In questa sesta domenica di Pasqua – che apre due settimane davvero intense per la vita della Chiesa, nelle quali celebreremo la festa dell’Ascensione e quella di Pentecoste – la liturgia inizia a proporre letture che in maniera più diretta fanno riferimento al grande protagonista della vita della Chiesa dopo la Risurrezione di Gesù, e cioè lo Spirito Santo.
Non che Egli fosse assente prima, anzi era l’anima (lo spirito!) di tutta la storia della salvezza, ma ora – dopo che nella forma umana Gesù si rende assente ai suoi – la Sua presenza viene come ribadita e sottolineata.
È lui infatti il protagonista della prima lettura… che è molto curiosa, perché in essa si parla di una città della Samaria in cui un apostolo predica il Cristo; una città in cui – peraltro – tale annuncio viene accolto con gioia… una città, i cui abitanti sono anche già stati battezzati nel nome del Signore Gesù… eppure – nonostante la predicazione già avvenuta e già accolta, nonostante il battesimo – è una città nella quale gli altri apostoli sentono la necessità di inviare Pietro e Giovanni perché impongano le mani ai nuovi cristiani e gli permettano così di ricevere lo Spirito Santo…
Qui sta la curiosità… Com’è possibile aver ascoltato e accolto la Parola di Dio, essere addirittura stati battezzati nel nome del Signore Gesù e… non aver ancora ricevuto lo Spirito Santo?
Ma la lettura è tanto più curiosa, perché Luca – scrivendo gli Atti degli apostoli da cui questo brano è tratto – non sente la necessità di spiegare questa prassi…
E tanto meno sente la necessità di spiegare come questo testo stia in relazione a quell’altro – sempre tratto dagli Atti degli apostoli – in cui Pietro vive l’esperienza opposta, quella cioè per cui si ritrova ad avere a che fare con persone – per di più pagane – che ricevono lo Spirito Santo indipendentemente dai suoi gesti rituali: «Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio. Allora Pietro disse: “Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?”. E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo. Quindi lo pregarono di fermarsi alcuni giorni», At 10,44-48.
Ma a noi il problema rimane… Come era vissuta la prassi sacramentale di accesso alla fede nella prima comunità cristiana?
È così importante saperlo perché è ad essa che noi ci rifacciamo come esperienza sorgiva, matrice per la Chiesa di sempre… e soprattutto perché quando diciamo “accesso alla fede”, non facciamo solamente riferimento all’ingresso istituzionale in una comunità ecclesiale (anche questo, ovviamente), ma più radicalmente facciamo riferimento all’accesso alla vita di Gesù, per mezzo dello Spirito santo nel suo corpo che è la Chiesa… In gioco quindi vi è la possibilità di entrare in relazione col Signore!
Dunque: Come è avvenuto questo accesso nella prima comunità cristiana? Cosa si è ritenuto “normativo” in proposito?
È difficile ricostruire oggi l’effettivo snodarsi storico degli eventi per capire quale prassi “sacramentale” sia stata effettivamente seguita… Di certo entrambi i testi mostrano come – nella prima comunità cristiana – l’evento straripasse rispetto all’istituzione e come tra essi ci fosse il corretto rapporto: l’istituzione è a servizio dell’evento; è lei a modellarsi – dunque anche a variare di situazione in situazione – sull’evento… rapporto questo che peraltro la Chiesa – pur nei periodi più faticosi della sua storia – non ha mai del tutto abbandonato e che, forse, anche su certe questioni contemporanee potrebbe maggiormente mettere in campo per provare a guardare le cose da punti di vista diversi…
Comunque, al di là di queste digressioni, un’altra evidenza da mettere in campo è che ciascuno di questi testi aveva la sua finalità teologica: il secondo voleva mostrare come – in una Chiesa in cui ancora c’erano tensioni tra cristiani provenienti dal mondo ebraico e cristiani provenienti dal mondo pagano – la forza dello Spirito eccedesse rispetto ai confini posti dagli uomini; il primo invece (quello di questa domenica, importante tra l’altro anche perché è alla base della pratica sacramentale odierna, con la confermazione “staccata” temporalmente dal battesimo) voleva sottolineare la necessità di una “ratifica” ecclesiale, universale (cattolica!), apostolica dell’accesso alla fede; non in senso negativo (come una volontà di mettere il “bollino di qualità” sui “nostri”), ma in senso positivo, quello cioè per cui la Chiesa di Gerusalemme (la Roma di allora), nelle sue figure più rappresentative (gli apostoli e tra essi Pietro e Giovanni), si facesse garante del riconoscimento di questi (che tutti consideravano eretici) come fratelli a tutti gli effetti!
