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martedì 2 settembre 2014

XXIII Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Ezechièle (Ez 33,1.7-9)

Mi fu rivolta questa parola del Signore: «O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia. Se io dico al malvagio: “Malvagio, tu morirai”, e tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te. Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu ti sarai salvato».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 13,8-10)

Fratelli, non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge. Infatti: «Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai», e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: «Amerai il tuo prossimo come te stesso». La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità.

 

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 18,15-20)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo. In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».

 

Se dovessimo porre un titolo alle letture che la Liturgia di questa Ventitreesima Domenica del Tempo Ordinario ci presenta, forse quello più indicato sarebbe: “Come si deve comportare un cristiano di fronte ad un altro cristiano che commette una colpa contro di lui?”. Cioè, cosa si deve fare con i peccatori?

mercoledì 31 agosto 2011

XXIII Domenica del Tempo Ordinario: La correzione fraterna

Le letture che la Chiesa ci propone per questa ventitreesima Domenica del Tempo Ordinario, sono tutte incentrate su un unico tema: quello dell’amore fraterno, che si esplicita in un’istanza molto chiara: «ciascuno si deve far carico del proprio fratello perché ognuno è la sentinella che deve avvertire il fratello per il pericolo imminente» [P.Pezzoli, La casa sulla roccia: il vangelo secondo Matteo, in G.Facchinetti-P.Pezzoli-P.Rota Scalabrini, Scuola della Parola, LIG, Bergamo 1999, 138].
Abbiamo dunque a che fare con testi il cui oggetto precipuo è la cosiddetta “correzione fraterna”… Non a caso la Liturgia della Parola propone come brano evangelico un testo tratto dal capitolo 18 di Matteo, quel capitolo cioè nel quale è inserito il “Discorso ecclesiale”.
Come abbiamo avuto già modo di dire, infatti, il vangelo di Matteo «obbedisce a due strutture. La prima, più evidente e più tipica, consiste nella successione di grandi discorsi, attorno ai quali si organizza il materiale narrativo. Il c. 18 è il quarto discorso: dopo il discorso programmatico della montagna, il discorso missionario e il discorso in parabole, ecco un discorso ecclesiale, che si occupa di alcuni problemi interni alla comunità.
Ma dietro il succedersi dei discorsi si intravede la struttura del vangelo di Marco, che racconta la vicenda di Gesù iniziando dal battesimo, continua col ministero in Galilea e poi in Giudea e si orienta sempre più chiaramente verso la passione. Secondo questa struttura il discorso del c. 18 si trova nel contesto degli annunci della passione (cf. 16,21; 17,22-23; 20,17-19). La collocazione è significativa. Il nostro discorso offre delle norme di vita comunitaria da leggere nella prospettiva della sequela, intesa come un cammino verso la croce. Possiamo dire che almeno in parte, il c. 18 intende rispondere alla domanda: come deve costruirsi una comunità che intende porsi alla sequela del Crocifisso?
[…] Il discorso si divide in due parti [Mt 18,1-14 e Mt 18,15-35: la Liturgia domenicale della Parola ci propone la II parte, spezzata a sua volta in due domeniche successive: XXIII domenica del TO, Mt 18,15-20; XXIV domenica del TO – domenica prossima –, Mt 18,21-35]. Ciascuna parte si sviluppa attorno a un interrogativo: “Chi è il più grande nel regno dei cieli?” (18,1); “Quante volte devo perdonare al mio fratello che pecca contro di me?” (18,21). Ciascuna parte termina con una parabola: la parabola della pecorella smarrita (vv. 12-14) e la parabola del servo perdonato ma incapace di perdonare (vv. 23-35). Ciascuna parte è costruita attorno a una parola chiave, continuamente ricorrente: la parola “piccolo” la prima, la parola “fratello” la seconda» [B.Maggioni, il racconto di Matteo, Cittadella Editrice, Assisi 2004, 226-227].
Come detto la Liturgia domenicale della Parola tralascia tutta la prima parte del discorso ecclesiale, la cui tematica principale è quella dei piccoli / dei bambini (cui ho fatto comunque cenno perché mi pare importante leggere nella sua interezza questo capitolo 18) e si concentra – in due domeniche successive – sulla seconda, quella del perdono o della correzione fraterna.
Tutta questa lunga premessa, che magari a qualcuno è risultata un po’ troppo scolastica e noiosa, mi è sembrata invece necessaria perché ci permette di rilevare da subito un elemento molto interessante: quando nel vangelo si parla esplicitamente di chiesa (“Discorso ecclesiale”, appunto), gli assi semantici, attorno ai quali tutto ruota, sono il termine piccoli con la tematica della loro custodia e il termine fratelli come chiave di lettura delle relazioni intra-comunitarie.
È come se parlando di Chiesa, il vangelo mettesse lì due grandi binari orientativi:
-          Tra voi i piccoli siano custoditi!
-          Tra di voi siate fratelli!
È all’interno di queste macro linee guida, che poi le indicazioni si fanno più puntuali…

Sarebbe interessante soffermarsi su questi due pilastri, verificando magari la vita delle nostre comunità ecclesiali a partire da essi, ma ci porterebbe troppo lontano e, forse, ci lascerebbe anche un po’ troppo l’amaro in bocca (che non va bene all’inizio di un nuovo anno sociale), perciò torniamo ai nostri 6 versetti odierni e alla tematica più circoscritta della correzione fraterna.
Essa è descritta come un percorso a tappe:
1-   «se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello»;
2-   «se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni»;
3-   «se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità»;
4-   «se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano».
La correzione fraterna descritta in questo brano di vangelo riecheggia una prassi ecclesiale presente nella comunità di Matteo… e ciascuno di questi elementi andrebbe spiegato bene, in particolare l’ultimo, quello che noi chiamiamo “s-comunica”… perché forse è quello più frainteso…
Ma mi pare che un criterio ancora più fondamentale per collocare nella giusta prospettiva queste tre tappe, sia quello di risalire al contesto cui pensavano Gesù / Matteo quando dicevano / scrivevano queste parole e vedere in che modo oggi anche per noi esse possano essere vitali.
In questa prospettiva il dato essenziale da mettere in evidenza è il fatto che – quando scrive – Matteo pensa alla sua comunità, che era una comunità piccola!
Anche se quest’osservazione può apparire una banalità e uno può ritrovarsi a dire “Beh, e allora?”, in realtà io credo si tratti di un elemento che scaravolta tutto il senso di questo brano… quello almeno che noi siamo soliti attribuirgli, che è più o meno questo: siccome per una volta su un argomento specifico nel vangelo non ci sono indicazioni generiche, ma una specie di “ricetta”, seguiamola! Con tutti i peccatori nella Chiesa, seguiamo questo iter!
Invece no! Perché l’atteggiamento suggerito da Gesù per affrontare il problema del peccato e dei peccatori, implica il riferimento (vincolante) a comunità numericamente limitate, dove il clima è quello familiare… comunità quindi molto diverse da quelle parrocchiali cui noi siamo abituati a pensare, che spesso contano migliaia di abitanti, centinaia di fedeli che non si conoscono nemmeno tutti per nome…
In una situazione di questo tipo è impensabile applicare il “metodo” proposto in Mt 18 in maniera pedissequa, come se si trattasse – appunto – di una “ricetta magica”…
È infatti solo all’interno di relazioni nelle quali ci si riconosce effettivamente, e non solo nominalmente, fratelli, che è possibile un intervento quale quello suggerito nel vangelo. Senza dimenticare che anch’esso, nella formulazione in cui è giunto a noi, è già “formalizzato” e “schematizzato” per un uso comunitario… Non per niente, all’inizio, dicevamo che esso risente della prassi usata nella comunità di Matteo!
Ciò che allora è da tenere di questo brano non è la pura applicazione acritica della “ricetta”, ma ciò che la “ricetta” implica, cioè:
-       Che bisogna sempre separare peccato (da condannare) e peccatore (da custodire con ogni mezzo, foss’anche quello di un periodo fuori dalla comunità perché possa ritornare: questo – e solo questo! – è il senso della scomunica nella chiesa).
-       Che non si può aziendalizzare il vangelo sulla falsa riga dell’aziendalizzazione della chiesa che ogni tanto sembra comparire in questo III millennio… Essa, infatti – per quanto si estenda in tutto il mondo – è Chiesa quando consente rapporti autenticamente fraterni. È infatti solo fra due o tre (riuniti nel suo nome), che ci si può ammonire. Perché altrimenti va perso il principio guida dell’ammonimento, che è il seguente: «il perdono e l’amore precedono: la correzione nasce dall’amore. Si corregge – altrimenti che diritto avremmo di correggere? – perché si ama» [Ivi, 238]. Ecco perché questo vangelo dovrebbe avere come destinatarie le piccole chiese che sono le famiglie, le comunità di base, le piccole fraternità, i cantieri antropologici dove si prova a vivere il vangelo… e non le macro organizzazioni ecclesiali in cui non ci si conosce (dunque non ci si ama) nemmeno…

