Il vangelo che la Chiesa ci propone in questa Quinta Domenica del Tempo di Pasqua, è uno di quei testi di fronte ai quali vien da dire: “È stato davvero già detto tutto… con chiarezza, senza possibilità di fraintendimenti… Ma allora perché tutto pare sempre così complicato, anche negli ‘affari’ della fede?”…
Perché se effettivamente guardiamo a quello che Gesù dice in questo testo che Giovanni riporta nel capitolo 14, durante l’ultima cena, non possiamo non rilevare come Egli abbia risposto in maniera inequivocabile all’eterna inquietudine del cuore dell’uomo: «Non sia turbato il vostro cuore» – dice Gesù – «Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via».
Dopo parole di questo tipo dovrebbe immediatamente crollare quella struttura di paura (di morire) che troppo in profondità determina il nostro vivere quotidiano, il nostro pensare al futuro, al nostro destino (alla nostra destinazione), al suo senso…
Eppure, chissà quante altre volte avevamo già incrociato questo vangelo (questa “buona notizia”, è proprio il caso di dirlo) senza che esso avesse poi avuto la forza di radicarsi in noi e abbattere le rigidità interiori che la paura ha pian piano sedimentato e calcificato nei nostri atteggiamenti, nelle nostre reazioni, nei nostri progetti, nelle nostre fughe, nel nostro modo di pensarci…
Ma perché ci succede tutto questo? Perché di fronte a questa incontrovertibile certezza di Gesù di essere Colui che – per noi! – vince la morte, noi fatichiamo a dargli credito e continuiamo a pensare alle sue parole come qualcosa che “sarebbe bello… se fosse vero”, ma “chi lo sa…”? Perché cioè su questo argomento (la vittoria sulla morte!) non riusciamo a dare piena fiducia a Gesù come su altri argomenti (per esempio quello per cui solo donandosi per amore si giunge alla pienezza della vita)?
Per provare a capire meglio, è forse utile provare ad allargare la domanda: Quali sono i motivi per cui togliamo il nostro credito verso ciò che qualcuno ci sta dicendo?
Io credo che i motivi possano essere diversi; ne vorrei sottolineare quattro (quelli che a me paiono più evidenti):
1- Si può non credere a ciò che qualcuno dice perché la persona che sta parlando non ha in sé titoli di credibilità, non è cioè una persona credibile (per tanti motivi…), dunque non lo è nemmeno ciò che dice;
2- Oppure si può non credere a qualcuno perché ci pare che lui stesso non sia troppo convinto di ciò che afferma…
3- Oppure si può non credere a qualcuno perché il messaggio che riferisce pare, appunto, troppo in-credibile (non credibile);
4- Infine si può non credere a qualcun altro perché – al di là di ogni considerazione – crediamo che “fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”… cioè perché non abbiamo costruito in noi (anche qui per mille motivi, non necessariamente colpevoli) una struttura fiduciale capace di affidarsi a qualcun altro…
Nel caso di Gesù, di queste sue parole che il vangelo ci propone e della nostra resistenza nei loro confronti, mi pare di poter dire che i primi due “motivi di sfiducia” citati siano non pertinenti… Il secondo perché è evidente, dal tono del discorso e da tutti gli altri riferimenti neotestamentari alla vittoria di Gesù sulla morte, che Gesù proclami con convinzione la sua Risurrezione e quella – in Lui – di tutti gli uomini!
Il primo – magari possibile per qualche ateo in fase adolescenziale che crede che Gesù sia stato solo un illuso – non è invece sostenibile, né sostenuto da chiunque (anche ateo) percorra la storia della vita di questo Uomo fino in fondo. Gli atei possono dire che Gesù era solo un uomo, ma di certo non possono dire che non si trattasse di una persona credibile… Se non altro per il fatto della coerenza – fino alla morte – delle sue idee!
Ci restano il terzo e il quarto motivo, quelli che forse – effettivamente – hanno più a che fare con noi – cristiani post moderni – così sempre “in ritardo” riguardo alla fede nella Risurrezione: è il messaggio ad essere troppo incredibile e siamo noi ad essere troppo disincantati!
A ben guardare, in entrambi i casi, si tratta di motivi di sfiducia (o di incredulità) non attribuibili a chi proclama il messaggio… Nemmeno al messaggio stesso… Piuttosto essi fanno entrambi riferimento alla qualità del “ricevente” il messaggio: è a lui che quest’ultimo risulta troppo in-credibile ed è lui che fatica a dar credito a qualcuno che non sia lui stesso…
Non voglio ora certo addentrarmi sulle innumerevoli cause e concause che possono portare o aver portato ciascuno di noi a nutrire delle resistenze in proposito, ma mi piacerebbe che ciascuno si soffermasse a ricercare le sue…
Perché rintracciarle, analizzarle, custodirle in cuore e – infine – rappacificarle, può davvero pian piano correggere quell’istintiva rigidità che proviamo nei confronti della speranza della risurrezione, quasi che essa fosse una cosa da illusi, una cosa su cui non contare, una cosa da non considerare nel momento in cui si pensa alla propria vita: non a caso noi diciamo “viviamo questa vita, poi si vedrà… se c’è qualcosa, tanto meglio; se non c’è, pace…”.
Io invece credo che la questione che poneva Gesù, in tutto ciò che diceva e faceva, avesse proprio nella Risurrezione il suo centro. Non arrivare fino a questo punto nella comprensione e nell’adesione al vangelo di Gesù (alla sua buona notizia) vuol dire – in una versione aggiornata e post-moderna (appunto) – ricadere nel riduzionismo del vangelo che, in varie forme, le generazioni del passato sono incappate, quando hanno fatto del vangelo un mero codice morale, o un libro di definizioni su Dio, o un itinerario ascetico riservato a chi aveva il coraggio della fuga mundi…
Bisognerebbe invece provare davvero a rispondere alla domanda: Sto costruendo con Dio – in Gesù, via, verità e vita – la mia esistenza? Mi sto pensando in relazione a Lui e alla sua inequivoca paternità ogni volta che devo determinarmi come individuo (cioè ad ogni secondo, ad ogni reazione a ciò che mi accade, ad ogni pensiero, progetto, ecc…)?
Per meno di questo, anche il vangelo e l’appello ad esso non sarà altro che l’ennesimo riferimento da sottomettere alla nostra autoreferenzialità che – sapendo di avere scritta la scadenza nel DNA – non fa altro che tentare di “scampare il più possibile” a scapito di chiunque si metta come intralcio…
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