Eppure, nonostante la curiosità della prima lettura, l’apparente inconciliabilità con At 10,44-48 e la diversa finalità teologica di ciascuno, ciò che emerge con chiarezza da questi brani è il fatto che entrambi pongano come centrali, i medesimi elementi: la Parola, lo Spirito santo (mediato o ratificato dai gesti del battesimo con acqua e dell’imposizione delle mani), la prossimità fraterna…
Cioè, la via – che Gesù settimana scorsa diceva di essere –, ora che Egli non è più presente in carne ed ossa, è fatta con un asfalto che ha mescolati insieme inestricabilmente questi tre elementi: la Parola, lo Spirito, i fratelli!
Noi li distinguiamo, per tentare di capirci qualcosa… Ma – come abbiam visto prima con i due testi di Atti – ogni volta che si tenta di snodare questi fili, si va in tilt e si capisce ancora meno…
È infatti non solo inspiegabile, ma addirittura inconcepibile pensare la Parola di Dio senza la prossimità fraterna (qualcuno che l’ha scritta, l’ha imparata, l’ha raccontata, l’ha riscritta, l’ha tradotta, l’ha ritradotta, l’ha stampata, ce l’ha fatta conoscere…) e senza lo Spirito che s’è messo a parlare con lo spirito di ciascuno di questi nostri fratelli…
E così è impossibile pensare lo Spirito senza una carne in cui prendere dimora e Parola…
Infine, è impossibile anche solo pensare un rapporto di prossimità fraterna che non si riferisca ad una paternità condivisa, una non orfanità che coincide esattamente con la promessa di Gesù nel dono dello Spirito: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. Non vi lascerò orfani».
Solo questa creduta non orfanità apre il cuore dell’uomo alla prossimità fraterna che coincide con l’osservare i comandamenti di Gesù: «Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).
Scriveva in proposito Giuliano: «Senza lo Spirito il cristiano è orfano, secondo Gesù! E il cristianesimo diventa solo una religione del culto e del Libro, la dottrina di un Maestro che ha insegnato eccelse quanto irraggiungibili proposte morali, ma non ha trasmesso la “spinta” dinamica vitale che sorregga la miseria umana nell’usura del tempo e dell’evolversi della cultura. Per cui quando scordiamo lo Spirito diventiamo una setta di orfani smarriti o aggressivi. Mentre Gesù, ritornando al Padre, non ci ha abbandonati a noi stessi. La sera di Pasqua "alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito santo" (Gv 20,22). E Luca aggiunge il saluto finale: "Io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso” (Lc 24,49). A Pentecoste riascolteremo la grande effusione dello Spirito che darà coraggio e forza a tutta la Chiesa, proiettandola nella sua missione nel mondo, ma custodita e protetta: "Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre". Nello Spirito, l’apertura del cuore ai comandamenti di Gesù non è una sottomissione ad una legge, ma conseguenza di un innamoramento: la “passione” di Dio è venuta ad abitare dentro di noi come una forza propulsiva, un flusso vitale… ravvivando un intreccio di relazioni che nutrono la vita… Se mi amate osserverete i miei comandamenti... Dunque la realizzazione della proposta di Gesù è esperienza di accoglienza dell’amore in persona: lo Spirito! Non può essere diverso: "Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui". Questo appassionato coinvolgimento ci apre ad una intimità misteriosa e coinvolgente con la Trinità stessa: "In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi". L'opera forte e mite dello Spirito santo è condizionata dalla nostra corresponsabilità accogliente e docile, perché è lui la fonte dell’amore che ci smuove, in una dinamica dove i due amori (il piccolo e fragile amore di cui siamo capaci noi – e il suo braciere eterno) sono fusi insieme nel gemito che ci fa dire “abbà Padre”… gemito che ci risuona in cuore, se impariamo ad ascoltarlo, in ogni passo della vita quotidiana, fino a sperimentare e gustare qualche barlume della sua promessa: Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi... perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me ed io in voi».
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