venerdì 27 maggio 2011

VI Domenica di Pasqua: Si inizia a parlare di Spririto

In questa sesta domenica di Pasqua – che apre due settimane davvero intense per la vita della Chiesa, nelle quali celebreremo la festa dell’Ascensione e quella di Pentecoste – la liturgia inizia a proporre letture che in maniera più diretta fanno riferimento al grande protagonista della vita della Chiesa dopo la Risurrezione di Gesù, e cioè lo Spirito Santo.


Non che Egli fosse assente prima, anzi era l’anima (lo spirito!) di tutta la storia della salvezza, ma ora – dopo che nella forma umana Gesù si rende assente ai suoi – la Sua presenza viene come ribadita e sottolineata.

È lui infatti il protagonista della prima lettura… che è molto curiosa, perché in essa si parla di una città della Samaria in cui un apostolo predica il Cristo; una città in cui – peraltro – tale annuncio viene accolto con gioia… una città, i cui abitanti sono anche già stati battezzati nel nome del Signore Gesù… eppure – nonostante la predicazione già avvenuta e già accolta, nonostante il battesimo – è una città nella quale gli altri apostoli sentono la necessità di inviare Pietro e Giovanni perché impongano le mani ai nuovi cristiani e gli permettano così di ricevere lo Spirito Santo…

Qui sta la curiosità… Com’è possibile aver ascoltato e accolto la Parola di Dio, essere addirittura stati battezzati nel nome del Signore Gesù e… non aver ancora ricevuto lo Spirito Santo?

Ma la lettura è tanto più curiosa, perché Luca – scrivendo gli Atti degli apostoli da cui questo brano è tratto – non sente la necessità di spiegare questa prassi…

E tanto meno sente la necessità di spiegare come questo testo stia in relazione a quell’altro – sempre tratto dagli Atti degli apostoli – in cui Pietro vive l’esperienza opposta, quella cioè per cui si ritrova ad avere a che fare con persone – per di più pagane – che ricevono lo Spirito Santo indipendentemente dai suoi gesti rituali: «Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio. Allora Pietro disse: “Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?”. E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo. Quindi lo pregarono di fermarsi alcuni giorni», At 10,44-48.

Ma a noi il problema rimane… Come era vissuta la prassi sacramentale di accesso alla fede nella prima comunità cristiana?

È così importante saperlo perché è ad essa che noi ci rifacciamo come esperienza sorgiva, matrice per la Chiesa di sempre… e soprattutto perché quando diciamo “accesso alla fede”, non facciamo solamente riferimento all’ingresso istituzionale in una comunità ecclesiale (anche questo, ovviamente), ma più radicalmente facciamo riferimento all’accesso alla vita di Gesù, per mezzo dello Spirito santo nel suo corpo che è la Chiesa… In gioco quindi vi è la possibilità di entrare in relazione col Signore!

Dunque: Come è avvenuto questo accesso nella prima comunità cristiana? Cosa si è ritenuto “normativo” in proposito?

È difficile ricostruire oggi l’effettivo snodarsi storico degli eventi per capire quale prassi “sacramentale” sia stata effettivamente seguita… Di certo entrambi i testi mostrano come – nella prima comunità cristiana – l’evento straripasse rispetto all’istituzione e come tra essi ci fosse il corretto rapporto: l’istituzione è a servizio dell’evento; è lei a modellarsi – dunque anche a variare di situazione in situazione – sull’evento… rapporto questo che peraltro la Chiesa – pur nei periodi più faticosi della sua storia – non ha mai del tutto abbandonato e che, forse, anche su certe questioni contemporanee potrebbe maggiormente mettere in campo per provare a guardare le cose da punti di vista diversi…

Comunque, al di là di queste digressioni, un’altra evidenza da mettere in campo è che ciascuno di questi testi aveva la sua finalità teologica: il secondo voleva mostrare come – in una Chiesa in cui ancora c’erano tensioni tra cristiani provenienti dal mondo ebraico e cristiani provenienti dal mondo pagano – la forza dello Spirito eccedesse rispetto ai confini posti dagli uomini; il primo invece (quello di questa domenica, importante tra l’altro anche perché è alla base della pratica sacramentale odierna, con la confermazione “staccata” temporalmente dal battesimo) voleva sottolineare la necessità di una “ratifica” ecclesiale, universale (cattolica!), apostolica dell’accesso alla fede; non in senso negativo (come una volontà di mettere il “bollino di qualità” sui “nostri”), ma in senso positivo, quello cioè per cui la Chiesa di Gerusalemme (la Roma di allora), nelle sue figure più rappresentative (gli apostoli e tra essi Pietro e Giovanni), si facesse garante del riconoscimento di questi (che tutti consideravano eretici) come fratelli a tutti gli effetti!

Eppure, nonostante la curiosità della prima lettura, l’apparente inconciliabilità con At 10,44-48 e la diversa finalità teologica di ciascuno, ciò che emerge con chiarezza da questi brani è il fatto che entrambi pongano come centrali, i medesimi elementi: la Parola, lo Spirito santo (mediato o ratificato dai gesti del battesimo con acqua e dell’imposizione delle mani), la prossimità fraterna…

Cioè, la via – che Gesù settimana scorsa diceva di essere –, ora che Egli non è più presente in carne ed ossa, è fatta con un asfalto che ha mescolati insieme inestricabilmente questi tre elementi: la Parola, lo Spirito, i fratelli!

Noi li distinguiamo, per tentare di capirci qualcosa… Ma – come abbiam visto prima con i due testi di Atti – ogni volta che si tenta di snodare questi fili, si va in tilt e si capisce ancora meno…

È infatti non solo inspiegabile, ma addirittura inconcepibile pensare la Parola di Dio senza la prossimità fraterna (qualcuno che l’ha scritta, l’ha imparata, l’ha raccontata, l’ha riscritta, l’ha tradotta, l’ha ritradotta, l’ha stampata, ce l’ha fatta conoscere…) e senza lo Spirito che s’è messo a parlare con lo spirito di ciascuno di questi nostri fratelli…

E così è impossibile pensare lo Spirito senza una carne in cui prendere dimora e Parola…

Infine, è impossibile anche solo pensare un rapporto di prossimità fraterna che non si riferisca ad una paternità condivisa, una non orfanità che coincide esattamente con la promessa di Gesù nel dono dello Spirito: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. Non vi lascerò orfani».

Solo questa creduta non orfanità apre il cuore dell’uomo alla prossimità fraterna che coincide con l’osservare i comandamenti di Gesù: «Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).

