l’unica cosa che potevo fare era di piantarmi lì, nel banco, e ascoltare. Magari ascoltavo anche due o tre messe, ma proprio come un somaro, come il giumento del salmo. Pur tenendomi in mano così, non potevo resistere per molto tempo; a meno di non prendere tutto con una superficialità suprema. Allora si può vivere anche degli anni in politica, ma non si fa più politica.
Il pensiero, la responsabilità, il tormento, il ritorno continuo sui problemi supremi, tutto ciò si incrocia, si accavalla. Il Signore si può servire per un momento di noi. Dobbiamo appunto pensare che Lui fa come con i limoni spremuti, ci butta poi nel cestino. A questo dobbiamo essere prontissimi. La politica, per contro, educa a un bisogno di fare, a una necessità di comandare, ad una mentalità che sancisce il primato dell’azione e della gestione, che è contraddittoria con una vita spirituale comunque concepita. Però nonostante tutto dico: non c’è incompatibilità di principio tra fede e politica, può accadere che a volte siamo chiamati a fare politica, in una circostanza, in un determinato momento, per un certo breve periodo, episodicamente. È un servizio che in un certo momento può esserci chiesto, purché noi siamo ben convinti che il servizio deve poi durare poco. Ci sono amici in parlamento, che hanno pensato il loro servizio, anche per confidenze che ho avuto, come un servizio quarantennale.
Rispetto alla grande battaglia che si combatteva in quegli anni, io ho perduto. Non è questo che conta. Io ritengo che, per certi aspetti, anche politici, quello che è stato fatto, abbia avuto una certa efficacia in un certo momento. Non è stata la delusione per l’insuccesso personale a convincermi che dovevo andarmene. Questo l’ho detto più volte, e lo confermo oggi più a ragion veduta. A convincermi che dovevo andarmene sono stati dei giudizi storici su una certa situazione della politica in Italia. Essi non riguardavano soltanto l’inefficacia della politica che si stava facendo e alla quale non credevo di poter consentire. Vedevo già allora con chiarezza dove si poteva andare a finire, perché certi pericoli, che adesso sono diventati delle catastrofi, li avevo visti nettissimamente nel 1946.
Quando ho lasciato l’attività politica nel 1951 ero convinto che non si poteva operare diversamente in quelle condizioni del nostro Paese e del mondo cattolico italiano . L’ostacolo maggiore stava in una certa cattolicità che c’era in Italia; i motivi dell’insuccesso fatale venivano da lì.
Anche nella Chiesa non mi facevo illusioni. Per la mia professione di canonista sapevo cosa era la Chiesa e cosa poteva essere in determinate situazioni. Non c’è stata delusione, neanche lì, neanche nella Chiesa. Ne prendevo atto con semplicità, e non mi stupivo di niente. Di fatto non mi sono mai lamentato con nessuno. La decisione di smettere ogni attività politica è venuta dalla convinzione che bisognasse operare più profondamente, a monte, in una cultura del tutto nuova e in una vita cristiana coerente. Poi il passaggio è stato radicalizzato; è passata anche la cultura e rimasta solo la vita cristiana.
Spesso questo rapporto tra fede e politica diventa lacerante. Capisco come da una parte si senta una responsabilità immediata che non si può lasciare, dall’altra ci sia l’urgenza di una scelta diversa. Anche io, quando sono stato membro della commissione della Costituente, ho sentito questo bisogno. Fatta la Costituzione me ne volevo andare, però ho ricevuto l’imposizione di proseguire, di rinnovare il mandato, che non ho tuttavia portato a termine.
Viviamo in una crisi epocale. Io credo che non siamo ancora al fondo, neppure alla metà di questa crisi. Sempre più ci sto pensando. Sono convinto che lo scenario culturale, intellettuale, politico non ha ancora esplicitato tutte le sue potenzialità. Noi dobbiamo considerarci sempre di più alla fine della terza guerra mondiale; una guerra che non è stata combattuta con spargimento di sangue nell’insieme, ma che pure c’è stata in questi decenni.[…] Il rimescolio dei popoli, delle culture, delle situazioni è molto più complesso di quello che non fosse nel 1918. È un rimescolio totale. In più c’è la grande incognita dell’Islam, una incognita in qualche modo imprevedibile. [… ] Siamo dinnanzi all’esaurimento delle culture. Non vedo nascere un pensiero nuovo né da parte laica, né da parte cristiana. Siamo tutti immobili, fissi su un presente, che si cerca di rabberciare in qualche maniera, ma non con il senso della profondità dei mutamenti. Non è catastrofica questa visione, è reale; non è pessimista, perché io so che le sorti di tutti sono nelle mani di Dio. La speranza non vien meno, la speranza che attraverso vie nuove e imprevedibili si faccia strada l’apertura a un mondo diverso, un pochino più vivibile, certamente non di potere. Questa speranza, globale in un certo senso, è speranza per tutto il mondo, perché la grazia di Dio c’è, perché Cristo c’è , e non la localizza in niente, tanto meno in noi.
L’unico grido che vorrei fare sentire oggi è il grido di chi dice: aspettatevi delle sorprese ancora più grosse e più globali e dei rimescolii più totali, attrezzatevi per tale situazione. Convocate delle giovani menti che siano predisposte per questo e che abbiano, oltre che l’intelligenza, il cuore, cioè lo spirito cristiano. Non cercate nella nostra generazione una risposta , noi siamo veramente solo dei sopravvissuti.
(Brani di un’intervista che si trova ora in BAILAMME n. 18-1
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