Scriveva in proposito Giuliano: «Senza lo Spirito il cristiano è orfano, secondo Gesù! E il cristianesimo diventa solo una religione del culto e del Libro, la dottrina di un Maestro che ha insegnato eccelse quanto irraggiungibili proposte morali, ma non ha trasmesso la “spinta” dinamica vitale che sorregga la miseria umana nell’usura del tempo e dell’evolversi della cultura. Per cui quando scordiamo lo Spirito diventiamo una setta di orfani smarriti o aggressivi. Mentre Gesù, ritornando al Padre, non ci ha abbandonati a noi stessi. La sera di Pasqua "alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito santo" (Gv 20,22). E Luca aggiunge il saluto finale: "Io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso” (Lc 24,49). A Pentecoste riascolteremo la grande effusione dello Spirito che darà coraggio e forza a tutta la Chiesa, proiettandola nella sua missione nel mondo, ma custodita e protetta: "Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre". Nello Spirito, l’apertura del cuore ai comandamenti di Gesù non è una sottomissione ad una legge, ma conseguenza di un innamoramento: la “passione” di Dio è venuta ad abitare dentro di noi come una forza propulsiva, un flusso vitale… ravvivando un intreccio di relazioni che nutrono la vita… Se mi amate osserverete i miei comandamenti... Dunque la realizzazione della proposta di Gesù è esperienza di accoglienza dell’amore in persona: lo Spirito! Non può essere diverso: "Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui". Questo appassionato coinvolgimento ci apre ad una intimità misteriosa e coinvolgente con la Trinità stessa: "In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi". L'opera forte e mite dello Spirito santo è condizionata dalla nostra corresponsabilità accogliente e docile, perché è lui la fonte dell’amore che ci smuove, in una dinamica dove i due amori (il piccolo e fragile amore di cui siamo capaci noi – e il suo braciere eterno) sono fusi insieme nel gemito che ci fa dire “abbà Padre”… gemito che ci risuona in cuore, se impariamo ad ascoltarlo, in ogni passo della vita quotidiana, fino a sperimentare e gustare qualche barlume della sua promessa: Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi... perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me ed io in voi».

mercoledì 11 febbraio 2009

Chiesa 2.0


Aggiungo qui, per riconoscenza, una parte dell'email ricevuta, che mi ha stimolato a una risposta (che qui integro ulteriormente), che credo mi abbia aiutato e possa aiutarci a fare ulteriormente chiarezza del senso e del significato di quello che stiamo facendo con la decisione di aprire e di tenere aperto questo Blog, fin che servirà allo scopo.

Onestamente, l’idea di un «obbligo» di commento non mi entusiasma: possono essere presentati argomenti che non si sente propri, si può non entrare nel sito per un po’ di tempo, però condivido l’idea di animare il blog, di renderlo più compartecipato. Personalmente, ho sempre vissuto in modo molto positivo la presenza di commenti nel mio di blog, ma ho anche sempre accettato il fatto di non sapere se un determinato post fosse apprezzato o meno, o addirittura ignorato.
Ad ogni modo... cercherò di impegnarmi ;). Un caro saluto a tutta la comunità e grazie per questo spazio ***.

Strettamente parlando non credo che si possa parlare di un «obbligo al commento», l’obbligo, se c’è, si può formulare in questi termini: «Se volete che io butti un pezzo della mia vita a fare un Blog, dovete mostrarmi che serve allo scopo per cui è stato creato! E cioè il consolidamento di un dialogo e di un’amicizia tra di noi: Altrimenti a me non interessa più e lo chiudo!».

Naturalmente delle osservazioni espresse nell’email sopra riportata sono ovviamente cosciente, tanto sono sensate!
Ma il problema qui è un altro e molto più ricco ed è proprio ciò che mi ha spinto a crearlo e a scrivere ulteriormente questo post...

Proviamo a spiegarlo più ampiamente, allargando gli orizzonti...

Prendo sempre più coscienza del fatto che il Magistero nella chiesa, seppur necessario, può generare una malattia «professionale» tipicamente clericale e particolarmente diffusa tra noi religiosi e sacerdoti e anche tra i vescovi e persino tra i laici (pare che Giovanni Paolo II si lamentasse del «clericalismo dei laici italiani»)... Questa «malattia» ci porta, tra l’altro, ad avere solo un atteggiamento «magisteriale».

Constato sempre di più che la chiesa parla e sa parlare soltanto ex cathedra, dall’alto, a questi (ironizzo): «poveri laici tenuti nell’ignoranza – ma conniventi perché fa comodo anche ai laici in quanto deresponsabilizza – e che bisogna continuamente condurre»... Constato anche che sempre troppi laici passano la vita a lamentarsi che la chiesa non li ascolta e quando si offre loro l’opportunità di farlo, sono troppo prigionieri della mentalità che afferma che «su certe cose i laici devono solo obbedire (e al limite confessarsi e pentirsi della loro disobbedienza)»... Già H. De Lubac, al Conilio Vat II ironizzava sulla posizione del laico nella chiesa: «Seduto, in piedi e in ginocchio!»

Credo che sia da tempo giunto il momento di tornare concretamente, in ogni ambito e spazio, a un rapporto più fraterno che come dice il termine, esige che sia paritario, perché riconoscendoci tutti figli «naturali» dello stesso Padre ci riconosciamo tutti in ascolto reciproco.

Questo implica che nessuno ha il monopolio dello Spirito Santo, nemmeno il Papa! E come la storia dimostra, nemmeno la chiesa: il diritti dell’uomo e della donna, l’ecologia, il rifiuto della guerra, la libertà religiosa, sono solo alcuni dei temi che ci hanno visto, come chiesa, rincorrere a fatica, ansimando e sbuffando e zoppicando, la storia «secolare e laica» che ci anticipava e anticipa sempre, segno che lo Spirito è presente non solo nei laici cristiani ma anche in quelli non cristiani!...

Il Web della seconda generazione (Web 2.0) permette proprio questa «orizzontalità» percorrendo e attraversando le distanze di età, spazio, tempo e cultura e sesso... Ecco qui dunque la grande occasione per farlo...

Constato che una certa chiesa (che si riempie la bocca di dialogo per svuotarsene il cuore e liberarsene la coscienza) non lo fa, e non lo farà mai perché vorrebbe dire cedere parte del potere. Quella chiesa sogna piuttosto un ritorno al linguaggio ermetico e settario su cui si struttura necessariamente una «verticalità» nella relazione… Emblematico a questo proposito è il ritorno della «messa in latino» in cui la posizione del celebrante dà le spalle all’assemblea (!) in quanto non solo esprime il rifiuto di parlare il linguaggio del proprio tempo (troppo «democratico»!?) ma nasconde, dietro la conclamata sollecitazione unitaria e pacificatrice, una subdola volontà di imperio verticistica: non è un caso che sia stata introdotta contro il parere della stragrande maggioranza dell’episcopato mondiale!

Allora, stante così le cose, io dico e propongo: per quel che ci compete, cominciamo noi!
Io da tempo concretamente condivido questo atteggiamento con i mie confratelli… Questa è la pro-vocazione di fondo, del modo con cui nell’Eremo di Cassano vogliamo vivere concretamente il nostro rapporto con i laici prima di tutto e poi anche con i non-laici (!)... Per questo personalmente cerco di evitare, se non per ragioni di reale necessità e di «mediazione storica», di fare quell’apostolato tradizionale che tanto ha contribuito a formare quella mentalità di cui parlavo sopra. E se proprio «devo» farlo lo faccio cercando di mettermi in posizione di ascolto e non di insegnamento soltanto (anche se la deformazione mentale clericale a volte crea brutti scherzi anche a me).

Insomma lo schema di fondo dovrebbe essere questo: «Io do a te quello che io ho vissuto e conosciuto, tu dai a me quello che hai vissuto e conosciuto e insieme facciamo discernimento e camminiamo in questa storia» e spesso è più quello che si ap-prende di quello che si dona...

Vivere il Vangelo, cioè dare al Vangelo la possibilità di essere vissuto, comincia prima di tutto da questo atteggiamento di fondo, da questa modalità: cfr i dialoghi di Gesù e come spesso cambi idea sollecitato dal suo interlocutore (spesso interlocutrice! e pure pagana!) e come Gesù stesso, nell’uso delle parabole, abbia «inventato» una nuova forma, per quel tempo, di comunicazione (guardacaso dialogica e quindi «bidirezionale»)...

A «Roma» non lo vogliono capire… ma non esiste evangelizzazione senza dialogo! E il dialogo si realizza solo in una comunicazione «bidirezionale»: e il sito del Vaticano, il Papa su You-Tube, la TV Sat2000, ecc., fanno ancora parte strutturalmente e mentalmente di una forma di comunicazione «unidirezionale»!

È impressionante notare come non esista una email pubblica per il Papa o per i Cardinali, mentre un qualunque Capo di Stato occidentale ne ha una, così come ogni senatore e deputato italiano ed europeo (ovviamente con una segreteria che filtra, accorpa e poi consegna e risponde, ma che non esclude il «contatto diretto»).
Di inviare una email al Papa (vivo!), invece neanche se ne parla. In questo modo però il «vertice» perde realmente il diretto contatto con la «base» (sempre che al «vertice» interessi!)...
Ma di questa mancanza di comunicazione «bidirezionale» prima o poi ne risente tutto «il corpo», «vertice» compreso (ma è l’ultimo ad accorgersene, mentre la «base» se ne è accorta da tempo perché la «patisce» sulla propria «pelle»).
Questo è valido a maggior ragione per la chiesa. La chiesa si è compresa fin dall’inizio come «un corpo»: il corpo di Cristo. Ma un corpo le cui «parti» non comunicano tra di loro muore! Non basta che le «membra» comunichino con «la testa» (Cristo, nell’immagine paolina: cfr Colossesi 1,18; 1,24), è altrettanto necessario perché non vadano in necrosi che comunichino tra di loro (cfr Corinzi 12,12ss)... Anzi questa è la condizione perché comunichino con «la testa»: se vanno in necrosi infatti come possono comunicare con «la testa»?

Di questo si era reso conto già Giovanni XXIII che pare sia uscito qualche volta dal Vaticano in incognito e in «borghese» per vedere «che aria si respira nel mondo».

Ovviamente una email, un Blog, un Forum, non sono «il mondo» (nemmeno il «mio mondo»), né possono sostituire il contatto «dei corpi» in una vita vissuta insieme... ma almeno è un segno che può preludere ad un cambiamento di mentalità...

Certo questo esige anche dai laici un salto di qualità che li spinga ad uscire dal terreno tranquillo della «riserva indiana» in cui pastoralmente sono stati confinati e in cui si crogiolano nell’illusione di meritarsi «le verdi praterie di Manitù», per cominciare a comunicare andando oltre i «segnali di fumo»… (Si può imparare anche da Tex Willer!)...

Insomma vorremmo far fare un salto di qualità alla chiesa (attraverso il nostro frammento di chiesa) sia nel vissuto comunitario di Cassano, sia nel vissuto comunitario di quella realtà (Sì, realtà! Perché esiste e fa parte della nostra realtà!) comunicativa che sempre Giovanni Paolo II chiamava il «Sesto Continente»...

È solo una piccola goccia nel mare infinito della storia... ma ogni mare per quanto grande sia è sempre fatto di gocce.

Almeno noi ci proviamo…

La proposta allora è questa: «Vogliamo provarci insieme?».


domenica 9 dicembre 2007

LA DESTRA ECCLESIALE MANGIA SOLO FAGIOLI?

Cercando materiale per riflettere un po’ sulle letture di questa II domenica di Avvento mi sono imbattuta in un incontro tenuto dal biblisti Giacomo Facchinetti il 7 febbraio 2001 su Rm 14,1-15-6. Il testo completo è pubblicato in Scuola della Parola 2001, io ve ne propongo uno stralcio.
«Paolo formula così il problema: “Uno crede di poter mangiare di tutto, l’altro, che è debole, mangia solo legumi”. […] Non so se si tratti di ironia o di un modo molto forte di suggerire come la questione della fede si ponga anche in situazioni apparentemente secondarie come quelle del mangiare e del bere. Ecco comunque due modi di fare, due tendenze.
Primo: c’è uno che crede di poter mangiare di tutto. Come possiamo immaginare questi cristiani? Sono dei credenti che si sentono liberati, mediante la fede in Gesù, […] restituiti alla visione di una realtà in cui tutto è puro. […] Niente in sé è impuro, niente è in sé fonte di contaminazione. Si può costruire un rapporto nuovo tra il credente e il mondo: il mondo è il dono di Dio, […] che egli come Padre e creatore mette a disposizione dei credenti i quali, liberati per mezzo di Gesù da ogni proibizione alimentare, possono goderne. Sarebbe il segno visibile della libertà, che permette anche un diverso modo di rapportarsi e di vivere all’interno di una società fatta di non credenti, per cui uno potrebbe tranquillamente, senza nessun problema, incontrare chiunque e diventare commensale di chiunque senza nessuno scrupolo. […] La cosa era vissuta come un profondo senso di liberazione, come il frutto di novità nel rapporto tra l’uomo e le cose buone del mondo, nel rapporto tra l’uomo e le altre persone e le altre religioni.
Qui Paolo non dà elementi per capire quali fossero i presupposti per cui alcuni, a partire dalla loro fede, si sentissero autorizzati a mangiare di tutto, in una commensalità libera, riconoscente e festosa; ma possiamo pensare che potessero appellarsi anche all’esempio di Gesù, il cui comportamento era stato censurato attraverso quel giudizio: un beone e un mangione, amico dei pubblicani e dei peccatori. […] Per Gesù questa libertà era segno della novità rappresentata dal suo messaggio: una novità che faceva cadere le barriere e faceva di nuovo, della mensa, il luogo vero, il momento autentico della comunicazione libera e fraterna. Permetteva una commensalità che doveva essere il segno di una disponibilità di Dio, di un dono di Dio che non si ferma davanti a barriere poste all’interno della Chiesa, o tra la Chiesa e quelli di fuori. […] Dunque le ragioni che potevano stare dalla parte dei ‘forti’ erano ragioni veramente ‘forti’, notevoli!
Proviamo invece a immaginare il modo di vedere di colui che è debole e mangia solo legumi.
Verso questa scelta potevano convergere tante posizioni, tante intuizioni o suggestioni che potevano venire dalla tradizione ebraica, oppure da tradizioni varie del mondo greco o romano, oppure potevano ispirarsi a grandi figure come Giovanni il Battista, che non mangia e non beve, e che in qualche modo rappresentava appunto l’ascetismo nella sua forma più rigorosa ed esigente. Potevano anche portare a proprio favore un ragionamento di questo tipo: dobbiamo essere coscienti della nostra condizione di peccatori; certo, liberati e salvati, ma pur sempre persone che portano in sé il segno del peccato. E potevano ricordare che uno degli elementi fondamentali del Vangelo è la croce di Gesù, morto per i nostri peccati, e potevano giustificare così il loro ascetismo, la rinuncia alla carne e al vino, richiamandosi ad uno spirito penitenziale, alla coscienza di essere stati salvati dal peccato sotto il segno della croce: una visione austera, rigorosa, penitenziale della vita.
[…] E poteva scattare il giudizio vicendevole fra questi due gruppi.
I progressisti – quelli cioè che si sentivano liberi di mangiare di tutto pensando che gli altri non avessero il coraggio e la forza intellettuale o morale di vivere fino in fondo la libertà della fede – e i mangiatori di legumi, quelli che potevano giudicare gli altri come ‘modernisti’ disposti a cercare una soluzione comoda della fede, pronti a tutto per il consenso sociale, paurosi di mostrare pubblicamente la propria fede e di riconoscere che siamo segnati dal peccato, incapaci di indicare che al centro della storia ci sta la croce di Cristo, il giudizio di Dio sul mondo e sulla nostra condizione appesantita dalle forze negative personali e sociali.
[…] E il pericolo che l’apostolo vede, qual è? Il pericolo è che partendo dalla stessa fede si possa mettere in questione la fraternità.
[…] Qual è la risposta di Paolo? Al termine della lettera, Paolo sembra disposto a rimettere in discussione la caratteristica che distingue la sua teologia che ha nella libertà, come dono di Cristo, uno dei grandi segni e uno dei grandi temi. […] Pare disposto a rimettere in discussione non l’essenza del Vangelo, ma alcune conseguenze della sua teologia. È pronto a rimettere in discussione, in una situazione critica, coloro che erano contenti di essere giunti, dopo tante fatiche, a ragionare come Paolo; proprio da lui essi si vedono posti di fronte a questa imposizione: fermati! C’è qualcosa di molto più decisivo della teologia di Paolo. E che cosa è? È il fratello che mangia fagioli!
“Accogliete tra di voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni”.
[…] Come vedete il giudizio dell’apostolo è netto: ‘sono deboli nella fede’; la loro posizione dal punto di vista dottrinale, dal punto di vista della riflessione teologica è certamente più debole, è una posizione che dovrebbe essere superata perché non è pienamente sostenibile e giustificata.
[…] Senza discutere le esitazioni, senza fare il processo; eppure ci sarebbero state mille ragioni, dal punto di vista culturale, per contestare, per rimproverare, per mettere in crisi questi deboli nella fede. Ci sarebbero stati motivi per dire loro: siete conservatori, reazionari, siete legati a una visione che non riesce a percepire e a gustare la bellezza e la novità del messaggio di Cristo. [E invece] l’apostolo dice questa parola così netta e severa: Accogliete tra di voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni. […] Poi riprende, formulando l’esigenza da tutti e due i punti di vista: “Colui che mangia non disprezzi chi non mangia; chi mangia non giudichi male chi mangia”.
[...] Per l’apostolo non si tratta di intavolare una discussione teologica perché una delle due mentalità superi il proprio punto di vista, per unificarsi al punto di vista dell’altro e raggiungere così il risultato di una comunità unita nel pensiero, nella cultura. Per Paolo non è questo il problema. Ai forti, ai progressisti, profondamente coscienti della novità del messaggio di Cristo egli chiede di non disprezzare o, nell’aspetto positivo, di stimare coloro che sono deboli; il non disprezzare è legato ad una disponibilità del forte a prendere in considerazione, a interrogare anche se stesso sul valore, sul senso della posizione di quello che è debole nella fede.
Dall’approfondimento risulterebbe che le grandi domande sorgono da entrambe le parti se c’è la stessa passione per il mistero di Dio. Per tutti e due la teologia rappresentata dal debole nella fede contiene in sé degli elementi che non possono essere frettolosamente ignorati, emarginati da colui che è forte, maturo e progredito nella fede e nella sua formulazione culturale.
[…] L’apostolo non formula direttamente il comando al dialogo, ma, tentando di fermare il ‘processo a carico’ e la condanna vicendevole, apre lo spazio perché vengano prese in considerazione le ragioni dell’altro e non solo della sua fede – che appartiene al mistero di Dio. Il progressista, il forte nella fede, non è colui che stende il dito per giudicare, non è colui che si sente all’avanguardia, ma è colui che, seguendo il fratello, si interessa cordialmente della sua posizione. Non lo giudica, non gli interessa se si trova nella retroguardia, perché quello è il fratello.
[…] Da parte sua il debole nella fede che cosa deve fare? Colui che non mangia non giudichi male chi mangia. Deve astenersi dal condannare, dal vedere l’altro come uno che non è pienamente fedele a Dio, uno che tiene di più alle mode del tempo che alla radicalità, al coraggio e alla disponibilità al sacrificio in nome e a causa della fede, uno che ama essere aggiornato culturalmente per poter essere libero di comunicare con tutti senza ostacoli. Non deve condannarlo! Anche il debole nella fede, essendo invitato a rinunciare al giudizio e alla condanna, è invitato positivamente a interrogarsi sulle ragioni di colui che è forte nella fede, non a sospettarlo di presunzione o di superbia, ma a interrogare se stesso sulla fede che anima quelle ragioni.
Per quale motivo tutto ciò? Perché “Dio lo ha accolto”. Ecco il pensiero comune!
[…] In certo senso la grande questione è di affermare il diritto-dovere di imitare Gesù nella sua comunione di mensa con i peccatori. Quindi i deboli nella fede devono riconoscere – superando la tentazione degli scribi e dei farisei, che contestavano la commensalità di Gesù – che non si possono mettere dei limiti, per ragioni culturali o ecclesiali, alla misericordia, all’ospitalità, all’accoglienza veramente incondizionata di Dio. Ma i forti nella fede devono conoscere che Dio può ospitare, oltre il pubblicano, anche il fariseo e lo scriba. Dio accoglie anche loro.
[...] Sorge così la domanda: “chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo? Stia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone”. Non è un invito al menefreghismo: “Faccia un po’ come gli pare, a me non interessa”. No, Paolo qui è duro e con molta chiarezza vuole spiegare che cosa implica il giudizio o il disprezzo tra fratelli cristiani. Significa mettere in discussione Dio.
[...] Oltre a questo, Paolo è convinto non solo dell’azione originaria di Dio, ma anche del suo lavoro continuo nel fratello. “Ma starà in piedi, perché il Signore ha il potere di farcelo stare”.
[...] Per l’apostolo c’è un impegno comune: quello di trovare nella fede le ragioni del proprio comportamento, non solo astenersi dai giudizi, ma anche esplorare il proprio mondo di fede, trovare in essa le ragioni autentiche del proprio modo di vedere la realtà, affinché il comportamento non sia frutto di un certo tradizionalismo religioso o di un conformismo culturale o di un desiderio di apparire nuovi e moderni. Queste non sono ragioni che hanno a che fare con la fede! È necessario approfondire continuamente, pur nella differenza di posizioni, l’esigenza permanente del rinnovamento della propria mentalità sul fondamento della fede.
Questo porterebbe a capire che: “chi si preoccupa del giorno, se ne preoccupa per il Signore; chi mangia, mangia per il Signore, dal momento che rende grazie”. L’apostolo invita a riconoscere la comune ragione: è il Signore nella propria vita.
[...] Paolo non tenta una conciliazione di tipo razionale o culturale tra le diverse posizioni, ma rimanda le due posizioni differenti alla loro radice comune.
[...] La domanda: “Chi sei tu, per giudicare il tuo fratello?” pone in evidenza l’assurdità che dei fratelli, dei figli, si giudichino e si disprezzino. Questo comportamento rivela una profonda ignoranza e una profonda incoscienza. [...] Per entrambi la domanda è: vi rendete conto che tutti e due arriverete davanti al tribunale del giudizio di Dio?
[...] L’apostolo non dice cose nuove, ma semplicemente richiama le grandi parole della fede, e le richiama in modo tale che diventino operanti nella costruzione dei rapporti quotidiani. Egli vuole impedire che da una parte ci sia la professione di fede, e poi dall’altra i propri ragionamenti, le proprie valutazioni tra credenti che, dimenticando le proprie origini e la propria identità, si comportano come se quelle grandi parole di fede non dovessero determinare il modo di guardarsi, non dovessero dare forma al modo di stare uno di fronte all’altro, al modo di parlarsi, al modo di valutarsi.
[...] “Cessiamo dunque di giudicarci gli uni gli altri; pensate invece a non essere causa di inciampo o di scandalo al fratello”. Il tema è sempre quello, ma ci troviamo davanti ad un’altra argomentazione. Paolo si mette dal punto di vista dei forti e riconosce che, in linea di principio, hanno ragione perché tutto è puro, e quindi avrebbero il diritto di mangiare ogni cosa rendendo grazie a Dio. Ma il problema è rappresentato dall’altro che, nella fede, rappresenta per me la domanda che Dio mi rivolge, che Dio rende presente davanti a me in questo determinato momento.
[...] Il Vangelo si impone nelle situazioni quotidiane che sembrano le più banali. Si impone quando uno pensa: figurati se devo farmi un problema del fatto che l’altro trovi scandalo, entri in crisi e provi un disagio profondo perché vede in me non un destinatario della grazia di Dio, ma uno che per essere progressista e moderno si sente libero di esibire la propria libertà. È lui che sbaglia! Sbaglia nel suo ragionamento e sbaglia anche nella carità perché mi giudica.
[...Ma:] “Ora se per il tuo cibo il tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti più secondo la carità. Guardati perciò dal rovinare con il tuo cibo uno per il quale Cristo è morto!”. Ecco il metodo dell’apostolo: far emergere la presenza del crocifisso quando sembra soltanto questione di banali rapporti interpersonali, soltanto questione di mentalità.
[...] Verrebbe spontaneo un moto di repulsione: [...] il mio prossimo è quello lì, che non mangia il salame e ce l’ha con me. E non riesco a farlo ragionare, è un testardo e vuole fare l’asceta. Non sa gioire delle cose della vita! Ma l’apostolo domanderebbe dove sia stato messo Cristo, dal momento che quell’importuno lì è uno per cui Cristo è morto. Ecco la capacità veramente sconvolgente dell’apostolo di richiamarci alla serietà delle domande suscitate dalla fede.
[...] La situazione può sembrare banale, ma Paolo dice: in questa situazione è in questione l’essenza del Vangelo, l’imitazione di Gesù, l’essere a immagine del Figlio, morto e risorto. Ecco dove si pone la questione della fedeltà al Messia non trionfante: risorto sì, ma non trionfante. [...] Si pone in questo: non cercare la propria gratificazione, ma vivere della dedizione e dell’attenzione all’altro, anche se è spiacevole, anche se non è totalmente maturo, anche se è veramente pesante».

giovedì 6 dicembre 2007

Una Speranza che abilita a Vivere!

Le letture di questa II domenica di Avvento hanno proprio il sapore di un’introduzione al mistero del Natale… Siamo ancora sulla soglia, ma già si intravede che ciò che ci aspetta è qualcosa di decisivo… La Chiesa ci accompagna in questa attesa, incuriosendoci sulla portata dell’evento… Pone infatti in campo parole che attraggono le orecchie e il cuore di ciascuno… chi infatti non si sente stuzzicato da frasi come «In quel giorno avverrà...», «Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione», «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino»…?
Se anche facessimo finta che non fossero parole bibliche, esse rimarrebbero comunque cariche del loro fascino:
- chi non ha almeno qualche volta sognato di sapere cosa «In quel giorno avverrà...»; che si trattasse del giorno della nostra morte, della venuta del Messia, dell’appuntamento con chi si spera di conquistare, di un colloquio di lavoro, di un incontro dopo tanti anni…?
- chi sommerso dal disorientamento e dalla confusione nel maneggiare questa vita, non ha desiderato almeno ogni tanto di avere per le mani un manuale d’istruzioni, in modo da poter dire che «Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione»?
- e infine chi, esausto per la fatica di vivere e dar credito al fatto che ne valga la pena, non ha sperato che «il regno dei cieli» - qualsiasi cosa esso voglia dire – fosse «vicino»?
Ma ri-collocate nel contesto biblico, che è il loro, che cosa vogliono dire queste parole così cariche di aspettative, aspirazioni, sogni, speranze, attese?
La prospettiva di Isaia è decisamente luminosa… sta parlando di qualcuno che arriverà: qualcuno fortemente attaccato alla storia dell’umanità, come un germoglio al suo tronco e un virgulto alle sue radici, e nello stesso tempo altrettanto fortemente inondato di aria divina… qualcuno che contro i violenti e gli empi, starà dalla parte degli umili e dei miseri…
Quando arriverà le leggi naturali della vittoria del più forte, della selezione naturale, della paura come anima del mondo, saranno stravolte, per lasciare il posto alla giustizia, alla fedeltà, al dimorare insieme, allo sdraiarsi accanto, al trastullarsi…
Eppure Isaia non sta scrivendo in un momento facile per il suo popolo: niente fa prevedere un lieto fine della situazione, tanto meno un lieto fine cosmico, che coinvolga il mondo nel suo insieme; dilagano corruzione, dispotismo, idolatria, pressione straniera, ingiustizia sociale, povertà, indigenza…
Ma allora perché Isaia interviene con queste parole promettenti? Interessante quanto risponde H. Simian Yofre, mettendo in luce le idee che da questo brano emergono con forza:

«Anzitutto la convinzione che davanti ad ogni crisi, non soltanto personale, ma anche e soprattutto sociale, istituzionale, nazionale, perfino internazionale, la fede non è ridotta al silenzio, ma ha una parola importante da dire. Essa genera una parola critica circa la situazione concreta; così il pensiero escatologico, nel momento stesso in cui prospetta un mondo nuovo, non consente una fuga dal presente, ma fa maturare una visione obiettiva e critica a riguardo del presente, e specificamente dell’ingiustizia, del caos istituzionale, dell’ambiguità di certi rapporti politici, della perdita d’identità profonda del popolo. Il pensiero escatologico profetico non si accontenta di proporre una soluzione “spirituale”, ma comincia da un’analisi lucida dei mali presenti nella società!».

Ecco che a noi, allora, a noi che almeno qualche volta abbiamo sognato di sapere cosa «In quel giorno avverrà...», viene rimesso in mano il nostro oggi, il nostro presente, la situazione concreta.
Ma… non eravamo mica partiti da un oggi, un presente, una situazione concreta inospitale, inabitabile, mortifera? E allora che senso ha il ricollocarci del profeta in essa? Se non eravamo capaci prima, non lo siamo neanche ora…
E allora? Allora… la chiave di volta è proprio il fatto che né una fuga spiritualistica da una storia avvelenata, né uno sforzo volontaristico e solipsistico per resistere nel viverla sono la via indicata dal profeta. Egli ha una prospettiva diversa: la vita può tornare ad essere vivibile perché è abitata dalla speranza in una promessa… che questa storia è inondata da Dio: «la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare».
È la stessa speranza di cui parla Paolo quando afferma: «teniamo viva la speranza»!
Ma come vivere il nostro oggi alla luce di questa speranza? Cosa «è stato scritto per la nostra istruzione»? No, purtroppo o per fortuna, non si tratta di un manuale di istruzioni… piuttosto di un esempio: «Accoglietevi gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi». Non è un modello a cui tentare di assomigliare, ma una persona (Vivente!) con cui entrare in relazione: in una relazione talmente intima da essere conformante! Questa relazione è la speranza realizzata della presenza del Signore nel nostro oggi.
L’attesa trepidante a cui ci invita la Chiesa è allora quella di Uno che amandoci per primo introduce una nuova logica nel mondo: quella dell’accoglienza, dell’«avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù». È ancora una volta la proposta di una vita che si fa vivibile perché com-passionevole, perché com-patita, perché abitata da una solidarietà che rende parte di un popolo in cammino, dell’umanità tutta… che geme, spera, ama, soffre, muore, sorride… come me.
In questo senso, essendo dalla parte di chi ha già letto fino in fondo i Vangeli, a noi fanno un po’ sorridere alcune aspettative di Giovanni Battista: «Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco». Egli è il precursore e realmente è «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!». Ma Gesù… sorprenderà anche lui: davvero è un novum nella storia dell’uomo: lui in una parabola, di fronte a un albero che non porta frutto, dirà di lasciarlo ancora per un anno e di prendersi cura di lui perché diventi fecondo (Lc 13,6-9).
Su una cosa però Giovanni non si sbaglia: l’evento atteso e annunciato è decisivo; di fronte ad esso non si possono mettere conversioni posticce, false illusioni, ristrutturazioni di facciata: «Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: "Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: 'Abbiamo Abramo per padre!'. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo"».
Fa sorridere e tremare che i destinatari di questo ammonimento siano proprio i più religiosi (sacerdoti e “laici impegnati”)… Proprio loro rischiano di non accogliere la logica di Dio, che sopra ad ogni norma, istituzione, interesse, ragione politica, economica, sociale, religiosa, pone il volto dell’altro, che sempre è fratello!
Ma è proprio questa logica che plasma anche la nostra sete di regno dei cieli. Essa – qualunque cosa voglia dire – sorta spesso sull’onda si un essere esausti per la fatica di vivere e dar credito al fatto che ne valga la pena, prende la forma di un’attesa non più vaga e qualunquistica, ma cristicamente centrata, perché solo il suo immergerci nello Spirito santo («vi battezzerà in Spirito Santo »), nel suo Spirito, nella sua logica, nel suo amore, ci salva, ci libera, ci abilita a Vivere.

giovedì 22 novembre 2007

QUALE DIO?

Raniero La Valle nel suo libro Prima che l’amore finisca. Testimoni per un’altra Storia possibile parlando di Carlo Carretto scrive:
«A mio parere egli ha posto con radicalità, nel cuore della società contemporanea e secolare, la questione di Dio, e più precisamente la questione: quale Dio. […] È su questo problema che si è costituita storicamente la società moderna, laica e secolare. La laicità non si è costituita sulla tesi Non est Deus, Dio non c’è, ma sull’ipotesi Etsi Deus non daretur, anche se Dio non ci fosse. […] E se la società moderna ha deciso di costruirsi come se Dio non ci fosse, l’ha fatto perché quello che le veniva offerto all’atto del suo sorgere era un Dio che non poteva più servire a fondare la sua unità e ad accogliere e accompagnare la sua crescita umana, la scoperta della sua ragione e le attuazioni della sua intraprendenza, ma anzi le era di ostacolo e di divisione. […] Un Dio – e da lui una Chiesa – non più capace di universalità, non capace di aprirsi all’accoglienza magnanima del nuovo che germinava nella storia».

Ma chi era questo Dio espulso? Prosegue La Valle:
«Era il Dio della guerra, il Dio che rendeva l’uno all’altro nemico, il Dio che veniva dall’alto, il Dio della trascendenza del potere, il Dio che fonda il trono dei potenti e sequestra i tesori dei deboli; era il Dio di cui la cultura moderna dirà che è la proiezione dei sogni di onnipotenza dell’uomo, e della cui trascendenza non un ateo, ma Dietrich Bonhoeffer dirà che non è vera, autentica esperienza di Dio, ma un “pezzo di mondo prolungato”».

È questo il Dio che arriva anche a Carlo Carretto e a tutti i cristiani prima del Concilio Vaticano II:
«è ancora il Dio della guerra, il Dio delle leggi assolute, il Dio che allarga le braccia ma non fino ad abbracciare il nemico, non fino ad essere annunziato e riconosciuto come il Dio della misericordia e del perdono. Un Dio nel quale non c’è speranza. E qual era quel Dio, tale era la Chiesa».

In proposito in una sua lettera a Wojtyla, Carretto scriverà, ricordando il preconcilio:
«Io 40 anni fa, figlio del mio tempo e degli errori del preconcilio, mi sentivo nella Chiesa come arroccato in una fortezza da difendere contro i nemici che mi circondavano da ogni parte; io vedevo la Chiesa come separata dal mondo, come un esercito perennemente lanciato in crociate, come un partito che doveva diventare più forte e schiacciare il nemico. Nemici, nemici, sempre nemici. Ecco il mio apostolato di quel tempo».

Questi testi, che forse lasciano un po’ sbigottiti per la trasparenza e la inusuale poca ossequiosità con cui tratteggiano, comunque realisticamente, un periodo storico ed ecclesiale, oltre a delineare quale Dio “viveva” nel preconcilio, mostrano come ci sia uno strettissimo legame tra immagine di Dio e immagine di Chiesa: «Qual era quel Dio, tale era la Chiesa».
Se si fallisce la prima, si fallisce anche la seconda!
Ma più radicalmente mi pare di poter dire, con Bruno Maggioni, che se si fallisce l’idea di Dio, si sbaglia tutto. È a partire da essa infatti (foss’anche l’idea del non esistere di Dio) che in qualche modo si determina il mio modo di concepire la vita, l’amore, l’altro, il lavoro, la comunità, il comportamento… tutto… È chi scelgo di porre come signore della mia vita che mi guida.
Ma allora, com’è possibile rintracciare il vero volto di Dio? E tracciarlo in modo che esso non cada sotto l’ombra del soggettivismo?

La Valle scrive:
«Carretto, attraverso la sua esperienza, arriva a porre la stessa domanda. Chiedersi “quale Dio” non significa cadere nel soggettivismo, negare l’oggettività di Dio. Dio non si esaurisce in una sola immagine, egli non è dato, totalmente dato, deve essere cercato. La stessa Bibbia è percorsa da diverse percezioni di Dio, e non tutte valgono allo stesso modo; ma l’una va presa e l’altra lasciata, man mano che Dio si fa più manifesto e man mano che cresce l’esperienza spirituale dei credenti. È per questo del resto che si parla di un “Dio di Gesù Cristo”».

Il Dio di Gesù Cristo… vediamo come ce lo presenta il testo di Lc 23,35-43, il Vangelo che la liturgia ci propone per questa domenica intitolata a Cristo Re. L’evangelista tratteggia molto bene qual è il Dio di Gesù Cristo, qual è questo Re. Lo ritroviamo infatti appeso a una croce, in mezzo a due malfattori, con «il popolo [che] stava a vedere» e «i capi [che lo] schernivano»; «anche i soldati lo schernivano» e «c’era anche una scritta sopra il suo capo: Questi è il re dei Giudei»; perfino «uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!».
Eccolo il Dio di Gesù Cristo… eccolo il nostro Re: non dice né fa niente, non scende dalla croce, non risponde a chi lo uccide, non tenta di spiegarsi…

Eppure, a un certo punto, quella bocca la apre!
E lo fa in risposta alle uniche parole umanizzanti che vengono pronunciate da chi lo circonda: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno».
Sono parole che hanno un’intonazione di riconoscimento (il “buon ladrone” è l’unico che chiama Gesù per nome) e di affidamento («ricordati di me»). E solo queste sono le parole che fanno reagire Gesù, finora inerme e silenzioso sulla croce. Allo scherno, alla derisione, all’incredulità non c’è risposta (mentre noi un qualche fulmine ce lo saremmo aspettato… sempre a proposito dell’immagine di Dio che abbiamo in testa…). La risposta arriva solo per le parole di riconoscimento, di affidamento… e per le parole dell’uomo sofferente (ricordiamoci che il “buon ladrone” è un uomo che muore e, come ci ha ricordato De Andrè, «un ladro non muore di meno»).
E anche la risposta di Gesù è una risposta umanizzante, una risposta di salvezza: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso». È come se questi due uomini, mentre muoiono si ricordassero a vicenda la propria identità: il “buon ladrone” ricorda a Gesù quale Dio è… e Gesù, che gli risponde introducendo le sue parole con una formula di identificazione forte ( “In verità ti dico” è appunto un’espressione del gergo personale di Gesù), gli ridona la sua umanità: «sarai con me».
Alla domanda “Quale Dio?” allora è necessario che rispondiamo: questo Dio. È a lui che dobbiamo dire, come fecero le tribù di Israele a Davide: «Noi ci consideriamo come tue ossa e tua carne».
È lui infatti, come ci racconta Paolo nella sua lettera ai Colossesi, che «ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce», è lui che «ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati», è per mezzo di lui che «tutte le cose sono state create», è a lui che piacque di «riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua crocee, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli».

Ma se tutto questo è vero e pure fonda la nostra vita, allora perché, a volte, alzando la testa a quella croce, mi viene da dire che io un Dio così non lo voglio? Perché un Dio così, conduce anche me su sulla croce…
E tutto di me si ribella a questo destino… tranne forse… due dita di bene che voglio ai miei fratelli.

venerdì 19 ottobre 2007

Il sostegno degli altri...

«Ma il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà ancora la fede sulla terra?».
Anche se può sembrare strano, mi sembra utile partire dalla fine… mi spiego… questa domanda sconsolata, posta da Luca sulla bocca di Gesù, chiude il brano di vangelo che la liturgia di questa domenica ci propone e quindi chiude anche la liturgia della parola stessa…
Io invece la utilizzo come esordio perché mi pare che le letture convergano tutte nel tentativo di articolarne una risposta…
Sono 3 gli elementi su cui il libro dell’Esodo, la Lettera di san Paolo a Timoteo e Luca 18,1-8 pongono la nostra attenzione:
1- il sostegno degli altri;
2- le Sacre Scritture;
3- la preghiera.
A Gesù e con Gesù risponderei che troverà ancora la fede sulla terra, se l’uomo saprà lasciarsi sostenere dai suoi fratelli e sorelle, lasciarsi scrivere la vita dalle Scritture e lasciarsi incontrare dal Tu di Dio.
Più precisamente…
La prima lettura (Es 17,8-13) ci presenta la situazione di Israele che scende in battaglia contro il nemico, in questo caso gli Amaleciti. Al di là delle questioni storiografiche a noi interessa la rilettura teologica della storia che gli autori di Esodo hanno prodotto: non si può (né ha senso) ricostruire quale sia la realtà storica che c’è dietro a questo bastone, che, alzato, ha il potere di fare di Israele il più forte, o alle parole che Dio direbbe a Mosè: «Scrivi questo in un libro perché non sia mai dimenticato; di' a Giosuè: Io voglio annientare gli Amaleciti; nessuno sulla terra si ricorderà più di loro!» (v. 14, che forse per custodire le orecchie sensibili del lettore di oggi, il liturgista omette…).
L’attenzione deve andare infatti al fatto che chi scrive questo brano crede nella potenza efficace di Dio nella storia, nella mediazione dell’uomo (Mosè in questo caso) e soprattutto – quello che interessa maggiormente noi oggi – chi scrive sembra credere (almeno in questo caso) nel fatto che né la potenza di Dio, né la mediazione mosaica avrebbero ottenuto “l’effetto sperato”, se Aronne e Cur non si fossero messi lì a tener su le braccia di Mosè.
Sinceramente immaginarsi la scena fa anche un po’ sorridere, ma immediatamente ci riporta alla nostra vita… Quante volte vorremmo che qualcuno tenesse su il nostro bastone… quante volte crediamo nella potenza efficace di Dio nelle battaglie della nostra vita, della Chiesa, del mondo. Quante volte ci sentiamo come Mosè, protagonisti della buona riuscita della battaglia (penso alle tante persone che si mettono nelle nostre mani… ai nostri poveri…)… Ma quante volte tutto è troppo pesante… e le braccia ci cadono…
E il rischio è che con le braccia e il bastone abbassato la battaglia che si perde è proprio quella della fede: «Ma il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà ancora la fede sulla terra?». Troverà ancora l'uomo disposto a dar credito al fatto che la vita evangelica che proviamo a vivere sia veramente vitale? Troverà chi crede ancora che ne valga la pena?
Per quanto mi riguarda, il Figlio dell’uomo mi troverà ancora con la fede solo se i miei fratelli si metteranno lì a tenermi su le braccia.
E in questa linea anche l’invito incalzante di Paolo a Timoteo mi sembra proprio la scena di un fratello che “tiene su le braccia” all’altro: «Carissimo, rimani saldo in quello che hai imparato e di cui sei convinto, sapendo da chi l’hai appreso e che fin dall’infanzia conosci le Sacre Scritture: queste possono istruirti per la salvezza».
Il Figlio dell’uomo troverà ancora la fede sulla terra se l’uomo resterà saldo in quello che ha imparato e di cui è convinto… Cosa sappiamo? Di che cosa siamo convinti? E perché? Sappiamo le Sacre Scritture, lo loro logica, il loro istruirci per la salvezza (che per Paolo è Gesù: «La salvezza si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù»). Ne siamo convinti perché sappiamo da chi abbiamo appreso questa verità: e ognuno ha il suo/i suoi volti che l’hanno convinto di quella che poi è diventata la verità della vita.
Paolo allora, con la sua passione, ci invita a custodire un secondo elemento fondamentale perché il Figlio dell’uomo trovi ancora la fede sulla terra: la saldezza nella Parola di Dio, essa «infatti è […] utile […] perché l’uomo di Dio sia completo». Completo, cioè pieno, compiuto… in una parola cristico!
E questa saldezza nella Parola, questo radicamento in essa, questo rimanervi avvinghiati, se serve, anche con le unghie, è talmente pregnante per Paolo che addirittura scongiura Timoteo «davanti a Dio e a Cristo Gesù» di annunciarla in ogni occasione!
E infine… il Vangelo…
Una delle chiavi di lettura di questo brano è la necessità della preghiera (necessità perché il Figlio dell’uomo trovi ancora la fede sulla terra…): «In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare».
La preghiera in Luca è un tema che spesso riaffiora (cfr in particolare Lc 11,1-13) e anche Gesù è presentato spesso mentre prega (cfr 3,21; 5,16; 6,12; 9,18ss; 22,45).
Senza addentrarmi troppo in questo tratto del volto lucano di Gesù, ciò che mi colpisce è la precisazione «senza stancarsi». Essa può avere anche il senso di senza scoraggiarsi, senza farsi cadere le braccia (appunto)…
In proposito mi ritornano alla mente le parole di Teresa di GB: «Voi però, o Signore, conoscete la mia debolezza: ogni mattino prendo la risoluzione di praticare l'umiltà e alla sera riconosco che ho commesso ancora ripetuti errori di orgoglio. A tale vista sono tentata di scoraggiamento; ma capisco, anche lo scoraggiamento è effetto d’orgoglio. Voglio quindi, mio Dio, fondare la mia speranza su voi solo».
Teresina ha capito che l’unico modo per perseverare senza scoraggiarsi (l’unico modo perché il Figlio dell’uomo trovi ancora la fede sulla terra) è non fondarsi su se stessi, sulle proprie opere, sulla propria volontà… perché prima o poi le braccia cadono… ma fondarsi su Dio (sulla sua Parola, sulla relazione con Lui, che poi è la preghiera) intrecciati inestricabilmente ai fratelli.
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